l’atto esecutivo (divisionale/apporzionativo) di trust costituisce atto tra vivi e non mortis causa

La Corte di Casszione in sede di regolamento di giurisdizione insegna che l’atto apporzionativo di trust tra trustee e beneficiari è atto inter vivos, non mortis causa (Cass. sez. un., 18.831 del 12 luglio 2019, rel. Giusti)

Nel caso specifico tale atto fu stipulato nella forma di  Deed of agreement, indemnity, release and covenant not to sue tra il trustee e le due figlie del settlor, che erano state nominate beneficiaries in sede istitutiva (anche se in via successiva rispetto al primo beneficario, che era lo stesso disponente) . La legge del trust era neozelandese.

dopo la firma di detto deed, una delle due sorelle citò l’altra in giudizio cheidendo l’annullamneot per dolo ex art. 761 c.c. e ub subordine la rescisione pe lesione ultrea dimidiume ex art. 763.

Venne eccepita la mancanza di giursdizione italiana per clausola di arbitrato estero (svizzero) e proposto dalla concvenuta ricroso per giurisdizione.

Secondo l’attrice (controricorrente in Cassazione) si trattava di materia ereditaria e non di invalidazione del Deed, così sfuggendo [parrebbe] all’ambuto applictivo della clausola arbitrale_: <<ad avviso della controricorrente, la materia del contendere verte (…) non sulla caducazione del Deed, ma sull’attuazione della divisione della massa ereditaria secondo il criterio dell’eguale beneficio dettato dal de cuius P.S., cittadino italiano, deceduto a (OMISSIS). Le singole attribuzioni dei cespiti ereditari non infirmerebbero la natura successoria della controversia di scioglimento della comunione tra coeredi: la clausola per arbitrato estero (..) inerente all’attribuzione di un singolo cespite che compone l’asse ereditario, non osterebbe alla giurisdizione italiana in materia successoria, quale sancita dalla L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 50. Difatti il Deed avrebbe assolto la sola funzione di attribuire un cespite dell’asse da dividere, nel quadro e nel contesto del complessivo scioglimento della comunione ereditaria ancora in corso sotto le cure dell’esecutore testamentario M.C.; la lesione subita da P.E. attraverso il Deed ben potrebbe e dovrebbe essere conosciuta incidenter tantum in funzione del complesso oggetto successorio e divisionale della controversia di cui il Deed costituirebbe soltanto una singola parte; e sussisterebbe controversia divisionale ereditaria anche quando, come nella specie, ferme le quote testamentarie fissate dal de cuius, si controverta sui valori dei beni rispettivamente attribuiti, qui manifestamente distanti rispetto alla volontà del testatore di ripartire il suo patrimonio tra le due figlie in eguale misura>>. (§ 4 Fatti di causa).

Il punto non è chiaro, poichè la difesa svolta dalla controricorrente pare confondere due piani che invece sono distinti: i) se la materia sia o meno ereditaria per decidere quale sia la norma regolatrice la giurisdizione (art. 3 o art. 50 L. 218/1995); ii) se le domande proposte rientrino o meno nella sfera aplicativa della clausola arbitrale (a prescindere dal fatto che, in caso negativo, la questione sia o meno successoria a fini giurisdizionali).

la SC così imposta la qyuestione: << si tratta di stabilire, innanzitutto, se vi siano criteri di collegamento che consentano di ricondurre alla giurisdizione dello Stato italiano la controversia riguardante l’apporzionamento tra i beneficiari del bene conferito in trust e, in particolare, se la detta controversia sia suscettibile di essere ricompresa tra quelle concernenti la divisione ereditaria, per le quali la giurisdizione del giudice italiano è regolata dalla L. n. 218 del 1995, art. 50.>> (§ 2 Reg. della decis.).

Forse però la SC avrebbe anche dovuto porsi a monte la questione della devolvibilità in arbitrato delle liti sucessorie, che è il prius logico. Se la risposta fosse positiva, infatti, domandarsi se fosse o meno materia successoria a fini giusridionali non servirebbe a nulla: qualunque fosse la risposta, opererebbe sempre la clausola arbitrale (se la domanda vi rientrasse ratione materiae).

La risposta è stata nel senso che non si tratta di materia ereditaria, dato che il trasferimento, contenuto nel deed, tra trustee e beneficiarie, in esecuzione dell’atto istitutivo, è atto tra vivi , come tra vivi era l’atto istitutivo di cui il deed  è l’attuaizone. Nè l’uno nè l’altro corrono dunque il rischio di essere interpretati come patto successorio (nelle due fasi obbligatoria ed esecutiva) ex art. 458 cc

infatti <<deve tuttavia escludersi che il consenso espresso dalle beneficiarie all’apporzionamento tra le stesse, ad opera del trustee, dei beni conferiti in vita dal disponente P.S. nel Pale Trust (il Gruppo P.), integri un atto avente ad oggetto un bene caduto in successione ereditaria. Invero, sotto quest’ultimo profilo, va rilevato – in conformità delle conclusioni alle quali è pervenuto il pubblico ministero con la requisitoria depositata il 13 maggio 2019 – che con il Pale Trust non si è realizzata una devoluzione mortis causa di sostanze del disponente P.S..>> (§ 5.1 Rag. della dec.)

Del resto <<tali beni non sono caduti in successione perchè essi si trovavano, al tempo dell’apertura della stessa, già fuori del patrimonio del disponente, avendone costui trasferito la proprietà in via definitiva e per atto inter vivos al trustee; i beneficiari finali – le figlie E. e P. hanno acquistato i beni direttamente dal trustee e non già per successione mortis causa dal de cuius.>> (ivi)

Il Colelgio condivide il giudizio sull’atto attributivo/apporzionativo di trust come avente natura di donazione indiretta : <<Va quindi esclusa la natura mortis causa del trasferimento dal trustee ai beneficiari finali, che costituisce il secondo segmento dell’operazione, perchè – come è stato rilevato – tale atto traslativo ha investito ormai sfere giuridiche diverse da quelle dell’originario disponente: rispetto a tale trasferimento, la morte del settlor non ha alcuna rilevanza causale, potendo al più individuare il momento di esecuzione dell’attribuzione finale>>.

.

Segreti commerciali e art. 98 c.1 n. 3 cod. propr. int.

L’art. 98 cpi regola i segreti commerciali o meglio il diritto titolato sugli stessi. La norma è importante perchè , rispettati i requisiti, si può fruire dell’apparato rimediale del c.p.i.

Un recente provvedimento milanese (29.01.2019, RG 51863/2015, sent. n. 872/2019) ha analizzato un caso in materia.

Qui mi soffermo solo sul punto in oggetto e cioè sull’applicazine del concetto di <<misure ragionevolmente adeguate a mantenerle segrete>> di cui al c. 1 lett. c), art .98.

Il Tribunale ha detto (numerazione in rosso degli elemetni di segretezza  individuati dal Trib., da me aggiunta) : <<Le parti convenute hanno contestato che parte attrice abbia dato effettiva prova dell’apprestamento di misure di riservatezza effettivamente pertinenti ad un livello di ragionevolezza, sostanzialmente invocando a tal fine che, ad esempio, i disegni tecnici in questione fossero stati posti a suo tempo nella disponibilità dei soggetti fornitori di Tekna anche mediante la possibilità di prelevarli all’interno di un sito web della stessa.

