La rappresentazione del disegno o modello in domanda deve essere univoca, pena la nullità

Marcel Pemsel su IPKat ci notizia di un particolare ma interessante caso  deciso da Trib. UE 23.10.2024, T-25/23, Orgatex c. EUIPO+Lawrence Longtont.

Il ricorrente aveva chiesto la registrazione di un segnale orizzontale, ma con rappresentazioni grafiche, che non era chiaro se concernessero il medesimo oggetto.

Non c’è bisogno di soffermarsi sull’esigenza che nella domanda di registrazione invece dette rapresentazioni devono concernere proprio un solo oggetto, dato che su quello vanno resi i giudizi  di novità e carattere individuale (v. § 36 ss sulla ratio di questa ovvia regola).

Ebbene il Trib. conferma che non paiono riguardare il medesimo oggetto e quindi conferma pure il rigetto amministrativo

Quindi fare mlta attenzione nella redazione della domanda.

Marcel offre due saggie indicazioni: <<1. Simple means: Show only the product or product part that incorporates the design to be protected. Avoid including additional items, a background, any stylistic means (such as lighting or reflections) or trade marks (in particular figurative marks).

Also, unless necessary to obtain the desired scope of protection, filing a single view can be sufficient. In the case above, it seems that views 1.2 or 1.4 would have adequately protected Orgatex’ interest in the designs.

2. Consistent means: If you are a lawyer and get pictures of the goods from your client, play a complex version of the game ‘spot the difference’ between all views. If put together in one’s mind, the representations must form a coherent product design.

Even minor discrepancies between the views should be avoided, even though they do not necessarily lead to the invalidity of the design, provided they can be explained, for instance by different lighting (for an example see here).>>

Interpretazione ampia del divieto di patto commissorio circa il sale and lease back

Cass. sez. III, ord. 06/11/2024 n. 28.553, rel. Moscarini:

<<Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, nel premettere che in materia di patto commissorio l’art. 2744 c.c. deve essere interpretato in maniera funzionale, sicché in forza della sua previsione risulta colpito da nullità non solo il “patto” ivi descritto ma qualunque tipo di convenzione – quale ne sia il contenuto – che venga impiegato per conseguire il risultato concreto vietato dall’ordinamento, dell’illecita coercizione del debitore a sottostare alla volontà del creditore accettando preventivamente il trasferimento della proprietà di un suo bene quale conseguenza della mancata estinzione di un suo debito (v. Cass., 25/1/2024, n. 2469), in tema di contratto di sale and lease back non è invero necessaria, ai fini dell’integrazione della violazione del suddetto divieto, la necessaria congiunta compresenza dei tre indici sintomatici di elaborazione giurisprudenziale consistenti a) nell’esistenza di una situazione di credito e debito tra la società finanziaria e l’impresa venditrice utilizzatrice; b) nelle difficoltà economiche di quest’ultima, c) nella sproporzione tra il valore del bene trasferito ed il corrispettivo versato dall’acquirente.

Rilevo fondamentale assume infatti al riguardo la circostanza che la complessiva operazione negoziale sia finalizzata a realizzare in concreto, in luogo dell’effettivo trasferimento dei beni, una vietata causa di garanzia il cui accertamento è rimesso al giudice di merito, sulla base di idonei indici rivelatori, anche altri e diversi da quelli suindicati (v. Cass., 8/6/2023, n. 16367).

Orbene, nell’impugnata sentenza la corte di merito ha invero disatteso il suindicato principio, là dove ha affermato che “solo la coesistenza di tre elementi sintomatici di frode alla legge può fondare la presunzione che lo schema negoziale sia stato impiegato per eludere il divieto del patto commissorio” >>.

La dilazione di due giorni per trascrivere è accettabile, per cui il notaio non risponde dei danni

Questo può desumersi circa l’espressione “nel più breve tempo possibile”, posta dall’art. 2671 cc,a parere di Cass. sez. III, Ord. 13/09/2024, n. 24.662, rel. La Battaglia. Nel caso però aveva trascritto dopo 31 giorni, ma l’ipoteca medio tempore trascritta lo era statao dopo 2 giorni.

