Secondo l’art. 2634 (rubricato Infedelta’ patrimoniale) c. 3, c.c., <<non e’ ingiusto il profitto della societa’ collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo>>
La Corte di Cassazione (sez. I penale, n. 20494-2019, 12.06.2018, dep. 13.05.2019, rel. Vannucci) sul tema ha precisato che, per invocare questa norma, l’amministratore deve (allegare) e provare gli ipotizzati benefici indiretti derivanti dall’appartenenza al gruppo. Aggiungerei che deve trattarsi di benefici specifici, cioè aventi una loro individualità e calcolabilità economica.
E’ vero secondo la S.C. che la razionalità delle operazioni economiche va accertata non in modo atomistico, ma tenendo conto della realtà del gruppo in cui la singola società è inserita. Va senz’altro ammessa <<la possibilità di tener conto di valutazioni afferenti alla conduzione del gruppo nel suo insieme, purché non vengano in tal modo pregiudicati ingiustificatamente gli interessi delle singole società. E, nel valutare se un siffatto pregiudizio in concreto sussista, è doveroso tener conto che la conduzione di un’impresa di regola non si estrinseca nel compimento di singole operazioni, ciascuna distaccata dalla precedente, bensì nella realizzazione di strategie economiche destinate spesso a prender forma e ad assumere significato nel tempo attraverso una molteplicità di atti e di comportamenti. Sicché è perfettamente logico che anche la valutazione di quel che potenzialmente giova, o invece pregiudica, l’interesse della società non possa
prescindere da una visione generale: visione in cui si abbia riguardo non soltanto
all’effetto patrimoniale immediatamente negativo di un determinato atto di gestione, ma altresì agli eventuali riflessi positivi che ne siano eventualmente derivati in conseguenza della partecipazione della singola società ai vantaggi che
quell’atto abbia arrecato al gruppo di appartenenza.>> (p. 6).
La Corte aggiunge però che il vantaggio non può essere posto in termini ipotetici. Dopo che la società ha dimostrato il danno cagionatole da una certa condotta distrattiva o lesiva dell’amministratore (anche questa allegazione -aggiungo- deve essere specifica), la prova di suoi paralleli effetti positivi tocca all’amministratore: in particolare, non può essere ritenuta presente per la mera appartenenza al gruppo. Questo è il passaggio più significativo della sentenza.
Precisamente si legge così: <<In un simile contesto, tuttavia, l’eventualità che un atto lesivo del patrimonio della società trovi compensazione nei vantaggi derivanti dall’appartenenza al gruppo non può essere posta in termini meramente ipotetici. Se si accerta che l’atto non risponde all’interesse diretto della società il cui amministratore lo ha compiuto e che ne è scaturito nell’immediato un danno al patrimonio sociale, potrà ben ammettersi che il medesimo amministratore deduca e dimostri l’esistenza di una realtà di gruppo alla luce della quale anche quell’atto è destinato ad assumere una coloritura diversa e quel pregiudizio a stemperarsi; ma occorre che una tal prova egli la dia. Non può, viceversa, sostenersi (…) che la mera appartenenza della società ad un gruppo renda plausibile l’esistenza dei suddetti “benefici compensativi” e che, pertanto, competa alla società, la quale abbia agito contro il proprio amministratore, l’onere di dimostrarne l’inesistenza. Viceversa, la società attrice esaurisce il proprio onere probatorio dimostrando l’esistenza di comportamenti dell’amministratore, che ledono il patrimonio dell’ente e perciò appaiono contrari al suo obbligo di perseguire lo specifico interesse sociale. È il medesimo amministratore, se del caso, che deve farsi carico di allegare e provare gli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo, e la loro idoneità a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione compiuta>> (p. 6-7).
La Corte riassume così: <<In definitiva, anche in riferimento alla disciplina del diritto delle società di capitali anteriore alla riforma alla stessa recata dal d.lgs. n. 6 del 2003, l’esistenza di rapporti di controllo ovvero di collegamento fra società non comporta in astratto un vantaggio, derivante dall’appartenenza al gruppo, che compensi il pregiudizio arrecato al patrimonio sociale della società controllata o collegata,da atto dannoso posto in essere dal relativo amministratore ovvero che collochi l’atto a contenuto negoziale da questi posto in essere nei limiti dell’oggetto sociale proprio di tale società: l’esistenza in concreto di tale vantaggio, di natura compensativa del pregiudizio sofferto dalla società controllata ovvero collegata, deve essere allegata e provata da parte dell’amministratore che il fatto specifico deduca>>.
Il tenore della norma (“conseguiti o fondatamente prevedibili”) conforta tale conclusione.
La quale è confermata pure dalla norma civilistica corrispondente (art. 2497 c.1 ult. periodo, cc): <<Non vi e’ responsabilita’ quando il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attivita’ di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a cio’ dirette>>. Una volta provato il danno alla società, per affermare la mancanza di esso (sin da subito o dopo specifiche operazioni) bisogna analogamente individuare e provare specifici vantaggi: come avviene con l’istituto della compensazione civilistica. Si tratta infatti di un caso di compensatio lucri cum damno.
Individuazione che, secondo la regola generale dell’art. 2697 cc, costituisce fatto estintivo della pretesa risarcitoria avanzata dalla società: quindi gravante sull’amministratore.
La norma penale (il c. 3 cit. ) però non è ben formulata . Da un lato pare riferire il profitto alla società collegata o al gruppo, invece che all’amminstratore (o a terzi generici) , come avviene nel c. 1. Dall’altro lato, compensa questo fine di profitto per altra società (o gruppo) col danno della società da lui amministrata. Invece, stante l’autonomia delle società appartenenti al gruppo (ribadita dalla SC in esame), la compensazione, per escludere l’infedeltà patrimoniale, dovrebbe avvenire tra poste passive e attive riferite esclusivamente alla società da lui amministrata (come avviene nella formulazione della norma civilistica)