Decisione automatizzata della Pubblica Amministrazione e divulgazione (accessibilità) dell’algoritmo sottostante

Iniziano ad aumentare i casi di richiesta di accesso all’algoritmo utilizzato per l’emissione di provvedimenti amministrativi.

Ls sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 13.12.2019, n. 8472/2019, Reg. Ric. 2936/2019, è molto interessante perchè analizza il ruolo dell’algoritmo nell’azione amministrativa, affermandone la piena utilizzabilità, dati gli evidenti vantaggi (§§ 7-11).

Ne afferma anche però la piena soggezione al principio di trasparenza (§ 13.1)

Nel caso specifico alcuni docenti hanno contestato i provvedimenti di assegnazione delle sedi, resi sulla base di un algoritmo sconosciuto, sopratutto perchè non avevano tenuto conto delle preferenze da loro espresse in domanda, nonostante i posti preferiti fossero disponibili (§ 1).

Nè <<in senso contrario … può assumere rilievo l’invocata riservatezza delle imprese produttrici dei meccanismi informatici utilizzati i quali, ponendo al servizio del potere autoritativo tali strumenti, all’evidenza ne accettano le relative conseguenze in termini di necessaria trasparenza >> (ivi).

L’espressione pare da intendere nel senso che l’invocazione della riservatezza (tecnicamente: la non riproducibilità causata dalla vigenza di diritto di autore)  va disattesa. Infatti l’impresa, che “negozia” con la PA la realizzazione e consegna di software, sa che il suo uso sarà soggetto agli obblighi di trasparenza dell’azione amministrativa.

Sorgono dubbi circa la proprietà intellettuale.  L’affermazione può forse condividersi quando negli atti negoziali (o amministrativi) di affidamento dell’incarico nulla sia detto in proposito. Se però la fornitrice fosse riuscita ad imporre il divieto assoluto di divulgazione dell’algoritmo, quid iuris? L’interesse pubblico alla trasparenza amministrativa dovrebbe di certo prevalere sull’interesse privato tutelato con la privativa di autore: ma su quale base giuridica?

A fini pratici, inoltre, il CdS ne afferma sì la soggezione alla disciplina del procedimento amministrativo, ma con gli opportuni adattamenti  (§ 16): <<l’amministrazione, nel presente contenzioso, si è limitata a postulare una coincidenza fra la legalità e le operazioni algoritmiche che deve invece essere sempre provata ed illustrata sul piano tecnico, quantomeno chiarendo le circostanze prima citate, ossia le istruzioni impartite e le modalità di funzionamento delle operazioni informatiche se ed in quanto ricostruibili sul piano effettuale perché dipendenti dalla preventiva, eventualmente contemporanea o successiva azione umana di impostazione e/o controllo dello strumento. In tal senso la sentenza può essere confermata ma con diversa motivazione. Infatti, l’impossibilità di comprendere le modalità con le quali, attraverso il citato algoritmo, siano stati assegnati i posti disponibili, costituisce di per sé un vizio tale da inficiare la procedura, in termini analoghi e coerenti rispetto al precedente della sezione più volte citato che, tuttavia, in parte se ne differenziava essendo state provate singole violazioni di legge mentre qui la censura finisce per involgere il metodo in quanto tale per il difetto di trasparenza dello stesso. Ciò ha trovato indiretta conferma dall’avvenuta esecuzione della sentenza appellata, in termini satisfattivi delle posizioni azionate>>.

Commentando la decisione, la dottrina ha evidenziato quattro garanzie (requisiti) per il legittimo ricorso alla decisione algoritmica: conoscibilità, trasparenza, partecipazione e sindacabilità. Circa le prime due, ha precisato che <<si deve poter accedere quanto meno ai seguenti elementi: a) creatori del software; b) criteri utilizzati per la sua  elaborazione; c) modalità di svolgimento della fase istruttoria procedimentale; d) criteri utilizzati per l’adozione della decisione>> (Dalfino, Decisione amministrativa robotica ed effetto performativo. Un beffardo algoritmo per una “buona scuola”, 13.01.2020, Questionegiustizia.it , § 3).

Del resto la P.A. deve fornire ai soggetti “trattati” (i cui dati sono trattati) <<informazioni necessarie per garantire un trattamento corretto e trasparente>>, relative all’ <<esistenza di un processo decisionale automatizzato, compresa la profilazione di cui all’articolo 22, paragrafi 1 e 4, e, almeno in tali casi, informazioni significative sulla logica utilizzata, nonché l’importanza e le conseguenze previste di tale trattamento per l’interessato>> (art. 13.2.f; art. 14.2.g; art. 15.1.h, GDPR reg. 679/2016).

La direttiva sulla tutela dei segreti commerciali (dir. UE 94372015), del resto, pone la riserva per cui <<La presente direttiva non dovrebbe pregiudicare l’applicazione delle norme dell’Unione o nazionali che prevedono la divulgazione di informazioni, inclusi i segreti commerciali, … alle autorità pubbliche, né essa dovrebbe pregiudicare l’applicazione delle norme che consentono alle autorità pubbliche di raccogliere informazioni per lo svolgimento dei loro compiti>> (cons. 11): compiti tra cui c’è amministrare la giustizia.

Questa sentenza ne cita un altra della medesima sezione sesta, diverso estensore, molto simile come fattispecie da esaminare e come iter ed esito decisionale: Cons. Stato sez. VI, 08.04.2019, n. 2270/2019, Reg. Ric.  4477/2017 , della quale riporto i seguenti passaggi:

  • utilità e legittimità del processodecisionale automatico, § 8.1;
  • necessità però di sottostare alla disciplina comune del procedimento amministrativo, per cui il <<In definitiva, dunque, l’algoritmo, ossia il software, deve essere considerato a tutti gli effetti come un “atto amministrativo informatico”>>, § 8.2. Ne seguono due conseguenze:
  • primo: <<il meccanismo attraverso il quale si concretizza la decisione robotizzata (ovvero l’algoritmo) deve essere “conoscibile”, secondo una declinazione rafforzata del principio di trasparenza, che implica anche quello della piena conoscibilità di una regola espressa in un linguaggio differente da quello giuridico. Tale conoscibilità dell’algoritmo deve essere garantita in tutti gli aspetti: dai suoi autori al procedimento usato per la sua elaborazione, al meccanismo di decisione, comprensivo delle priorità assegnate nella procedura valutativa e decisionale e dei dati selezionati come rilevanti>>, § 8.3
  • secondo: <<la regola algoritmica deve essere non solo conoscibile in sé, ma anche soggetta alla piena cognizione, e al pieno sindacato, del giudice amministrativo. La suddetta esigenza risponde infatti all’irrinunciabile necessità di poter sindacare come il potere sia stato concretamente esercitato, ponendosi in ultima analisi come declinazione diretta del diritto di difesa del cittadino, al quale non può essere precluso di conoscere le modalità (anche se automatizzate) con le quali è stata in concreto assunta una decisione destinata a ripercuotersi sulla sua sfera giuridica>>,  § 8.4.

In altre parole, secondo il C.d.S. questo comporta <<che la traduzione della regola tecnica in regola giuridica avvenga in modo chiaro per l’utente e per il giudice che deve verificarne la legittimità, in un’ottica di trasparenza “irrobustita”; sganciata da schemi predefiniti e orientata unicamente a garantire il risultato della massima spiegabilità. Per rispettare il concetto di massima trasparenza e dunque consentire di attuare quel meccanismo di spiegabilità che consiste nella traduzione della formula tecnica nella regola giuridica a essa sottesa, non basta fornire le istruzioni del software ma occorre che siano resi noti i suoi autori, il procedimento utilizzato per la sua elaborazione, il meccanismo di decisione, comprensivo delle priorità assegnate nella procedura valutativa e decisionale e dei dati sele-zionati come rilevanti: in altri termini, il linguaggio sorgente del software. Infatti, gli algoritmi funzionano attraverso appositi software, cioè programmi informatici specifici. A ben vedere, il fulcro della sentenza del Consiglio di Stato sta proprio in questo passaggio argomentativo e nell’accezione “sostanziale” di trasparenza che propone. Non vi è alcun ostacolo giuridico all’utilizzo dell’algoritmo nei procedimenti amministrativi che, anzi, si pone del tutto in linea con il favor generale dell’ordinamento per la digitalizzazione degli uffici pubblici>> (cosi Nicotra-Varone , L’algoritmo, intelligente ma non troppo, in Rivista A.I.C., 2019/4, 22.11.2019, p. 15, a commento di Cons. Stato n. 2270/2019).

