Amazon non è “venditor” (seller) ai fini della responsabilità del produttore

La corte d’appello (9 circuito) conferma che Amazon (A.) non è nè venditore (seller) nè manifacturer ai fini della responsabilità del produttore da prodotto difettoso.

Si tratta di State Farm Fire and Casualty Company v. Amazon.com, Inc., 2020 WL 6746745 (9th Cir. Nov. 17, 2020).

Perchè ci sia tale responsabilità, bisogna che <an entity must be an “integral part of an enterprise” that resulted in the defective product being placed in the stream of commerce>, p. 3

E ciò si determina con una valutazione complessiva sui seguenti sette parametri, disse il giudice di primo grado (dell’Arizona):

<<a number of factors when determining if entities participate significantly in the stream of commerce and are therefore subject to strict liability, including whether they: (1) provide a warranty for the product’s quality; (2) are responsible for the product during transit; (3) exercise enough control over the product to inspect or examine it; (4) take title or ownership over the product; (5) derive an economic benefit from the transaction; (6) have the capacity to influence a product’s design and manufacture; or (7) foster consumer reliance through their involvement.>>

Ebbene, la corte di appello accetta tale impostazione e conferma che il loro esame porta a rigettare la domanda verso Amazon:

<<First, Amazon expressly disclaims any warranties in its Business Services Agreement, which applied to the third-party seller of the allegedly defective hoverboards here. Not providing a warranty indicates that Amazon does not take responsibility for the quality of the product. … . Second, while Amazon facilitated the shipping of the third-party seller’s hoverboards from the warehouse to the consumer, this did not make Amazon the seller of the product any more than the U.S. Postal Service or United Parcel Service are when they take possession of an item and transport it to a customer…. . Third, while Amazon could theoretically use its market power to inspect third-party sellers’ products, in practice it does not. Instead, Amazon relies on sellers’ representations regarding the contents of the packages it stores before placing them in an Amazon box for shipping.. . Fourth, while Amazon did store and then mail the hoverboards to the customer on behalf of the third-party seller, at no time did Amazon take title to the hoverboards, which supports the conclusion that it is not the seller of the product. … . Fifth, Amazon derives only a small benefit from each of the transactions of the third-party sellers that use its services, suggesting that Amazon’s interest in the transaction is limited. … . Sixth, while Amazon undoubtedly has the capacity, due to its market power, to influence third-party sellers’ design and manufacturing decisions, State Farm shows little to support the conclusion that Amazon does so in practice…. . Seventh, the consumer reliance factor weighs in Amazon’s favor because the third party is listed as the seller on the website and receipt, and State Farm does not cite to any cases that support its contention that an injured party’s subjective belief about the identity of the seller weighs in favor of finding that entity strictly liable>>.

In conclusione, <<we conclude that under Arizona’s existing body of case law, which requires us to balance various factors and provide a contextual analysis of whether the non-moving party participated significantly in the stream of commerce, summary judgment for Amazon is appropriate here. While Amazon provides a website for third-party sellers and facilitates sales for those sellers, it is not a “seller” under Arizona’s strict liability law for the third-party hoverboard sales at issue here>>.

Per lo stesso motivo, oltre alla domanda basata sulla strict liability, è rigettata pure quella basata sulla ordinaria negligence, p. 6/7

Non di discute affatto di safe harbour ex § 230 CDA.

(notizia e link presi dal blog di Eric Goldman)

Il tema è assai seguito negli USA, molto meno da noi (Ue), ove l’approccio  èdiverso, mirando soprauttto all’utilizzo della disciplina dei prodotti sicuri..

Per un esame comparato USA/UE v. Busch C., Rethinking Product Liability Rules for Online Marketplaces: A Comparative Perspective (February 10, 2021). 2021 Consumer Law Scholars Conference in Boston (March 4-5, 2021), scaricabile da https://ssrn.com/abstract=3784466 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3784466 . L’a. auspica che anche da noi venga introdotta una  responsabilità del gestore del marketplace (v . sub V, p. 33 ss)

Novità sulla circolazione dei dati personali

la Commissione UE allo scopo di promuovere lo scambio dei dati e dunque un mercato per i big data che possa competere con quello USA e cinese, si è avviata su alcune interessanti iniziative.