La corte di appello:

<<La Corte d’appello di Cagliari confermò la sentenza di primo grado, ritenendo che la formulazione dell’art. 2671 c.c. non imponga al notaio di provvedere alla trascrizione ad horas o il giorno successivo, di modo che, nel caso di specie, pur essendo l’operato del notaio censurabile sotto il profilo della colpa (per avere egli atteso ben trentuno giorni per curare l’incombente), “la trascrizione (rectius, l’iscrizione) pregiudizievole effettuata il secondo giorno (aveva) interrotto il nesso causale fra la condotta negligente e l’evento dannoso” (pag. 12 della sentenza impugnata), tenuto conto che non erano state allegate (né provate) circostanze dalle quali fosse dato desumere la consapevolezza, in capo al notaio, di una particolare situazione di rischio del venditore, che avrebbe consigliato maggiore celerità nell’esecuzione della formalità. Quanto alla scrittura privata sopra menzionata, alla stessa – secondo i giudici di secondo grado – non poteva riconoscersi carattere confessorio, “integrando, semmai, (..) un impegno ad adoperarsi presso la conservatoria per far conseguire al cliente la cancellazione dell’ipoteca” (pag. 13 della sentenza impugnata)><.

La SC

<<La giurisprudenza di questa Corte ha affermato che, “qualora per esplicita richiesta delle parti ovvero per legge, il notaio che ha ricevuto un atto soggetto ad iscrizione o a trascrizione debba procurare che questa venga eseguita nel più breve tempo possibile ovvero immediatamente, spetta al prudente apprezzamento del giudice del merito e alla sua libera valutazione, tenendo conto delle determinanti del caso concreto attinenti sia ai tempi e ai mezzi di normale impiego per l’esecuzione dell’iscrizione, sia alle evenienze non imputabili al notaio, individuare di volta in volta il termine nel quale quell’adempimento deve essere eseguito e stabilire se l’indugio frapposto dal professionista giustifichi l’affermazione della sua responsabilità verso il cliente, tenendo presente che tale responsabilità ha natura contrattuale e che il notaio è tenuto ad espletare l’incarico che le parti gli affidano con la diligenza media di un professionista sufficientemente preparato e avveduto, secondo quanto dispone l’art. 1176  secondo comma c.c..” (Cass., n. 566/2000; si veda anche Cass., n. 1439/2023, in tema di responsabilità disciplinare del notaio, secondo cui “l’art. 2671 c.c., richiedendo che la trascrizione dell’atto sia effettuata dal pubblico ufficiale “nel più breve tempo possibile”, non effettua una rigida predeterminazione del termine, che spetta al giudice del merito stabilire di volta in volta, avuto riguardo alla particolare sollecitudine con la quale la prestazione contrattuale richiesta al professionista deve essere espletata; ne deriva che in caso di reiterati ritardi nel compiere la trascrizione degli atti ricevuti o autenticati sussiste la responsabilità disciplinare del notaio, senza che assuma alcun rilievo l’eventuale danno subito dalle parti stipulanti”).

Orbene, la decisione impugnata e frutto di una valutazione di merito (come tale, in questa sede incensurabile) circa la “giustificatezza” di un ritardo (non già di trenta o trentuno, bensì) di due giorni nell’esecuzione delle formalità di trascrizione dell’atto di compravendita in questione; valutazione, peraltro, ragionevole, proprio in considerazione della formulazione della norma, la quale, mediante il riferimento al “più breve tempo possibile”, impedisce di accedere a un’interpretazione che postuli l’immediata esigibilità (ai sensi dell’ art. 1183 , comma 1, prima parte, c.c.) di una prestazione pur sempre necessitante di un certo spazio temporale per la sua esecuzione. Si è di fronte, in altri termini, ad una fattispecie equiparabile a quella in cui, non essendo previsto dal titolo, il termine viene stabilito dal giudice, con la particolarità che in questo caso tale determinazione avviene ex poste ai fini del giudizio di responsabilità. Una volta che il giudice abbia esercitato tale potere determinativo, trovano applicazione i principi generali in materia di ritardo nell’inadempimento, di modo che, prima della scadenza del termine, la prestazione deve ritenersi inesigibile (e, dunque, inconfigurabile l’inadempimento o inesatto adempimento). Conseguentemente, non applicandosi l’art. 1221  c.c., il debitore non risponde del fatto (lecito) del terzo produttivo del danno (nel caso di specie, l’iscrizione pregiudizievole). La negligenza del notaio (astrattamente riscontrabile nell’aver atteso un mese prima di curare la trascrizione) diviene, pertanto, irrilevante dall’angolo visuale della responsabilità contrattuale, non potendo essere posta in connessione causale con il danno patrimoniale allegato (da ascriversi, come detto, alla condotta del creditore ipotecario)>>.