L’attività di bilanciamento degli interessi allora dovrà essere compiuta dalla PA a monte e cioè in sede di costruzione dell’algoritmo (V. Canalini, L’algoritmo come “atto amministrativo informatico” e il sindacato del giudice,  nota a C.S. 2270 del 2019, Giorn. dir. amm., 2019, 6, 784).

La dottrina riporta un esito opposto in un caso simile da parte del BGH: <<Nell’ordinamento tedesco, una pronuncia del Bundesgerichtshof ha affrontato la specifica questione dell’incidenza della tutela del segreto sul diritto di accesso alla logica del trattamento automatizzato in relazione a un sistema di scoring sulla affidabilità creditizia . La richiesta di un soggetto interessato ad accedere alle informazioni relative alla logica del sistema di scoring e dunque alle informazioni sui metodi della valutazione dell’affidabilità creditizia, è stata da ultimo respinta dalla Corte federale tedesca. I giudici hanno affermatocome il diritto di accesso alla logica utilizzata dal trattamento automatizzato debba essere interpretato come comprensivo unicamente di dati personali che sono stati rilevanti ai fini del trattamento (input) e della decisione conseguente (output), ma non le formule di scoring, i dati statistici e le informazioni relative ai cluster di riferimento>> (Schneider G., <<Verificabilità>> del trattamento automatizzato dei dati personali e tutela del segreto commerciale nel quadro europeo, in Merc. concorr. regole, 2019, 2, 375). Bisognerebbe però vedere di quale ente si trattava: se fosse un ente sottoposto a disciplina privatistica non essendo una PA, il paragone non sarebbe pertinente. Non pare infatti che la base giuridica del diritto di accesso alle regole del’algoritmo verso la PA possa essere estesa al caso di algoritmo usato da ente privato (nè offrono appigli gli artt. 124, 124 bis, 125 T.U.B. su informazioni precontrattuali e merito creditizio).

Esamina la maggior tutela, emergente dalla giurisprudenza nazionale rispetto a quella offerta dal GDPR Reg. UE 679/2016, Simoncini A., Profili costituzionali della amministrazione algoritmica, Riv. dir. pubbl., 2019, 1169 ss., §§ 3.2-3-3.

Ricorda alcune decisioni TAR 2018-2019 in senso più restrittivo circa l’utilizzabilità degli algoritmi L. Musselli, La decisione amminsitrativa nell’età degli algoritmi, medialaws.eu 2020, p. 8.

Un a. propone di <<pensare all’algoritmo come ad un atto endoprocedimentale, ed al suo utilizzo come ad una fase del procedimento amministrativo destinato poi a concludersi con l’adozione del provvedimento finale>> (Muciaccia N., Algoritmi e procedimento decisionale: alcuni recenti arresti della giustizia amministrativa, www.federalismi.it , 15.04.2020, n. 10/2020, p. 358).

Un recente saggio affronta le questioni in materia: Prosperetti, Accesso al software e al relativo algoritmo nei procedimenti amministrativi e giudiziali. Un’analisi a partire da due pronunce del TAR Lazio, in Dir. informazione e informatica, 2019, 979 ss L’a. ricorda che tra le eccezioni al diritto di autore c’è quella della riproducibilità nei procedimenti amministrativi e giudiziari (art. 67 e 71 quinquies l. aut.).

Tra l’altro , dato che la decisione  è sostanzialmente predeterminata nelle istrizioni date dalla PA alle software house, sulle quali non c’è contraddittorio nè possibilità di intervento dei cives, la partecipazione procedimentale ex legge 241/1990 risulta radicalmente inapplicabile (così G. Avanzini, Decisioni amministrative e algoritmi informatici. Predeterminazione, analisi predittiva e nuove forme di intellegibilità, Editoriale Scientifca, 2019,  134-5 e 138

V. anche l’intervista al giudice Pajno, già presidente del Consiglio di Stato, sulla prima sentenza effettuata da C. Morelli 20.01.2020 su Altalex.

Per un breve saggio introduttivo all’uso degli algoritmi da parte della P.A. in Parona L., Government by algorithm: un contributo allo studio del ricorso allintelligenza artificiale nellesercizio di funzioni amministrative, Giorn. di dir. amm., 2021/1, 10 ss (con indicazioni statunitensi)

Responsabilità del socio per sottocapitalizzazione della società?

Una recente sentenza del tribunale di Milano affronta la questione della responsabilità dei soci per sottocapitalizzazione della società stessa ovverosia per inadeguatezza delle risorse patrimoniali destinate all’attività da essa condotta. Naturalmente si tratta di responsabilità nei confronti dei creditori.

La sentenza è Trib. Milano  3 dicembre 2019, n° 11105/2019, RG 57848/2015: si trattava di una srl semplificata con capitale sociale di euro 2000 interamente versati

Il giudice ha escluso la responsabilità  del socio, dicendo che dal 2012 è possibile srl anche con capitale inferiore € 10.000,00.

Qui però il ragionamento è fallace poiché il problema non è quello della capitalizzazione inferiore al minimo di legge, bensì inferiore a quanto necessario per un sostenibilità prospettica delle attività. Il che significa che si può porre anche quando il capitale è superiore al minimo esplicitato dalla legge.

Più centrata è semmai la considerazione per cio la tesi prospettata dall’attore porterebbe alla decadenza del beneficio della responsabilità limitata, <<almeno fino  al momento in cui la stessa non si sia dotata di “adeguate risorse patrimoniali”, cosicché i soci finirebbero per rispondere per le obbligazioni assunte dalla società fino al momento in cui non risultino accantonate risorse patrimoniali pari ad almeno 10.000 euro>> (p. 5). Solamente un po’ più centrata, però, dato che la tesi del giudice non viene correttamente recepita. Infatti l’insufficiente patrimonializzazione non opera solo al di sotto dei €10000, ma -come accennato- anche al di sopra: cioè opera sempre.

Secondo il giudice dunque la tesi della patrimonializzazione costituisce una <<conclusione evidentemente contraria all’attuale  assetto normativo ed ai principi generali che regolano tutti i tipi di società a responsabilità limitata ed in particolare  il principio cardine e imprescindibile in base al quale “per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società (a responsabilità  limitata) con il suo patrimonio”, anche nel caso in cui la partecipazione appartenga ad una sola persona, sempre che siano stati effettuati i conferimenti e sia stata attuata la dovuta pubblicità (art. 2462, secondo comma,c.c.)>>

La dottrina, prendendo soprattutto dall’ordinamento belga e tedesco, aveva già sollevato da tempo il problema: sono noti gli scritti di Portale ad es. ampiamente in Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzata, Tratt. delle s.p.a. a cura di Colombo Portale, 1**, Utet, 2004, spt. § 7, 112 segg. Questo a. ,  pur sostenendo questa teoria, non manca di ricordare l’obiezione secondo cui in tal modo si stravolge il principio della responsabilità limitata (p. 116). Egli si limita però a replicare che è poco giustificata sul piano effettuale, dal momento che nella prassi, se la società è sottocapitalizzata, i soci saranno costretti ad offrire garanzie personali ai finanziatori.

