Sul concetto di marchio contrario all’ordine pubblico: termina la vertenza su «Fack Ju Göhte»

E’ giunta a conclusione la vertenza europea relativa al marchio «Fack Ju Göhte». Tale segno peraltro è pure il titolo di una commedia cinematografica tedesca prodotta dalla ricorrente,  che ha rappresentato uno dei maggiori successi cinematografici del 2013 in Germania. Due sequel di questa commedia cinematografica sono stati prodotti dalla ricorrente, che sono usciti nelle sale con i titoli «Fack Ju Göhte 2» e «Fack Ju Göhte 3» rispettivamente nel 2015 e nel 2017 (§ 9)
La sentenza è quella della Corte di Giustizia (di seguito solo CG) 27 febbraio 2020, C-240/18, Constantin Film Produktion GmbH c. EUIPO (di seguito : l’ufficio).

La sentenza è stata preceduta dalle articolate conclusioni dell’avvocato generale Bobek 02.07.2019,  sostanzialmente seguite dalla CG. Ne avevo riferito qui .

La lite è governata ratione temporis dal reg. 207/2009 (par 2). La norma che governa la fattispecie è l’articolo 7.1.f , secondo cui sono esclusi dalla registrazione di Marchi contrari all’ordine pubblico o al buon costume.
La società produttrice cinematografica (Constantin Film) presentava domanda di registrazione del marchio denominativo sopra indicato per svariate classi merceologiche, tra cui sostanze per bucato, supporti di dati registrati, dati audio video testi gioielleria eccetera
L’esaminatore respingeva la domanda per violazione appunto del predetto articolo 7.1.f in combinato disposto col seg. paragrafo 2, secondo cui <<Il paragrafo 1 si applica anche se le cause d’impedimento esistono soltanto per una parte della Comunità.>>
La Constantin Film presentava ricorso che veniva però respinto.
Nè aveva miglior sorte la fase giudiziale presso il Tribunale; a Constantin Film non rimaveva che adire la CG, ciò che fece.
Il caso è interessante perché Constantine adduce non solo la violazione del citato articolo 7.1.f , ma anche la violazione del principio sia di parità di trattamento che della certezza del diritto e di buona amministrazione. Tuttavia, essendo accolto il primo motivo, gli altri sono dalla CG considerati assorbiti e non esaminati, § 57. Erano stati invece esaminati dall’Avvocato Generale ai §§ 99 ss.
Il primo motivo (violazione dell’articolo 71.f) si articola in quattro parti, § 21 seguenti
La Corte ricorda che il motivo della rigetto della registrazione atteneva alla violazione divieto di registrare marchi contrari al buon costume, non all’ordine pubblico, par 38
Bisogna quindi indagare come vada inteso il concetto normativo di <ordine pubblico> e quello di <contrarietà all’ordine pubblico>

La risposta si trova i paragrafi 41- 42- 43.