Interclusione totale del fondo, interclusione parziale e rinuncia preventiva alla servitù legale di passaggio

Cass.  sez. II, Sent.  n. 29.311, rel. Oliva:

Sentenza impugnata:

<<La Corte di Appello ha accertato che, al momento della divisione del fondo in origine unitario, avvenuta con atto per notar H.H. del 21.11.1987, era stato previsto che “entrambi i lotti vengono sollevati da qualsiasi asservimento e di qualsiasi genere, ivi compresa la captazione e il sollevamento di acqua sorgiva ai quali potessero essere assoggettati sia l’uno che l’altro lotto” (cfr. pag. 3 della sentenza impugnata). Ha dunque ritenuto che “La rinuncia preventiva alla servitù coattiva non può conciliarsi con l’esercizio del diritto di proprietà, solo nel caso in cui tale diritto verrebbe “irrimediabilmente compromesso” da tale rinuncia. Nel caso de quo la rinuncia avvenne al momento della divisione dei fondi, di talché F.F. (dante causa degli odierni ricorrenti) ben sapeva, non essendo il fondo intercluso ma confinante con la pubblica via, che una rinuncia alla richiesta di vincoli o servitù sul fondo del fratello G.G. (dante causa degli odierni intimati) non avrebbe pregiudicato il suo utilizzo, ma semmai lo avrebbe reso meno agevole. Del resto, da sempre l’attore rivendica la costituzione del chiesto peso, per raggiungere con mezzi meccanici il proprio fondo, rappresentando una situazione, non di totale impossibilità al raggiungimento dello stesso, ma di maggior comodità” (cfr. pag. 5 della sentenza)>>.

Sua critica:

<< La motivazione, particolarmente stringata, valorizza gli effetti della rinuncia preventiva alla costituzione di una servitù di passaggio, in presenza di un fondo preteso dominante che non è intercluso, perché comunque confinante con la pubblica via. Tuttavia, il giudice di merito non affronta ex professo il tema dell’interclusione relativa del fondo predetto, poiché non considera il fatto, potenzialmente decisivo, che tra esso e la strada vi è un dislivello (come accertato dalla C.T.U., i cui passaggi salienti sono riportati a pag. 9 del ricorso ai fini della sua autosufficienza) e che la realizzazione di un accesso diretto alla via pubblica mal si concilia con i costi necessari, quasi corrispondenti all’intero valore del fondo di cui sopra, e con le esigenze legate alla sua conduzione agricola.

Ferma restando l’impossibilità di ipotizzare una rinuncia preventiva alla costituzione di servitù di passaggio a favore di un fondo che risulti assolutamente intercluso, in quanto essa finirebbe per svuotare di contenuto tipico del diritto del proprietario del fondo stesso, che non potrebbe accedervi in alcun modo, occorre evidenziare che, nel caso specifico, il giudice di merito non ha in alcun modo indagato il tema dell’interclusione relativa del fondo degli odierni ricorrenti. Questi ultimi evidenziano che la C.T.U. espletata nel corso del primo grado -della quale, ai fini della specificità del motivo, riportano i passaggi salienti alle pagg. 9 e 10 del ricorso- aveva accertato che il loro fondo, ancorché confinante con la via pubblica, non poteva avervi accesso diretto in funzione del dislivello esistente, variabile da 5 a 6 metri. La Corte di Appello non considera questo elemento, pur emergente dal compendio istruttorio, e si limita ad affermare che il fondo preteso dominante non sarebbe intercluso perché posto a confine con la via pubblica. In tal modo, il giudice di merito da un lato non approfondisce il tema, pur rilevante, dell’ammissibilità di una rinuncia preventiva ai diritti nascenti ope legis, giusta la disposizione di cui all’art. 1051
c.c., a favore del fondo assolutamente intercluso, limitandosi ad affermare, sul punto, che la rinuncia avrebbe avuto ad oggetto un passaggio più comodo: in tal modo, la Corte di Appello sembra presupporre che l’accertamento che il fondo preteso dominante confina con la via pubblica renda comunque possibile un accesso diretto, ancorché maggiormente disagevole rispetto a quello praticabile attraverso il fondo intercludente. Dall’altro lato, la Corte territoriale non esamina affatto la questione della natura disagevole del detto ipotetico accesso diretto dalla via pubblica, in tal modo non affrontando la tematica, pur sollevata dagli odierni ricorrenti, della possibilità di configurare, a vantaggio del loro fondo, un diritto di passaggio coattivo in presenza di interclusione parziale, ai sensi di quanto previsto dall’art. 1052 , primo e secondo comma, c.c.>>

Il nesso causale in presenza di pluralità di cause

Chiarimento interessante da Cass. sez. III, ord. 07/11/2024  n. 28.722, rel. Pellecchia, per chi si occupa di responsabilità civile:

In generale_:

<<Occorre premettere che in tema di nesso di causalità il nesso di causalità (materiale) -la cui valutazione in sede civile è diversa da quella penale (ove vale il criterio dell’elevato grado di credibilità razionale che è prossimo alla “certezza”)- consiste nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo la regola dell’ascrivibilità in termini di preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non” (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 576; Cass., 16/10/2007, n. 21619, in particolare, Cass. n. 16582/2019; Cass. n. 10812/2019; Cass. n. 20829/2018; Cass., 29/2/2016, n. 3893; Cass., 21/4/2016, n. 8035; Cass., 22/2/2016, n. 3428; Cass., 20/2015, n. 3367; Cass., 17/09/2013, n. 21255).