La replica dell’autore non raggiunge del tutto l’obiettivo, però, dal momento che un conto è l’estesa e generalizzata responsabilità da fatto illecito di tutti i soci (a meno di collegarla solo i soci in posizione dominante), mentre altro conto è limitarla solo a quelli che (pur se non sponteneamente!) offrono garanzia.

Il vero punctum dolens sta nel fatto che solo i creditori più forti riusciranno a farsi dare garanzie dai soci: ed è allora da chiedersi se questa discriminazione a danno dei creditori meno forti sia ragionevole oppure no : nel qual caso potrebbe riprendere vigore la tesi di Portale.

Il quale segnale che il fondamento a suo parere preferibile di tale responsabilità è la qualificazione come fatto illecito

 La sentenza Si segnala perché le decisioni sul punto sono pochissime.

La domanda decisa dal Tribunale era di responsabilità del socio unico. Ma può porsi pure quella degli amministratori, la quale allora è diversa dalla responsabilità ex articolo 2394 cc. Questo riguarda solamente la violazione dei doveri di conservazione dell’integrità del patrimonio e cioè di conservazione di un patrimonio che già esiste: mentre la tesi del qua riguarda l’insufficienza del patrimonio esistente. Si tratterebbe cioè di responsabilità non da mancata conservazione bensì’ da mancato incremento.

Su originalità, libertà artistica e parodia nel diritto d’autore (un caso francese tra fotografia e scultura)

Il prezioso sito IPKat a firma Eleonora Rosati il 23.12.2019 dà notizia della sentenza francese Corte di appello di Parigi 17.12.2019, n° 152/201.

Il fotografo francese Jean Francois Bauret, morto nel 2014, realizzò nel 1970 una fotografia chiamata <<Enfants>>, mai venduta come stampa ma riprodotta in cartolina

Gli eredi si accorgono che l’artista statunitense Jeff Koons l’ha riprodotta con modeste varianti in una sua scultura, chiamata <<Naked>>.

Ecco le fotografie (presenti in  sentenza e in IPKat, prese da quest’ultimo).  A sinistra quella di Bauret e a destra quella riproducente la scultura di Koons:

La corte parigina respinge l’eccezione di Koons di mancanza di originalità e pure quella di eventuale riproduzione di elementi non originali. E’ del resto intuibile anche al profano che i bimbi nella fotografia non hanno una posizione spontanea,  come vorrebbe Koons, bensì guidata dal fotografo.

La Corte respinge l’eccezione di necessità per libertà artistica e di comunicazione (p. 19-21) : afferma che <<Il revient au juge de rechercher un juste équilibre entre les droits en présence, soit la liberté  d’expression artistique et le droit d’auteur, et d’expliquer, en cas de condamnation, en quoi la recherche de ce juste équilibre commandait cette condamnation.>>.

La Corte non si riferisce purtroppo -almeno in via esplicita (ma implicita si, probabilmente)- alle tre recenti sentenze della Corte di Giustizia 29 luglio 2019, A.G. Szpunar,  che l’hanno esaminata approfonditamente: i) Pelham-Hass c. Hutter-Schneider-Esleben, C-476/17, § 56-65 (§ 66 segg. sull’eccezione di citazione); ii) Funke Medien c. Repubblica Federale di Germania, C-469/17, terza e seconda questione (§§ 55 ss e, rispettivamene, 65 ss.); iii)  Spiegel Online c. Volker Beck, C-516/17, terza e seconda questione (§§ 40 ss e rispettivametne 50 ss., nonchè § 75 ss sull’eccezione di citazione). Le quali tutte -in breve- escludono l’invocabilità di un fair use o comunque di un diritto fondamentale non previsto nel catalogo dei rimedi propri del diritto armonizzato ad oggi vigente.

Respinge pure l’eccezione di parodia (p. 21-22) , secondo la quale <<l’oeuvre seconde, pour bénéficier de l’exception de parodie, doit présenter un caractère humoristique, éviter tout risque de confusion avec l’oeuvre première, et permettre l’identification de celle-ci. (…)  La parodie doit aussi présenter un caractère humoristique, faire oeuvre de raillerie ou provoquer le rire, condition que ne caractérise ni ne revendique Jeff KOONS et la société Jeff KOONS LLC, la différence entre les messages transmis par les deux oeuvres ne répondant pas à cette condition de l’exception de parodie.>>.

Insommma la parodia deve avere un carattere umoristico, prendere in giro o provocare risate, oltre che non creare confusione: requisiti ritenuti assenti nell’opera di Koons. Probabilmente il Collegio parigino aveva in mente la sentenza Deckmyn +1 c. Vandersteen ed altri, Corte di Giustizia, 03.09.2014, C‑201/13, secondo cui <<la parodia ha come caratteristiche essenziali, da un lato, quella di evocare un’opera esistente, pur presentando percettibili differenze rispetto a quest’ultima, e, dall’altro, quella di costituire un atto umoristico o canzonatorio>> (§ 33 ma anche § 20). Ma anche qui non ne ha fatto menzione espressa.

Responsabilità da attività pericolosa (art. 2050 cc) in caso di danno da merce pericolosa stoccata presso il compratore

La Corte di Cassazione (n. 28626 del 07.11.2019, sez. 3) chiarisce il punto del se operi la responsabilità da attività pericolosa ex art. 2050 cc quando la pericolosità sia insita nella merce prodotta e distribuita. Nel caso specifico il danno (incendio) era verosimilmente derivato da deflagrazione iniziata nei locali di un prodotture di vernici (MAB) dove era stata stoccata nitrocellulosa, prodotta da DOW WOLFF e distribuita da TILLMANNS.

La domanda risarcitoria di MAB e delle Assicurazioni (in riconvenzionale, essendo la lite stata promossa in accertamento negativo da DOW) era stata proposta contro il produttore e il distributore.

La particolarità del caso è consistita nel basare la domanda sulla  norma citata, quando però le merci pericolose erano nella proprietà e disponibilità del compratore (quindi all’interno del suo ciclo prodottivo) e non più del produttore o distributore.

La S.C. precisa che -ratione temporis- non si applica il d. lgs. 19.05.2016 n. 81 Attuazione della direttiva 2014/28/UE concernente l’armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alla messa a disposizione sul mercato e al controllo degli esplosivi per uso civile.

I giudici di merito respinsero le domande del danneggiato e delle Assicuirazioni.  Anche il giudice di legittimità esclude la responsabilità ex art. 2050 cc di produttore e distributore della merce pericolosa, asseritamente fonte dell’incendio, ma stoccata presso il compratore.

Ecco i passaggi rilevanti :