Per ravvisare tale concetto, <<non è sufficiente che il segno in questione sia considerato di cattivo gusto. Al momento dell’esame quest’ultimo deve essere percepito dal pubblico di riferimento come contrastante con i valori e con le norme morali fondamentali della società, così come esistenti in quel momento.>>, par 41.
Bisogna a tale scopo basarsi <<sulla percezione di un soggetto ragionevole che abbia soglie medie di sensibilità e di tolleranza, tenendo conto del contesto in cui è possibile venire a contatto con il marchio e, se del caso, delle circostanze peculiari della parte dell’Unione interessata. A tal fine, sono pertinenti elementi quali i testi legislativi e le prassi amministrative, l’opinione pubblica e, eventualmente, il modo in cui il pubblico di riferimento ha reagito in passato a questo segno o a segni simili, nonché qualsiasi altro elemento che possa consentire di valutare la percezione del pubblico stesso.>>, par 42.
Questo esame non può limitarsi <<ad una valutazione astratta del marchio richiesto, o di alcuni suoi componenti, ma va accertato, in particolare qualora il richiedente abbia fatto valere elementi tali da far sorgere dubbi sul fatto che tale marchio sia percepito dal pubblico di riferimento come contrario al buon costume, che l’utilizzo del marchio stesso, nel contesto sociale concreto e attuale, sarebbe effettivamente percepito da tale pubblico come contrario ai valori e alle norme morali fondamentali della società.>>, par 43.
Questi i principi teorici, che vanno applicati al caso sub iudice
Il contesto di percezione da parte del pubblica è analiticamente allegato e provato in causa e ricordato dalla CG , la quale censura sul punto il Tribunale per non averlo considerato:<<52…. tra questi elementi [di contesto] figurano il grande successo della citata commedia omonima presso il grande pubblico germanofono e il fatto che il suo titolo non sembra aver dato adito a controversie, il fatto che sia stato autorizzato l’accesso alla commedia stessa da parte del pubblico giovane e che il Goethe Institut, che è l’istituto culturale della Repubblica federale di Germania, attivo a livello mondiale e che ha tra i suoi compiti quello di promuovere la conoscenza della lingua tedesca, ne faccia uso a fini pedagogici [numeri in rosso da me aggiunti]. 53 Poiché tali elementi sono, a priori, idonei a costituire un indizio del fatto che, nonostante l’assimilazione della prima parte del marchio richiesto all’espressione inglese «Fuck you», il grande pubblico germanofono non percepisce il segno denominativo «Fack Ju Göhte» come moralmente inaccettabile, il Tribunale, per dichiarare tale segno incompatibile con il buon costume, non poteva basarsi esclusivamente sul carattere intrinsecamente volgare di quell’espressione inglese senza esaminare i citati elementi e senza esporre in termini concludenti le ragioni per cui ritiene, ciononostante, che il grande pubblico germanofono percepisca quel segno come contrario ai valori e alle norme morali fondamentali della società nel momento in cui esso viene utilizzato come marchio.>>, §§ 52-53 (numeri in rosso da me aggiunti).
La CG censura poi l’affermazione, per cui la libertà di espressione è diritto antagonista solo del diritto di autore, non di quello di marchio: <<infine, si deve aggiungere che, contrariamente a quanto affermato dal Tribunale al punto 29 della sentenza impugnata, vale a dire che «nel settore dell’arte, della cultura e della letteratura esiste una costante preoccupazione di preservare la libertà di espressione che non esiste nel settore dei marchi», la libertà di espressione, sancita dall’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dev’essere tenuta in considerazione, come riconosciuto dall’EUIPO in udienza e come esposto dall’avvocato generale ai paragrafi da 47 a 57 delle sue conclusioni, in sede di applicazione dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), del regolamento n. 207/2009. Tale conclusione è inoltre corroborata sia dal considerando 21 del regolamento n. 2015/2424, che ha modificato il regolamento n. 207/2009, sia dal considerando 21 del regolamento n. 2017/1001, che sottolineano espressamente la necessità di applicare tali regolamenti in modo tale da assicurare il pieno rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, in particolare della libertà di espressione>> (precisamente l’ultima parte dei citt. cons. 21 dice: <<Inoltre, il presente regolamento dovrebbe essere applicato in modo tale da assicurare il pieno rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, in particolare della libertà di espressione>>)
La CG annulla dunque la sentenza del Tribunale , § 58, e passa a decidere la lite nel merito , §§ 59-60. La CG lo fa applicando naturalmente i principi sopra esposti in linea astratta.
Afferma dunque che, sebbene il successo di un film non dimostri automaticamente l’accettazione sociale del suo titolo e di un segno denominativo omonimo, esso però <<rappresenta quantomeno un indizio di una siffatta accettazione, che si dovrà valutare alla luce di tutti gli elementi rilevanti del caso di specie, al fine di dimostrare in termini concreti la percezione di tale segno in caso di un suo utilizzo come marchio>>, § 66.
Ed allora scendendo nei fatti, la CG ricorda che << le commedie Fack ju Göhte e Fack ju Göhte 2, che peraltro hanno avuto un sequel nel 2017, hanno avuto, proprio presso il pubblico di riferimento, un successo tale che la commissione di ricorso ha addirittura ritenuto di poter presumere che i consumatori facenti parte di quel pubblico abbiano almeno già sentito parlare di quelle commedie, ma, oltretutto e nonostante la forte visibilità che ha accompagnato tale successo, il titolo delle stesse non sembra aver suscitato alcuna controversia in seno al pubblico medesimo. Peraltro, l’accesso del pubblico giovane a tali commedie, che si svolgono in ambiente scolastico, era stato autorizzato con il titolo citato e, come risulta dal punto 39 della decisione controversa, esse hanno ricevuto fondi da varie organizzazioni e sono state utilizzate dal Goethe Institut a fini pedagogici>>, § 67 (numeri in rosso da me aggiunti).
Il che significa che, <<nonostante l’assimilazione dei termini «Fack ju» all’espressione inglese «Fuck you», il titolo delle commedie citate non è stato percepito come moralmente inaccettabile dal grande pubblico germanofono. A questo proposito va inoltre rilevato che la percezione della citata espressione inglese da parte del pubblico germanofono, ancorché ben nota a quel pubblico, che ne conosce il significato, non è necessariamente identica alla percezione che ne ha il pubblico anglofono, poiché la sensibilità nella lingua madre è potenzialmente maggiore rispetto a quanto avviene in una lingua straniera. Per questo stesso motivo, il pubblico germanofono non percepisce neppure, necessariamente, la citata espressione inglese allo stesso modo in cui ne percepirebbe la traduzione in tedesco. Inoltre, il titolo delle commedie in questione e, quindi, il marchio richiesto non consistono in tale espressione inglese di per se stessa, bensì nella sua trascrizione fonetica in lingua tedesca, accompagnata dall’elemento «Göhte»>>, § 68.
In sintesi, visto che , nonostante i fatti non facciano presumere una percezione nel pubblico del segno contestato come contrario al buon costume, non è stata fornita prova contraria, bisogna dire che l’ufficio non ha adeguatamene motivato l’applicazione del divieto invocato.
Pertanto la sua decisione va annullata, § 71.

Novità per le prossime assemblee sociali (DL 18/2020 c.d. cura Italia, art. 106)

Il nuovo DL “emergenziale” per sorreggere il nostro paese in un momento difficilissimo (DL 18 del 17.03.2020, in GU n. 70 di pari data), prevede anche qualche norme di interesse civilistico e commercialistico.

Tra queste ultime c’è l’art. 106 (Norme in materia di svolgimento delle assemblee di società) di cui riporto il testo (non esamino l’ottavo ed ultimo, relativo al finanziamento):

<<1. In deroga a quanto previsto dagli articoli 2364, secondo comma, e 2478-bis, del codice civile o alle diverse disposizioni statutarie, l’assemblea ordinaria è convocata entro centottanta giorni dalla chiusura dell’esercizio.>>

c. 1: secondo i due articoli citati, “L’assemblea ordinaria deve essere convocata almeno una volta l’anno, entro il termine stabilito dallo statuto e comunque non superiore a centoventi giorni dalla chiusura dell’esercizio sociale.” (cit testuale dal primo).  Il DL dunque allunga il termine da 120 a 180 gg.