Dapprima la dir. 1024 dello scorso anno DIRETTIVA (UE) 2019/1024 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 20 giugno 2019 relativa all’apertura dei dati e al riutilizzo dell’informazione del settore pubblico.

Lo scopo è brevemente enunciato dall’art. 1: <<Al fine di promuovere l’utilizzo di dati aperti e di incentivare l’innovazione nei prodotti e nei servizi, la presente direttiva detta un complesso di norme minime in materia di riutilizzo e di modalità pratiche per agevolare il riutilizzo: a) dei documenti esistenti in possesso degli enti pubblici degli Stati membri; b) dei documenti esistenti in possesso delle imprese pubbliche…  c) dei dati della ricerca, conformemente alle condizioni di cui all’articolo 10> .

In secondo luogo, il data gorernance act di quest’anno. Si tratta della proposta di regolamento  <on European data governance (Data Governance Act)> del 25.11.2020, COM(2020) 767 final, 2020/0340(COD).

Può leggersi in tutte le lingue, essendo già state pubblicate le varie versioni linguistiche.

La ratio della proposta normativa è così riassunto nella relazione accompagnatoria (qui in italiano, formato word): << L’atto giuridico è volto a promuovere la disponibilità dei dati utilizzabili rafforzando la fiducia negli intermediari di dati e potenziando i meccanismi di condivisione dei dati in tutta l’UE. L’atto si propone di affrontare le seguenti situazioni:    –  messa a disposizione dei dati del settore pubblico per il riutilizzo qualora tali dati siano oggetto di diritti di terzi;  –  condivisione dei dati tra le imprese, dietro compenso in qualsiasi forma;  –  consenso all’utilizzo di dati personali con l’aiuto di un “intermediario per la condivisione dei dati personali”, il cui compito consiste nell’aiutare i singoli individui a esercitare i propri diritti a norma del regolamento generale sulla protezione dei dati (RGPD);  –  consenso all’utilizzo dei dati per scopi altruistici>>.

Chiara sintesi dei tre settori di intervento nella cit. Relazione accomp.:

  • il capo II < istituisce un meccanismo per il riutilizzo di determinate categorie di dati protetti detenuti da enti pubblici, che è subordinato al rispetto dei diritti di terzi (in particolare per motivi di protezione dei dati personali, ma anche di protezione dei diritti di proprietà intellettuale e riservatezza commerciale) >;
  • il capo III <mira ad accrescere la fiducia nella condivisione dei dati personali e non personali, come pure a ridurre i costi di transazione relativi alla condivisione dei dati tra imprese (B2B) e da consumatore a impresa (C2B) grazie alla creazione di un regime di notifica per i fornitori di servizi di condivisione dei dati> (in breve regola la intermediazione tra privati offerenti e richiedenti dati)
  • il capo IV concerne il  data altruism : <agevola l’altruismo dei dati (dati messi a disposizione su base volontaria da parte di individui o imprese per il bene comune). Esso istituisce la possibilità per le organizzazioni che praticano l’altruismo dei dati di registrarsi in qualità di “organizzazioni per l’altruismo dei dati riconosciute nell’UE” al fine di accrescere la fiducia nelle loro attività. Sarà inoltre sviluppato un modulo europeo comune di consenso all’altruismo dei dati per ridurre i costi della raccolta dei consensi e facilitare la portabilità dei dati (qualora i dati da mettere a disposizione non siano detenuti dai singoli individui)>.

Pare che il potenziale economico sociale legato al riuso di dati sia notevole: v. ad es. questo foglio illustrativo .

TUSMAR e SIC: rilevanti novità sulla lite Vivendi / Mediaset

Il TAR Lazio ha annullato la delibera AGCOM del 2017 che aveva ritenuto che Vivendi avesse superato la doppia soglia posta dal testo unico radiotelevisione 2005 n. 177 (TUSMAR), art. 43 c. 11, costringendo quindi Vivendi a trasferire/parcheggiare le azioni in Mediaset presso la fiduciaria SImon (§ 8).

Si tratta di TAR Lazio sez. III, 23.12.2020, n. 5880/2017 Reg. Ric.-13958/2020 reg. prov. coll., Vivendi c. AGCM nei confronti di Mediaset.