Ritiene invece il Collegio che le risultanze di causa consentano di ritenere che tali documenti tecnici fossero effettivamente soggetti a misure di riservatezza ragionevoli e pertinenti alle modalità di svolgimento dell’attività produttiva di Tekna ed ai rapporti con i suoi fornitori.  Non risulta per un verso contestato che, oltre alla [1] previsione di sistemi antiintrusione, l’accesso a tale documentazione fosse soggetto al rilascio di specifiche [2] password che – oltre a quella che consentiva l’accesso generale al sistema informatico – prevedeva [3] l’ulteriore rilascio di autorizzazioni per l’accesso  a specifici applicativi del sistema stesso, modalità organizzative che determinavano dunque una selezione  nell’accesso  a  parti  determinate  di  esso (v.  doc.  37  Emmegi).  Inoltre,  sotto  altro  profilo maggiormente rilevante per i soggetti esterni a Tekna, la documentazione tecnica in questione era con tutta evidenza [4] soggetta a vincoli di riservatezza a carico dei soggetti ai quali era stata fornita la disponibilità. Ciò appare rilevabile dall’esame di tutti i disegni tecnici acquisiti in sede di descrizione, [4.1] ove compare    in ciascuno di essi l’espressa riserva di proprietà dei disegni stessi in capo a Tekna ed il divieto di riprodurre i medesimi o di renderli noti a terzi. D’altra parte la [4.2] sussistenza di uno specifico rapporto di fornitura tra le imprese convenute riconduce l’oggetto di essi ad un alveo di normale e fisiologica riservatezza rispetto alle informazioni e documenti scambiati tra le parti per ciò che attiene allo svolgimento di tale rapporto contrattuale, risultando di per se stessa contraria alla buona fede ed alla correttezza contrattuale ogni attività di diffusione a terzi di tali informazioni. Ciò risulta peraltro direttamente confermato dalla produzione in atti di contratto di fornitura intercorso tra parte attrice e la convenuta M.G. Costruzioni Meccaniche s.a.s. del novembre 2014 in cui era [4.3] espressamente inserito il divieto per l’impresa fornitrice di utilizzare ogni informazione ricevuta per finalità estranee al rapporto stesso e di divulgarle a terzi (v. doc. 4 MG).

Il fatto dunque che i documenti tecnici in questione fossero scaricabili dal sito web di Tekna dai (soli) fornitori ad essa legati da vincoli contrattuali non comporta alcun significativo pregiudizio rispetto alla sussistenza ed efficacia di tali misure, tenuto conto che l’accesso a detti documenti era evidentemente conseguente al rapporto  contrattuale esistente con la titolare di tali disegni e  della consapevolezza di  tali fornitori dell’esistenza di tali vincoli e dei limiti connessi alla ricevuta disponibilità dei documenti stessi.

Il quadro complessivo delle misure di sicurezza approntate presso EMMEGI s.p.a. risulta rappresentato nel documento generale prodotto in atti (doc. 46 fasc. Emmegi). Ritiene pertanto il Collegio che il quadro fornito in ordine alla predisposizione delle misure di sicurezza debba ritenersi congruo e sufficiente per l’attività svolta dall’attrice e dalle sue danti causa.>>

In sintesi dunque per il Tribunale le misure, tali da ritenere sodisfatto il requisito in oggetto, sono: 1) la previsione di sistemi antiintrusione (nei locali aziendali, presumibilmente), 2) necessità di password di accesso generale al sistema informatico; 3) necessità di password di accesso ai singoli software applicativi, 4) dovere di riservatezza dei consegnatari delle credenziali/passwordo, dato da: 4.1) espressa dichiarazione di riserva di proprietà e di divieto di riproduzione apposto sui disegni, 4.2) dovere di segretezza generato dalla buona fede in executivis propria del rapporto contrattuale in essere, 4.3) dovere di segretezza specificamente inserito in una clausola del testo contrattuale.

Il rapporto tra 3) e 4) è peculiare: è pensabile il dovere di riservatezza a carico di chi viene a contatto con le informazioni segrete anche senza password (impregiudicato se ciò basti ai fini dell’art. 98 cpi), mentre non è pensabile l’opposto. Infatti l’assegnazione di credenziali/password, senza la creazione di previ doveri di riservatezza a carico degli assegnatari, certamente non costituirà  <<misura ragionevolmente adeguata a mantenerle segrete>>: anzi ne costituirà una palese violazione.

Un interessante caso di utilizzo di banca dati altrui e quindi di applicazione del diritto sui generis sulla medesima

Il tribunale delle imprese di Roma (sez. Trib. Imprese 4-5/09/2019, RG 34006/2019;  ne dà notizia Maraffino sul Sole 24 ore di oggi 21.10.2019, p. 22, ove il testo in allegato) interviene con un interessante provvedimento cautelare in materia di diritto sui generis su banca dati (art. 102 bis-ter l. aut.)

La banca dati per cui era causa era quella relativa ad orari e prezzi ferroviari  di Trenitalia.

Era capitato che la società di diritto inglese Go Bright avesse proceduto a estrazione e reimpiego dei dati di questa bancadati di Trenitalia. Trenitalia se n’era lamentata e aveva ottenuto in via cautelare inaudita altera parte l’inibitoria di cessazione e la comminazione di penale per successive eventuali violazioni a carico di Go Bright  Instauratosi il contraddittorio, però il tribunale di Roma col provvedimetno de quo ha revocato quello anteriore  inaudita altera parte e rigettato la domanda cautelare di Trenitalia

il Tribunale ricorda che la disciplina sulle banche dati prevede che <<il costitutore di una banca di dati ha il diritto, per la durata e alle condizioni stabilite dal presente Capo, di vietare le operazioni di estrazione ovvero reimpiego della totalita’ o di una parte sostanziale della stessa.>> (art. 102 bis c. 2 l. aut.)

“Costitutore” e quindi titolare di tale diritto è colui che <<effettua investimenti rilevanti per la costituzione di una banca di dati o per la sua verifica o la sua presentazione, impegnando, a tal fine, mezzi finanziari, tempo o lavoro;>> (art. 102 bis c. 1 lett. a) lt.). Il Tribunale dà atto che sul punto non c’erano contestazioni e quindi tale qualifica viene riconosciuta a Trenitalia.

Ad integrazione del c. 3. cit., il seguente comma 9 dell’art. 102 bis prevede però che <<non sono consentiti l’estrazione o il reimpiego ripetuti e sistematici di parti non sostanziali del contenuto della banca di dati, qualora presuppongano operazioni contrarie alla normale gestione della banca di dati o arrechino un pregiudizio ingiustificato al costitutore della banca di dati.>>

La ragione di quest’ultima norma è abbastanza chiara.  E’ vero che l’estrazione o il reimpiego di una banca dati altrui è sempre ammesso, purchè limitato ad una parte non sostanziale: ma è facile eludere tale limite procedendo con accessi ripetuti nel tempo, ciascuno rispettante il limite della “non sostanzialità” della parte utilizzata.

E’ un po’ come la regola sul divieto di uso del contante che superi una certa soglia, la quale può essere elusa tramite il frazionamento ripetuto nel tempo  di prelievi che, individualmente considerati, rispettano la soglia stessa: è per questo che la legge ha provveduto ad inserire una norma relativa al caso di cumulo di prelievi in un certo periodo di tempo. Ha infatti disposto che <<Il trasferimento superiore al predetto limite, quale che ne sia la causa o il titolo, e’ vietato anche quando e’ effettuato con piu’ pagamenti, inferiori alla soglia, che appaiono artificiosamente frazionati>>, dovendosi intendere per <<operazione frazionata>>, l’<<operazione unitaria sotto il profilo del valore economico, di importo pari o superiore ai limiti stabiliti dal presente decreto, posta in essere attraverso piu’ operazioni, singolarmente inferiori ai predetti limiti, effettuate in momenti diversi ed in un circoscritto periodo di tempo fissato in sette giorni, ferma restando la sussistenza dell’operazione frazionata quando ricorrano elementi per ritenerla tale>> (art. 49 e rispett. art. 1 lett. v) del D. lgs. 231 21.11.2007; c’è una disarmonia lessicale però, dato che prima parla di operazioni e poi di trasferimenti e di pagamenti).

Ebbene anche nel nostro caso è ammesso l’utilizzo di porzioni di banca dati altrui in misura non sostanziale ma  con dei limiti, quando si ha ripeta frequentemente.

Il legislatore fiscale ha ritenuto di porre una soglia quantitativa e temporale; la legge sul Diritto d’autore ha invece stabilito il concetto di operazioni “ripetute e sistematiche” , accompagnandolo poi con un’ulteriore duplice condizione negativa: i) che non devono presupporre operazioni contrarie alla normale gestione della banca dati; e ii) che non arrechino un pregiudizio ingiustificato al costitutore. Queste ultime due ipotesi sono parzialmente coincidenti dato che l’operazione contraria alla normale gestione probabilmente sarà anche pregiudizievole, ma letteralmente una differenza c’è: per quella sub i) rileva solo la contrarietà alla normale gestione, essendo invece irrilevante la dannosità.