Sembra però dire qualcosa in più e cioè abrogare la vincolatività dell’eventuale termine statutario. A prima vista parrebbe dire infatti d’imperio che l’ass. ordinaria può essere sempre e comunque convocata entro 180 gg.: cioè non parrebbe esservi spazio per un diverso (minor) termine statutario. Conseguenza tuttavia incongrua: non si vede perchè quest’ultimo in epoca di pandemia debba perdere efficacia giuridica.

La fruizione del termine allungato naturalmente non è obbligatoria. Una scelta in tale senso in ogni caso comporterà una delibera del CdA.

<<2. Con l’avviso di convocazione delle assemblee ordinarie o straordinarie le società per azioni, le società in accomandita per azioni, le società a responsabilità limitata, e le società cooperative e le mutue assicuratrici possono prevedere, anche in deroga alle diverse disposizioni statutarie, l’espressione del voto in via elettronica o per corrispondenza e l’intervento all’assemblea mediante mezzi di telecomunicazione; le predette società possono altresì prevedere che l’assemblea si svolga, anche esclusivamente, mediante mezzi di telecomunicazione che garantiscano l’identificazione dei partecipanti, la loro partecipazione e l’esercizio del diritto di voto, ai sensi e per gli effetti di cui agli articoli 2370, quarto comma, 2479-bis, quarto comma, e 2538, sesto comma, codice civile senza in ogni caso la necessità che si trovino nel medesimo luogo, ove previsti, il presidente, il segretario o il notaio.>>

c. 2 : è possibile intervenire in assemblea per via telematica e votare elettronicamente o per corrispondenza (nulla si dice sul consiglio di amministrazione e collegio sindacale, ai quali non sarà applicabile: conf. Irrera,  Le assemblee (e gli altri organi collegiali) delle societa’ ai tempi del coronavirus (con una postilla in tema di associazioni e fondazioni), in ilcaso.it, 22.02.2020, § 8), anche in presenza di contraria regola statutaria: basta che il CdA lo indichi nell’avviso.

E’ anche possibile effettuare un’assemblea totalmente telematica (sempre in deroga ad eventuali regole di statuto), pure su scelta del CdA, direi: purchè siano identificabili e vengano identificati i partecipanti.

Nemmeno è richiesta la riunione fisica dei componenti dell’ufficio di presidenza.

<<3. Le società a responsabilità limitata possono, inoltre, consentire, anche in deroga a quanto previsto dall’articolo 2479, quarto comma, del codice civile e alle diverse disposizioni statutarie, che l’espressione del voto avvenga mediante consultazione scritta o per consenso espresso per iscritto.>>

c. 3 : è generalizzata la ricorribilità al metodo della consultazione scritta o del consenso espresso scritto, anche nei casi dell’art. 2479/4 e anche in presenza di statuto contrario. La disposizione lascia aperti diversi interrogativi e non modesti.

Ad es. , a chi compete la scelta in tale senso? Agli amministratori, direi: in generale, quando il potere è attribuito <<alla società>>, in mancanza di altra regola, spetta a chi la governa e cioè -nel sistema tradizionale- al CdA (non può spettare ai soci decidere come essere convocati per una successiva delibera: come prenderebbero la “predecisione”?). Però nella srl questo profilo è complesso, poichè l’art. 2479 c.1 attribuisce il potere di mettere in moto l’iter decisionale anche  ad un terzo dei soci.

Inoltre: rimane il potere di chiedere la forma piena di delbierazione in capo uno o più ammnistratori o ad un terzo dei soci, ex art. 2479 c.4 ? Direi di no.

Da ultimo: quale è l’area di derogabilità all’art. 2479 c. 4 (che esclude in certi casi la collegialità attenuata del c.3), delineata dalla disposizione in commento? Qualunque tipo di delibera? Ad es. anche modifiche statutarie, che richiedono la presenza di un notaio (art. 2480 cc)? Letteralmente si, dato che non ci sono limiti: ma ciò nonostante su quest’ultimo punto la risposta positiva pare azzardata e dunque da respingere.

<<4. Le società con azioni quotate possono designare per  le assemblee ordinarie o straordinarie il rappresentante previsto dall’articolo 135-undecies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, anche ove lo statuto disponga diversamente. Le medesime società possono altresì prevedere nell’avviso di convocazione che l’intervento in assemblea si svolga esclusivamente tramite il rappresentante designato ai sensi dell’articolo 135-undecies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58; al predetto rappresentante designato possono essere conferite anche deleghe o subdeleghe ai sensi dell’articolo 135-novies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, in deroga all’art. 135-undecies, comma 4, del medesimo decreto. >>

c. 4: il rappresentato ex art. 135 undecies TUF per le quotate è designabile anche in presenza di contraria regola statutaria; addirittura l’assemblea può svolgersi anche solamente tramite questa figura (per evitare assembramenti, natrualmetne).

Curioso è il riferimento alla deroga al c. 4 del 135 undecies, il quale pone: i) un obbligo di comucazione di conflitti di interesse; ii) un obbligo di riservatezza; iii) l’impossibilità di derogare alla disciplina posta dal 135 undecies medesimo. Quale è allora il significato del c.4 del DL 18 qui esaminato? forse che che il rappresentante è sciolto dagli obblighi sub i-ii? non credo. Allora la deroga sarà alla regola sub iii) : cioè sarà possibile dare deleghe e subdeleghe anche in deroga ai commi 1-3 del medesimo 135 undecies: infatti la loro inderogabilità, posta dal c. 4 ult. periodo, è a sua volta derogata  dalla norma qui esaminata.