Si è da questa Corte precisato che in sede civile il nesso causale indica la misura della relazione probabilistica concreta (svincolata da ogni riferimento soggettivo) tra condotta e fatto-evento dannoso (da ricostruirsi anche sulla base dello scopo della norma violata), in base alla quale un evento è da considerarsi causato da un altro allorquando non si sarebbe senza quest’ultimo verificato, pertanto risolvendosi entro “i pragmatici confini della dimensione “storica”, e valendo ad ascrivere all’autore del fatto illecito le conseguenze che da questo discendono, laddove non intervenga un nuovo fatto rispetto al quale il medesimo non abbia il dovere o la possibilità di agire (v. Cass., 16/10/2007, n. 21619. V. altresì Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 576)>>.

Specificamente sulla puralità di cause:

<<In tema di accertamento del nesso causale nella responsabilità civile, qualora l’evento dannoso sia ipoteticamente riconducibile a una pluralità di cause, si devono applicare i criteri della “probabilità prevalente” e del “più probabile che non”; pertanto, il nesso di causa è provato quando la tesi a favore (del fatto che un evento sia causa di un altro) è più probabile di quella contraria (che quell’evento non sia causa dell’altro).

In ipotesi come nella specie di concorso di cause, si è da questa Corte ulteriormente posto in rilievo che ove “l’evento dannoso sia ipoteticamente riconducibile a una pluralità di cause, si devono applicare i criteri del “più probabile che non” e della “probabilità prevalente”.

A tale stregua, il giudice di merito è pertanto tenuto anzitutto a eliminare dal novero delle ipotesi valutabili quelle meno probabili (senza che rilevi il numero delle possibili ipotesi alternative concretamente identificabili, attesa l’insostenibilità di un’aritmetica dei valori probatori), e successivamente ad analizzare le rimanenti ipotesi ritenute più probabili; infine a scegliere tra esse quella che abbia ricevuto, secondo un ragionamento di tipo inferenziale, il maggior grado di conferma dagli elementi di fatto aventi la consistenza di indizi, assumendo così la veste di probabilità prevalente (v. Cass., 2/9/2022, n. 25884).

Da quei fatti il giudice di merito deve dunque indurre ipotesi ricostruttive del nesso di causa escludendo quelle meno probabili, scegliendo, tra quelle rimaste, l’ipotesi che spiega il fatto con maggiore probabilità, sulla base degli indizi raccolti.

Non è richiesta invero né la certezza né una elevata probabilità, bensì una valutazione delle ipotesi alternative e la scelta di quella più probabile, anche se di poco, rispetto alle altre, che non necessariamente si ponga come di elevata probabilità.

Ciò si spiega per il fatto che le probabilità numeriche di un fatto (che la cosa abbia concorso al danno) non necessariamente ammontano al 100 per cento, ossia: data la tesi X e quella contraria Y, non necessariamente la loro somma porta al 100 per cento (nel senso che la prima è data al 60 per cento e l’altra al 40 per cento, ad esempio).

Ciò accade perché c’è sempre spazio per altre spiegazioni, molto meno probabili, che sono date ad una percentuale minore.

Scartate queste ultime (come indicato da Cass. 25884/2022), può accadere che le rimanenti, ad esempio quella sostenuta dall’attore e quella sostenuta dal convenuto, abbiano l’una il 30 per cento e l’altra il 20 per cento: la regola del più probabile che non, porta ad affermare come fondata la prima delle due, anche se non caratterizzata da una elevata probabilità, come ha preteso la corte di merito, quanto piuttosto di una probabilità maggiore dell’altra ipotesi.

Quindi, nella relativa valutazione il giudice del merito non deve invero limitarsi ad un esame isolato di singoli elementi o degli elementi (indiziari o presuntivi) al riguardo rilevanti, ciascuno insufficiente a fornire ragionevole certezza su una determinata situazione di fatto, ma deve compierne una complessiva ed organica valutazione nel quadro unitario dell’indagine probatoria (v. Cass., 20/6/2019, n. 16581. Cfr., con riferimento alla prova per presunzioni, Cass., 21/12/1987, n. 9504), e il suo ragionamento non deve risultare viziato da illogicità o da errori giuridici, quale appunto è l’esame isolato dei singoli elementi della c.d. catena causale (cfr., con riferimento agli elementi idonei a fondare la prova presuntiva, già Cass., 27/11/1982, n. 6460; Cass. n. 16581/2019; Cass. n. 26304/2021).