Sul punto però è decisiva la chiara risposta al quesito pregiudiziale data dalla Corte di Giustizia 03-.09.23030, C‑719/18: <<l’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa di uno Stato membro che ha l’effetto di impedire ad una società registrata in un altro Stato membro, i cui ricavi realizzati nel settore delle comunicazioni elettroniche, come definito ai fini di tale normativa, siano superiori al 40% dei ricavi complessivi di tale settore, di conseguire nel SIC ricavi superiori al 10% di quelli del sistema medesimo>> (l’art. 49 TFUE pone la libertà di stabilimento; non rileva invece la libertà di circolazione dei capitali , pur dedotta, § 8.3).

Per cui, stante la incompatibilità predetta, esperita senza successo il tentativo di interpretazione conforme alla disciplina europea, non resta che disapplicare (§ 6 e § 7.8 DIRITTO): <<Pertanto, occorre concludere che la delibera gravata poggia le proprie basi su di una norma interna di cui la sentenza della Corte di Giustizia del 3 settembre 2020 impone la disapplicazione, con conseguente applicazione dell’art. 49 del TFUE alla fattispecie>> (§ 8.5).

In breve le restrizioni posta dalla norma suv iudice non sarebbero ragionevoli e proporzionate : <L’art. 43(11) TUSMAR, come interpretato dalla Delibera, impone restrizioni alla libertà di circolazione dei capitali, prestazione dei servizi e stabilimento incompatibili con il diritto UE in quanto (i) inidonee a raggiungere gli obiettivi perseguiti e (ii) non limitate a quanto necessario a tal fine. 2> (così il ricorso Vivendi secondo quanto riporta il TAR al § 8.1).

Il TAR ha dunque annullato la delibera AGCOM impgunata; per la novità della questione, che ha richiesto la pronuncia pregiudiziale della Corte europea,  ha però compensato le spese di lite (§ 11).

Gravità dell’inadempimento nella risoluzione del contratto di locazione

Cass. 07.12.2020 n. 27955, rel. Gorgoni, si pronuncia sul tema in oggetto, dando alcuni insegnamenti (parrebbe trattarsi di locazione commerciale, venendo richiamato l’art. 41 l. 392/78).

 1) il fatto che l’art. 41 cit. non richiami l’art. 5 L. 392/78 sui parametri per determinare la gravità dell’inadempmento del cobnduttore,  e che dunque imponga l’applicazione dell’art. 1455 cc, non esclude che la prima norma un qualche rilievo possa averlo in sede interpretativo-determinativa del grave inadampimento ai sensi della seconda norma

2) quanto al profilo soggetivo/oggettivo del giudizio di gravità, la SC osserva:  <<Il fatto che, con riferimento alla fattispecie in esame, il legislatore non abbia predeterminato ex lege i caratteri dell’inadempimento solutoriamente rilevante, impone di tener conto che la gravità dell’inadempimento sotto il profilo oggettivo –per la cui determinazione il giudice può ben avvalersi orientativamente dei parametri valevoli per sciogliere il contratto di locazione ad uso abitativo: la tipizzazione normativa contribuisce a dare concretezza ed oggettività alla valutazione del giudice che, altrimenti, in un ambito nel quale il suo potere discrezionale appare singolarmente ampio e la dialettica tra regole e principi si rivela particolarmente complessa, rischierebbe di restare pericolosamente priva di coordinamento con le direttive del sistema– non è sufficiente, occorrendo parametrarla all’interesse del contraente deluso, e che il fatto che quest’ultimo abbia agito per chiedere la risoluzione del contratto per l’altrui inadempimento o l’aver diffidato l’inadempiente non basterebbero; diversamente si otterrebbe il risultato di rimettere la risoluzione alla scelta dell’adempiente (per Cass. 13/02/1990, n. 1046, “l’interesse dell’altro contraente (…) non deve essere tanto inteso in senso subiettivo, in relazione alla stima che il creditore avrebbe potuto fare del proprio interesse violato, quanto in senso obiettivo in relazione all’attitudine dell’inadempimento a turbare l’equilibrio contrattuale ed a reagire sulla causa del contratto e sul comune interesse>>;

Poi si legge <<Il punto di rottura del rapporto che giustifica la cancellazione del vincolo è dato dall’incrocio tra il grave inadempimento e l’intollerabile prosecuzione del rapporto>>: non chiarissimo il signficato, anche perchè il primo dei due concetti è subito dopo spiegato, mentre il secondo è solo enunciato ma senza spiegazione.