<<20…deve qualificarsi come intrinsecamente pericoloso sì ogni momento o fase del suo processo di produzione e di lavorazione fino al prodotto finito …. ma non può farsi a meno di rilevare come un tale processo si scinda naturalmente in più momenti o fasi, aventi ognuna una sua intrinseca autonomia gestionale ed implicanti un diverso grado di disponibilità del prodotto pericoloso da parte dei differenti soggetti che lo manipolano. 21. A tale diversificazione di fasi e di disponibilità del prodotto pericoloso, almeno finchè il ciclo della sua trasformazione non è esaurito, non può che corrispondere una conseguente diversificazione della responsabilitàdei diversi soggetti che quelle fasi gestiscono in autonomia gli uni dagli altri, ciascuno assumendo una quota ben determinata e ben prevedibile del relativo rischio di impresa connesso alla produzione di beni mediante impiego di materiali pericolosi. 22. In particolare, tali diverse fasi debbono essere considerate, di norma (e con l’eccezione che subito si vedrà) ed ai fini della responsabilità da attività pericolosa tra i diversi soggetti coinvolti professionalmente nel medesimo processo produttivo, l’una indipendente dall’altra ed ognuna caratterizzata da oneri di precauzione incombenti a ciascun soggetto titolare del potere di impresa di volta in volta esercitato, parametrati allo stato di avanzamento della lavorazione ed almeno tendenzialmente idonei a scongiurare i rischi propri di quella fase: diversamente, si tratterebbe di estendere incongruamente la nozione di attività pericolosa e la relativa severa responsabilità sostanzialmente oggettiva anche alla circolazione del bene pericoloso e senza alcuna limitazione, con insostenibile equiparazione alla responsabilità da prodotto difettoso o da vizi della cosa venduta, che hanno però presupposti molto meno gravosi per il produttore e per il distributore rispetto alla presunzione di cui all’art. 2050 c.c.. … 24. Ora, il rischio di impresa di chi produce e distribuisce nitrocellulosa destinata ad ulteriore lavorazione non può comprendere … le fasi di ulteriore lavorazione: le quali non sono di per sè esercizio dell’attività pericolosa originaria e di queste successive avendo la responsabilità – ove non si configurino o non si provino diversi titoli, come già detto e come escluso nella specie – invece l’imprenditore od altro soggetto professionale che le gestisca in autonomia e con correlativi oneri di adozione di misure di precauzione adeguate al ciclo di lavorazione che impieghi il prodotto intrinsecamente pericoloso, come è indubbio in punto di fatto che sia accaduto nella fattispecie. 25. Pertanto, in difetto di ulteriori titoli di responsabilità e della prova sul difetto intrinseco o sul vizio del prodotto [NB : in causa era stata esclusa la responsabilità del produttore ex art. 114-120 cod. cons.], l’esclusione della responsabilità da attività pericolosa impedisce al danneggiato di giovarsi del relativo particolare regime anche in tema di prova dei presupposti e quindi del carattere indubbio del coinvolgimento della nitrocellulosa nell’incendio: se è vero che, in virtù dei principi in tema di responsabilità oggettiva, non avrebbe dovuto rilevare che il prodotto pericoloso fosse stato la causa mediata o immediata dell’incendio e che l’incertezza della causa ultima di questo difficilmente avrebbe potuto esimere l’esercente dell’attività pericolosa dalla sua peculiare responsabilità in difetto della prova, su di lui incombente, di avere adottato ogni misura idonea ad evitare il danno, è pur vero che, ricostruita adeguatamente la fattispecie per cui è causa, non trova appunto applicazione l’intero sistema della responsabilità da attività pericolosa>>.

Libro di memorie pubblicato in violazione di accordo di non-disclosure: i relativi profitti editoriali sono illeciti?

Risponde positivamente un giudice di Alexandria, Virginia (USA), in quanto ottenuti in violazione dell’accordo di non-disclosure stipulato con la C.I.A. e con la National Security Agency (NSA). Il caso è quello del libro autobiografico di Eric Snowden <<Permanent Record>> (da noi: <<Errore di sistema>>).

La conseguenza sarebbe che spettano nè all’autore nè all’editore, bensì allo Stato Federale.

La notizia viene data oggi da A. Flood del Guardian.

La questione è assai interessante e complessa sotto il profilo teorico.

Da noi possono vedersi i numerosi scritti recenti  riguardanti la violazione dei diritti di proprietà intellettuale. Si dovrebbe però vedere soprattutto la pioneristica monografia di Rodolfo Sacco Arrichimento ottenuto mediante fatto ingiusto, UTET, 1959, che acutamente estende l’esame alla violazione di qualsiasi diritto altrui (v. parte terza sez. I Violazione del diritto, p. 139 segg. e soprattutto p. 152 ss per la violazione di un diritto di credito, come nel caso Snowden).

Il problema è duplice: – la retroversine dei profitti è prevista solo nel cod. propr. ind., art. 125 c.3 (di sfuggita pure nell’art. 158 c. 2  legge d’autore); – non è chiaro se tale misura sia costruita come  misura restitutoria oppure sanzionatorio-punitiva (ecluderei la natura risarcitoria).

Resta quindi del tutto incerta da noi la possibilità di generalizzarla.

Secondo Sacco (p. 153-154) ci son almeno  cinque disposizioni nel cod. civ. che dimostrano che il soggetto inadempiente non può arricchirsi per effetto del proprio comportamento antigiuridico: art. 2038, art. 1776, art. 1259, art. 1591 e art .1282.

Su marchi collettivi e “uso effettivo” ai fini del giudizio di decadenza (un caso un pò particolare: l’uso per imballaggi vale pure come uso per i prodotti imballati?)

Laa Corte di Giustizia UE (sentenza 12.12.2019, C-143/19 P, Der Grüne Punkt – Duales System Deutschland GmbH c. EUIPO ), affronta un caso un pò particolare di decadenza di marchio collettivo.

Le norme rilevanti soni l’art. 15 e l’art. 66 del reg. 207/2009.

Il noto marchio Grune Punkt, riferito ad imballaggi ecologici, era stato registrato anche per quasi tutte le altre classi merceologiche. A seguito di istanza di parte, però, era stato dichiarato decaduto per non uso per tutte le classi tranne che per i prodotti consistenti in imballaggi (§ 16).

I successivi tentativi del titolare di invalidare la decisione in via amministrativa e poi avanti il Trib. Ue sono andati male. La perseveranza però è stata premiata dato che la Corte ne ha accolto le ragioni.

La questione centrale è sottile e non semplice: si tratta di capire se l’uso del segno sugli imballaggi costituisca uso solo per il prodotto “imballaggio” oppure anche per gli svariati tipi di prodotti che sono presenti dentro l’imballaggio stesso. Nelle prime istanze era stato risposto nel primo modo; la Corte risponde invece nel secondo modo (o meglio non esclude il secondo modo e obbliga a valutare tale possibilità).

Vediamo i passi centrali del ragionamento del Tribunale, secondo il resoconto dela Corte .

<<Il pubblico di riferimento è perfettamente in grado di distinguere tra un marchio che indica l’origine commerciale del prodotto e un marchio che indica il recupero dei rifiuti di imballaggio. Inoltre, occorre tener conto del fatto che «i prodotti stessi sono di regola designati dai marchi che appartengono a società differenti»>> (§ 31).  Ne segue che <<«l’uso del marchio [in questione] in quanto marchio collettivo che designa i prodotti dei membri dell’associazione distinguendoli dai prodotti che provengono da imprese che non fanno parte di tale associazione sarà percepito dal pubblico di riferimento come un uso relativo agli imballaggi. (…) ]l comportamento ecologico dell’impresa, grazie alla sua affiliazione al sistema di accordo di licenza della [DGP], sarà attribuito dal pubblico di riferimento alla possibilità del trattamento ecologico dell’imballaggio e non ad un simile trattamento del prodotto imballato medesimo, che può rivelarsi inadeguato ad un trattamento ecologico»>> (§ 32).

Infine, <<l’uso del marchio in questione non aveva per obiettivo neppure di creare o di conservare uno sbocco per i prodotti. Detto marchio sarebbe conosciuto dal consumatore solo come l’indicazione che l’imballaggio, grazie al contributo del fabbricante o del distributore del prodotto, sarà smaltito e recuperato ove il consumatore porti l’imballaggio in un punto di raccolta locale. Pertanto, l’apposizione del suddetto marchio sull’imballaggio esprimerebbe semplicemente il fatto che il fabbricante o il distributore di questo prodotto opera nel rispetto del requisito fissato dalla normativa dell’Unione, secondo la quale l’obbligo di recupero dei rifiuti di imballaggio spetta a tutte le imprese. Secondo il Tribunale, nel caso, poco probabile, in cui il consumatore optasse per l’acquisto di un prodotto basandosi unicamente sulla qualità dell’imballaggio, resterebbe sempre il fatto che detto marchio crea o conserva uno sbocco non già rispetto a tale prodotto, ma esclusivamente per quanto riguarda l’imballaggio di quest’ultimo>> (§ 33).