Il Tribunale ricorda poi che esiste un’altra norma, trascurata dal giudice cautelare di prime cure, costituita dal c. 3 dell’articolo 102 ter. Secondo questa, <<non sono soggette all’autorizzazione del costitutore della banca di dati messa per qualsiasi motivo a disposizione del pubblico le attivita’ di estrazione o reimpiego di parti non sostanziali, valutate in termini qualitativi e quantitativi, del contenuto della banca di dati per qualsivoglia fine effettuate dall’utente legittimo. Se l’utente legittimo e’ autorizzato ad effettuare l’estrazione o il reimpiego solo di una parte della banca di dati, il presente comma si applica unicamente a tale parte>>.

La complessiva disciplina dunque pare sintetizzabile così:

A)  se la banca dati non è stata messa a disposizione del pubblico, è ammesso il reimpiego/estrazione solamente se A1) non sostanziale, nonchè  A2) non ci siano utilizzi ripetuti e sistematici contrari alla normale gestione -oppure, in alternativa ad A2- ; A3) non ci siano utilizzi ripetuti e sistematici arrecanti pregiudizievole ingiustificata al titolare.

B) quando invece la banca dati è stata messa a disposizione del pubblico, i paletti sono quelli B1) del reimpiego/estrazione “non sostanziali” (valutate in termini qualitativi e quantitativi), B2) da parte dell’utente legittimo.  Altri limiti non ci sono ed anzi è esporessamente detto che è ammesso per qualsiasi fine effettuato dall’utente legittimo (c. 3 art. 102 ter)

Semmai c’è da chiedersi chi sia l'<<utente legittimo>>, dato che per ipotesi si tratta di banca dati messa a disposizione del pubblico e quindi per chiunque. Tale concetto allora andrà probabilmente inteso con riferimento ad eventuali limitazioni che il costitutore apponga all’utilizzo pubblico: sarebbe logico,  perché in tali casi è utente legittimo solo chi rispetta i limiti entro cui il costitutore ha messo a disposizione del pubblico la banca dati. Se supera quei limiti, l’utente non è più legittimo.

Tornando al caso sub iudice l’estrazione consistette nell’estrazione da parte di Go Bright con picchi fino a 800.000 accessi al giorno, che rappresentavano il 30% di tutti gli accessi sui siti Trentilaia e rallentamenti della funzionalità dei server. Il giudice romano ha ritenuto che tali dati, forniti da Trenitalia, <<non appaiono sufficientemente convincenti per poter dare una risposta alla questione precedentemente sottolineata, in quanto il numero, per la verità non impressionante (30% degli accessi sulla totalità degli accessi giornalieri di TRENITALIA peraltro suddivisi nelle ventiquattr’ore) dello scraping effettuato sulla piattaforma della società ricorrente potrebbe essere interpretato come una periodica e selettiva acquisizione di dati da parte del server di GoBright. Non vi è quindi evidenza di una manifesta e di inequivoca sottrazione della banca dati da parte della società resistente>>( p. 8).

Inoltre ha precisato che l’apertura della banca dati al pubblico <<comporta la possibilità per qualsiasi utente di estrarre legittimamente tali dati in misura non sostanziale e di utilizzarli nelle forme che ritiene più opportune, anche in forma commerciale.>> (p. 6),  precisando subito dopo così: <<in  sintesi, una volta che la banca dati sia stata resa pubblica nel suo complesso, sono consentite ad avviso di questo giudice tutte le attività di estrazione, riproduzione e rielaborazione dei dati contenuti nella banca da parte di tutti gli utenti legittimi, siano essi soggetti fisici o soggetti imprenditoriali a condizione che la riutilizzazione e reimpiego dei dati non avvenga in maniera massiccia origuardi “ la totalità della banca dati, una parte sostanziale della stessa” (art. 102 bis) ovvero “il reimpiego di parti sostanziali valutati in termini qualitativi e quantitativi (art. 102 ter LDA)”.>> (p. 6/7)

Un elemento fattuale importante è che -secondo Go Bright- l’acquisizione dei dati non avveniva una volta per tutte e in via definitiva, bensì <<volta per volta sui propri server mediante il sistema dello “scraping” e che vi è un’acquisizione continuativa nel tempo e selettiva da parte del proprio applicativo dei dati utili al singolo utente che ne fa contestuale richiesta. In termini semplificati i server della società resistente acquisiscono i soli dati utili alla configurazione della richiesta del singolo utente.>> (p. 7).  In altre parole <<l’acquisizione parcellizzata e non massiva dei dati, considerate anche le prestazioni svolte dalla società, è piuttosto sintomatica di un uso contingente (ogniqualvolta l’utente ne faccia richiesta), circostanza questa che affievolisce significativamente il fumus cautelare evidenziato dal giudice della tutela interinale>> (p. 8)

La decisione esaminata non appare però particolarmente coerente, in quanto sembra mescolare i requisiti per fruire della banca dati altrui non resa pubblica con quelli necessari per fruire della banca dati altrui resa pubblica. Si tratta invece di due fattispecie normativamente distinte e quindi bisogna scegliere in base a quale  di esse si giudica la fattispecie concreta. Se la fattispecie astratta è quella dell’utilizzo di parti non sostanziali di banca dati non resa pubblica, allora ci si deve riferire all’articolo 102.  Se invece la fattispecie astratta è quella dell’utilizzo di banca dati resa pubblica, allora la norma di riferimento è solamente il comma 3 dell’articolo 102. I due gruppi di norme quindi non paiono potersi reciprocamente cumulare o in qualche modo integrare .

Se  sì esamina dunque il requisito del pregiudizio ex c. 9 art. 102 bis (banca dati non resa pubblica) , non si può poi anche ragionare sulla “non sostanzialità in termini qualitativi e quantitativi” di cui al c. dell’art. 102 ter (banca dati resa pubblica)

E interessante anche il riferimento finale alla recente direttiva (UE) 2019/1024 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, relativa all’apertura dei dati e al riutilizzo dell’informazione del settore pubblico, volta a facilitare l’utilizzo (commerciale e non) dei dati in possesso delle pubbliche amministraizoni.

Alla luce di tale novità , il  giudice ritiene che ciò porti ad un’interpretazione restrittiva del concetto di “parte sostanziale”, al punto da farla quasi coincidere col concetto di “totalità”, sì da facilitare reimpiego/estrazione dei dati propri presenti nelle banche dati. Dice infatti <<quando si parla quindi di estrazione, reimpiego ovvero rielaborazione di un quantitativo di dati provenienti da soggetto a cui la disciplina comunitaria impone la massima divulgazione dei dati in proprio possesso, il concetto di “parte sostanziale” del prelievo deve essere interpretato ed applicato in conformità alla volontà del legislatore comunitario in un’ottica di sostanziale sovrapposizione fra il concetto di “totalità” e quello di “parte sostanziale”. Quindi solo la prova stringente di una sottrazione di una banca dati complessiva può fondare il rilascio di un provvedimento interdittivo>> (p. 10)

Il punto è interessante anche se delicato da risolvere. Si potrebbe dire che la normativa sulla proprietà intellettuale vada interpretata a prescindere da questa direttiva, essendo norma speciale rispetto ad essa.

Tuttavia potrebbe far inclinare per la conclusione opposta (e quindi nel senso del Tribunale romano) il  fatto che la direttiva non si applica <<ai documenti su cui terzi detengono diritti di proprietà intellettuale;>> (art. 1 § 2 lett. c, dir.). Si badi che per <<documento>> si intende <<qualsiasi contenuto, a prescindere dal suo supporto>> (art. 2 n. 6 dir.; curioso uso sinonimico di documento e contenuto).

Con la conseguenza allora che, quando invece il diritto di IP spetti all’Ente stesso, la normativa di trasparenza e accessibilità va pienamente applicata.

E’ revocabile la delibera dei soci di società consortile, che rende da obbligatorio a facoltativo per i soci stessi il ripianamento delle perdite di esercizio ex articolo 2615 ter c. 2 c.c.