Il primo dunque (grave inadempimento) va sì applicato in base alle circostanze del caso [così come rappresentate alla controparte in trattatia o come documentate nel contratto], ma con parametro oggettivo (ciò che sarebbe “grave” per l’uomo medio: in quella stessa condizione, aggiungerei).

Nulla invece dice sulla intollerabilità della prosecuzione del rapporto.

Poi precisa che:

i) non è necessaria la previa intimazione in mora,

ii) la regola della cristallizzazione delle posizioni delle parti non è applicabile ai rapporti di durata,

iii) va valutata anche la condotta successiva ala proposizione della domanda,  <<giacchè in tal caso, come in tutti quelli di contratto di durata in cui la parte che abbia domandato la risoluzione non è posta in condizione di sospendere a sua volta l’adempimento della propria obbligazione, non è neppure ipotizzabile, diversamente dalle ipotesi ricadenti nell’ambito di applicazione della regola generale posta dall’art. 1453 c.c. (secondo cui la proposizione della domanda di risoluzione del contratto per inadempimento comporta la cristallizzazione, fino alla pronunzia giudiziale definitiva, delle posizioni delle parti contraenti, nel senso che, come è vietato al convenuto di eseguire la sua prestazione, così non è consentito all’attore di pretenderla), il venir meno dell’interesse del locatore all’adempimento da parte del conduttore inadempiente, il quale, senza che il locatore possa impedirlo, continua nel godimento della cosa locata consegnatagli dal locatore ed è tenuto, ai sensi dell’art. 1591 c.c., a dare al locatore il corrispettivo convenuto (salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno) fino alla riconsegna>>

Difesa nel merito degli eredi contro il Fisco: vale accettazione tacita?

Precisazioni sempre utili sul tema in oggetto da Cass. sez. trib. 29.10.2020 n. 23989.

Gli eredi, che si difendono nel merito impugnando un atto di accertamento fiscale emesso a loro carico quali eredi, compiono un’acccettazione tacita (per cui la successiva rinuncia è priva di effetto). Ciò purchè l’impugnazione sia stata proposta <<senza contestare l’assunzione di tale qualità e, quindi, il difetto di titolarità passiva della pretesa>>.

Quest’ultima precisazione è decisiva e non è stata evidenziata adeguatamente nella divulgazione giornalistica, anche giuridica.

Se infatti la prima difesa è quella della carenza di legittimazione passiva per assenza della qualità ereditaria e se la difesa nel merito è dunque subordinata, non è ravvisabile alcuna accettazione tacita.

Questo il passaggio:

<<§ 3.6 Partendo da tali premesse, questa Corte ha ritenuto che, qualora i chiamati all’eredità abbiano ricevuto ed accettato la notifica di una citazione o di un ricorso per debiti del de cuius o si siano costituiti eccependo la propria carenza di legittimazione, non siano configurabili ipotesi di accettazione tacita dell’eredità, trattandosi di atti pienamente compatibili con la volontà di non accettare l’eredità (Cass., sez. 3, 3/08/2000, n. 10197).

Qualora, invece, i chiamati all’eredità, come nel caso di specie, abbiano impugnato un atto di accertamento emesso nei loro confronti in qualità di eredi dell’originario debitore, senza contestare l’assunzione di tale qualità e, quindi, il difetto di titolarità passiva della pretesa, ma censurando nel merito l’accertamento compiuto dall’Amministrazione finanziaria, deve ritenersi che essi abbiano posto in essere un’attività che non è altrimenti giustificabile se non con la veste di erede, atteso che tale comportamento esorbita dalla mera attività processuale conservativa del patrimonio ereditario>>

Poi la SC si spende per ricordare un’ovvietà, dimenticata -pare- dal giudice a quo:

<< Nè a tale conclusione vale obiettare, come ritenuto dalla Commissione tributaria centrale, che gli eredi del T. hanno prodotto atto di rinuncia all’eredità formalizzato con atto pubblico dinanzi al Notaio. Infatti, è pur vero che, in base all’art. 521 c.c., comma 1, “chi rinunzia all’eredità è considerato come se non vi fosse mai stato chiamato”, con la conseguenza che, per effetto della rinuncia, viene impedita retroattivamente – cioè a far data dall’apertura della successione -l’assunzione di responsabilità per i debiti facenti parte del compendio ereditario. Va, tuttavia, considerato che, nel caso di specie, l’atto di rinuncia all’eredità, essendo intervenuto successivamente all’impugnazione degli avvisi di accertamento, è, in realtà, privo di effetti, per essere i chiamati all’eredità decaduti dal relativo diritto in quanto già accettanti in dipendenza del comportamento dagli stessi tenuto, posto che la mancata contestazione della loro qualità di eredi configura accettazione tacita dell’eredità (in senso conforme, questa Corte con la sentenza n. 13384 del 8 giugno 2007 ha ritenuto che configurasse accettazione tacita dell’eredità, inconciliabile con la successiva rinuncia, il fatto del chiamato che era rimasto contumace in due giudizi di merito concernenti beni del de cuius e, nella fase d’appello e informalmente, mediante uno scritto, aveva dichiarato il disinteresse alla lite; in senso conforme Cass., sez. L., 18/01/2017, n. 1183)>>.

Il credito non evidenziato nel bilancio finale di liquidazione non è rinunciato (finalmente!) (nonchè le Sez. Unite a dicembre 2020)

Sull’annosa questione del se un credito non evidenziato nel bilancio finale di liquidazione (con successica cancellazione della società dal registro imprese), interviene Cass. 14.12.2020 n. 28439. E’ dovuta all’ottima penna del dr. Rossetti.

Dice che, tranne circostanze ineqivoche in senso opposto, il  mero fatto della omessa evidenziazione del credito non può essere inteso come sua rinuncia (rectius: remissione).

Finalmente! Ci sono state molte pronunce in senso opposto, ma senza alcun fondamento.

Così infatti si legge nella cit. Cass. 28439/2020:

<<La remissione del debito, infatti, è pur sempre un atto negoziale che richiede una manifestazione di volontà. Tale manifestazione di volontà ovviamente potrà essere anche tacita, ma deve essere tuttavia inequivoca. Il silenzio, infatti, nel nostro ordinamento giuridico non può mai elevarsi a indice certo d’una volontà abdicativa o rinunciataria d’un diritto, a meno che non sia circostanziato, cioè accompagnato dal compimento di atti o comportamenti di per sé idonei a palesare una volontà inequivocabile.

La mancata appostazione d’un credito nel bilancio finale di liquidazione, tuttavia, non possiede i suddetti requisiti di inequivocità. Essa, infatti, potrebbe teoricamente essere ascrivibile alle cause più varie, e diverse da una rinuncia del credito: ad esempio, l’intenzione dei soci di cessare al più presto l’attività sociale; l’arriere-pensee di coltivare in proprio l’esazione del credito sopravvenuto o non appostato; la pendenza delle trattative per una transazione poi non avvenuta, e sinanche, da ultimo, la semplice dimenticanza o trascuratezza del liquidatore>>

E, poco dopo, la riformulazione nel principio di diritto formalmente enunciato:

<<la remissione del debito, quale causa di estinzione delle obbligazioni, esige che la volontà abdicativa del creditore sia espressa in modo inequivoco; un comportamento tacito, pertanto, può ritenersi indice della volontà del creditore di rinunciare al proprio credito solo quando non possa avere alcun’altra giustificazione razionale, se non quella di rimettere al debitore la sua obbligazione.

Ne consegue che i crediti di una società commerciale estinta non possono ritenersi rinunciati per il solo fatto che non siano stati evidenziati nel bilancio finale di liquidazione, a meno che tale omissione non sia accompagnati da ulteriori circostanze tali da non consentire dubbi sul fatto che l’omessa appostazione in bilancio altra causa non potesse avere, se non la volontà della società di rinunciare a quel credito>>.

Perfetto: nulla da osservare.

La SC si è poi pronunciata ancora nello stesso senso (medesimi estensore e presidente) con Cass. sez .3  n. 1724 del 26.01.2021.