Questo comma -sulle quotate- va coordinato col c. 2 -disciplina generale-. L’eventuale rappresentante unico può partecipare in remoto e cioè a distanza? Direi senz’altro di si, anche se è già stata data un’interpretazione contraria (riferisce Olivieri sul Sole 24 ore del 20 marzo 2020).

Irrera, cit., p. 14, si interroga sulla invocabilità di queste disposizioni da parte di società che abbiano già convocato l’assemblea: la sua risposta è positiva.

Lo stesso a. rileva che disposizione analoga è stata inserita per <<le associazioni private anche non riconosciute e le fondazioni >>: solo che si trova in altro articolo del DL 18, precisamente nell’art. 73 c. 4. Cosa assai strana, dato che l’art. 73 disciplina le riunioni degli organi collegiali di enti pubblici e verosimilmente costituente una svista dettata dalla grave urgenza.

<<5. Il comma 4 si applica anche alle società ammesse alla negoziazione su un sistema multilaterale di negoziazione e alle società con azioni diffuse fra il pubblico in misura rilevante.>>

Estende la disciplina del c. precedente anche oltre l’area delle quotate.

<<6. Le banche popolari, e le banche di credito cooperativo, le società cooperative e le mutue assicuratrici, anche in deroga all’articolo 150-bis, comma 2-bis, del decreto legislativo 1° settembre 1993 n. 385, all’art. 135-duodecies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 e all’articolo 2539, primo comma, del codice civile e alle disposizioni statutarie che prevedono limiti al numero di deleghe conferibili ad uno stesso soggetto, possono designare per le assemblee ordinarie o straordinarie il rappresentante previsto dall’articolo 135-undecies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58. Le medesime società possono altresì prevedere nell’avviso di convocazione che l’intervento in assemblea si svolga esclusivamente tramite il predetto rappresentante designato. Non si applica l’articolo 135-undecies, comma 5, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58. Il termine per il conferimento della delega di cui all’art. 135-undecies, comma 1, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, è fissato al secondo giorno precedente la data di prima convocazione dell’assemblea.>>

c. 6: la disciplina generale delle quotate del c. 4 viene sostanzialmente estesa alle banche ivi indicate (ambiguo il riferimento alle <<società cooperative>>: solo se banche o in generale?)

<<7. Le disposizioni del presente articolo si applicano alle assemblee convocate entro il 31 luglio 2020 ovvero entro la data, se successiva, fino alla quale è in vigore lo stato di emergenza sul territorio nazionale relativo al rischio sanitario connesso all’insorgenza della epidemia da COVID-19>>

c. 7: La disposizione disciplina ratione temporis l’ambito applicativo della novella: solo per le assemblee convocate entro il 31 luglio p.v. o entro la successiva (non anteriore: ipotesi allo stato comunque improbabile)  data di cessazione dell’emergenza . Ciò a prescindere dalla data di invio o ricevimento dell’avviso di convocazine (o altro mezzo pubblicitario) (tanto più a prescidnere dalla data di delibra del CdA): conta solo un elemento e cioè che la data fissata per l’assemblea sia anteriore a quella qui indicata.

Si dovrebbe individuare la fonte normativa che ha dichiarato lo stato di emergenza: pare la delibera del Consiglio dei ministri 31.01.2020, che lo dichiara per sei mesi (così si legge nelle premesse del DPCM 1 marzo 2020, Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, GU Serie Generale n.52 del 01-03-2020).

Effettivamente la delibera CdM 31.01.2020, Dichiarazione dello stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili ((GU Serie Generale n.26 del 01-02-2020),  così dice: << 1) In considerazione di quanto esposto in premessa, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 7, comma 1, lettera c), e dell’articolo 24, comma 1, del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1, e’ dichiarato, per 6 mesi dalla data del presente provvedimento, lo stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili.  2) Per l’attuazione degli interventi di cui dell’articolo 25, comma 2, lettere a) e b) del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1, da effettuare nella vigenza dello stato di emergenza, si provvede con ordinanze, emanate dal Capo del Dipartimento della protezione civile in deroga a ogni disposizione vigente e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico, nei limiti delle risorse di cui al comma 3.  3) Per l’attuazione dei primi interventi, nelle more della valutazione dell’effettivo impatto dell’evento in rassegna, si provvede nel limite di euro 5.000.000,00 a valere sul Fondo per le emergenze nazionali di cui all’articolo 44, comma 1, del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1>>.

( il c. 8 dell’art. 106 così dispone:  <<8. Per le società a controllo pubblico di cui all’articolo 2, comma 1, lettera m), del decreto legislativo 19 agosto 2016, n.175, l’applicazione delle disposizioni di cui al presente articolo ha luogo nell’ambito delle risorse finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente e non comporta nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.>>)

Forse era il caso di allentare la tempistica anche per altre situazioni societarie: ad es. per quelle regolate dagli artt. 2446 e 2447 sui provvedimenti da prendere in caso di riduzione del capitale per perdite. L’urgenza estrema per un provvedimento così imponente giustifica l’omissione: magari lo si farà in sede di conversione (se il Parlamento riuscirà a riunirsi, avendo anch’esso il rischio di incremento dei contagi, tranne che opti per le stesse modalità procedimentali telematiche qui permesse: ma non potrà omettere di riunirsi in qualche modo, come pure osserva C. Blengino nel suo interessante intervento odierno in ilpost.it, in fine).

Il DL è entrato in vigore il giorno della pubblicazione in GU e dunque il 17 marzo 2020 (art. 127).