Un’interessante sentenza (Appello Napoli 15.05.2019 n. 2602,  RG 274/2016; pubblicata nel sito internet del Sole 24 Ore in allegato all’articolo Delibere dell’assemblea dei soci, sì all’azione revocatoria dei creditori sul numero di oggi, p. 22 ) ha stabilito che è revocabile la delibera della società consortile di modificare lo statuto, nel senso di rendere da obbligatorio a facoltativo il rimborso annuale delle spese di funzionamento, qualora superino l’ammontare dei ricavi e dei proventi dell’esercizio stesso (art. 2615 ter c. 2 cc)

Le società consorziate avevano sostenuto che il credito non esisteva poiché sorgeva solamente con la delibera di approvazione del bilancio che preveda il ribalta il ribaltamento dei costi in eccesso a carico dei consorziati: <<i soci non rispondono illimitatamente dei debiti della società nei confronti dei debitori sociali nemmeno quando è previsto l’obbligo di contribuzione in via statutaria nascendo detto obbligo esclusivamente con l’approvazione del bilancio da parte dell’assemblea che prevede il ribaltamento a loro carico.  Errata sarebbe, inoltre, la qualificazione della delibera operata dal primo giudice come self executive poiché l’adozione della delibera aveva generato una fattispecie in fieri che al fine di produrre i propri effetti avrebbe richiesto la decisione del mancato rimborso da parte dei soci in misura proporzionale alle rispettive partecipazioni, con la quale soltanto si sarebbe configurato il mancato versamento a copertura delle perdite della società>> (§ 4)

Secondo la Corte d’Appello invece  <<solo ai fini della cogenza del debito contributivo e per la sua concreta determinazione, nel quantum, sia necessario che esso risulti da un bilancio  debitamente approvato oppure di una deliberazione che lo sostituisca ma idonea a verificare la situazione finanziaria dell’ente, posto che l’obbligo sorge con la previsione statutaria>>

Pertanto la clausola statutaria più l’emersione della perdita [quando? cioè in quale preciso momento?] avevano già fatto sorgere il credito della società verso i consorziati.

La modifica statutaria costituiva  dunque una rinunzia ad un credito già sorto (non potendosi negare inoltre la scientia damni nei soci debitori)

Sul recesso abusivo in un caso di dipendenza economica (art. 9 L. 192 / 1998)

Un’interessante sentenza del tribunale di Monza (27.12.2018, n. 3177/2018 , RG n. 2443/2018, est. : Gnani, che è pure un noto studioso del diritto civile) interviene sulla dibattuta questione.

Un fornitore della catena di supermercati sportivi Decathlon, tale Amra srl,  aveva in essere con la Decathlon oltre cinquanta contratti per l’allestimento e la messa a disposizione di spazi pubblicitari (soprattutto cartellonistica monitor e segnaletica stradale) per i negozi della costa adriatica.

Per ragioni di riorganizzazione commerciale Decathlon con un unico atto PEC del 4 ottobre 2017 recede da tutti i contratti con il preavviso pattuito  che era di mesi sei.

La Amra srl agisce in giudizio chiedendo la dichairazione di abusività del recesso ex art. 9 legge 192 del 1998 e invocando il pagamento dei corrispettivi contrattuali dovuti per tutto il 2018 e -per il periodo successivo- i danni da perdita dei contratti

Il Tribunale ravvisa la dipendenza economica, tenendo conto soprattutto che il fatturato della società verso Decathlon  ammontava ad una percentuale oscillante tra il 61,71% e il 80,99% del fatturato totale (a seconda del mese) , anche se gli investimenti fatti dal subfornitore eran caratterizzati da bassa specificità (erano teoricamente riutilizzabili con altri eventuali clienti: ipotesi perà che il Tribunale ritiene improbabile, date le dimensioni del volume di affari e la favorevole collocazione £geograficità” del rapporto).

Precisa poi che <<non si discute della possibilità di recedere, e nemmeno del termine di sei mesi che, entro il singolo contratto, può come già detto risultare congruo. Il punto è invece il recesso dato simultaneamente per tutti i contratti (oltre 50), in un unico atto.>>: ciò che è contrario a buona fede  oggettiva, secondo la consueta concezione per cui <<buona fede oggettiva implica salvaguardia della posizione contrattuale altrui, evitando un suo indebito sacrificio entro un rapporto altrimenti ingiustificatamente squilibrato. Parte convenuta legittimamente decise di risparmiare sui costi di pubblicità, investendo in più economiche forme alternative. Tuttavia, tale scelta doveva essere attuata evitando di aggravare indebitamente la posizione della propria controparte contrattuale>>.

In particolare <<la convenuta [Decathlon]  avrebbe potuto impostare un piano graduale nel tempo, di dismissione dei vari contratti in essere (comunicando recessi per ciascun contratto adeguatamente scaglionati nel tempo). A quel punto l’attrice avrebbe avuto maggior agio nel reperire alternative sul mercato che sopperissero al progressivo cessare del rapporto con Decathlon. Scegliendo la via del recesso omnibus, ha invece messo la controparte nelle condizioni di dover trovare sostituti di Decathlon nel termine di sei mesi: un termine congruo se rapportato al singolo contratto, ma di certo insufficiente se parametrato al rapporto commerciale con Decathlon visto nel suo complesso, come chiesto dall’art. 9 (non a caso l’attrice ha ben presto cessato l’attività). In sei mesi parte attrice avrebbe dovuto trovare alternative in grado di garantire un fatturato comparabile con quello Decathlon, mantenendo i contratti coi fornitori lungo tutta la costa adriatica.>>

La parte più interessante è quella delle conseguenze della nullità dell’atto di recesso.

 il giudice non concorda con la richiesta dell’attrice,, sopra cit., dato che in base a questa si farebbe finta che rapporto -stante la dichiarazione di nullità del recesso-  proseguisse come se nulla fosse: seguendo la tesi attorea, infatti, <<il recesso è nullo è il contratto prosegue normalmente -…- o si accorda un risarcimento parametrato sull’ipotetica prosecuzione del contratto>>

Invece <<è (…) possibile e doveroso ritenere che la nullità dell’art. 9 produca non il solo effetto demolitorio (pars destruens), ma pure, a valle, l’enucleazione di una regola correttiva (pars costruens).>>.

Si noti:

i)  il richiamo alla portata correttiva attribuita alla nullità anzi alla buona fede che ne costituisce la ragione;

ii) il fatto che la rideterminazione del termine di preavviso da parte del giudice avviene d’ufficio, senza alcuna domanda in tale senso dell’attrice (che aveva invece chiesto una condanna parametrata sulla ideale continuazione del rapporto). Decisione allora di problematica compatibilità con la regola della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (extra- o ultra-petizione: art. 112 cpc)

Ecco ora la parte più interessante. <<Nel caso di specie, un rimedio solo demolitorio non ripristinerebbe l’equilibrio tra le parti, andando invece a penalizzare eccessivamente la posizione della convenuta. Il recesso invero è nullo non in sé, ma per le modalità con cui è stato adottato. Non si discute della possibilità di recedere col preavviso di sei mesi — e in ciò non può Decathlon essere gravata sine die della prosecuzione di un rapporto che più non vuole — ma del fatto di aver concesso un unitario termine di sei mesi insufficiente e gravatorio dell’attrice.

 Riequilibrare l’assetto di diritti e obblighi, secondo buona fede, significa riconoscere all’attrice un termine di preavviso che le avrebbe consentito di ricollocarsi sul mercato, in luogo di un suo preteso diritto a proseguire il rapporto come se mai il recesso fosse stato azionato. In ciò venendosi a correggere secondo buona fede (art. 1366 c.c.) il regolamento negoziale del recesso (pars construens del rimedio di nullità).

 Si ritiene che un termine di preavviso fino a tutto il 31 dicembre 2018 (cioè poco più di un anno rispetto alla data del 4 ottobre 2017) sia conforme a buona fede, garantendo il contemperamento del diritto di recedere col diritto a non subire l’interruzione del rapporto.>>

In sintesi, il Tribunale: 1)  dichiara la nullità del recesso non in sè ma con le modalità (termine di preavviso) adottate da Decathlon; 2) sostituisce queste ultime con le modalità da lui ritenute secondo buona fede: in particolare sostituisce il termine semestrale di preavviso, a suo tempo pattuito per  il recesso semestrale, con un termine quasi quattordici mesi (4 ottobre 2017 – 31 dicembre 2018).

Su Foro it., 2019/9, c. 2965, oltre al testo della sentenza, c’è un’informata nota di M. Natale

La Corte di Giustizia sull’ambito del giudicato di accertamento sottostante l’inibitoria: quando ricorre “la medesima violazione” accertata illecita, che può ritenersi contenuta nell’inibitoria e che dunque la viola?

La Corte con sentenza 03.10.2019, C-18/18, Eva Glawischnig‑Piesczek c. Facebook Ireland Limited, interviene con un’attesa sentenza sull’ampiezza del giudicato coperto dall’accertamento di illiceità, sottostante all’inibitoria di comportamenti futuri.