LE SEZIONI UNITE A DICEMBRE 2020:

Restano però orientamenti opposti quando si tratta di <mere pretese> e al più alto livello: <<E’ acquisito nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui, in caso di cancellazione di una società di persone dal registro delle imprese, i singoli soci non sono legittimati all’esercizio di azioni giudiziarie la cui titolarità sarebbe spettata alla società prima della cancellazione ma che essa ha scelto di non esperire, sciogliendosi e facendosi cancellare dal registro, atteso che, in tal modo, la società ha posto in essere un comportamento inequivocabilmente inteso a rinunciare a quelle azioni, facendo così venir meno l’oggetto stesso di una trasmissione successoria ai soci (Cass., Sez. I, 16 luglio 2010, n. 16758).               Su questa base, è stato chiarito che non si verifica la successione dei soci nella titolarità di mere pretese, ancorchè azionate o azionabili in giudizio, e di crediti ancora incerti o illiquidi che, ove non compresi nel bilancio finale di liquidazione, devono ritenersi rinunciati dalla società a favore della conclusione del procedimento estintivo, con la conseguenza che gli ex soci non hanno la legittimazione a farli valere in giudizio (Cass., Sez. I, 15 novembre 2016, n. 23269; Cass., Sez. I, 19 luglio 2018, n. 19302).            Più in generale, qualora all’estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno successorio, in virtù del quale si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti e i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorchè azionate o azionabili in giudizio, nè i diritti di credito ancora incerti o illiquidi la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato (Cass., Sez. Un., 12 marzo 2013, n. 6072)>> (Cass. sez. un. – 18/12/2020, n. 29108, rel. Giusti, sub § 3 Ragioni della decisione).

E poi, diconseguenza: <<E’ esatta la premessa in diritto enunciata dalla sentenza impugnata: il mancato espletamento, da parte della società, dell’attività volta ad ottenere la condanna del soggetto responsabile al risarcimento del danno consente di ritenere che la società abbia rinunciato al credito risarcitorio, con esclusione della successione dei soci; la scelta della società di cancellarsi dal registro, senza prima intraprendere alcuna attività giudiziale volta a far accertare il credito risarcitorio e ad ottenere la conseguente pronuncia di condanna, può ragionevolmente essere interpretata come un’univoca manifestazione di volontà di rinunciare a quel credito (incerto o comunque illiquido) a favore di una più rapida conclusione del provvedimento estintivo.>>, § 5.

Presunzione priva di fondamento. La SC a sezioni unite limita però la perentorietà dell’affermazione richiedendo però la conoscibilità del credito, nel caso di credito illiquido perchè risrcitorio: <<Ritiene tuttavia il Collegio che, in presenza di un credito risarcitorio da illecito extracontrattuale, in tanto un’interpretazione abdicativa della cancellazione appare giustificata, in quanto la società fosse in grado, al tempo della cancellazione, con l’uso dell’ordinaria diligenza, di avere conoscenza non solo del danno, ma anche dell’illecito e della derivazione causale dell’uno dall’altro.

Poichè, dunque, la presunzione di una volontà dismissiva non può prescindere dalla conoscenza o dalla conoscibilità dell’esistenza del diritto rinunciato, nel caso di specie occorreva, per ritenere configurabile la rinuncia al credito risarcitorio, che la società avesse reale e concreta percezione o fosse in grado di conoscere con l’ordinaria diligenza che il pregiudizio sofferto, derivante dall’esondazione del fiume, era la conseguenza, non di una mera calamità naturale dovuta ad eccezionali precipitazioni, ma di un fatto illecito addebitabile alla colpa del terzo.>>, § 6.

Sul profilo temporale le Sez. Un. osservano : <<Invero, applicandosi il principio enunciato da Cass., Sez. Un., 22 febbraio 2010, n. 4060, l’effetto estintivo della società di persone si è avuto dal 1 gennaio 2004, ancorchè la cancellazione sia intervenuta in un momento precedente (nel marzo 1997).   Si è infatti chiarito (cfr., altresì, Cass., Sez. Un., 12 marzo 2013, n. 6072, cit.):

– che l’effetto estintivo è destinato ad operare in coincidenza con la cancellazione, se questa abbia avuto luogo in epoca successiva al 1 gennaio 2004, data di entrata in vigore della riforma del diritto societario attuata dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, o a partire da quella data se si tratti di cancellazione intervenuta in un momento precedente;