Secondo il Tribunale infatti il presupposto è che <<«un marchio forma oggetto di un uso effettivo allorché assolve alla sua funzione essenziale, che è di garantire l’identità di origine dei prodotti o dei servizi per i quali è stato registrato, al fine di trovare o mantenere per essi uno sbocco>> (§ 26). Si tratta dell’affermazione centrale, perno di tutto il ragionamento, ratio decidendi anche delle Corte (pur se con esito opposto). Questa infatti lo estende ai marchi collettivi laddove dice che: <<questi marchi fanno parte, come i marchi individuali, dell’ambito del commercio. Per poter essere qualificato come «effettivo» ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 207/2009, il loro uso deve pertanto perseguire concretamente l’obiettivo delle imprese interessate di creare o di conservare uno sbocco per i loro prodotti e servizi. Ne consegue che un marchio collettivo dell’Unione europea è oggetto di un uso effettivo quando viene utilizzato conformemente alla sua funzione essenziale, che è quella di distinguere i prodotti o i servizi dei membri dell’associazione che ne è titolare da quelli di altre imprese, al fine di creare o di conservare uno sbocco per detti prodotti e servizi>> (§§ 56-57).

Peraltro <<ai fini della valutazione dell’esistenza di tale requisito, era necessario, secondo la costante giurisprudenza della Corte, esaminare se il marchio in questione fosse effettivamente utilizzato «sul mercato» dei prodotti o dei servizi interessati. Detto esame doveva essere realizzato valutando, in particolare, gli usi considerati giustificati, nel settore economico interessato, per conservare o creare quote di mercato per i prodotti o servizi contrassegnati dal marchio, la natura di tali prodotti o servizi, le caratteristiche del mercato, nonché l’ampiezza e la frequenza dell’uso del marchio>> (§ 62).

Il Tribunale doveva << –prima di pervenire a tale conclusione e di pronunciarsi quindi sulla decadenza del titolare dai diritti dal medesimo detenuti sul marchio in questione per la quasi totalità dei prodotti per i quali esso è registrato – (…)  esaminare se l’uso debitamente dimostrato nel caso di specie, vale a dire l’apposizione del marchio in questione sulle confezioni dei prodotti delle imprese affiliate al sistema della DGP, fosse considerato, nei settori economici interessati, giustificato per conservare o creare quote di mercato per taluni prodotti. Un siffatto esame, che doveva anche riguardare la natura dei prodotti interessati e delle caratteristiche dei mercati sui quali essi sono immessi in commercio, è assente nella sentenza impugnata. Il Tribunale ha sì ritenuto che il consumatore comprende che il sistema della DGP riguarda la raccolta locale e il recupero degli imballaggi dei prodotti e non la raccolta o il recupero dei prodotti in sé, però non ha debitamente considerato se l’indicazione al consumatore, al momento dell’immissione in commercio dei prodotti, della messa a disposizione di un simile sistema di raccolta locale e di smaltimento ecologico dei rifiuti di imballaggio apparisse giustificata, nei settori economici interessati o in alcuni di essi, per conservare o creare quote di mercato per taluni prodotti>> (§§ 67-68).

Si potrebbe pensare che tale valutazione, per ciascun tipo di prodotto domandato in registrazione, fosse eccessiva. Se anche fosse così, <<era tuttavia opportuno, stante la diversità dei prodotti interessati da un simile marchio, fornire un esame che distinguesse diverse categorie di prodotti in funzione della loro natura e delle caratteristiche dei mercati e che valutasse, per ciascuna di tali categorie di prodotti, se l’uso del marchio in questione perseguisse effettivamente l’obiettivo di conservare o di creare quote di mercato>> (§ 69). Infatti <<alcuni dei settori economici interessati riguardano prodotti di consumo quotidiano, come alimenti, bevande, prodotti per l’igiene personale e per la pulizia della casa, idonei a generare quotidianamente rifiuti di imballaggio che i consumatori devono gettare via. Non si può pertanto escludere che l’indicazione sull’imballaggio di prodotti di questo tipo, da parte del fabbricante o del distributore, dell’affiliazione a un sistema di raccolta locale e di trattamento ecologico dei rifiuti di imballaggio possa influenzare le decisioni di acquisto dei consumatori e, in tal modo, contribuire alla conservazione o alla creazione di quote di mercato relative a tali prodotti>> (§ 70).

Il Tribunale si era ben chiesto se il marchio servisse a creare/conservare uno sbocco commerciale: ma aveva concluso che ciò avveniva solo per il prodotto <<imballaggio>> e mai per i prodotti presenti dentro l’imballaggio: con ciò però violando il tipo di analisi richiesto e che la Corte aveva prima indicato al § 62 (§ 71).

Questa è dunque la ratio decidendi. Il marchio apposto sull’imballaggio può valere come uso anche del marchio sui prodotti in esso contenuti, quando l’imballaggio costituisca (in tutto o in parte, direi: la Corte genericamente dice “possa influenzare le decisioni di acquisto”) motivo di acquisto dei prodotti stessi: cioè quando conferisca loro appeal e ne incrementi l’apprezzamento del pubblico.

Il punto è complesso e servirebbe un’indagine specifica, toccando profili apicali del diritto dei marchi. Ad una primissima riflessione la posizione della Corte non persuade: il che invece accade per quella del Tribunale. L’uso nel commercio di un componente di un prodotto finale (tale è l’imballaggio) è distinta dall’uso del prodotto stesso: quindi l’uso dei rispettivi segni resta pure distinto. Altrimenti si avrebbe che il prodotto recherebbe due marchi, i quali indicherebbero due provenienze aziendali diverse. Invece il segno proprio dell’imballaggio (come di qualunque componente) indica solo la provenienza del componente medesimo.

Infine seguono un paio di considerazioni giustificative a posteriori o comunque generiche, di scarso ausilio per le scelte pratiche.

La necessità di questa analisi (id est l’applicazione del concetto “contributo a creare o conservare uno sbocco commerciale”, in cui si sostanzia l’uso effettivo ai fini del giudzio di decadenza),  <<che tenga debitamente conto della natura dei prodotti o dei servizi interessati nonché delle caratteristiche dei rispettivi mercati e che distingua, di conseguenza, fra vari tipi di prodotti o servizi, laddove questi ultimi siano molto diversificati, riflette adeguatamente la delicatezza della posta in gioco di tale valutazione. Tale valutazione stabilisce, infatti, se il titolare di un marchio sia decaduto dai diritti su quest’ultimo e, in caso affermativo, per quali prodotti o servizi viene dichiarata la decadenza>> (§ 72). E’ infatti certamente importante <<assicurare il rispetto del requisito di un uso che concretamente persegua l’obiettivo di creare o di conservare uno sbocco per i prodotti e i servizi per i quali il marchio è stato registrato, affinché il titolare di quest’ultimo non resti indebitamente protetto con riferimento a prodotti o servizi la cui commercializzazione non sia veramente promossa da tale marchio. Ciò nondimeno, è altrettanto importante che i titolari dei marchi e, nel caso di un marchio collettivo, i loro membri possano, in modo debitamente protetto, sfruttare il proprio segno nell’ambito del commercio>>, § 73. E’ una sorte di hysteron proteron dato che, se si tratti di sfruttamento del segno rientrante nella privativa di legge, è proprio il quid demonstrandum.

Avendo uil Tribunale omesso di effettuare tale esame, la sua sentenza va annullata.

contrarietà all’ordine pubblico nel diritto europeo dei marchi

il Tribunale UE con sentenza 12.12.2019, T-683/18, Santa Conte c. EUIPO,  si pronuncia sulla contrarietà all’ordine pubblico (poi anche <<O.P.>>) di un marchio figurtivo/denominativo. La norma applicata è l’art. 7.1.f del reg. 2017/2001 in combinato disposto con l’art. 7.2 del medesimo reg.