Userò indifferentemente i termini inibitoria e ingiunzione come pure inibire/ingiungere. Injunction in common law corrisponde grosso modo alla nostra inibitoria: solo che ha un contenuto molto più ampio (Mattei U., Tutela inibitoria e tutela risarcitoria, Giuffrè, 1987, 157/8)  e in particolare può avere anche contenuto positivo (si parla infatti oltre che di prohibitory injunction , pure di mandatory injunction: voce Injunction, in A Dictionary of Law Enforcement (2 ed.) a cura di Graham Gooch and Michael Williams, Oxf. Univ. Press, 2015). Da noi invece l’inibitoria è un ordine di cessazione (inibire=vietare), anche se teoricamente si potrebbe vietare una condotta omissiva, nel caso fosse dovuta una condotta positiva (in tema di responsabilità contrattuale, dunque; da vedere in quella aquiliana): difficilmente però, in tal caso ne seguirebbe la conseguenza logica di dover tenere una condotta positiva precisamente individuata (l’intercambiabilità tra ottica positiva e negativa è però affermata da Frignani A., voce Inibitoria (azione), Enc. dir., 1971, § 7 Contenuto: <<La contraddizione è soltanto apparente, in quanto ciò che si vuole impedire per il futuro (o inibire) è l’illecito in se stesso; e non c’è dubbio che l’illecito visto sotto il profilo della condotta, possa essere sia commissivo sia omissivo secondo il tipo di obbligo violato. Di conseguenza, di fronte ad un illecito commissivo si avrà una condanna ad un non facere, mentre, invece, in presenza di un illecito omissivo si avrà una condanna ad un facere. Bisogna tuttavia rilevare che si tratta di due aspetti dello stesso fenomeno, talvolta inscindibilmente legati l’uno all’altro, talvolta addirittura intercambiabili. Infatti, da un punto di vista teorico, anche l’inibitoria positiva potrebbe sempre essere rovesciata in una inibitoria negativa. Il che è quanto dire che il giudice invece di ordinare un determinato comportamento atto a far cessare l’illecito, potrebbe ordinare la cessazione dell’illecito tout court. In altri termini, sempre in linea puramente teorica, si potrebbe affermare che tutte le inibitorie positive potrebbero risolversi in altrettante inibitorie negative>>. In breve, da noi l’inibitoria in linea di massima ha contenuto solo negativo cioè ordina un’astensione (solamente un contenuto negativo per Basilico, La tutela civile preventiva, Giuffrè, 2013, 205-216, secondo cui quando ha un contenuto positivo si tratta di tutela contro l’inadempimento contrattuale). La traduzione italiana della sentenza usa il termine ingiunzione.

A dire il vero non è chiarissimo se riguardi pure la rimozione di materiale già caricato o solo l’inibizione o blocco di caricamenti futuri . Le cose potrebbero combinarsi, dal momento che qualche caricamento potrebbe sfuggire ai filtri: quindi  potrebbe succedere di dovere rimuovere ciò che oggi non c’è sul server del provider ma che in futuro ci sarà.

I fatti storici contemplano un post diffamatorio su Facebook inerente una politica austriaca: consisteva in un link ad altro sito (del quale il post offre un’anteprima) e un commento diffamante.

La questione giuridica sorta riguarda il se eventuali futuri comportamenti identici da altra fonte, oppure anche solo equivalenti, rientrino tra quelli oggetto dell’inibitoria. Anzi più precisamente la questione è affrontata dal punto di vista del contenuto dell’inibitoria e cioè nell’ottica del giudice che deve emetterla. Ma il problema si pone anche se il giudice nulla dice in proposito (non è scontato che il dictum giudiziale in tale caso vada interpretato in modo formalistico e rigoroso).

In sostanza il giudice a quo chiede  se il diritto europeo e in particolare l’articolo 15 paragrafo 1 direttiva 31/2000 (divieto di porre obblighi di sorveglianza o di ricerca generalizzati) osti ad un’inibitoria (anzi letteralmente: ad un obbligo di rimuovere, ma come detto poi il giudice lo interpreta anche come riferito ad un ordine di bloccare l’accesso futuro) di caricamenti di informazioni future “identiche” a quelle accertati illeciti e prescindere dall’uploader (cioè da chi metta on line le informazioni stesse). Cioè identiche nel contenuto ma non nel soggetto che le metta on line.

Chiede poi se osti ad inibitoria riferite a contenuti non identici a quelli accertati illeciti ma solo “equivalenti” ad essi. Qui però la Corte stranamente non menziona più il profilo soggettivo e cioè la questione della rilevanza dell’identità o diversità dell’uploader (cioè se faccia una qualche differenza, ai fini dell’inibitoria di informazioni equivalenti, che siano caricate dall’uploader originario oppure da un soggetto terzo)

Nell’ambito di tale questione si chiede poi  se gli effetti di tale ingiunzione possono essere estesi a livello mondiale

la terza questione pregiudiziale non è ben chiara e sembra riferita al dovere di trattamento di informazioni illecite non identiche bensì equivalenti , appena il gestore ne sia venuto a conoscenza: e cioè a prescindere, sembrerebbe, dal soggetto che glielo notifica. Di questa domanda , data la sua scarsa comprensibilità, non mi occupo (l’intero set delle questioni pregiudiziali non è però scritto o tradotto in modo molto chiaro).

Circa la prima domanda pregiudiziale la Corte afferma che il giudice può legittimamente esigere il blocco dell’accesso alle informazioni identiche a quelle già accertati illecite, a prescindere da chi sia l’uploader (<< qualunque sia l’autore della richiesta di memorizzazione>> par. 37).

E’ abbastanza semplice  arrivare a questa conclusione, dal momento che è certo che non ricorre il concetto di sorveglianza/ricerca generale ex art. 15 dir., unico aspetto rilevante presso la Corte .

Più complesso è il secondo quesito, relativo alla possibilità di inibire anche permanenza o caricamenti  di materiali o informazioni dal contenuto equivalente anziché identico a quello già accertato illecito

(si dovrebbe distinguere, dato che si può ordinare di : i) evitare caricametni futuri; ii) far permanere caricamenti passati già effettuati; iii) far permanere caricamenti futuri che venissero effettettuati nonostante i filtri perchè in violazione o comunque in superamento degli stessi)

Il giudice europeo ritiene che l’ingiunzione, per essere effettiva e cioè per far effettivamente cessa l’illecito/impedirne il reiterarsi, deve  potersi estendere alle informazioni equivalenti: cioè a quelle che recano sostanzialmente il medesimo messaggio, anche se formulato in modo leggermente diverso. Precisamente dice <<deve potersi estendere alle informazioni il cui contenuto, pur veicolando sostanzialmente lo stesso messaggio, sia formulato in modo leggermente diverso, a causa delle parole utilizzate o della loro combinazione, rispetto all’informazione il cui contenuto sia stato dichiarato illecito. Diversamente infatti, e come sottolineato dal giudice del rinvio, gli effetti inerenti a un’ingiunzione del genere potrebbero facilmente essere elusi tramite la memorizzazione di messaggi appena diversi da quelli dichiarati illeciti in precedenza, il che potrebbe condurre l’interessato a dover moltiplicare le procedure al fine di ottenere la cessazione dei comportamenti illeciti di cui è vittima>> (par.  41).

La Corte però ricorda che la tutela del soggetto le Ieso non è assoluta e deve conciliarsi con le esigenze di non imporre obblighi eccessivi al provider: è questa la ragione dell’articolo 15 comma 1 dir. 31 (§ 44). In applicazione di questo criterio, allora, afferma che le informazioni “equivalenti” sono quelle che <<contengono elementi specifici debitamente individuati dall’autore dell’ingiunzione>> (cioè dal giudice),  <<quali il nome della persona interessata dalla violazione precedentemente accertata, le circostanze in cui è stata accertata tale violazione nonché un contenuto equivalente a quello dichiarato illecito>> (§ 45). Si precisa pure che <<differenze nella formulazione di tale contenuto equivalente rispetto al contenuto dichiarato illecito non devono, ad ogni modo, essere tali da costringere il prestatore di servizi di hosting interessato ad effettuare una valutazione autonoma di tale contenuto>> (§ 45).