– che per ragioni di ordine sistematico, desunte anche da disposto del novellato L. Fall., art. 10, la stessa regola è applicabile anche alla cancellazione volontaria delle società di persone dal registro, quantunque tali società non siano direttamente interessate dalla nuova disposizione dell’art. 2495 c.c. e sia rimasto per esse in vigore l’invariato disposto dell’art. 2312 c.c. (integrato, per le società in accomandita semplice, dal successivo art. 2324);

– che la situazione delle società di persone si differenzia da quella delle società di capitali, a tal riguardo, solo in quanto l’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto che le cancella ha valore di pubblicità meramente dichiarativa, superabile con prova contraria; tale prova contraria non potrebbe vertere sul solo dato statico della pendenza di rapporti non ancora definiti facenti capo alla società, perchè ciò condurrebbe in sostanza ad un risultato corrispondente alla situazione preesistente alla riforma societaria; per superare la presunzione di estinzione occorre, invece, la prova di un fatto dinamico: cioè che la società abbia continuato in realtà ad operare – e dunque ad esistere – pur dopo l’avvenuta cancellazione dal registro>>, § 9.

Si badi però che la non menzione del credito nel bilancio finale di liquidazione di per sè non  equivale a rinuncia (almeno nel caso de quo): <<Una volontà abdicativa del diritto al risarcimento del danno neppure può essere nella specie desunta dalla mancata iscrizione del relativo credito nel bilancio finale di liquidazione. Poichè, infatti, la cancellazione della società Bocinsky ha avuto luogo senza passare attraverso la fase della liquidazione, non appare possibile, in assenza di bilancio di liquidazione, far leva sul dato della mancata iscrizione del credito risarcitorio nel detto bilancio finale per distinguere tra i diritti trasferiti ai soci e quelli destinati all’estinzione (cfr. Cass., Sez. I, 25 ottobre 2016, n. 21517)>>, § 10.

Nota alla sentenza di Niccolini G. in Foro it., 2021/2, I, 482.

Risoluzione del contratto e contrapposti inadempimenti

Su questo caso , frequente nella pratica, ecco cosa (sinteticamente) dice Cass. 14.12.2020 n. 28391, rel. Abete:

<<Ed in pari tempo questa Corte spiega, sia ai fini della decisione circa la fondatezza della domanda di risoluzione ex art. 1453 c.c. (cfr. Cass. 20.4.1982, n. 2454; Cass. 30.3.1989, n. 1554; Cass. 16.9.1991, n. 9619; Cass. 9.6.2010, n. 13840; Cass. 30.3.2015, n. 6401), sia ai fini della decisione circa la fondatezza della domanda di accertamento della legittimità del recesso ex art. 1385 c.c. (cfr. Cass. (ord.) 8.8.2019, n. 22209), che, in caso di inadempienze reciproche, non solo si impone un giudizio di comparazione in ordine ai comportamenti delle parti, allo scopo di stabilire quale di esse si sia resa responsabile delle trasgressioni che, per numero o per gravità ovvero per entrambe le cause, si rivelino idonee a turbare il sinallagma contrattuale, e si impone ancora la verifica dell’importanza dell’inadempimento, tenuto conto della sua efficacia causale rispetto alla finalità economica complessiva.

Ma spiega altresì che siffatta indagine – in entrambe le direzioni – costituisce accertamento “di fatto” demandato al giudice del merito, censurabile in sede di legittimità solo se viziato nei principi di diritto applicabili e nella logica del ragionamento, recte, a tal ultimo proposito, al cospetto del novello disposto dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame circa fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti>>.

Lascia perplessi l’affermazione per cui  costituisce giudizio di fatto la comparazione tra inadempimenti.

Immissioni dannose provenienti da cosa oggetto di locazione commerciale: chi risponde? Proprietario, inquilino o comodatario subtitolare ?

Nel caso di immissioni provenienti da attività commerciale esercitata dall’inquiluino (anzi, nel caso ex comodato subconcesso dall’inquilino) che cagionino danno a terzi (ad un condomino), chi risponde? Proprietario dei muri (srl Il Timone), conduttore (srl La Bitta) o il comodatario (srl Sapore di Mare, gestore del ristorante) subtitolato da quest’ultimo?

