Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: modifiche al codice civile (art. 379 → art. 2477, art . 92 disp. att. c.c.

L’art. 379 del codice della crisi modifica in senso assai restrittivo la disciplina degli organi di controllo nelle s.r.l., di cui all’art. 2477.  In particolare vengono modificati i commi 2 e 5, e viene inserito un importante ultimo comma. C’è poi una previsione di diritto transitorio.

La modifica del secondo comma riguarda la lettera c). La nomina di un organo di controllo o del revisore, con la riforma, diventa obbligatoria quando è superato per due esercizi consecutivi almeno uno dei tre limiti posti dalla norma (attivo patrimoniale; ricavi; numero dipendenti) . L’obbligo scatterà -mi pare- anche se nei due anni vengano superati  due diversi limiti, non essendo necessario che il superamento riguardi il medesimo limite. Questa è la prima restrizione rispetto al passato: era necessario superare due limiti, ora ne basta uno.

In precedenza la norma rinviava ai limiti previsti per il bilancio abbreviato dall’art. 2435 bis c.c.. Oggi invece i limiti sono riscritti direttamente nell’articolo 2477 c.c. e sono significativamente abbassati rispetto ai precedenti: sono più che dimezzati, anche se sono assai più alti ad es. di quelli previsti per il bilancio delle microimprese dall’art. 2435 ter c.c. Questa è la seconda restrizione.

L’ampliamento della presenza di organi di controllo non è cosa da poco sia per la società, sia per l’organo medesimo. Questo infatti è gravato del duplice dovere di verifica e segnalazione posto dall’art 14 cod. crisi impr.: << … verificare  che l’organo amministrativo  valuti costantemente, assumendo  le conseguenti idonee iniziative,   se l’assetto organizzativo dell’impresa  e’ adeguato, se sussiste l’equilibrio economico  finanziario e quale e’ il prevedibile andamento della gestione, nonche’ di  segnalare immediatamente allo stesso organo amministrativo l’esistenza di fondati  indizi della crisi>> .

La tempestiva segnalazione agli amministratori esonera dalla responsabilità solidale secondo la regola posta dal co. 3 del predetto art. 14: <<costituisce  causa di esonero  dalla responsabilita’ solidale per le conseguenze pregiudizievoli delle omissioni o  azioni successivamente poste in essere dal predetto organo, che non siano conseguenza diretta di decisioni assunte prima della segnalazione,  a condizione che, nei casi previsti dal secondo periodo del comma 2, sia stata effettuata tempestiva segnalazione all’OCRI.>>. Responsabilità, ad es., per i danni conseguenti al non aver fruito delle misure premiali previste dall’art. 25 cod. crisi

Col che si generalizza un istituto (dovere di segnalazione) prima riservato ai sindaci e revisori di società in settori speciali (banche, assicurazioni, società quotate: ad es. art. 52 t.u. credito, art. 8 e art. 149 tuf, art. 7 e art. 12 del reg. UE 537/2014), anche se con ambito oggettivo più ampio (irregolarità riscontrate o fatti che possano costituire irregolarità di gestione …).

Anche la cessazione dell’obbligo viene modificata (ed è la terza restrizione). Prima cessava quando non venivano superati i limiti per due esercizi consecutivi; oggi invece il mancato superamento deve protrarsi per tre esercizi consecutivi (nuovo co. 3). La nuova formulazione precisa che non deve essere stato superato “alcuno” dei limiti di legge: precisazione prima assente, ma ricavabile senza particolari difficoltà.

La platea della s.r.l. interessate alle modifiche è esposta da Brodi-Orlando, Nomina dell’organo di controllo nelle s.r.l.: un esercizio di quantificazione alla luce dei nuovi parametri dimensionali, in www.ilcaso.it.

Nel co. 5, poi, è previsto che, quando l’assemblea dei soci non provvede alla nomina obbligatoria, può provvedervi sia il tribunale su richiesta di qualsiasi soggetto interessato (questo già prima) o anche su segnalazione del conservatore del registro delle imprese (questa la novità).

Viene in poi inserito un nuovo ultimo comma di una certa importanza: viene disposta l’applicazione dell’articolo 2409 Denunzia al Tribunale – anche alle s. r. l.  (questione assai controversa fino ad oggi) e pure nel caso in cui manchi un organo di controllo. Almeno è questa l’interpretazione più plausibile, dal momento che la formulazione non è perfetta. Infatti, dicendosi che il 2409 si applica “anche” se  la società è priva di organi di controllo, si presuppone che ci sia altra disposizione più sopra che imponga il 2409 alle s.r.l. in generale (solo così ha senso precisare che il 2049 si applica anche se manca l’organo di controllo): il che però non è, essendo questa l’unica disposizione che applica il 2409 alle srl (oltre all’art. 92 disp. att. di cui sotto).

Il comma 3 dell’articolo  379 regola il profilo transitorio dicendo che:

i) le società già costituite alla data di entrata in vigore dell’art. 379 medesimo (30° giorno successivo alla pubblicazione in G.U., avvenuta il 14.02.2019: art. 389/2 del d. lgs. 14/2019), se ricorrono i requisiti nuovi, devono provvedere alle nomine entro nove mesi dalla predetta entrata in vigore;

ii) fino alla scadenza di questo termine, si applicheranno le disposizioni anteriori statutarie, anche se non conformi alle nuove regole;

iii) in sede di prima applicazione delle nomine secondo la nuova disciplina, si dovrà avere riguardo ai due esercizi anteriori alla [cioè conclusisi prima della] scadenza dei nove mesi (quindi: anteriori non alla entrata in vigore dell’art. 379, ma alla scadenza dei nove mesi successivi).

infine l’articolo 92 delle disposizioni di attuazione, che dispone la perdita dei poteri degli amministratori in caso di procedura ex articolo 2409 c.c., viene aggiornato tramite la menzione pure del capo VII sulle s.r.l. , oltre a quella già presente del capo V (spa) e capo VI (accomandita per azioni).

Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: modifiche al codice civile (art. 378 → art. 2476, art . 2486 c.c.)

L’articolo 378 rubricato <<Responsabilità  degli amministratori>> modifica l’art. 2476 sulla società a responsabilità limitata e l’art. 2486 sui doveri degli amministratori  in presenza di una causa di scioglimento nelle soc. di capitali.

L’art. 2476  estende alle s.r.l. l’azione di responsabilità dei creditori sociali, prevista per le società per azioni dall’art. 2394.  L’estensione non avviene tramite rinvio, ma riproponendone il contenuto in un nuovo sesto comma. La norma non è particolarmente innovativa, dal momento che la maggioranza di dottrina e giurisprudenza già si era espressa in tale senso. Però è utile perché toglie eventuali dubbi, fonti di contenzioso.

Ben più rilevante è l’innovazione dell’art. 2486.

Secondo il nuovo terzo comma di tale disposizione, quando è accertata la responsabilità degli amministratori ai sensi del medesimo articolo (meglio sarebbe stato dire: “quando è accertata la violazione dei loro doveri”: si può parlare di responsabilità solo quando un danno è accertato, il che costituisce un passaggio logicamente successivo),  il danno si presume pari alla differenza tra i patrimoni netti alla data di cessazione dalla carica/dell’apertura della procedura concorsuale, da una parte, e alla data di verificazione della causa di scioglimento, dall’altra.

Vanno tuttavia detratti i costi sostenuti o da sostenere “secondo un criterio di normalità” dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione. Ciò perchè sono costi, che sarebbero stati sostenuti anche con una pronta apertura della liquidazione: pertanto non possono essere considerati danno addebitabile all’amministratore (sarà da approfondire la portata della precisazione temporale: “fino al compimento della liquidazione”).

Probabilmente ci saranno anche altri criteri, in base ai quali rettificare in riduzione la differenza dei netti patrimoniali addebitabile agli amministratrori: ad es. la diminuzione di valore dei cespiti, che si sarebbe comunque verificata per il fatto in sè dell’apertura della liquidazione. In generale, andranno dedotte tutte le poste passive non addebitabili a negligenza (o dolo) degli amministratori (v. art. 1223 cc: “in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”) : cioè quelle che si sarebbero comunque manifestate.

Questa la regola di legge: è però data la possibilità di provare un diverso ammontare del danno. Il relativo onere incombe sugli amministratori.

Ancor più importante è la seconda parte  di questo nuovo terzo comma dell’articolo 2486. Qui si dice che, aperta una procedura concorsuale (quindi: solo in presenza di questa), se mancano le scritture contabili o comunque se -per irregolarità nelle stesse o per qualunque altra ragione- non siano determinabili i netti patrimoniali [basta che la indeterminabilità ne colpisca uno solo, direi], il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura.

Cioè in caso di non ricostruibilità della contabilità, la legge impone quel criterio che, seppur diffuso in passato, era ormai recessivo e in via di abbandono tra quelli adoperati dalle corti: e la ragione stava nel fatto che non rispetta le norme generali di determinazione e liquidazione del danno, enucleabili dal cit. art. 1223 c.c.

Tale criterio, essendo scollegato dalla prova di specifici inadempimenti (e delle relative conseguenze dannose), non ha struttura risarcitorio/compensativa. Dato però che non ha nemmeno struttura restitutoria nè di arricchimento ingiusto, assume una veste punitiva. La sua previsione esplicita, però, almeno ad una prima lettura, offre la copertura  di legge chiesta dall’articolo 25 Costituzione (o almeno dall’art. 23 Cost).

Resta un duplice dubbio, visto che si applica solo in presenza di procedure concorsuali:  i) cosa si intende per procedure concorsuali: il dubbio concerne soprattutto gli accordi di ristrtturazione ex art. 182 bis l.f., che per recente giurisprudenza (Cass. 21/06/2018, n. 16347, sub § 5.1, e altre Cass. ivi ricordate) sono “procedura concorsuale”, anche se molta dottrina ne dubita per più motivi, ad es. non esistendo il dovere di rispettare la par condicio creditorum (nemmeno nel nuovo art. 61 cod. crisi impr. insolv., che pure permette talora di estendere l’efficacia ai creditori non aderenti); ii) se è è giustificato che tale regola punitiva sia applicabile solo entro tale ambito applicativo, anzichè pure in questioni di responsabilità sorgenti al di fuori di una procedura concorsuale (salvo arrivarci per via analogica o per principio generale: operazione ermeneutica tuttavia implausibile, stante l’art. 14 prel.)

Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: modifiche al codice civile (art. 377 → art. 2257, art . 2380 bis, art. 2409 novies e art. 2475 c.c.)

L’articolo 377 “Assetti organizzativi societari” del Codice della crisi (ora pubblicato nel suppl. ord. n. 6/L  della G. U. n. 38 del 14.02.2019) introduce nei vari tipi societari la regola introdotta per l’impresa in generale dall’articolo 2086 co. 2, inserendo un richiamo nelle rispettive sedi.

Nell’art. 2086, come già visto in precedente post, è stato inserito un duplice dovere: i) di istituire un adeguato assetto organizzativo/amministrativo/contabile, anche in funzione della tempestiva rilevazione della crisi di impresa e della perdita di continuità aziendale; ii) di attivarsi senza indugio per adottare e attuare gli strumenti ad hoc previsti dalla legge.

Oltre a fare ciò, l’articolo 377 estende a società di persone e a  s.r.l. la regola, per cui la gestione spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per attuare l’oggetto sociale, già prevista per le s.p.a. (art. 2380 bis co. 1-art. 2409 novies co.1). Era però difficile dubitare di tale estendibilità già prima della novella.