In tema di responsabilità civile non può invero negarsi il nesso eziologico fra condotta e danno solo perché vi sono più cause possibili ed alternative ma il giudice deve stabilire quale tra esse sia “più probabile che non”, in concreto e in relazione alle altre, e, quindi, idonea a determinare in via autonoma il danno evento. Qualora tale accertamento non sia possibile, il problema del concorso delle cause trova soluzione nell’art. 41 c.p., in virtu’ del quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra dette cause e l’evento, essendo quest’ultimo riconducibile a tutte, tranne che si verifichi l’esclusiva efficienza causale di una di esse.

Si è da questa Corte sotto altro profilo altresì posto in rilievo che il danneggiato deve essere risarcito di tutte le conseguenze dannose cui rimane esposto in conseguenza di uno specifico antecedente causale (v. Cass., 18/4/2019, n. 10812; Cass., 21/8/2018, n. 20829; Cass., 20/11/2017, n. 27254; Cass., 29/2/2016, n. 3893; Cass., 3/2/2012, n. 1620; Cass., 21/7/2011, n. 15991), si è precisato che tali sono tutte le conseguenze dannose legate all’evento dannoso non solo da un rapporto di regolarità giuridica (v. già Cass., 11/1/1989, n. 65) ma anche da un rapporto di causalità specifica (v. Cass., 2/12/2021, n. 38076; Cass., 29/9/2015, n. 19213; Cass., 29/8/2011, n. 17685; Cass., 27/4/2011, n. 9404; Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 584; Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 582), cui è rimasto esposto a fronte (anche) dello specifico antecedente causale, determinato dalla condotta colposa (o dolosa) del debitore/danneggiante (come posto in rilievo anche da autorevole dottrina, che lo indica quale “danno diretto”), quest’ultimo dovendo pertanto risponderne (anche) sul piano risarcitorio (cfr. Cass., 18/4/2019, n. 10812; Cass., 21/8/2018, n. 20829; Cass., 20/11/2017, n. 27254; Cass., 29/2/2016, n. 3893; Cass., 3/2/2012, n. 1620; Cass., 21/7/2011, n. 15991)>>.

Revocabilità del trasferimento immobiliare solutorio a seguito di separazione personale

Cass. sez. III, ord. 06/11/2024 n. 28.558, rel. Tassone:

<<6.1. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, “È suscettibile di revoca ai sensi dell’art. 2901 cod. civ. il contratto con cui un coniuge trasferisca all’altro un immobile, al dichiarato fine di dare esecuzione agli obblighi assunti in sede di separazione consensuale omologata. La domanda di revoca del contratto di trasferimento sottopone alla cognizione del giudice anche l’esame degli accordi preliminari stipulati in sede di separazione, che abbiano dato causa al trasferimento, senza necessità che sia proposta specifica impugnazione contro gli stessi, sempre che siano stati dedotti in giudizio i presupposti di diritto e di fatto rilevanti ai fini della decisione. La valutazione relativa alla sussistenza dei requisiti per la revoca ai sensi dell’art. 2901 cod. civ. va compiuta con riferimento sia ai preliminari accordi di separazione, sia al contratto definitivo di trasferimento immobiliare” (Cass., n.11914/2008).

Ed ancora: “Il trasferimento di un immobile, effettuato da un coniuge a favore dell’altro in ottemperanza a patti assunti in sede di separazione consensuale, trae origine dalla libera determinazione del coniuge e diviene dovuto solo in conseguenza di un impegno assunto in costanza dell’esposizione debitoria nei confronti di un terzo creditore, sicché l’accordo separativo, in tal caso, costituisce esso stesso parte dell’operazione revocabile e non fonte di obbligo idoneo a giustificare l’applicazione dell’art. 2901, comma 3, c.c.” (Cass., 17612/2018; Cass., 1144/2015; Cass., 1404/2016; Cass., 13364/2015).

Questa Corte ha già avuto modo di porre in rilievo la validità delle clausole dell’accordo di separazione che, nel quadro della complessiva regolamentazione dei rapporti fra i coniugi, prevedano il trasferimento di beni immobili (Cass., 15/05/1997, n. 4306; Cass., 11/11/1992, n. 12110), sul rilievo che dette clausole costituiscono espressioni di libera autonomia contrattuale delle parti interessate (Cass., 02/12/1991, n. 12897), dando vita, nella sostanza, a veri e propri contratti atipici, con particolari presupposti e finalità, non riconducibili né al paradigma delle convenzioni matrimoniali né a quello della donazione, ma diretti comunque a realizzare interessi meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 1322 cod. civ., dato che rispondono, di norma, ad un più specifico e più proprio originario spirito di sistemazione dei rapporti in occasione dell’evento di “separazione consensuale” ed alla finalità di una sistemazione “solutorio-compensativa”, comprensiva di tutta quell’ampia serie di possibili rapporti, anche del tutto frammentari, aventi significati, o eventualmente solo riflessi, patrimoniali maturati nel corso della quotidiana convivenza matrimoniale (Cass., 5741/2004; Cass., 11342/2004; Cass., n. 11914/2008; Cass., n. 15603/2005).