La Corte di Giustizia Europea sul giudizio confusorio in tema di marchi (Labell vs. Black Label)

La Corte di Giustizia (poi solo CG) 4 marzo 2020, C-328/18 P, EUIPO c. Equivalenza Manufactory SL di Barcellona, impartisce alcuni insegnamenti su come va condotto il giudizio di assenza/presenza di novità in relazione ad un marchio precedente.
La norma rilevante ratione temporis è quella di cui all’articolo 8 paragrafo 1 lettera B del regolamento 207/2009 : <<In seguito all’opposizione del titolare di un marchio anteriore, il marchio richiesto è escluso dalla registrazione se: …; b) a causa dell’identità o della somiglianza di detto marchio col marchio anteriore e dell’identità o somiglianza dei prodotti o servizi per i quali i due marchi sono stati richiesti, sussiste un rischio di confusione per il pubblico del territorio nel quale il marchio anteriore è tutelato; il rischio di confusione comprende il rischio di associazione con il marchio anteriore.>>
Si vedano i due marchi in conflitto (§§ 5 e 9):

segno anteriore (dell’opponente)

e

segno posteriore (opposto in fase amministrativa)

In pratica l’unico elemento comune è quello denominativo (Label/Labell).

I prodotti di riferimento erano identici (profumi). Il marchio anteriore era oggetto di registrazione internazionale, mentre quello posteriore era un marchio depositato all’EUIPO come marchio dell’UE (§§ 5 e 9).

L’opponente (titolare del marchio anteriore) ottiene ragione in entrambe le fasi amministrative, ma soccombe nella successiva impugnazione davanti al Tribunale UE, paragrafi 12- 16.
Il motivo di ricorso alla CG è unico ma concerne quattro profili (non chiara la distizione tra motivo unico in quattro profili e quattro motivi).
Circa il primo, la CG ribadisce che il vizio di motivazione contraddittoria/insufficiente è una questione di diritto in fase impugnatoria, paragrafo 25; ed allora accoglie il motivo per motivazione contraddittoria, paragrafo 30
Nulla dico sul secondo profilo, poco significativo.
Sul terzo e sul quarto, invece, si concentrano gli insegnamenti più importanti.
La censura dell’EUIPO consiste nell’addebitare <<al Tribunale di aver violato l’articolo 8, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 207/2009 in ragione di un errore metodologico, in quanto ha esaminato le condizioni di commercializzazione dei prodotti in causa e le abitudini di acquisto del pubblico di riferimento nella fase della valutazione della somiglianza dei segni confliggenti.>>, paragrafo 42.
Inoltre l’ufficio muove un’altra censura: <<il Tribunale ha commesso un errore di metodo in quanto ha neutralizzato la somiglianza fonetica media dei segni in conflitto nella fase di valutazione della somiglianza di tali segni e ha abbandonato prematuramente qualsiasi valutazione globale del rischio di confusione.>>, par. 47.
Cioè:   –   le condizioni di commercializzazione non possono incidere nel giudizio di somiglianza tra segni;   –    la compensazione tra la distanza concettuale e la vicinanza visivo-fonetica non può avvenire solo nella fase di giudizio di somiglianza tra segni ed essere ad abbandonata nella fase del giudizio complessivo di confondibilità, come invece successo nel caso specifico, ove è stata prematuramente abbandonata, paragrafo 47 ss.

Ebbene, la CG inizia ribadendo:
– che per costante propria giurisprudenza <<l’esistenza di un rischio di confusione per il pubblico deve essere oggetto di valutazione globale, in considerazione di tutti i fattori pertinenti del caso di specie […], tra i quali figurano in particolare il grado di somiglianza tra i segni in conflitto e tra i prodotti o i servizi designati in causa, nonché l’intensità della notorietà e il grado del carattere distintivo, intrinseco o acquisito mediante l’uso, del marchio anteriore […]>>Paragrafo 57;
– che <<la valutazione globale del rischio di confusione deve fondarsi, per quanto riguarda la somiglianza visiva, fonetica o concettuale dei segni in conflitto, sull’impressione complessiva da essi prodotta. La percezione dei segni da parte del consumatore medio dei prodotti o dei servizi di cui trattasi svolge un ruolo determinante nella valutazione globale di tale rischio. A questo proposito, il consumatore medio percepisce di norma un marchio come un tutt’uno e non effettua un esame dei suoi singoli elementi >>,  paragrafo 58;
– che <<questa valutazione globale del rischio di confusione implica una certa interdipendenza tra i fattori che entrano in considerazione e, in particolare, la somiglianza dei segni confliggenti e quella dei prodotti o dei servizi in oggetto. Così, un tenue grado di somiglianza tra i prodotti o i servizi in causa può essere compensato da un elevato grado di somiglianza tra i segni in conflitto e viceversa>> , paragrafo 59.
Ribadite queste tre regole, comunemente accettate, arriva la parte più interessante.

Per la CG , <<in assenza di qualsiasi somiglianza tra il marchio anteriore e il segno di cui è richiesta la registrazione, la notorietà o la rinomanza del marchio anteriore, l’identità o la somiglianza dei prodotti o servizi considerati non sono sufficienti per constatare un rischio di confusione […]. Di conseguenza, tale disposizione è manifestamente inapplicabile quando il Tribunale esclude qualsiasi somiglianza tra i segni in conflitto. È soltanto nell’ipotesi in cui tali segni presentino una certa somiglianza, ancorché tenue, che spetta al suddetto giudice procedere a una valutazione globale al fine di stabilire se, nonostante il tenue grado di somiglianza esistente tra di essi, la presenza di altri fattori pertinenti, quali la notorietà o la rinomanza del marchio anteriore, possa dar adito a un rischio di confusione per il pubblico di riferimento (v., in tal senso, sentenza del 24 marzo 2011, Ferrero/UAMI, C‑552/09 P, EU:C:2011:177, punti 65 e 66, nonché la giurisprudenza citata).>>, § 60.