Con la duplice precisazione che segue,  a proposito delle s.r.l. (art. 2475), legata al fatto che i poteri gestori in tale tipo sociale possono essere affidati (in tutto o solo in parte: la dottrina è divisa) ai soci in quanto tali :

i) il dovere di rispetto dell’art. 2086 graverà su chiunque godrà dei relativi poteri gestori: cioè anche sui soci, qualora fossero a loro affidati;

ii) la regola seguente (spettanza della gestione ai soli amministratori e loro dovere di fare il necessario per attuare l’oggetto sociale) può essere interpetata in duplice modo, in relazione all’uso del termine “amministratori”: 1° o si riferisce solo al caso di gestione attribuita non a soci ma ad amministratori (soci o terzi è irrilevante): ma bisognerebbe allora -per coerenza sistematica- capire come stanno le cose nell’opposto caso di gestione affidata ai soci in quanto tali; 2°  oppure il termine “amministratori” va inteso in senso ampio, non tecnico, e cioè come sinonimo di “titolari del potere gestorio” : il che non è però possibile, dato che la nuova disposizione distingue nettamente tra gestione ed amministratori. Per cui pare preferibile la prima interpetazione; e dunque ci si dovrà interrogare sulla possibilità di estendere la regola al caso di gestione affidata ai soci (in tutto o solo in parte: in tale ultimo caso, forse, con qualche difficoltà di coordinamento tra atti di competenza dei soci ed atti di competenze degli amministratori).

Infine, viene disposta l’applicabilità dell’intero art. 2381 anche alle s.r.l. (“in quanto compatibile”), aggiungendo un comma in coda all’art. 2475. Stante la complessità dell’art. 2381 (pur depurato della regola sugli assetti adeguati che vien inserita autonomamente nell’art. 2475 co.1), questa estensione andrà prudentemente vagliata

Le norme, il cui dettato è inciso dalla riforma, sono dunque: – l’art. 2257, per la società semplice e quindi -a cascata, in base ai noti rinvii- pure per la società in nome collettivo e quella in accomandita semplice; – l’art. 2380 bis co. 1, per la s.p.a. a sistema tradizionale (e a cascata per il c.d.a. del sistema monistico, stante il rinvio ad esso nell’art. 2409 noviesdecies); – art. 2409 novies, per il consiglio di gestione delle s.p.a. in sistema dualistico; – art. 2475, per le s.r.l.

La formulazione della novella insomma non è perspicua, come la dottrina ha già rilevato (v.  R. Guidotti, La governance delle società nel Codice della Crisi di Impresa, 9 marzo 2019, www.ilcaso.it)

Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: modifiche al codice civile (art. 376 → art. 2119 c.c.)

L’art. 376 del codice della crisi e dell’insolvenza (c.c.i.) , rubricato “Crisi dell’impresa e rapporti di lavoro” modifica l’art. 2119 c.c.  sul recesso per giusta causa dai rapporti di lavoro.

La modifica riguarda solo il co. 2. il cui testo attuale recita: “Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda“.

Per la liquidazione coatta amministrativa rimane la regola,  per cui la procedura concorsuale non costituisce giusta causa di recesso (rectius: di risoluzione) dell’impresa (termine che sostituisce il precedente “azienda”). Per la procedura ordinaria (liquidazione giudiziale), invece,  si rinvia all’apposita disciplina posta dal c.c.i. (art. 189).

L’art. 189 c.c.i. pone una regola generale simile a quella desumibile dalla normativa attuale: il fallimento non cessa ipso iure il rapporto di lavoro , ma lo sospende sino alla decisione del curatore di subentrarvi oppure di recedere.

Aggiunge però un termine di quattro mesi decorso il quale, se il curatore non ha comunicato il subentro, i rapporti si intendono risolti di diritto, con decorrenza dalla data di apertura della liquidazione giudiziale (art. 189 co.3).

Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza: modifiche al codice civile (art. 375 → art. 2086 c.c.)

L’art. 375 (“Assetti organizzativi dell’impresa”) del Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza, nel testo approvato in via definitiva dal Governo il 10.01.2019 (leggibile in diversi siti, ad es. in  www.fallimentiesocieta.it) , modifica l’art. 2086 c.c.

Modifica la rubrica che passa da “Direzione e gerarchia nella impresa” a  “Gestione dell’impresa“.

La modifica al testo consiste nell’aggiunta di un secondo comma (il primo resta inalterato), secondo cui:  L’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale”.

Quindi il dovere è duplice: 1) istituire assetti adeguati i) sia in generale, ii) sia -in particolare- in funzione della tempestiva rilevabilità della crisi e della perdita di continuità aziendale (quest’ultimo sub ii) costituisce la vera novità, dovendosi desumere quello generale già dalla norma prevista per le s.p.a., art. 2381 cc: non essendoci motivo per riservare a queste sole il dovere di retto comportamento gestionale); 2) di conseguenza, al presentarsi della crisi, attivarsi senza indugio per adottare e attuare gli strumenti offerti dalla legge per tale evenienza .

Il nuovo dovere organizzativo riguarda dunque solo l’imprenditore collettivo o societario, non quello individuale.

Negli enti il dovere graverà allora sugli amministratori. La sanzione per l’eventuale violazione sarà quella consueta per l’inadempimento di costoro.

Entrata in vigore – Mentre secondo la regola generale l’entrata in vigore avverrà diciotto mesi dopo la pubblicazione in G.U., alcune disposizioni (tra cui proprio l’art. 375) entreranno in vigore trenta giorni dopo la predetta pubblicazione (art. 389). Pertanto, alla luce della pubblicazione del d. lgs. 12.01.2019 n. 14 nel Suppl. Ord. della G.U. n. 38 del 14.02.2019 , entreranno in vigore il  16 marzo 2019, .