Ora, che debba esserci equivalenza anzi identità circa il nome della persona interessata (l’aggredito) e  equivalenza circa le circostanze relative alla violazione (nel caso: opinioni sulla politica di accoglimetno dei migranti) è condibvisibile e potrebbe essere non difficile da accertare in concreto. Potrebbe invece essere difficile accertare  l’equivalenza circa il resto del contenuto e cioè il giudizio negativo e diffamante sulla persona.

La Corte lodevolmente cerca di ridurre il margine di opinabilità e tutelare quindi la libertà imprenditoriale del provider, in mancanza di uno specifico Safe Harbor per la fase esecutiva delle inibitorie (non menziona la libertà di espressione e di inoformazine dell’uploader: probabilmente dato che in thesi si tratta di caricamente di materiali illeciti). Precisa che << la sorveglianza e la ricerca che richiede sono limitate alle informazioni contenenti gli elementi specificati nell’ingiunzione>> e che la ricerca dell’equivalenza non può <<il prestatore di servizi di hosting ad effettuare una valutazione autonoma, e quest’ultimo può quindi ricorrere a tecniche e mezzi di ricerca automatizzati>>: cioè par di capire deve essere palese, ictu oculi rilevabile (non dal soggetto medio di un certo paese ma dal livello medio di professionalità di un operatore del medesimo settore professionale) e deve essere verificabile invia automatica.

Inoltre il dovere è limitato , si badi, alle informaizoni <<contenenti gli elementi specificati nell’ingiunzione>>.

Il passaggio è importante: ad es in relazione alla norma italiana (assente nella direttiva) del 17 comma 3, D. LGS. 70/2003, che afferma la responsabilità civile per chi, richiesto dall’autorità, non abbia prontamente impedito l’accesso oppure, avendo comunque avuto conoscenza dell’illiceità, non ha informato l’autorità stessa. In particolare il riferimento è al primo caso: la violazione di una inibitoria inftti può avvenire anche quando il provider sbagli nella valutazione e ritenga non rientrare nel concetto di equivalenza ciò che invece ex post si accerta rientrarvi. In tal caso infatti  si avrebbe una mancanza di blocco dell’accesso, pur se richiesto dall’autorità: quindi integrandosi la fattispecie posta dal 17 comma 3 punto

In tal modo dice la CG l’ingiunzione non contrasta col divieto di sorvegnlianza rierca generale (§ 47).

La Corte però e sorprendentemente non dedica alcuna riga -salvo errore ad una prima lettura- a specificare se il dictum sull’inbitoria di conteuti equivalenti valga solo verso il medeismo soggetto già ritenuto autore dell’illecito o anche verso terzi. Dico sorprendentemente perchè la distinzione era stata fatta in modo netto dal’AG. Nè lo si capisce dal concetto di equivalenza: questo contiene anche il profilo soggettivo e, se si, lo ritiene discriminante o no? Il che è probabilmente una conseguenza dell’aver sin dall’inizio impostato le questioni pregiudiziali senza dare attenzione a questo punto, come si è segnlato sopra.

L’impressione traibile dal ragionamento svolto, però, è che la Corte ritenga compatibile col diritto UE  l’inibitoria riferita a condotte equivalenti a prescindere da chi possa caricare i materiali illeciti :  cioè non solo se caricati dall’autore del caricamento già accertato illecito, ma da chiunque

Circa la possibilità di inibitorie a livello mondiale il giudice dice che la Direttiva 31 non osta alla stessa. Saggiamente però fa presente -anche se in maniera non chiarissima (più chiaro è il relativo passaggio dell’AG) che  va tenuta in considerazione la coerenza della normativa dell’UE con le norme internazionali: in particolare aggiungerei -sulla scia di quanto detto dall’avvocato generale- il rapporto con la sovranità che gli altri stati esercitano sui loro territori e popolazioni. Pretendere infatti di bloccare caricamenti, che possono avvenire da qualunque parte del mondo, potrebbe essere ritenuto incompatibile con le sovranità nazionali sugli altri territori e con le rispettive legislazioni,le quali possono essere diverse (§ 100). E’ il problema delle cross-borders injuntions e cioè della possibilità di effetti extraterritoriali di un provvedimento giudiziale (analogamente, direi, al caso di esecizio della sovranità tramite non  l’organo giudiziario ma tramite quello legislativo e cioè tramite  una norma di legge che pretendesse di applicarsi anche all’estero): non nuovo nel dibattito giuridico.

La struttura del ragionamemento sul punto è analoga a quella della recente sentenza nel caso Google c. Commission nationale de l’informatique et des libertés (CNIL), del 24.09.2019, C-507/17 sul c.d. delisting nazionale, europeo o mondiale (l’analogia è negata da Andrej Savin  nel suo  EU Internet Law & Policy Blog , The CJEU Facebook Judgment on Filtering with Global Effect: Clarifying Some Misunderstandings 4 ottobre 2019). In entrambi i casi la Corte dice che il delisting mondiale non è contrario a specifiche norme di diritto UE, ma non è nemmeno imposto. dalle stesse (anche qui assai più utili sono le  Conclusioni dell’AG  10.01.2019, che guarda caso è il medesimo)

Passiamo alle conclusioni dell’avvocato generale (poi: AG) 04.06.2019, un po’ più articolate.

Dopo aver chiarito che il provider è soggetto ad ingiunzioni anche se non è responsabile delle informazioni e che la disciplina delle ingiunzioni spetta e diritti nazionali (§§  32-33), affronta il divieto di obbligo generale in materia di sorveglianza.

Ricorda che questo va inteso come sorveglianza sulla totalità o quasi totalità dei dati di tutti gli utenti del suo servizio ti richiama con ciò le sentenze L’Oreal e Scarlett x-tended (§ 35 ).

Qui introduce un’osservazione sulla cui esattezza bisognerebbe ragionare. Dice che se uno Stato potesse imporre una sorveglianza generale, il provider perderebbe il suo carattere tecnico, automatico e passivo e cioè non sarebbe più neutro (§ 36). il punto è discutibile, dal momento che, se la sorveglianza avviene tramite sistemi di filtraggio automatico, la passività del’ISP rimane. Mi  pare tuttavia una questione poco importante, dal momento che il divieto di sorveglianza/ricerca generale è posto dalla legge.

Inoltre l’AG dice che, anche non concordando con ciò, un provider che esercitasse sorveglianza generale potrebbe  essere ritenuto responsabile di qualsiasi informazione illecita, senza rispettare quindi le lettere a e b nel paragrafo 1 articolo 14 punto (§ 37). L’affermazione appare poco lineare e poco pertinente. Da un lato egli sarebbe responsabile non tanto delle informazioni ilecite, quanto del divieto della violazione di questo divieto di sorveglianza, cosa diversa. Dall’altro e soprattutto, ha poco senso ipotizzare uno scenario fattuale di sorveglianza/ricerca generale  che cozzerebbe con lo safe harbour dell’art. 14: lo avrebbe se mancasse un divieto di dovere di sorveglianza/ricerca generale, il quale invece c’è ed è espresso.

Il punto importante è la conclusione di questo passaggio (§ 40), secondo cui dal 14 paragrafo 3 dell’articolo 15 un obbligo imposto da uno Stato nazionale al provider tramite in ingiunzione non può avere la conseguenza di renderlo non più neutro rispetto alla totalità o quasi totalità delle informazioni memorizzate.

L’affermazione non mi pare esattissima perché confonde il fatto col giudizio, che vanno invece tenuti ben distinti. Il fatto è che il dovere di vigilanza riguarda tutte o quasi le informazioni e di tutti gli utenti: il che è condivisibile. Costituisce invece un giudizio il “rendere il provider  non più neutro”. Prima viene il fatto da valutare e poi viene la valutazione del fatto .

Al paragrafo 41 ricorda che si può senz’altro inibire una violazione futura e che ciò non contrasta con  il divieto di sorveglianza generale (§ 41).

Su questo non ci sono dubbi: il dato normativo non è equivoco.

Ricorda poi ai paragrafi 43 e 44 la sentenza L’Oréal che ha legittimato le inibitorie di “nuove violazioni della stessa natura da parte dello stesso commerciante nei confronti degli stessi marchi” (C. G. 12.07.2011,  C‑324/09, L’Oreal ed altri c. eBay, § 141.