Cioè, stando alla disposizione citata, il giudizio complessivo di …….
E’ in base a questa giurisprudenza che  per il tribunale i segni non erano simili secondo un’impressione generale, mancando una delle due condizioni previste dall’articolo 8 comma 1 lettera B del regolamento 207: con conseguente errore dell’ufficio nell’affermare il rischio di confusione., paragrafo 61.
Il tribunale era giunto a questa conclusione con un ragionamento in due fasi: dopo aver detto che i segni presentavano un grado medio di somiglianza fonetica pur essendo visivamente e concettualmente dissimili (paragrafo 63), aveva però <aggiunto chje <<tenuto conto delle condizioni di commercializzazione dei prodotti di cui trattasi, l’aspetto visivo dei segni in conflitto, riguardo al quale tali segni erano diversi, era più importante per valutare l’impressione complessiva da essi prodotta rispetto agli aspetti fonetico e concettuale di tali segni. Inoltre, al punto 54 di tale sentenza il Tribunale ha rilevato che i segni in conflitto erano concettualmente diversi in virtù della presenza, nel segno per il quale si chiede la registrazione, degli elementi «black» e «by equivalenza»>>., § 65.

In breve l’aspetto visivo prevaleva su quello concettual-fonetico, tenuto conto delle condizioni di commercializzazione: e il profilo visvivo portava ad una differenziazione tra i segni (incrementata da una differenziazione anche concettuale paragrafo 65 seconda parte chiuso la parentesi). per questo Il tribunale ha rinunciato ad effettuare la valutazione complessiva del rischio di confusione richieta dalla norma (<<ll marchio richiesto è escluso dalla registrazione se: …b) a causa dell’identità o della somiglianza … sussiste un rischio di confusione per il pubblico del territorio nel quale il marchio anteriore è tutelato>>) dal momento che i marchi non erano similia prevalenza dell’elemento visivo -preonerante alal luce delle circoszante in c ui è commercialzizato- e concettuale paragrafo 66-.

La censura su questo modo di ragionare è duplice.

La Corte ricorda che <<al fine di valutare il grado di somiglianza esistente tra i segni confliggenti, occorra determinare il loro grado di somiglianza visiva, fonetica e concettuale e, eventualmente, vagliare la rilevanza che occorre attribuire a questi diversi elementi, tenendo conto della categoria di prodotti o di servizi di cui trattasi o delle condizioni in cui essi sono messi in commercio (sentenze del 22 giugno 1999, Lloyd Schuhfabrik Meyer, C‑342/97, EU:C:1999:323, punto 27, e del 12 giugno 2007, UAMI/Shaker, C‑334/05 P, EU:C:2007:333, punto 36).>>, Paragrafo 68.

Però ci sono state applicazioni giurisprudenziali divergenti nei vari stati. Pertanto La Corte ribadisce o insegna: <<sebbene le condizioni di commercializzazione costituiscano un fattore rilevante ai fini dell’applicazione dell’articolo 8, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 207/2009, la loro considerazione rientra nella fase della valutazione globale del rischio di confusione e non in quella della valutazione della somiglianza dei segni in conflitto.>>, paragrafo 70.