Può un video costituire plagio di un dipinto?

Questo è il quesito posto ai giudici del Nevada (USA) dall’artista russo-americano Vladimir Kush.

Secondo costui, la cantante Ariana Grande nel suo video God is a Woman riprodurrebbe il proprio dipinto The Candle.

La risposta alla domanda in oggetto, astrattamente, è positiva: non c’è motivo per pensare l’opposto, visto che la tutela copre pure le trasformazioni dell’opera in altra forma artistica  (art. 4 e 18 l. aut.) .

Bisognerà poi vedere se il plagio ricorra o meno nel caso concreto.

Ne riferisce il sito   www.theartnewspaper.com , ove sono riprodotti sia il dipinto che un fotogramma del video.

Segnalazione da Eleonora Rosati in IP Law at University of Southampton – School of Law

Postergazione ex art. 2467 c.c. dei finanziamenti del socio anche per le s.p.a. chiuse? Pare di si.

La postergazione dei finanziamenti dei soci alla società, prevista per le srl dall’art. 2467 cc, è applicabile anche alle s.p.a. (se assomiglianti alle prime e dunque se s.p.a. chiuse): così pensa Cass. 20.06.2018 n. 16291

La Corte infatti si era già  posta in “tale ultimo solco interpretativo, previa sottolineatura che la ratio del principio di postergazione del rimborso del finanziamento dei soci, dettato dall’art. 2467 c.c. per le società a responsabilità limitata, consiste nel contrastare i fenomeni di sottocapitalizzazione nominale in società “chiuse”, determinati dalla convenienza dei soci a ridurre l’esposizione al rischio d’impresa, ponendo i capitali a disposizione dell’ente collettivo nella forma del finanziamento anzichè in quella del conferimento; e tale ratio – si è detto – è compatibile anche con altre forme societarie, come desumibile proprio dall’art. 2497-quinquies c.c., visto che siffatta norma ne estende l’applicabilità ai finanziamenti effettuati in favore di qualsiasi società da parte di chi vi eserciti attività di direzione e coordinamento. Sicchè in tal guisa è stato affermato il principio per cui l’art. 2467 è estensibile alle società azionarie a valle di una valutazione in concreto, dovendosi segnatamente valutare se la società, per modeste dimensioni o per assetto dei rapporti sociali (compagine familiare o, comunque, ristretta), sia idonea di volta in volta a giustificare l’applicazione della disposizione citata (v. Cass. n. 14056-15)“.

La Corte dunque conferma l’orientamento: “Simile approdo deve essere ulteriormente confermato, poichè è vero che la regola di postergazione tende a sanzionare la cosiddetta “sottocapitalizzazione nominale” delle società, nella quale l’impresa che necessita di mezzi propri viene invece finanziata dai soci attraverso l’erogazione di strumenti di debito, con conseguente artificiosa precostituzione – in situazione di squilibrio patrimoniale della società – di posizioni omogenee a quella dei creditori.

Essendo l’art. 2467 c.c. espressamente richiamato dall’art. 2497-quinquies rispetto ai rapporti di finanziamento infragruppo tra società controllanti e controllate, qualunque ne sia il tipo, non se ne può sostenere un’esegesi legata al mero specifico ambito del tipo della s.r.l., come in pratica assume il tribunale di Udine.

Alla medesima conclusione porta d’altronde anche l’art. 182-quater, comma 3, L. Fall., che, quanto alla prededucibilità dei crediti nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione in deroga alle citate norme, non procede per distinzioni a seconda del tipo societario.

Nè il principio appare contraddetto dall’ulteriore arresto col quale questa sezione ha escluso la postergazione a proposito dei crediti dei soci finanziatori di società cooperative, alle quali in generale si applica la disciplina delle s.p.a. (Cass. n. 10509-16). Simile conclusione è difatti ancorata essenzialmente all’ambito applicativo della L. 27 febbraio 1985, n. 49, art. 17 (cd. legge Marcora), come novellata dalla L. 5 marzo 2001, n. 57, art. 12 (Disposizioni in materia di apertura e regolazione dei mercati), che ha previsto l’erogazione di denaro pubblico in favore delle cooperative, e che, in quanto norma eccezionale, assume prevalenza, ai sensi dell’art. 14 prel., sulla previsione dettata dall’art. 2467 c.c.. Non può farsi a meno di sottolineare d’altronde che l’eccezionalità delle previsioni dettate per le società cooperative trova oggi definitiva conferma nella L. 27 dicembre 2017, n. 205 (recante il bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), nella quale è specificato (art. 1, comma 239) che l’art. 2467 c.c. non si applica alle somme versate dai soci alle cooperative a titolo di prestito sociale.”

Interessante è il ragionamento sulla eadem ratio: “6 – Vale la pena di puntualizzare in qual senso l’interpretazione estensiva (o anche analogica) della disposizione postuli la verifica di somiglianza della condizione concreta afferente. Tale condizione, che certo può esser dedotta su base presuntiva in ragione delle ridotte dimensioni della società, si sostanzia in ultima analisi nell’essere i soci finanziatori della s.p.a. in posizione concreta simile a quelle dei soci finanziatori della s.r.l.

L’identità di posizione può pacificamente affermarsi tutte le volte che l’organizzazione della società finanziata consenta al socio di ottenere informazioni paragonabili a quelle di cui potrebbe disporre il socio di una s.r.l. ai sensi dell’art. 2476 cod. civ.; e dunque di informazioni idonee a far apprezzare l’esistenza (art. 2467, comma 2) dell’eccessivo squilibrio dell’indebitamento della società rispetto al patrimonio netto ovvero la situazione finanziaria tale da rendere ragionevole il ricorso al conferimento, in ragione delle quali è posta, per i finanziamenti dei soci, la regola di postergazione.