Visto l’esito negativo in sede amminsitrativa, la ricorrente chiede al Tribunale di annullare le decisioni ivi prese. Trascuro qui il primo motivo, di natura procesurale, e riferisco del secondo, di dirito sostanziale.

Il marchio è così descritto: <<contiene un elemento denominativo composto dai termini «cannabis», «store» e «amsterdam», nonché un elemento figurativo, ossia tre file di foglie verdi stilizzate, corrispondente alla comune rappresentazione della foglia di cannabis, su uno sfondo nero delimitato da due bordi di colore verde fosforescente, al di sopra e al di sotto del motivo. Le tre parole anzidette partecipano anche alla dimensione figurativa del segno controverso in quanto appaiono in lettere maiuscole, ove la parola «cannabis» è in esso rappresentata con caratteri di colore bianco, molto più grandi delle altre due parole, che essa sovrasta al centro del segno>>, § 36 (v. l’immagine in  sentenza).

il Tribunale ricorda alcuni principi in tema di ordine pubblico ai §§ 31-35.

V. ad es. il § 33: <<il pubblico di riferimento non può essere circoscritto, ai fini dell’esame dell’impedimento alla registrazione di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), del regolamento n. 2017/1001, al pubblico al quale sono direttamente destinati i prodotti e i servizi per i quali la registrazione è richiesta. Occorre, infatti, tener conto del fatto che i segni oggetto di tale impedimento alla registrazione scioccheranno non solo il pubblico al quale i prodotti e i servizi designati dal segno sono rivolti, ma parimenti altre persone che, senza essere interessate a tali prodotti e servizi, si troveranno accidentalmente di fronte a tale segno nella loro vita quotidiana>> e i  §§ 34-35: <<i segni percepibili come contrari all’ordine pubblico o al buon costume non sono gli stessi in tutti gli Stati membri, in particolare per ragioni linguistiche, storiche, sociali o culturali (…) Ne consegue che, per l’applicazione dell’impedimento assoluto alla registrazione di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), del regolamento 2017/1001, occorre prendere in considerazione tanto le circostanze comuni a tutti gli Stati membri dell’Unione quanto le circostanze proprie di taluni Stati membri singolarmente considerati, che possono influenzare la percezione del pubblico di riferimento situato nel territorio di tali Stati>>.

Inoltre, visto che due parole sono comprensibili anche al di fuori del mondo anglofono, il pubblico di riferimeno non è solo quello anlogofono ma tutto quello dell’UE , § 42.

Ancora: <<poiché la ricorrente, nella domanda di marchio, fa riferimento a prodotti e servizi di consumo corrente, destinati al grande pubblico senza distinzione di età, non vi è alcuna ragione valida per circoscrivere, come sostenuto dalla ricorrente in udienza, il pubblico di riferimento al solo pubblico giovane, di età compresa tra i 20 e i 30 anni. Analogamente, occorre aggiungere che (…) il pubblico di riferimento non è solo il pubblico cui sono direttamente rivolti i prodotti e i servizi per i quali è chiesta la registrazione, ma anche quello composto da altre persone che, senza essere interessate a tali prodotti e servizi, si troveranno accidentalmente di fronte a tale segno nella loro vita quotidiana (v. punto 33 supra), il che porta a respingere, anche per tale motivo, l’affermazione della ricorrente, formulata in udienza, secondo la quale detto pubblico sarebbe per la maggior parte un pubblico giovane, composto da persone di età compresa tra i 20 e i 30 anni>> , § 45.

La ricorente allega norme che proverebbero l’accettazine sociale della cannabis. Ma il Trib. risponde che << «in numerosi paesi dell’Unione [e]uropea (a titolo esemplificativo ma non esaustivo, Bulgaria, Finlandia, Francia, Ungheria, Irlanda, Polonia, Slovacchia, Svezia e Regno Unito)», i prodotti derivati dalla cannabis aventi tenore di THC superiore allo 0,2% sono considerati sostanze stupefacenti illegali>>, § 49.

Ne segue che <<attualmente, non si osserva nell’Unione alcuna tendenza unanimemente accettata, e neppure predominante, in merito alla liceità dell’uso o del consumo di prodotti derivati dalla cannabis con un tenore di THC superiore allo 0,2%.>>, § 51.

Di conseguenza <<giustamente la commissione di ricorso ha ritenuto che il segno controverso verrebbe percepito, nel suo complesso, dal pubblico di riferimento come riferito ad una sostanza stupefacente vietata in un elevato numero di Stati membri.>>, § 69.

Quanto al passaggio successivo e cioè al se il segno de quo sia contrario all’O.P. (il merito della lite), il giudice eureo risponde in modo positivo, confermando il rigetto amministrativo della domanda.

Premette che  <<il diritto dell’Unione non impone una scala di valori uniforme e riconosce che le esigenze di ordine pubblico possono variare da un paese all’altro e da un’epoca all’altra, mentre gli Stati membri restano essenzialmente liberi di determinare il contenuto di tali esigenze in funzione delle loro necessità nazionali. Pertanto, le esigenze di ordine pubblico, che pure non coincidono con gli interessi economici né con la mera prevenzione delle perturbazioni dell’ordine sociale insite in qualsiasi infrazione della legge, possono comprendere la protezione di diversi interessi considerati fondamentali dallo Stato membro di cui trattasi secondo il proprio sistema di valori>>, § 71.

l’O.P. <<esprime le intenzioni dell’ente normativo pubblico quanto alle norme che devono essere rispettate nel contesto sociale>>, § 72;  ed è esatto in sostanza <<che ogni contrarietà alla legge non costituisce necessariamente una contrarietà all’ordine pubblico (..) E’ ancora necessario, infatti, che tale contrarietà leda un interesse considerato fondamentale dallo Stato membro o dagli Stati membri di cui trattasi in base al loro sistema di valori >>, §  73.

Secondo il Tribunale allora <<negli Stati membri in cui il consumo e l’uso della sostanza stupefacente derivata dalla cannabis restano vietati, la lotta alla diffusione di quest’ultima riveste carattere particolarmente delicato, che risponde ad un obiettivo di salute pubblica volto a combattere gli effetti nocivi di tale sostanza. Tale divieto mira quindi a tutelare un interesse che detti Stati membri considerano fondamentale secondo il proprio sistema di valori, cosicché il regime applicabile al consumo e all’uso di detta sostanza rientra nella nozione di «ordine pubblico»>>, § 74. Inoltre <<l’importanza di tutelare tale interesse fondamentale è ulteriormente sottolineata dall’articolo 83 TFUE, secondo il quale il traffico illecito di stupefacenti è una delle sfere di criminalità particolarmente gravi che presentano una dimensione transnazionale, nelle quali è previsto l’intervento del legislatore dell’Unione, nonché dall’articolo 168, paragrafo 1, terzo comma, TFUE, secondo il quale l’Unione completa l’azione degli Stati membri volta a ridurre gli effetti nocivi per la salute umana derivanti dall’uso di stupefacenti, comprese l’informazione e la prevenzione>>, § 75.

Allora giustamente la commissione di ricorso ha sostenuto che <<sarebbe percepito dal pubblico di riferimento come un’indicazione del fatto che gli alimenti e le bevande menzionati dalla ricorrente nella domanda di marchio, nonché i relativi servizi, contenevano sostanze stupefacenti illegali in diversi Stati membri, fosse contrario all’ordine pubblico>>, § 76.

La ricorrente ha tentato di sminuire questo ragionamento, dicendo che il segno non incitava, banalizzava o approvava l’uso di stupefanti illegali. Però il Trib. replica che <<il fatto che tale segno sarà percepito dal pubblico di riferimento come un’indicazione del fatto che gli alimenti e le bevande menzionati dalla ricorrente nella domanda di marchio, nonché i relativi servizi, contengono sostanze stupefacenti illegali in diversi Stati membri è sufficiente per concludere che detto marchio è contrario all’ordine pubblico>>, § 77.