Si è al riguardo precisato che tali clausole ed operazioni ad esse correlate possono invero rivelarsi in concreto lesive dell’interesse dei creditori all’integrità della garanzia patrimoniale del coniuge disponente, nessun ostacolo testuale o logico-giuridico in tal caso frapponendosi alla relativa impugnazione – ricorrendone i presupposti – mediante l’esperimento dell’azione revocatoria, ordinaria o fallimentare (cfr. Cass., 23/3/2004, n. 5741).

Né l’esperimento dell’azione revocatoria può considerarsi precluso in ragione della circostanza che il trasferimento immobiliare o la costituzione del diritto reale minore risultino essere stati concretamente pattuiti in funzione solutoria dell’obbligo di mantenimento del coniuge economicamente più debole o di contribuzione al mantenimento dei figli, obbligo di fonte legale, rientrante come tale nel c.d. contenuto necessario dell’accordo di separazione, dato che l’azione revocatoria non pone in discussione la sussistenza dell’obbligo in sé, quanto piuttosto le modalità di assolvimento del medesimo, quali stabilite dalle parti nell’ambito di un regolamento, per questo verso, di matrice spiccatamente “convenzionale” (Cass. 12/04/2006, n. 8516)>>.

Solo che per l’art. 2901 cc l’adempimento di debito scaduto , come pare fosse nel caso de quo (trasferimento solutorio per adempiere agli obblighi assunti in sede di separazione omologata), non è revocabile. Il creditore avrebbe semmai dovuto esperire la -ben più faticosa- azione di simulazione.

REvocabilità dell’accordo di trasferimento immobiliare in sede di separazione personale omologata

Cass. sez. III, Ord. 06/11/2024 n. 28.558, rel. Tassone:

<<6.1. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, “È suscettibile di revoca ai sensi dell’art. 2901 cod. civ. il contratto con cui un coniuge trasferisca all’altro un immobile, al dichiarato fine di dare esecuzione agli obblighi assunti in sede di separazione consensuale omologata. La domanda di revoca del contratto di trasferimento sottopone alla cognizione del giudice anche l’esame degli accordi preliminari stipulati in sede di separazione, che abbiano dato causa al trasferimento, senza necessità che sia proposta specifica impugnazione contro gli stessi, sempre che siano stati dedotti in giudizio i presupposti di diritto e di fatto rilevanti ai fini della decisione. La valutazione relativa alla sussistenza dei requisiti per la revoca ai sensi dell’art. 2901 cod. civ. va compiuta con riferimento sia ai preliminari accordi di separazione, sia al contratto definitivo di trasferimento immobiliare” (Cass., n.11914/2008).

Ed ancora: “Il trasferimento di un immobile, effettuato da un coniuge a favore dell’altro in ottemperanza a patti assunti in sede di separazione consensuale, trae origine dalla libera determinazione del coniuge e diviene dovuto solo in conseguenza di un impegno assunto in costanza dell’esposizione debitoria nei confronti di un terzo creditore, sicché l’accordo separativo, in tal caso, costituisce esso stesso parte dell’operazione revocabile e non fonte di obbligo idoneo a giustificare l’applicazione dell’art. 2901 , comma 3, c.c.” (Cass., 17612/2018
; Cass., 1144/2015; Cass., 1404/2016; Cass., 13364/2015).

Questa Corte ha già avuto modo di porre in rilievo la validità delle clausole dell’accordo di separazione che, nel quadro della complessiva regolamentazione dei rapporti fra i coniugi, prevedano il trasferimento di beni immobili (Cass., 15/05/1997, n. 4306 ; Cass., 11/11/1992, n. 12110), sul rilievo che dette clausole costituiscono espressioni di libera autonomia contrattuale delle parti interessate (Cass., 02/12/1991, n. 12897), dando vita, nella sostanza, a veri e propri contratti atipici, con particolari presupposti e finalità, non riconducibili né al paradigma delle convenzioni matrimoniali né a quello della donazione, ma diretti comunque a realizzare interessi meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 1322
cod. civ., dato che rispondono, di norma, ad un più specifico e più proprio originario spirito di sistemazione dei rapporti in occasione dell’evento di “separazione consensuale” ed alla finalità di una sistemazione “solutorio-compensativa”, comprensiva di tutta quell’ampia serie di possibili rapporti, anche del tutto frammentari, aventi significati, o eventualmente solo riflessi, patrimoniali maturati nel corso della quotidiana convivenza matrimoniale (Cass., 5741/2004; Cass., 11342/2004; Cass., n. 11914/2008; Cass., n. 15603/2005).