In questa prospettiva la condizione del socio che sia anche amministratore della società finanziata può essere considerata alla stregua di elemento fondante una presunzione assoluta di conoscenza della situazione finanziaria appena detta“.

Nel caso specifico si trattava di sottoscrizione di prestito obbligazionario non convertibile per € 200.000,00, garantito da ipoteca, da parte di chi era socio di maggioranza  e presidente del consiglio di amministrazione.

Su risarcimento del danno e reversione degli utili del contraffattore in caso di violazione brevettuale

Trib. MI n. 7717/2018 del 10/07/2018, RG n. 31690/2014 (in www.giurisprudenzadelleimprese.it) costituisce un interessante caso di quantificazione del danno da violazione brevettuale (relativa a cartucce contenenti gas per camping).  Tre regole sono desumibili dalla sentenza; riporto i passi relativi, necessari per capire il ragionamento condotto dal giudice.

1) il risarcimento del danno da lucro cessante non è parametrabile al prezzo di vendita della cartuccia nel suo complesso, dato che il trovato da proteggere non era stato comunicato al pubblico e quindi non ha potuto costituirne motivo di acquisto:  << Ritiene tuttavia il Collegio che la particolarità della concreta fattispecie impedisca di ritenere quale parametro di riferimento per la determinazione del danno risarcibile (lucro cessante) l’importo relativo alla vendita della cartuccia nel suo complesso. Invero deve precisarsi che l’oggetto dell’invenzione di cui al brevetto n° …….. consiste nel solo dispositivo di sicurezza reso necessario dall’intervento normativo introdotto nel 2014 e che la presenza di tale dispositivo – obbligatoria per tutte le cartucce poste in vendita dall’aprile 2014 – non era in alcun modo resa palese all’acquirente finale del prodotto, il quale dunque procedeva all’acquisto sulla base di criteri di scelta che non potevano comprendere un eventuale maggiore o minore affidamento del (nuovo) sistema di sicurezza. Sul mercato erano presenti sistemi di sicurezza alternativi implementati dagli imprenditori concorrenti su cartucce del tutto simili. Deve dunque escludersi che le pretese risarcitorie delle titolari del brevetto possano comprendere a titolo di lucro cessante la vendita della cartuccia contestata nel suo insieme, posto che nessuna concreta influenza sull’acquisto appare possibile attribuire alla presenza all’interno di essa del dispositivo in contraffazione>> (§ 5).

2) qui possiamo scindere in due l’insegnamento: i) parametrare la riduzione delle vendite della vittima alle vendite del prodotto contraffatto non è possibile, se non ci sono elementi che permettano di giustificare tale correlazione; ii) ne segue che, non potendo applicare il comma 1 dell’art. 125 cod. propr. ind. , il giudice calcolerà il danno secondo la regola della reversione degli utili ex comma 3 del medesimo articolo (oggetto di specifica domanda):  << Le analisi svolte in sede di CTU contabile non hanno fornito elementi rilevanti al fine di poter procedere alla determinazione del danno risarcibile sulla base dei criteri indicati dal comma 1 dell’art. 125 c.p.i. In effetti non vi sono elementi sufficienti – anche richiamando le osservazioni innanzi svolte circa le determinazione dei consumatori all’acquisto del prodotto originale o di quello contenente il dispositivo in contraffazione – per verificare se vi sia stata un’effettiva relazione tra le vendite delle cartucce in contraffazione da parte di P. s.r.l. ed una eventuale riduzione delle vendite dei prodotti originali da parte delle titolari del brevetto. Lo stesso CTU contabile ha affermato l’inesistenza di elementi documentali atti a confermare che le vendite conseguite da P. s.r.l. siano state o meno in tutto o in parte sottratte a P.A.I. s.r.l. (unica parte convenuta che ha partecipato alla CTU contabile). Deve dunque il Collegio provvedere alla determinazione del danno risarcibile in relazione alla previsione dell’ultimo comma dell’art. 125 c.p.i. e cioè procedendo alla reversione degli utili conseguiti dal contraffattore in favore del titolare del brevetto, consentendo così a quest’ultimo di recuperare tutte le utilità derivanti dallo sfruttamento della privativa indebitamente sottratte e fatte indebitamente proprie dal contraffattore. Entrambe le parti convenute e attrici in via riconvenzionale, cointestatarie del brevetto n° ……, hanno espressamente formulato la domanda di retroversione degli utili nelle loro rispettive comparse di costituzione nel presente giudizio e dunque – contrariamente all’infondata contestazione sul punto svolta da P. s.r.l. – il lucro cessante connesso all’illecito contraffattorio deve essere accertato sulla base di tale criterio.>> (§ 6).