In ogni caso,  <<dal momento che una delle funzioni di un marchio consiste nell’identificare l’origine commerciale del prodotto o servizio, al fine di consentire così al consumatore che acquista il prodotto o il servizio contrassegnato dal marchio di fare, al momento di un successivo acquisto, la stessa scelta, qualora l’esperienza si riveli positiva, o di fare un’altra scelta, qualora essa risulti negativa (…),  detto segno, nella misura in cui sarà percepito nel modo sopra descritto, incita, implicitamente, ma necessariamente, all’acquisto di tali prodotti e servizi o, quantomeno, ne banalizza il consumo>>, § 77.

In altre e più brevi parole, il fatto, che il marchio miri ad incrementare le vendite,  perciò solo costituisce incitamento o quantomeno banalizzazione del consumo di sostanza illegale. Si tratta forse del passaggio più interessante a livello teorico.

C’è un altra sentenza recente che affronta in dettaglio la questione della contrarietà del marchio all’ordine pubblico: Trib. UE 15 marzo 2018, T-1/17, La Mafia Franchises c. EUIPO – Italia (caso La Mafia SE SIENTA A LA MESA), ampiamnte ricordata nella sentenza de qua.

Lo sfruttamento della notorietà altrui: il caso napoletano Maradona contro Dolce § Gabbana

Il tribunale di Napoli  con sentenza n. 11374/2019  del 9 dicembre 2019, RG 41088/2017, decide la lite tra Diego Armando Maradona eDolce§Gabbana. I fatti risultano i seguenti (testo della sentenza preso da Elenora Rosati su IPKat che ringrazio).

Dolce§Gabbana in un evento mondano del luglio del 2009  (citazione notificata nel luglio 2017!) per clienti illustri o istituzionali, consistente in una sfilata di presentazione di simboli della città partenopea, aveva fatto sfilare una modella con una maglia del numero dieci, storica posizione calcistica di Maradona (sembra di capire: modella indossante la maglia del Napoli Calcio recante sul retro il n. 10, probabilmente quella a strisce bianche e azzurre verticali).

Sembra di capire -anche se non è detto in modo esplicito- che si trattasse di una maglia col numero 10 creata o ricreata dagli stilisti: altrimenti non si spiega la successiva affermazione per cui, dopo la diffida, D§G hanno omesso di mettere in produzione il capo di abbigliamento..

Maradona lamentava l’indebita utilizzazione e sfruttamento commerciale del proprio  nome e/o marchio.

il Tribunale accoglie la domanda affermando la violazione del diritto sul nome.

In realtà l’affermazione non è chiarissima, dal momento che il segno riprodotto abusivametne pare fosse un segno distintivo diverso dal nome: precisamente pare si fosse trattato della divisa ufficiale usata in partita e che l’ha reso famoso in tutto il mondo durante la sua esperienza italiana. La fattispecie ricorda la violazione -sempre di un segno distintivo personale  diverso dal nome che riguardò il cantante Lucio Dalla, del quale vennero abusivamente riprodotte le caratteristiche -anche qui assai note-  degli occhialetti tondi e del berrettino a zucchetto. A meno di pensare (allora il riferimento al diritto sul nome sarebbe esatto, anche se avrebbe dovuto essere esplicitato) che sul retro della maglia, oltre al numero, comparisse il nome “Maradona”, come spesso avveniva.

La domanda è accolta sotto il profilo dell’ articolo 8 codice di proprietà industriale: Dolce e Gabbana avrebbero mirato “ad appropriarsi delle componenti attrattive insite nel richiamo alla prestigiosa storia sportiva del mitico calciatore”.

La quantificazione del danno viene operata tramite il riferimento al criterio del cosiddetto prezzo del consenso.

l’attore aveva chiesto l’importo di € 1.000.000,00 e prodotto a sostegno , oltre a altri materiali irrilevanti, quattro contratti precedenti. Il tribunale, valutata  la modestia di uso del segno altrui (limitata ad una sfilata) ha invece liquidato € 70.000,00  più accessori

Il caso è interessante per l’anomalia consistente nel fatto che lo sfruttamento non autorizzato del segno distintivo altrui avviene da parte di due imprenditori della moda i quali pure sono provvisti di notorietà mondiale. Ci si può dunque chiedere se non fosse stato opportuno per il giudice accertare se veramente c’era stato uno sfruttamento della notorietà altrui: ma forse tale accettamento sarebbe stato superfluo ai fini del’art. 8 cpi.

Anzi a monte sarebbe stato necessario accertare che la maglia del Napoli col numero 10 fosse veramente qualificabile come segno distintivo di Maradona su cui questi avesse un diritto esclusivo: ad esempio potendo rilevare la regolazione pattizia di Maradona con la società del Napoli (a meno che contenesse il suo nome, come sopra ipotizzato)

Marchio di forma (o di colore) violato da (calzatura indossata da) personaggio di un film?

Le note suole rosse delle calzature Louboutin, sulla  cui esclusiva lo stilista francese ha ingaggiato liti giudiziarie in diversi Stati e su cui ha pure ottenuto ragione presso la Corte di Giustizia UE (C‑163/16 del 12.06.2018), sono ora forse riprodotte da una protagonista del recente film di Disney titolato Frozen 2.

Ne riferisce worldtrademarkreview.com  del 10. 12.2019 a firma di T. Lince.

Si considerino le due calzature (foto presa dall’articolo appena cit.):

(a sinistra quella di Frozen 2  e a destra quella di Louoboutin).

Qui sotto il marchio registrato (dalla sentenza C.G. cit.):

Il segno, usato nel film, costituisce riproduzione vietata del marchio di Louboutin? Direi che Louboutin avrebbe buone frecce nel suo arco, vista la norma europea armonizzata che da noi è stata recepita nel  novellato art. 21.1.c)  del cod. propr. ind.

Probabilmente lo stilista francese ci sta già pensando, visto l’impegno che mette nel tutelare il suo marchio.

La corte di appello milanese segue l’indirizzo, per cui -in tema di intermediazione finanziaria- la violazione dei doveri informativi fa presumere il nesso di causalità col danno subito

La Corte di appello di Milano 05.02.2019 , est. Giani, conferma l’indirizzo, per cui la mancata informazione dell’investitore da parte dell’intemediario fa presumere il ricorrere del nesso di causa col danno subito. Il passo pertinente  è al § 35.

La Corte invoca due precedenti : Cass. 18.05.2017 n. 12.544 e Cass. 26.07.2017 n. 18363. La prima tralaticiametne invoca a sua volta Cass., 17 novembre 2016, n. 23417 (v. § 6) per cui risulta priva di interesse; la seconda profonde invece maggior impegno motivazionale (§ 5.1). Precisamente così afferma la Corte milanese:

<<La giurisprudenza della Corte di legittimità ha più volte chiarito che, in materia di intermediazione finanziaria, gli obblighi d’informazione che gravano sull’intermediario, dal cui inadempimento consegue in via presuntiva l’accertamento del nesso di causalità del danno subito dall’investitore, impongono la comunicazione di notizie conoscibili in base alla necessaria diligenza professionale e l’indicazione, in modo puntuale, di tutte le specifiche ragioni idonee a rendere un’operazione inappropriata rispetto al profilo di rischio dell’investitore, purché debitamente e compiutamente acquisito, in quanto tali informazioni costituiscono reali fattori per decidere, in modo effettivamente consapevole, se investire o meno (Cass., 18-05-2017, n. 12544; cfr. anche Cass., 26-07-2017, n. 18363). Anche questa Corte (App. Milano, 15-01-2014, R. C. E. c. Banca Italease) ha avuto modo di stabilire che nelle azioni di danno promosse dagli investitori si deve presumere la sussistenza del nesso di causalità tra informazione inesatta od omessa e danno, del quale si chiede il risarcimento, salvo che l’informazione inesatta non sia marginale e di scarsa importanza; tuttavia, il convenuto ha la possibilità di dare la prova contraria, e cioè di dimostrare che controparte avrebbe comunque effettuato l’investimento dannoso anche se avesse conosciuto il vero stato delle cose.