Si è al riguardo precisato che tali clausole ed operazioni ad esse correlate possono invero rivelarsi in concreto lesive dell’interesse dei creditori all’integrità della garanzia patrimoniale del coniuge disponente, nessun ostacolo testuale o logico-giuridico in tal caso frapponendosi alla relativa impugnazione – ricorrendone i presupposti – mediante l’esperimento dell’azione revocatoria, ordinaria o fallimentare (cfr. Cass., 23/3/2004, n. 5741).

Né l’esperimento dell’azione revocatoria può considerarsi precluso in ragione della circostanza che il trasferimento immobiliare o la costituzione del diritto reale minore risultino essere stati concretamente pattuiti in funzione solutoria dell’obbligo di mantenimento del coniuge economicamente più debole o di contribuzione al mantenimento dei figli, obbligo di fonte legale, rientrante come tale nel c.d. contenuto necessario dell’accordo di separazione, dato che l’azione revocatoria non pone in discussione la sussistenza dell’obbligo in sé, quanto piuttosto le modalità di assolvimento del medesimo, quali stabilite dalle parti nell’ambito di un regolamento, per questo verso, di matrice spiccatamente “convenzionale” (Cass. 12/04/2006, n. 8516)>>.

Questo il marchio chiesto in registrazione da Chiquita Brands per alimenti.

 TRIB UE 13.11.2024 , T-426/23, Chiquita Brands v. EUIPO, rigetta la domanda perchè privo di distintività.

Dal comunicato stampa del Trib.:

<<Nella sua sentenza, il Tribunale respinge il ricorso e conferma quindi la nullità del marchio per la frutta fresca.
Il Tribunale ritiene che né la forma né lo schema di colori blu e giallo del marchio gli conferiscano carattere distintivo. Infatti, la forma del marchio corrisponde a quella di una semplice figura geometrica (una variazione di un ovale), senza caratteristiche facilmente e immediatamente memorizzabili. Inoltre, le etichette di forma ovale sono comunemente utilizzate nel settore delle banane, in quanto sono facili da applicare su frutti incurvati. Di conseguenza, tale forma non sarà idonea ad attirare l’attenzione del pubblico né permetterà a quest’ultimo di identificare l’origine commerciale della frutta fresca contrassegnata dal marchio.
Quanto allo schema dei colori, il Tribunale rileva che si tratta di una combinazione di colori primari frequente nel commercio della frutta fresca e il suo uso nel marchio non la rende particolarmente caratteristica o significativa. Tali colori non sarebbero quindi idonei a individualizzare detti prodotti.

Secondo il Tribunale, la Chiquita Brands non è riuscita a dimostrare che il suo marchio, così come è stato registrato, avesse acquisito in tutto il territorio dell’Unione un carattere distintivo in seguito all’uso che gli avrebbe consentito di identificare l’origine commerciale dei prodotti in parola. Infatti, da un lato, la maggior parte delle prove presentate si riferisce solo a quattro Stati membri, e non è stato dimostrato che la situazione del mercato della frutta fresca in tali paesi sarebbe stata la stessa negli altri Stati membri. Dall’altro, nella quasi totalità delle prove, il marchio appare assieme ad  elementi figurativi o denominativi aggiuntivi, in particolare la parola «chiquita» >>

Lo slogan politico non è segno sufficientemente distintivo dell’origine per potere essere registrato come marchio

Trib. UE 13.11.2024, T-82/24, Administration of the State Border Guard Service of Ukraine, con sede in Kiev (Ucraina) c. EUIPO affronta un interessante quesito.

<<35  (…) la commissione di ricorso non è incorsa in alcun errore di diritto ritenendo che il principio generale secondo cui il pubblico di riferimento è poco attento nei confronti di un segno che non gli fornisce immediatamente un’indicazione sulla provenienza dei prodotti e dei servizi di cui trattasi, dato che non lo percepirebbe né lo memorizzerebbe come marchio, si applichi anche a segni il cui messaggio principale è di natura politica.

36 Orbene, tenuto conto della funzione essenziale di un marchio, quale ricordata al precedente punto 16, un segno non è in grado di svolgere tale funzione se il consumatore medio non percepisce, in sua presenza, l’indicazione dell’origine del prodotto o del servizio, bensì unicamente un messaggio politico.