Quindi un provider può essere costretto a rimuovere informazioni illecite non ancora diffuse, senza che la diffusione venga portata nuovamente a sua conoscenza tramite comunicazione ad hoc e in maniera separata rispetto alla domanda iniziale (AG § 44). il che sembra voler dire che non serve una nuova contestazione ed eventualmente un nuovo processo.

Deve trattarsi però di violazioni della stessa natura, dello stesso destinatario e nei confronti degli stessi diritti: § 45. Qui c’è forse una ripetizione poiché violazioni della stessa natura e nei confronti degli stessi diritti dicono forse la stessa cosa: una violazione del medesimo diritto costituirà spesso una violazione della stessa natura e così forse pure per il reciproco. Tuttavia dato il tasso di genericità dei concetti di “stessa natura” e “stessi diritti”, è inopportuno soffermarvisi, anche se nella pratica il profilo sarà assai importante.

In ogni caso l’AG ricorda e richiama le sue conclusioni nella causa McFadden C-484/14, § 132, in cui si dice che l’obbligo inibitorio “in casi specifici” (cons. 47 dir. 31) deve essere delimitato per l’oggetto e per la durata. Questi requisiti generali sono adattabili al caso specifico, prosegue l’AG, relativo ad un post su Facebook. dato che un host provider -quale FB- è in condizioni migliori per adottare misure di ricerca ed eliminazione informazioni illecite rispetto al fornitore di accesso (§  48).

Affronta poi (§ 49) il requisito della limitazione temporale, richiamando le sentenze L’Oréal, § 140, e Netlog, § 45 (dove però si legge <<implica una sorveglianza, nell’interesse di tali titolari, sulla totalità o sulla maggior parte delle informazioni memorizzate presso il prestatore di servizi di hosting coinvolto>>, mentre in L’Oreal l’ingiunzione era riferita solo ai marchi in causa). Dice che un obbligo di sorveglianza permanente è difficilmente conciliabile con il concetto di obbligo “applicabile a casi specifici” ai sensi del cons. 47 dir. 31.

L’affermazione non persuadegranchè , dal momento che l’inibitoria concernente un solo cliente, se non addirittura una singola opera o opere determinate, anche se illimitato nel tempo, non  può rientrare nel concetto di “sorveglianza/ricerca  generale”.

Potrebbe semmai confliggere con la necessità che le misure siano proporzionate e soggette a termini ragionevoli (art. 3 § 2 e § 1 della dir. 48/2004).

La sintesi è al § 50: <<Di conseguenza, il carattere mirato di un obbligo in materia di sorveglianza dovrebbe essere previsto prendendo in considerazione la durata di tale sorveglianza, nonché le precisazioni relative alla natura delle violazioni considerate, al loro autore e al loro oggetto. Tutti siffatti elementi sono interdipendenti e connessi gli uni agli altri. Essi devono essere pertanto valutati in maniera globale al fine di rispondere alla questione se un’ingiunzione rispetti o meno il divieto previsto all’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2000/31>> Rimarco il cenno al limite temporale della misura, poco trattato nei discorsi giuridici in tema: le inibitorie dovranno contenerlo  e sarà interessante vedere in concreto come verrà quantificato.

Ai §§  51-53 ripropone una sintesi del percorso svolto fino a quel momento.

Successivamente va al cuore del quesito sottoposto alla corte. Affronta il primo, il più semplice, cioè quello delle informazioni identiche dallo stesso utente o anche da altri utenti. Tenendo conto che si tratta di un’ordinanza cautelare [il che però appare irrilevante]  e che esistono strumenti informatici tali per cui l’attività del provider non consiste in un filtro attivo e non automatico, l’AG ammette la compatibilità col divieto di sorveglianza generale dell’inibitoria per violazioni identiche a carico e provenienti da qualunque utente (§§ 57 61). Sul punto  èstato quindi seguito dalla CG.

Poi affronta l’inibitoria su contenuti equivalenti. Ancora una volta, è questo il passaggio più importante e delicato

Ricorda che dalla domanda di pronuncia pregiudiziale il concetto di informazione equivalente <<riguarda le informazioni che divergono a malapena dall’informazione iniziale o le situazioni in cui il messaggio resta, in sostanza, immutato. Intendo tali indicazioni nel senso che una riproduzione dell’informazione qualificata come illecita, la quale contenga un errore di battitura, nonché quella che presenti una sintassi o una punteggiatura diverse, costituisce un’«informazione equivalente»>> (§ 67)

Poi ricorda che le violazioni in materia di proprietà intellettuale sotto questo profilo sono diverse delle violazioni dell’onore (diffamazioni). Infatti è più frequente nelle violazioni del primo tipo che ci sia la ripetizione della condotta accertata illecita,  mentre questo è insolito per le diffamazioni. In questa ultime dunque il riferimento ad atti della stessa natura non può svolgere lo stesso ruolo che svolge in materia di violazione della proprietà intellettuale : §§ 69-70. Altro punto non secondario: trovare il nucleo del fatto lesivo in una violazione di autore sarebbe più semplice che in una di diffamzione.

Sembra puoi dire che il riferimento a informazioni “equivalenti” incide sulla ampiezza dell’obbligo di sorveglianza e dunque che -se opportunamente modulato- rispetta il divieto di sorveglianza generale. Un giudice quindi in via inibitoria può statuire sulla rimozione di informazioni equivalenti ma <<deve (…) rispettare il principio della certezza del diritto e garantire che gli effetti di tale ingiunzione siano chiari, precisi e prevedibili.Nel farlo, tale giudice deve ponderare i diritti fondamentali coinvolti e tenere conto del principio di proporzionalità.>> (§ 72) .  Il suggerimento è astrattamente giusto ma generico e non aiuta ad applicarlo in concreto.

Pertanto, alla luce di  questa considerazione, al provider può essere  ordinato di individuare informazioni equivalenti a quella illecita, se provenienti dallo stesso utente: §  73

L’avvocato generale nega invece la possibilità di inibire caricamenti o permanenza di informazioni illecite equivalenti a carico di utenti diversi (qui non seguito dalla CG la quale -salvo errore- non fa la distinzione tra stesso utente/diverso utente). Questo perché <<73. (…) richiederebbe la sorveglianza della totalità delle informazioni diffuse attraverso una piattaforma di rete sociale. Orbene, a differenza delle informazioni identiche a quella qualificata come illecita, le informazioni equivalenti a quest’ultima non possono essere individuate senza che un host provider ricorra a soluzioni sofisticate. Di conseguenza, non soltanto il ruolo di un prestatore che esercita una sorveglianza generale non sarebbe più neutro, nel senso che non sarebbe soltanto tecnico, automatico e passivo, ma tale prestatore, esercitando una forma di censura, diverrebbe un contributore attivo di tale piattaforma. 74.      Inoltre, un obbligo di individuare informazioni equivalenti a quella qualificata come illecita provenienti da qualsiasi utente non assicurerebbe un giusto equilibrio fra la protezione della vita privata e dei diritti della personalità, quella della libertà d’impresa, nonché quella della libertà di espressione e di informazione. Da un lato, la ricerca e l’individuazione di siffatte informazioni richiederebbero soluzioni costose, le quali dovrebbero essere elaborate e introdotte da un host provider. Dall’altro, l’attuazione di siffatte soluzioni darebbe luogo ad una censura, con la conseguenza che la libertà di espressione e di informazione potrebbe essere sistematicamente limitata>>.

L’affermazione lascia un pò perplessi. Inibire contenuti equivalenti a quelli specificamente accertati illeciti non significa imporre un dovere di sorveglianza/ricerca generale, come era invece ad es. nel caso Sabam Netlog. E’ vero che nel caso qui sub iudice riguarda tutti gli utenti, ma solo circa i contenuti equivalenti a quelli accertati illeciti: quindi inibisce in modo molto specifico.

Secondo l’AG la ricerca delle informazioni equivalenti impone soluzioni sofisticate e quindi richiedenti investimenti finanziari.  Dal che seguirebbe che il suo ruolo non solo non sarebbe più neutro ma, esercitando una forma di censura, diventerebbe un contributore attivo della piattaforma.