3) gli utili da trasferire alla vittima sono determinati col criterio aziendalistico del margine operativo lordo (MOL), oggetto di stima da parte del CTU. Centrale, allora, è capire quali sono i costi da dedurre:  <<La determinazione del margine operativo lordo (MOL) realizzato da P.  s.r.l. sul numero di cartucce complessivamente commercializzate come innanzi riportato (n. 7.078.678 cartucce) ma limitatamente al dispositivo ritenuto in contraffazione è stata eseguita dal CTU contabile ed è stata valutata in complessivi € 818.449,00. Come è noto l’individuazione del margine di contribuzione al lordo delle imposte prevede di sottrarre dai ricavi incrementali esclusivamente i costi variabili incrementali specificamente sostenuti per produrre e commercializzare i beni contraffatti.  Da tale calcolo risultano pertanto estranei sia i costi fissi di produzione che i costi variabili che non abbiano natura incrementale e che l’impresa avrebbe sostenuto anche in assenza della condotta illecita. Il CTU contabile, in coerenza con tali criteri, ha escluso dalla determinazione del costo incrementale i costi commerciali, amministrativi e generali nonché i costi di produzione per mano d’opera, ammortamenti, manutenzioni e servizi produttivi interni. I costi ritenuti effettivamente rilevanti sono stati elencati dal CTU contabile nella tabella n. 3, alla quale ha aggiunto in via equitativa un’ulteriore 5% per i costi di trasporto. In particolare ha escluso da tale calcolo anche i servizi interni di litografia, imbutitura e riempimento, taglio, trasporto interno, collaudo ed assemblaggio in quanto riconducibili in percentuale a costi fissi di manodopera, ammortamenti, manutenzioni e servizi produttivi interni. P. s.r.l. ha contestato la metodologia seguita dal CTU contabile sia in relazione all’esclusione dai costi variabili della mano d’opera – che a suo dire avrebbe dovuto essere invece inclusa per il 100% del suo valore – che per l’esclusione dei costi relativi al taglio litografia, imbutitura, riempimento, trasporto interno, in quanto necessari per la produzione delle cartucce. Tali rilievi non possono essere accolti. Quanto al costo del lavoro impiegato per la produzione (del dispositivo in contraffazione) è corretto identificare nei costi fissi dell’azienda lo stipendio e gli oneri finanziari del lavoratori fissi, dunque tra quei costi che l’azienda avrebbe comunque subito anche in assenza dell’attività contraffattoria accertata. Nel caso di specie le richieste di inclusione di tali costi – sia in termini percentuali rispetto all’utilizzazione che sarebbe stata fatta sulle specifiche linee di produzione che addirittura per il 100% di esso – evidentemente confermano la natura di costo non incrementale della mano d’opera anche nella stessa prospettazione di P. s.r.l. In effetti nessun elemento di effettivo rilievo probatorio consente di poter attribuire – anche solo in parte – il costo della mano d’opera come esclusivamente dedicato alla produzione del dispositivo in questione, tenuto altresì conto – come osservato dal CTU contabile (pag. 54 relazione) – che la produzione in questione rivestiva un ruolo del tutto minoritario nelle complessive vendite della società e che pertanto anche in assenza di attività contraffattoria il personale sarebbe stato utilizzato in altre attività produttive dell’impresa. Nemmeno le ulteriori contestazioni relative all’esclusione di costi particolari (taglio litografia, imbutitura, riempimento, trasporto interno) possono essere ritenute rilevanti, tenuto conto del fatto che essi risultano comunque riconducibili a servizi interni dell’azienda utilizzati per tutte le sue attività produttive. Le valutazioni del CTU in ordine alla misura del MOL conseguito da P.  s.r.l. devono dunque essere confermate>>.

OSSERVAZIONI  – Genera qualche perplessità il passaggio sub 2, dove il giudice osserva che, non potendo liquidare il danno secondo il comma 1 dell’art. 125 cod. propr. ind., lo fa  secondo il criterio della reversione degli utili, prevista dal successivo comma 3. La perplessità sta nel fatto che il comma 3 non offre un diverso criterio per risarcire il danno, bensì un  rimedio diverso: non risarcitorio ma semmai restitutorio, che nulla ha a che fare con la finalità del compensare i pregiudizi altrui. Anzi ha natura punitiva, più che restitutoria, dato che: i) in generale, oltre a fattori generanti l’utile propri della vittima (e “usurpati”), ce ne saranno anche altri propri esclusivamente del contraffattore (per i quali dunque non si può parlare di “restituzione”); ii) a maggior ragione nel caso de quo, in cui il giudice esclude che la contraffazione abbia rivestito una qualsiasi  rilevanza nella motivazione d’acquisto dei clienti del contraffattore.

Sul punto v. il mio saggio “Restituzione e trasferimento dei profitti nella tutela della proprietà industriale (con un cenno al diritto di autore) per Contratto e impresa , 2010, 1149 segg., presente in www.academia.edu .

Sulla responsabilità del provider per illecita diffusione di audiovisivi (il caso RTI c. Vimeo)

Il tribunale di Roma si è da poco pronunciato sulla vertenza RTI / Vimeo, affrontando in dettaglio le questioni tipiche delle liti sulla responsabilità dei provider (sentenza 639/2019 del 10.01.2019, RG 23732/2012). RTI è società del gruppo Mediaset,  concessionaria per l’esercizio di alcune emittenti televisive del gruppo nonché titolare esclusiva in proprio (come produttore) di diritti su alcuni programmi televisivi e di segni distintivi. RTI ha citato la società statunitense Vimeo perché venisse accertata la sua responsabilità tramite il portale Internet www.vimeo.com per la condivisione di contenuti audiovideo e per la diffusione di filmati in titolarità RTI (e chiedendo pure i consueti ordini di inibitoria e rimozione con fissazione di penale).

La piattaforma Vimeo opera come sito di condivisione video e consente ai suoi utenti di caricare, condividere e guardare varie categorie di video, dove è presente un forum dedicato al mondo dell’audiovisivo. E’ una rete sociale per la condivisione di video: il servizio offerto è assimilabile ad un servizio di video On Demand, dove i contenuti sono precisamente catalogati, indicizzati e messi in correlazione tra loro (p. 16).