Nel caso in esame, avendo l’intermediario omesso di acquisire il questionario MIFID prima dell’investimentoed essendosi, dunque, posto nella colpevole condizione di non poter compiere una valutazione di appropriatezza, il nesso causale tra tali gravi violazioni e omissioni, che hanno impedito in radice l’osservanza dell’obbligo susseguente di valutare l’appropriatezza dell’investimento in obbligazioni LB, si pone come sicura origina causale [qui c’è verosmilmente una dimenticanza da parte del giudice] del danno patito dall’investitore, senza che possa ritenersi vinta tale presunzione, facendo unicamente riferimento al portafoglio pregresso dell’investitore né, ancor meno, al questionario MIFID compilato solo successivamente agli investimenti de quibus. L’assenza di titoli di banche d’affari americane, coinvolte nella vicenda dei mutui subprime già in data anteriore al luglio 2008 (epoca degli investimenti in questione), fa ritenere non superata dall’intermediario la suddetta presunzione di sussistenza del nesso causale tra i gravi inadempimenti ascrivibili alla Banca e il danno cagionato. L’’investimento deve corrispondere al profilo personale (che nel caso di specie è carente d’informazioni sulla conoscenza del prodotto) e deve essere frutto di una scelta informata e consapevole (cfr. Cass 4727/2018). La prova del mancato adempimento di un rilevante obbligo informativo non può essere ritenuta ininfluente in considerazione dell’esperienza dell’investitore dal momento che l’accettazione consapevole di un investimento finanziario non può che essere il frutto di una scelta consapevole ed informata sulla preventiva conoscenza del prodotto (Cass 4727/2018. Nella specie la S.C. ha cassato la sentenza nella quale la Corte di Appello aveva escluso la sussistenza del nesso causale tra l’inadempimento ed il danno, sul rilievo che dalla prova testimoniale espletata era emerso che l’eventuale violazione degli obblighi informativi non avrebbe comunque inciso sulla decisione dell’investitore, orientato da un intento speculativo).

È necessario altresì sottolineare che, diversamente opinando, la probatio del nesso causale diverrebbe diabolica per l’investitore: qui, si sottolinea nuovamente, l’intermediario finanziario, avendo omesso di adempiere “a monte” all’obbligo di acquisire un profilo corretto e completo dell’investitore, si è posto nelle condizioni di violare l’obbligo di valutazione di appropriatezza dell’investimento, così impedendo ogni possibile disamina di questa, anche ai fini del nesso di causalità, non potendosi sapere a priori quali fossero le risultanze del questionario e dunque le propensioni dell’investitore relativamente agli strumenti negoziati dall’intermediario senza previa acquisizione del questionario. Soluzione questa che risulta altresì coerente con la finalità non solo riparativa, ma anche sanzionatoria della responsabilità civile e del risarcimento dei danni, quale sancita dalle Sezioni Unite della Cassazione (Cass., sez. un., 05-07-2017, n. 16601)>>.

L’orientamento indicato e la sentenza in esame sono forse un pò frettolosi.

Che l’investitore sia parte debole è affermazione di sicura esattezza. Invece il ravvisare il nesso di causalità per qualunque omissione informativa e per qualunque investitore non lo è altrettanto. In particolare, affermarlo in modo apodittico e a prescindere dalla circostanze, significa porre una presunzione di causalità di dubbia esattezza , essendo arduo definirla grave, precisa e concordante.  Il giudizio è sempre sul caso singolo, non per tipologie di rapporti sociali: e dunque deve analizzare le circostanze stesse. Si v. ad es. il più argomentato ragionamento in fatto svolto dalla cit. Cass. 18363/2017  al § 5.2.

Sorprendente infine è l’affermazione al termine del passo riportato, sulla finalità sanzionatoria della responsabilità civile. Da un lato pare poco pertinente nel percorso motivatorio ivi condotto; dall’altro le stesse sezioni unite l’hanno si ammessa nel 2017 ma a precise condizioni, che qui non sono ricordate.

Secondo S.C. s.u. 16601/2017, infatti, <<le  Sezioni Unite ritengono che questa analisi sia superata e non possa più costituire, in questi termini, idoneo filtro per la valutazione di cui si discute. Già da qualche anno le Sezioni Unite (cfr. SU 9100/2015 in tema di responsabilità degli amministratori) hanno messo in luce che la funzione sanzionatoria del risarcimento del danno non è più  “incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento, come una volta si riteneva, giacchè negli ultimi decenni sono state qua e là introdotte disposizioni volte a dare un connotato lato sensu sanzionatorio al risarcimento”. Le Sezioni Unite hanno tuttavia precisato che questo connotato sanzionatorio non è ammissibile al di fuori dei casi nei quali una “qualche norma di legge chiaramente lo preveda, ostandovi il principio desumibile dall’art. 25 Cost., comma 2, nonchè dall’art. 7 della Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali”. Se si completa quest’avvertenza con il richiamo, altrettanto pertinente, all’art. 23 Cost., si può comprendere perchè mai, perfino nello stesso ambito temporale, ritornino (l’esempio più significativo: SU n. 15350/15) dinieghi circa la funzione sanzionatoria e di deterrenza della responsabilità civile. Essi risalgono, quando non si tratta di meri arricchimenti argomentativi, alla esigenza di smentire sollecitazioni tese ad ampliare la gamma risarcitoria in ipotesi prive di adeguata copertura normativa>> (sub § 5.1).

E’ vero che subito dopo aggiungono: <<non possono valere tuttavia a sopprimere quanto è emerso dalla traiettoria che l’istituto della responsabilità civile ha percorso in questi decenni. In sintesi estrema può dirsi che accanto alla preponderante e primaria funzione compensativo riparatoria dell’istituto (che immancabilmente lambisce la deterrenza) è emersa una natura polifunzionale (un autore ha contato più di una decina di funzioni), che si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali sono quella preventiva (o deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva. 5.2) Indispensabile riscontro di questa descrizione è il panorama normativo che si è venuto componendo. Esso da un lato denota l’urgenza che avverte il legislatore di ricorrere all’armamentario della responsabilità civile per dare risposta a bisogni emergenti, dall’altro dimostra, con la sua vivacità, quanto sia inappagante un insegnamento che voglia espungere dal sistema, confinandole in uno spazio indeterminato e asfittico, figure non riducibili alla “categoria”>>  (segue elenco di ipotesi legislative in cui la r.c. assume funzione deterrente-sanzionatoria).

Però poi segue una importante precisazione, spesso dimenticata: <<Ciò non significa che l’istituto aquiliano abbia mutato la sua essenza e che questa curvatura deterrente/sanzionatoria consenta ai giudici italiani che pronunciano in materia di danno extracontrattuale, ma anche contrattuale, di imprimere soggettive accentuazioni ai risarcimenti che vengono liquidati. Ogni imposizione di prestazione personale esige una “intermediazione legislativa”, in forza del principio di cui all’art. 23 Cost., (correlato agli artt. 24 e 25), che pone una riserva di legge quanto a nuove prestazioni patrimoniali e preclude un incontrollato soggettivismo giudiziario.>>

La sentenza delle Sez. Un. era stata data in un processo per riconoscimento di sentenza statunitense (Florida) di condanna ai danni punitivi (€ 1.436.136,87); e di  altre pronncie per rifusione di spese e costi), per  cui il principio di diritto enunciato è stato il seguente: <<Nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poichè sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile. Non è quindi ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell’ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell’atto straniero e alla loro compatibilità con l’ordine pubblico.>>).