Affermazione però poco condivisibile, poiché lo stesso avviene anche quando il controllo sulle informazioni equivalente riguarda un solo utente (quello autore del illecito o altro non conta). L’aumentare il numero delle persone sorvegliate, se il meccanismo è automatico, non rende il ruolo del provider attivo anziché passivo. Il filtraggio è automatico o per tutti o per nessuno: non può esserlo solo per uno o pochi e non per la genralità. Diverso sarebbe se avvenisse in via umana e manuale: allora sì farebbe la differenza il numero dei soggetti da sorvegliare. Così pure la necessità di adottare soluzioni tecnicamente sofisticate non ha nulla a che fare con la generalità della sorveglianza. questa concerne l’ambito oggetivo del controllo, non l’entità dei mezzi finanziari per realizzarlo. I mezzi finanziari per conseguire gli strumenti tecnici hanno a che fare con il livello di diligenza che è cosa diversa dal dato oggettivo della delimitazione dell’ambito da sottoporre a controllo.

Poi passa ad esaminare la possibilità di estendere l’inibitoria anche a livello mondiale. l’AG affronta quindi la questione della extraterritorialità del provvedimento di rimozione. La soluzione è negativa nel senso che -par di capire- è meglio che il giudice si autolimiti alla sfera dello Stato a cui appartiene, anche se astrattamente e formalmente la normative UE non vi osterebbe.

Ciò sulla base soprattutto dei seguenti argomenti, se ben capisco (ma il punto è complesso, richiedendosi un approfondimento internazionalprocessualistico): i) sarebbe di difficilissima attuazione pratica, se si segue l’insegnamento di C.G. 17.10.2017, C-194/16, Bolagsupplysningen OÜ-Ilsjan c. Svensk Handel AB, secondo cui la domanda di rimozione va posta al giudice competente a decidere sul risarcimento totale del danno (anzichè frazionato per Stato), il  quale giudicherebbe in base a una o più leggi applicabil (§§ 96): ed un giudice con competenza “totale” sarebbe difficile da trovare.

ii) Inoltre toccherebbe al soggetto leso dimostrare che l’informazione illecita secondo la legge applicabile delle norme di conflitto dello Stato europeo è tale pure secondo tutte le leggi potenzialmente applicabili (§97)? Onere improbo!

iii) Infine un ulteriore ostacolo consiste nel fatto che la tutela dei diritti fondamentali, antagonisti di quello azionato in giudizio può essere diversa nei vari Stati (§ 98-99): col rischio che in questi si rischierebbe di proibire l’accesso ad informazioni e quindi conculcare il diritto di informazione che è invece ammesso in base a quel medesimo Stato (§ 98/99).

In conclusione <<il giudice di uno Stato membro può, in teoria, statuire sulla rimozione di informazioni diffuse a mezzo Internet a livello mondiale. Tuttavia, a causa delle differenze esistenti fra le leggi nazionali, da un lato, e la tutela della vita privata e dei diritti della personalità da esse prevista, dall’altro [per inciso: distinzione superflua, dato che la tutela è prevista nelle leggi degli Stati] , e al fine di rispettare i diritti fondamentali ampiamente diffusi, un siffatto giudice deve adottare piuttosto un atteggiamento di autolimitazione. Di conseguenza, nel rispetto della cortesia internazionale, menzionata dal governo portoghese, tale giudice dovrebbe limitare, per quanto possibile, gli effetti extraterritoriali delle sue ingiunzioni in materia di pregiudizio alla vita privata e ai diritti della personalità (52). L’attuazione di un obbligo di rimozione non dovrebbe eccedere quanto necessario ad assicurare la protezione della persona lesa. Pertanto, invece di cancellare il contenuto, detto giudice potrebbe, se del caso, ordinare la disabilitazione dell’accesso a tali informazioni con l’ausilio del blocco geografico>> (§ 100).

Sull’ultima affermazione, mi  chiedo -ai fini della tutela del diritto all’informazione degli utenti- che differenza ci sia tra il dovere di rimuovere e il dovere di bloccare gli accessi: in entrambi infatti gli utenti interessati non possono accedere a quelle informazioni,.

Sulla bancarotta fraudolenta documentale

Circa il reato in oggetto la Corte di Cassazione offre una messa a punto dell’elemento oggettivo.

Si legge questo al punto 2.1 di Cass. pen., V, n. 32867 del 15.05.2019 (ud.)-22.07.2019 (dep.):

<<In particolare, nel delitto di bancarotta fraudolenta documentale, l’interesse tutelato non è circoscritto ad una mera informazione sulle vicende patrimoniali e contabili della impresa, ma concerne una loro conoscenza documentata e giuridicamente utile, sicchè il delitto sussiste, non solo quando la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari del fallito si renda impossibile per il modo in cui le scritture contabili sono state tenute, ma anche quando gli accertamenti, da parte degli organi fallimentari, siano stati ostacolati da difficoltà superabili solo con particolare diligenza (Sez. 5 n. 1925 del 26/09/2018, Rv. 274455)>>

Significativa è l’affermazione, per cui non rileva solo l’impossibilità di ricostruire gli affari del fallito, ma anche la semplice “difficoltà” di farlo, qualora sia superabile solamente con  una particolare diligenza.

Dunque e a contrario,  l’elemento oggettivo non ricorre se la difficoltà è invece superabile con una diligenza “modesta”.

L’aggettivo “particolare” parrebbe infatti da intendere appunto come “signficativa”, “apprezzabile”, “non modesta” etc..

Il consenso ai cookie non può avvenire tramite deselezione ma solo tramite selezione. Inoltre il venditore deve avvisare sulla durata dell’attività dei cookie e sulla loro accessibilità da parte di terzi

La Corte di Giustizia in data odierna si è pronunciata in materia di consenso al trattamento dati costituito dal deposito di file c.d. cookie nel pc dell’utente (sentenza 1 ottobre 2019, C-673/17, Bundesverband der Verbraucherzentralen und Verbraucherverbände – Verbraucherzentrale Bundesverband eV contro Planet49 GmbH).

In particolare ha detto che non è conforme alla disciplina europea l’impostazione, secondo cui l’utente dà il consenso deselezionando una casella di assenso già preimpostata come selezionata (una sorta di opt out), anzichè selezionando una casella bianca (opt in).

Il requisito della «manifestazione» della volontà della persona interessata, infatti, evoca chiaramente un comportamento attivo e non passivo: e il consenso espresso mediante una casella di spunta preselezionata non implica un comportamento attivo da parte dell’utente di un sito Internet (§ 52).

Secondo la Corte ciò è ancora più esatto con il reg. 679 del 2016 c.d. GDPR, visto che qui per «consenso dell’interessato» si intende <<qualsiasi manifestazione di volontà libera, specifica, informata e inequivocabile dell’interessato, con la quale lo stesso manifesta il proprio assenso, mediante dichiarazione o azione positiva inequivocabile, che i dati personali che lo riguardano siano oggetto di trattamento>> (art .4 n. 11 reg.) (§§ 60-62 sentenza).

Tuttavia secondo la Corte ciò era desumibile già dalla dir. 46 del 1995,  laddove chiedeva un consenso manifestato in maniera inequivocabile (art. 7 lett. a). Anzi era desumibile già solo dalla necessità di manifestazione di un consenso (art. 2  lett. h), tale non potendo essere un atteggiamento passivo (§§ 51-55 sentenza).

La Corte invoca poi a favore di questa opinione pure l’art. 5 § 3 della dir. 2002/58, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche (direttiva relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche). Secondo tale norma, l’archiviazione di informazioni o l’accesso ad informazioni già archiviate è  lecito solo <<a condizione che l’abbonato o l’utente in questione abbia espresso preliminarmente il proprio consenso>> (§ 56 sentenza)

Con altra questione pregiudiziale, poi, il giudice del rinvio chiedeva se l’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2002/58 dovesse essere interpretato nel senso che tra le informazioni da comunicare all’utente di un sito Internet rientrano anche il periodo di attività dei cookie, nonché la possibilità o meno per i terzi di avere accesso a tali cookie.

La risposta è stata positiva su entrambi i punti: il fornitore deve comunicare sia la durata della permanenza dei file nel pc dell’utente (non solo della loro attività direi, non potendosi ammettere un cookie presente ma silente, senza consenso), sia la possibilità di accesso di terzi.

Ciò è del resto ineludibile, in base al disposto dell’articolo 10, lettera c), della direttiva 95/46, nonché all’articolo 13, paragrafo 1, lettera e), del reg. 2016/679.

Breve nota di A. Reinalter-S- Vale, Cookie e consenso dell’utente,  in Giur. it., 2020-1, 79 ss