Inoltre fornisce agli utenti un motore di ricerca interno alla stessa piattaforma di video sharing, che consente di ricercare i video semplicemente inserendo il titolo di interesse. Vimeo non ha contestato ciò, ma ha detto -eccezione insidiosa, su cui v. sotto la risposta del Tribunale- che l’indicizzazione dei contenuti avviene con procedura automatica gestita da software, che non permette una conoscenza effettiva dei contenuti caricati sul portale (p. 16).

il tribunale ha accolto la domanda di RTI con un provvedimento analitico e interessante. I punti più significativi sono i seguenti:

  1. Sulla giurisdizione  – Vimeo ha sollevato l’eccezione di carenza di giurisdizione (come di solito fanno i convenuti stranieri), ma il Tribunale l’ha respinta. Ha applicato l’articolo 5 della convenzione di Bruxelles 27 settembre 68, secondo cui c’è giurisdizione presso il giudice del luogo in cui è avvenuto l’evento dannoso. Ha infatti interpretato quest’ultimo concetto, nel senso che deve darsi rilievo non all’attività di uploading, cioè al luogo di caricamento sui server di Vimeo, bensì <<all’area di mercato dove la danneggiata esercita la sua attività di produttrice e o di titolare di sfruttamento dei programmi>> (pag.  7 / 8).
  2. Sulla legittimazione attiva di RTI  – Anche se non contestata da Vimeo, sono però interessanti i passi sul punto offerti dal Tribunale d’ufficio. Su essi non mi soffermo, ma saranno da tenere in considerazione da parte di dovesse in futuro occuparsene.
  3. Sulla  responsabilità degli Internet Service Provider  ISP , v.si la definizione di Internet Service Provider (ISP) offerta a pagina 10;
  4. Sui principali provvedimenti europei in materia di responsabilità dei provider e sulla  consueta distinzione tra hosting attivo e hosting passivo – Dice il tribunale che ”in relazione al regime di esenzione , tema centrale è quello della individuazione dei criteri interpretativi in base ai quali valutare quando il servizio di hosting possa definirsi “passivo” [sottol. aggiunto] e quando invece il provider perde il carattere di neutralità è opera forme di intervento volte a sfruttare i contenuti dei singoli materiali caricati dagli utenti e memorizzati sui propri server”. In quest’ultimo caso il provider qualifica  la propria posizione come “attiva” e ne segue la non applicabilità dell’esenzione da responsabilità ex articolo 16 del decreto legislativo 70 (e ex art. 14 dir. UE 31/2000) .  Si dovrà allora valutare la sua condotta secondo le comuni regole di responsabilità civile ex articolo 2043 cc (p. 12). Secondo il tribunale, la Corte di Giustizia ha detto che non viene meno l’esonero per la presenza di “indici di attività meccanica e non manipolativa nel trattamento dei dati, mentre la responsabilità per servizi di hosting sorge ogni qualvolta c’è un attività di gestione, di qualsiasi natura, anche se limitata alla ottimizzazione o promozione delle informazioni di tali contenuti” richiamandone alcune note sentenze (p. 12/3). Cioè secondo il diritto UE , continua il Collegio romano, per “godere dell’esonero da responsabilità , è necessario che il provider sia un “prestatore intermediario” che si limiti ad una fornitura neutra del servizio mediante trattamento puramente tecnico, automatico e passivo dei dati forniti dai suoi clienti, senza svolgere un ruolo attivo atto a conferirgli conoscenza o un controllo dei medesimi dati, e quindi a condizione che non abbia dato un minimo contributo all’editing  del materiale memorizzato lesivo di diritti tutelati” (p. 12/13, richiamando  le pronunce UE nei casi Google c. Louis Vuitton e L’Oreal).
    1. Pur tuttavia -ricorda però il Tribunale- l’hosting attivo non può essere assoggettato ad un obbligo generalizzato di sorveglianza e controllo preventivo, come ricorda la Corte di Giustizia in alcune sentenze (Scarlet Extended e Sabam c. Netlog) (p. 13/14)
  5. Sull’orientamento dei giudici italiani  – Due sono gli orientamenti in Italia. Uno minoritario, per cui il punto di discrimine tra fornitore neutrale (“passivo”) e fornitore non neutrale (“attivo”) deve essere indidviduato  “nella manipolazione o trasformazione delle informazioni o dei contenuti trasmessi o memorizzati”  : quindi qualora  vengono attuate delle mere operazioni, volte alla migliore fruibilità della piattaforma e dei contenuti in essa versati, attraverso indicizzazioni o suggerimenti , le predette clausole di esenzione possono operare (almeno così intuisco,  essendo qui il testo coperto e non leggibile). Secondo invece l’altro orientamento, maggioritario e che il tribunale dichiara di seguire, il provider perde il carattere passivo quando i servizi offerti vanno oltre la predisposizione del solo processo tecnico ed egli “interviene nella organizzazione e selezione del materiale trasmesso, finendo per acquisire una diversa natura di prestatore di servizi -”quella di hosting attivo” – non completamente passivo e neutro rispetto alla organizzazione della gestione dei contenuti immessi dagli utenti, dalle quali trae anche sostegno finanziario in ragione dello sfruttamento pubblicitario connesso alla presentazione organizzata di tali contenuti. (…) Non appare infatti condivisibile quella giurisprudenza che limita il ruolo attivo dell’hosting provider al solo caso in cui il gestore operi sul contenuto sostanziale del video caricato sulla piattaforma” (p. 14-15)
  6. Prima conclusione sulla qualificazione del servizio offerto da Vimeo – Tenuto conto delle caratteristiche del servizio offerto da Vimeo, “deve affermarsi che Vimeo non si è limitata ad attivare il processo tecnico che consente l’accesso alla piattaforma di comunciazione su cui sono trasmesse o temporaneamente memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi,. al solo fine di rendere più efficiente la trasmissione, ma ha svolto una complessa e sofisticata organizzazione di sfruttamento di contenuti immessi in rete che vengono selezionati, indirizzati, correlati, associati ad altri, arrivando a fornire all’utente un prodotto audiovisivo di alta qualità e complessità, dotato di una sua precisa e specifica autonomia” (p. 17; anche qui problemi di leggibilità del testo, come già sopra)