(…)

38 Nel caso di specie, la commissione di ricorso ha considerato, ai punti 34 e 37 della decisione impugnata, che il marchio richiesto non sarebbe percepito dal pubblico di riferimento come indicativo di un’origine commerciale. Peraltro, essa ha precisato, al punto 36 della decisione impugnata, che la frase ripresa nel marchio richiesto sarebbe interpretata anzitutto come un messaggio politico e che tale percezione sarebbe identica per tutti i prodotti o i servizi designati da tale marchio.

39 Conseguentemente la commissione di ricorso ha ritenuto che i prodotti e i servizi oggetto del marchio richiesto costituissero un gruppo sufficientemente omogeneo, tenuto conto dell’impedimento assoluto alla registrazione in cui ricadeva, a suo avviso, la registrazione di detto marchio.

40 Avendo, correttamente, considerato che il marchio richiesto non sarebbe percepito dal pubblico di riferimento come indicativo di un’origine commerciale, ma come un messaggio politico che promuove il sostegno alla lotta dell’Ucraina contro l’aggressione militare della Federazione russa, la commissione di ricorso poteva validamente raggruppare tutti i prodotti e i servizi oggetto del marchio richiesto in un’unica categoria, sebbene essi presentassero caratteristiche intrinseche diverse.

41 Pertanto, tenuto conto della specificità del marchio richiesto e della sua identica percezione da parte del pubblico di riferimento rispetto all’insieme dei prodotti e dei servizi oggetto della domanda di registrazione, la commissione di ricorso non è incorsa in alcun errore di valutazione nel ritenere che detti prodotti e servizi facessero parte di un solo gruppo al quale si applicava, alla stessa maniera, l’impedimento alla registrazione da essa individuato.

42 In terzo luogo, secondo una giurisprudenza costante, il carattere distintivo di un marchio ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), del regolamento 2017/1001 dev’essere valutato in funzione, da un lato, dei prodotti o dei servizi per i quali è chiesta la registrazione e, dall’altro, della percezione che ne ha il pubblico di riferimento (v. sentenza del 29 aprile 2004, Henkel/UAMI, C‑456/01 P e C‑457/01 P, EU:C:2004:258, punto 35 e giurisprudenza ivi citata).

(…)

44 Da quanto precede risulta che la commissione di ricorso ha correttamente concluso che il marchio richiesto era privo di carattere distintivo ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), del regolamento 2017/1001>>.

Lo scioglimento della comunione non può essere disposto su un immobile -anche parzialmente- abusivo

Cass.  Sez. II, Sent.  07/11/2024, n. 28.666, rel. Manna:

<<Com’è noto, con sentenza n. 25021/19 le S.U. hanno stabilito, mutando la pregressa giurisprudenza della Corte, che quando sia proposta domanda non endoesecutiva di scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria che sia), il giudice non può disporre la divisione che abbia ad oggetto un fabbricato abusivo o parti di esso, in assenza della dichiarazione circa gli estremi della concessione edilizia e degli atti ad essa equipollenti, come richiesti dall’art. 46 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e dall’art. 40 , comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47 , costituendo la regolarità edilizia del fabbricato condizione dell’azione ex art. 713 c.c., sotto il profilo della “possibilità giuridica”, e non potendo la pronuncia del giudice realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello che è consentito alle parti nell’ambito della loro autonomia negoziale.

(…)

Né rilievo alcuno può essere attribuito alla circostanza che la parziale abusività dell’immobile possa – in via di pura ipotesi, ciò non ricavandosi dalla sentenza impugnata – integrare difformità parziali non ostative alla commerciabilità del bene, e regolate solo dall’art. 34 del D.P.R. n. 380/01.

In disparte che tale ultima disposizione esaurisce i suoi effetti nel rapporto di evidenza pubblica tra il comune e i responsabili dell’abuso, e dunque nulla può predicare sulla validità degli atti di diritto privato; ciò a parte, è dirimente quanto segue. In forza del noto arresto di S.U. n. 8230/19, la nullità comminata dall’art. 46 del D.P.R. n. 380 del 2001 e dagli artt. 17 e 40 della L. n. 47 del 1985 va ricondotta nell’ambito del comma 3 dell’art 1418 c.c., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell’immobile. Pertanto, in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato.

Tale affermazione di diritto comporta che pure ai fini della divisione non endoesecutiva, che in virtù della sentenza delle S.U. n. 25021/19 sopra citata segue il regime di incommerciabilità del bene, non v’è spazio alcuno per reintrodurre la pregressa distinzione tra difformità totale (impediente) e difformità parziale (non impediente)>>.