Infatti <<la valutazione della somiglianza dei segni in conflitto, che costituisce solo una delle fasi d’esame del rischio di confusione ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 207/2009, comporta il confronto dei segni in conflitto onde determinare se tali segni presentino un grado di somiglianza su uno tra i piani visivo, fonetico e concettuale. Per quanto tale confronto debba fondarsi sull’impressione complessiva che detti segni lasciano nella memoria del pubblico di riferimento, esso deve cionondimeno essere operato alla luce delle qualità intrinseche dei segni in conflitto (v., per analogia, sentenza del 2 settembre 2010, Calvin Klein Trademark Trust/UAMI, C‑254/09 P, EU:C:2010:488, punto46).>>, paragrafo 71.
A sostegno di questa affermazione la CG ricorda che <<tenere conto delle condizioni di commercializzazione dei prodotti o servizi coperti da due segni confliggenti ai fini del confronto di tali segni potrebbe sfociare nell’assurdo risultato che i medesimi segni potrebbero essere qualificati come simili o diversi in funzione dei prodotti e servizi che riguardano e delle condizioni in cui questi ultimi sono commercializzati.>>, paragrafo 72.
Ne segue quindi che Il tribunale ha sbagliato laddove ha preso <<in considerazione, ai punti da 48 a 53 e 55 della sentenza impugnata, le condizioni di commercializzazione dei prodotti in causa nella fase di valutazione della somiglianza dei segni in conflitto nel loro insieme e facendo prevalere, in ragione di tali condizioni, le differenze visive tra tali segni rispetto alla loro somiglianza fonetica.>>, paragrafo 73
In secondo luogo il tribunale ha sbagliato nell’effettuare la compensazione tra l’elemento concettuale da una parte e quello fonetico-visivo dall’altra.
Secondo la giurisprudenza addotta dalla Corte infatti <<la valutazione globale del rischio di confusione implica che le differenze concettuali tra i segni confliggenti possano neutralizzare determinate somiglianze fonetiche e visive tra tali due segni, purché almeno uno di questi segni, per il pubblico di riferimento, rivesta un significato chiaro e determinato, tale che questo pubblico possa coglierlo direttamente (sentenze del 18 dicembre 2008, Les Éditions Albert René/UAMI, C‑16/06 P, EU:C:2008:739, punto punto 98; v. altresì, in tal senso, sentenze del 12 gennaio 2006, Ruiz-Picasso e a./UAMI, C‑361/04 P, EU:C:2006:25, punto 20, e del 23 marzo 2006, Mülhens/UAMI, C‑206/04 P, EU:C:2006:194, punto 35)>>, § 74.
Secondo i propri precedenti infatti <<la valutazione delle condizioni per tale neutralizzazione si integra nella valutazione della somiglianza dei segni in conflitto dopo la valutazione dei gradi di somiglianza sui piani visivo, fonetico e concettuale. Va tuttavia precisato che questa considerazione è intrinsecamente connessa all’ipotesi, eccezionale, in cui almeno uno dei segni in conflitto possieda, dal punto di vista del pubblico di riferimento, un significato chiaro e definito che possa essere direttamente colto da quel pubblico. Ne consegue che è solo se ricorrono tali condizioni che, conformemente alla giurisprudenza citata al punto precedente della presente sentenza, il Tribunale può risparmiarsi la valutazione globale del rischio di confusione per il fatto che, a causa delle marcate differenze concettuali tra i segni in conflitto e del significato chiaro, definito e direttamente intellegibile per il pubblico di riferimento di almeno uno di tali segni, questi ultimi producono un’impressione complessiva diversa, nonostante l’esistenza, tra di essi, di taluni elementi di somiglianza sui piani visivo o fonetico.>> § 75.
Di conseguenza , quando entrambi i segni confliggenti mancano di questo significato chiaro, <<definito e direttamente intellegibile per il pubblico di riferimento, il Tribunale non può procedere a una neutralizzazione omettendo un’analisi globale del rischio di confusione. In tal caso, invece, detto giudice è tenuto a effettuare un’analisi globale di tale rischio, tenendo conto di tutti gli elementi di somiglianza e di differenza individuati allo stesso titolo di tutti gli altri elementi rilevanti, come il grado di attenzione del pubblico di riferimento (v., in tal senso, sentenza del 12 gennaio 2006, Ruiz-Picasso e a./UAMI, C‑361/04 P, EU:C:2006:25, punti 21 e 23) o il grado di carattere distintivo del marchio anteriore.>>, paragrafo 76
In conclusione il tribunale ha sbagliato, <<quando ha inteso neutralizzare la somiglianza dei segni in conflitto sul piano fonetico alla luce della loro dissomiglianza concettuale e ha rinunciato all’analisi globale del rischio di confusione, pur non avendo affatto constatato, e neppure verificato, che nel caso di specie almeno uno dei segni in questione avesse un significato chiaro e definito per il pubblico di riferimento tale che quest’ultimo potesse coglierlo direttamente.>> para 77
Pertanto alla luce di questo vizio e di quello di motivazione contraddittoria, la sentenza del Tribunale va annullata, § 79.
Nell’ultima parte della sentenza La Corte procede al giudizio di merito: è infatti ammesso dal suo Statuto (articolo 61 comma 1) quando lo stato degli atti lo permetta
Qui la CG applica al caso specifico gli insegnamenti contenuti nella prima parte della sentenza, per cui su questa parte non mi trattengo: anche se non è priva di intresse, come sempre quando i principi astratti vengono applicati al caso concreto.

Mi limito a ricordare che l’esito dello ius dicere sostitutivo operato dalla CG è stato quello di confermare il giudizio di confondibilità dell’EUIPO, quindi rigettando l’impugnazione proposta di Equivalenza Manufactory, del §§ 101-103.

Valenza probatoria degli SMS: conferma della Cassazione

La Cassazione conferma la sua linea circa la valenza probatoria degli SMS.

L’ordinanza 19.155 del 17.07.2019, KMY c. GE, così dice in motivazione:

<<Questa Corte ha di recente statuito (Cass. 5141/20119) che “lo “short message service” (“SMS”) contiene la rappresentazione di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti ed è riconducibile nell’ambito dell’art. 2712 c.c., con la conseguenza che forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale viene prodotto non ne contesti la conformità ai fatti o alle cose medesime. Tuttavia, l’eventuale disconoscimento di tale conformità non ha gli stessi effetti di quello della scrittura privata previsto dall’art. 215 c.p.c., comma 2, poichè, mentre, nel secondo caso, in mancanza di richiesta di verificazione e di esito positivo della stessa, la scrittura non può essere utilizzata, nel primo non può escludersi che il giudice possa accertare la rispondenza all’originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni” (nella specie, veniva in questione il disconoscimento della conformità ad alcuni “SMS” della trascrizione del loro contenuto). Sempre questa Corte (Cass.11606/2018), in tema di efficacia probatoria dei documenti informatici, ha precisato che “il messaggio di posta elettronica (cd. e-mail) costituisce un documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti che, seppure privo di firma, rientra tra le riproduzioni informatiche e le rappresentazioni meccaniche di cui all’art. 2712 c.c. e, pertanto, forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale viene prodotto non ne disconosca la conformità ai fatti o alle cose medesime”.