  7. Sulla necessità o meno di conoscenza diretta del contenuto illecito – Altro punto interessante. Il tribunale, rigetta l’eccezione di Vimeo e dice che “non è necessaria una conoscenza personale diretta del contenuto illecito ma è sufficiente che i mezzi tecnologici utilizzati siano comunque idonei a conferirgli la conoscenza o il controllo dei dati memorizzati. (…) Pertanto anche se il prestatore di servizi si avvale di un software per indicizzare organizzare catalogare associare ad altri o alla pubblicità i video caricati dagli utenti, egli viene comunque a svolgere un ruolo attivo di ingerenza nei contenuti memorizzati, tale da permettergli di conoscere o controllare e di fornire un importante contributo all’editing del materiale memorizzato” (p. 18)
  8. Seconda conclusione sulla qualificazione del servizio offerto da Vimeo: non può essere ritenuto hosting provider passivo, ma piuttosto attivo. Ne segue che non può giovarsi delle esimente prevista dalla legislazione e risponde secondo le regole comuni ex articolo 2043. Ciò detto, bisogna però dimostrare che fosse a conoscenza o potesse essere a conoscenza dell’illecito  commesso dall’utente (p. 18)
  9. Sulla idoneità della diffida stragiudiziale e delle ulteriori segnalazioni inviate dal titolare a Vimeo –  Altro punto assai rilevante nella pratica è quello del tasso di analiticità della diffida nell’indicare le opere illecitamente riprodotte, perchè possa venir meno l’invocabilità dell’esimente – Sostanzialmente il dubbio interpretativo è riconducibile ad un’alternativa, ricorda il Tribunale:  se sia sufficiente indicare quantomeno i titoli dei programmi televisivi, su cui il titolare vanti diritti di sfruttamento; oppure se serva anche indicare gli indirizzi specifici compendiati in singole URL per ciascuna riproduzione illecita. Il Tribunale , precisato che non è certo sufficiente la generica indicazione di <<tutti i programmi di una certa emittente televisiva>>, segue l’opinione più restrittiva per il provider e più favorevole al titolare dei diritti:  stima cioè sufficiente che quest’ultimo indichi i titoli dei programmi televisivi, senza l’URL (p. 19-21).
  10. Sulla diligenza che ci si poteva aspettare da Vimeo, una volta informata delle riproduzioni illecite – Qui il tribunale si appoggia alla CTU secondo cui esistevano già all’epoca dei fatti delle tecniche per  controllare sia preventivamente (ex-ante), sia successivamente (ex post) i contenuti da pubblicare o già pubblicati e alle cui risultanze subordinare la stessa pubblicazione o permanenza on-line del contenuto audiovisivo considerato (c.d. watermarking e videofingerprinting: p. 22/4, ove esposizione della  ctu in proposito). Pertanto sarebbe stato ragionevole attendersi da Vimeo un comportamento diligente per sollecitare questa attività di verifica e controllo a seguito della segnalazione da parte di RTI. Invece Vimeo si è limitata a rimuovere i contenuti per le quali RTI ha individuato gli URL , senza ulteriori sforzi.
    1. Inoltre Vimeo non ha allegato nè provato quale pregiudizio avrebbe subito la propria attività di hosting provider qualora avesse adottato le tecnologie disponibili riferite dal CTU per la necessaria attività di verifica e controllo ex post. (p. 24) . In effetti quest’ultimo elemento avrebbe potuto contrastare la conclusione del giudice: una elevata onerosità di questi filtri, allegata e provata, avrebbe infatti forse portato ad un esito diverso circa le misure che per diligenza Vimeo avrebbe potuto e quindi dovuto adottare.
  11. In conclusione, c’è stata una cooperazione colposa mediante omissione nella violazione dei diritti di cui agli articoli 78 e 79 legge sul diritto d’autore, che porta al dovere di risarcire il danno patrimoniale aquiliano (non è stato chiesto il danno non patrimoniale, possibile anche per gli enti, secondo una recente tendenza).
  12. Sul risarcimento del danno patrimoniale – RTI ha portato documentazione contrattuale sulle licenze concordati con altre piattaforme  o emittenti televisive e su queste il tribunale si è appoggiato per la liquidazione del danno. Ha escluso la utilizzabilità di un contratto tra RTI e Rai , ma ha invece sorprendentemetne affermato di potere utilizzare gli importi concordati con altra emittente in sede transattiva di una precedente lite: ha dichiarato che “deve escludersi che i prezzi stabiliti a seguito di un accordo transattivo siano meno congrui rispetto a quelli che si formano in una libera contrattazione commerciale” (p. 30). La sorpresa sta nel fatto che in sede transattiva, visto che ciascuna parte cede qualcosa (art. 1965 cc: “reciproche concessioni”), è probabile che il titolare accetti un corrispettivo inferiore a quello che avrebbe accettato in una contrattazione ex ante .
  13. Sul parametro per determinare la royalty ipotetica – E’ stato individuato nel corrispettivo medio a minuto di durata dei video in contestazione per un tempo di permanenza di un anno, stimato in euro 563,00, moltiplicato per i 2.109 video abusivamente pubblicati. L’importo complessivo ha superato i 10 milioni di euro, poi equitativamente abbassati ad euro 8.500.000,00 (p. 31-33).
  14. il tribunale ha escluso invece sia la concorrenza sleale, per carenza del rapporto di concorrenza, sia la violazione di marchi registrati, non essendoci stato uso degli stessi (non essendosene appropriata), “non assumendo rilievo, quale uso del marchio,  la circostanza che i contenuti audiovisivi in contestazione riportassero i loghi dei canali di cui è titolare RTI” (p. 34). Anche quest’ultima affermazione è di un certo interesse.
  15. Ha accolto la domanda di inibitoria e di rimozione , facendole assistere da penali.