Ora, sempre in tema di efficacia probatoria delle riproduzioni informatiche di cui all’art. 2712 c.c., il disconoscimento idoneo a fare perdere ad esse la qualità di prova, pur non soggetto ai limiti e alle modalità di cui all’art. 214 c.p.c., deve tuttavia essere chiaro, circostanziato ed esplicito, dovendosi concretizzare nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta, anche se non ha gli stessi effetti del disconoscimento previsto dall’art. 215 c.p.c., comma 2, perchè mentre questo, in mancanza di richiesta di verificazione e di esito positivo di questa, preclude l’utilizzazione della scrittura, il primo non impedisce che il giudice possa accertare la conformità all’originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni (cfr. Cass. 3122/2015, nella quale questa Corte ha confermato la sentenza impugnata, laddove aveva ritenuto utilizzabile un DVD contenente un filmato, considerato che la parte aveva contestato del tutto genericamente la conformità all’originale della riproduzione informatica prodotta e che il giudice di merito aveva ritenuto l’assenza di elementi che consentissero di ritenere il documento non rispondente al vero; conf. 17526/2016; in termini, Cass.1250/2018)>>

Breve nota di M. Cometto, La valenza probatoria degli SMS, Giur. it., 2020, 1, 90 ss

Le informazioni non finanziarie, obbligatorie per le grandi imprese, non modificano la ricostruzione dell’interesse sociale

La Direttiva UE 2014/95 del 22.10.2014 aveva introdotto l’obbligo per le imprese di maggiori dimensioni (“enti di interesse pubblico” e con almeno 500 dipendenti) di fornire annualmente alcune informazioni di carattere non finanziario, essenzialmente relative agli aspetti c.d  ESG (Environmental, Social, Governance).

Tale dir. modifica la Dir. 2013/34/UE del 26 giugno 2013 , relativa ai bilanci d’esercizio, ai bilanci consolidati e alle relative relazioni di talune tipologie di imprese.

la Direttiva è stata recepita con il decreto legislativo 254 del 2016.

In particolare secondo l’art. 3 del d. lgs. 254, <<1. La dichiarazione individuale di carattere non finanziario, nella misura necessaria ad assicurare la comprensione dell’attivita’ di impresa, del suo andamento, dei suoi risultati e dell’impatto dalla stessa prodotta, copre i temi ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani, alla lotta contro la corruzione attiva e passiva, che sono rilevanti tenuto conto delle attivita’ e delle caratteristiche dell’impresa, descrivendo almeno: a) il modello aziendale di gestione ed organizzazione delle attivita’ dell’impresa, ivi inclusi i modelli di organizzazione e di gestione eventualmente adottati ai sensi  dll’articolo 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, anche con riferimento alla gestione dei suddetti temi;b) le politiche praticate dall’impresa, comprese quelle di dovuta diligenza, i risultati conseguiti tramite di esse ed i relativi indicatori fondamentali di prestazione di carattere non finanziario;c) i principali rischi « ivi incluse le modalità di gestione degli stessi, generati o subiti, connessi ai suddetti temi e che derivano dalle attivita’ dell’impresa, dai suoi prodotti, servizi o rapporti commerciali, incluse, ove rilevanti, le catene di fornitura e subappalto(1); 2. In merito agli ambiti di cui al comma 1, la dichiarazione di carattere non finanziario contiene almeno informazioni riguardanti: a) l’utilizzo di risorse energetiche, distinguendo fra quelle prodotte da fonti rinnovabili e non rinnovabili, e l’impiego di risorse idriche;b) le emissioni di gas ad effetto serra e le emissioni inquinanti in atmosfera;c) l’ impatto, ove possibile sulla base di ipotesi o scenari realistici anche a medio termine, sull’ambiente nonche’ sulla salute e la sicurezza, associato ai fattori di rischio di cui al comma 1, lettera c), o ad altri rilevanti fattori di rischio ambientale e sanitario;d) aspetti sociali e attinenti alla gestione del personale, incluse le azioni poste in essere per garantire la parita’ di genere, le misure volte ad attuare le convenzioni di organizzazioni internazionali e sovranazionali in materia, e le modalita’ con cui e’ realizzato il dialogo con le parti sociali;e) rispetto dei diritti umani, le misure adottate per prevenirne le violazioni, nonche’ le azioni poste in essere per impedire atteggiamenti ed azioni comunque discriminatori;f) lotta contro la corruzione sia attiva sia passiva, con indicazione degli strumenti a tal fine adottati.>>

 Alcuni hanno sostenuto che questo modificasse il concetto di <<interesse sociale>> , al centro del diritto societario: lo scopo delle attività in comune non sarebbe più solamente quello di soddisfare i soci soddisfazione (che può prendere pieghe diverse come ad esempio shareholder value e/o livello dei profitti). Si è ipotizzato infatti che potessero rientrare tra gli interessi da perseguire da parte degli amministratori (in quanto pattuiti dai soci) anche interesse riconducibili a soggetti diversi.

Così però non è.

La Direttiva e la normativa di recepimento si limitano a porre dei limiti esterni all’autonomia privato-imprenditoriale dei soci (non rileva qui appurare se coincide ha sempre con questa iniziativa del management che potrebbe anche divergere). Non emergono soggetti diversi titolari di posizioni giuridiche, che gli amministratori debbano rispettare se non addirittura promuovere

Anzi,  come un recente studio evidenzia (Maugeri M., Informazione non finanziaria e interesse sociale, Rivista delle società, 2019, 5-6, 992 ss), la normativa vuole proprio tutelare l’interesse dell’investitore “tipologicamente istituzionale”.  Dato infatti che gli interessi socio-ambientali sono percepiti come sempre più decisivi per l’andamento dell’attività, la disclosure di informazioni in tal senso è finalizzata a rendere più informata e quindi efficace la scelta di investimento degli investitori (ivi, § 5, spt. 1024-1025).

Le relative scelte, che spetteranno agli amministratori, saranno governate dalla nota business judgment rule e cioè saranno censurabili solo se irragionevoli (in un’ottiva ex ante, naturalmente, per no nessere viziate dal senno di poi, hindsight bias) o se manchevoli di base informativa adeguata.