Questa il tema indagato da Cass. 10.12.2020 n .28.197 rel. Carrato.

Il passo più interssante è quello relativo alla responsabilità del proprietario, spesso fonte di incertezze nella pratica.

La SC enuncia il seguente principio:

<< Osserva, però, il collegio che sul piano generale è, invece, da ritenersi che in tema di danni da cose in custodia, ai fini della configurabilità della responsabilità ex art. 2051 c.c., è sufficiente la sussistenza del rapporto di custodia con la cosa che ha dato luogo all’evento lesivo, rapporto che postula l’effettivo potere sulla cosa, e cioè la disponibilità giuridica e materiale della stessa con il conseguente potere-dovere di intervento su di essa, e che compete al proprietario o anche al possessore o detentore. Pertanto, con riferimento alla locazione di immobile, che comporta il trasferimento della disponibilità della cosa locata e delle sue pertinenze, pur configurandosi ordinariamente l’obbligo di custodia del bene locato in capo al conduttore, dal quale deriva altresì la responsabilità a suo carico – salva quella solidale con altri soggetti ai quali la custodia faccia capo in quanto aventi pari titolo o titoli diversi che importino la coesistenza di poteri di gestione e di ingerenza sul bene – ai sensi del suddetto art. 2051 c.c., per i danni arrecati a terzi dalle parti ed accessori del bene locato, tuttavia rimane in capo al proprietario la responsabilità per i danni arrecati dalle strutture murarie e dagli impianti in esse conglobati, delle quali conserva la disponibilità giuridica e, quindi, la custodia (cfr. Cass. n. 16231/2005 e Cass. n. 21788/2015).

Era, quindi, necessario che la Corte di appello valorizzasse l’aspetto della collocazione della canna fumaria (dalla quale provenivano le esalazioni) nella struttura muraria dell’immobile di proprietà della s.r.l. Il Timone, verificando, sul piano giuridico, se la stessa avesse assolto al suo obbligo specifico di procedere alla relativa manutenzione onde evitare – accertando la sussistenza del relativo nesso causale – la possibile propagazione delle illecite immissioni.

L’omissione delle altre possibili condotte omissive a carico della citata società (da ricondursi alla indispensabile osservanza di un obbligo di diligente vigilanza sull’attività della società conduttrice), in concreto eventualmente concorrenti nella determinazione dell’evento dannoso, risulta obliterata dalla Corte territoriale, ai fini della possibile affermazione della (solidale) responsabilità per violazione degli artt. 844,2043 o 2051 c.c. (e art. 2055) e, per tale ragione, la censura coglie nel segno.

Occorre, quindi, nel caso di specie, che il giudice di rinvio – uniformandosi al principio di diritto prima enunciato con riguardo alle condizioni per la configurabilità della responsabilità concorrente del proprietario dell’immobile locato – proceda anche agli specificati ulteriori accertamenti per verificare la sussistenza o meno delle condizioni per escludere ogni responsabilità (anche concorrente), con particolare riferimento ai presupposti di applicabilità dell’art. 2043 o dell’art. 2051 c.c., della società s.r.l. Il Timone, quale proprietaria dei locali, della struttura muraria e della canna fumaria.>>

Altra azione antitrust USA contro Google

Per chi desidera approfondire il meccanismo di funzionamento della pubblicità su internet, un ottimo approfondimento si trova nell’atto di citazione della nuova lite antitrust contro Google, depositata il 16.12.2020 da dieci stati (Texas capofila), civil action n° 4:20cv957.

Si può ad es. leggerlo qui .

Si allegano fatti diversi da quelli già dedotti nella precedente azione di ottobre, come osservano due giornalisti del Wall Street Journal, Ten States Sue Google, Alleging Deal With Facebook to Rig Online Ad Market, 16.12.2020 .

Sull’azione di ottobre scorso  v. mio post 28.10.2020 .

L’indice sommario iniziale è dettagliato e chiaro , ma purtroppo non è navigabile, come sarebbe stato opportuno date le dimensioni del file.

Altro “purtroppo”: diverse parti sono oscurate, il che toglie particolari probabilmente interessanti. Del resto non è una sentenza ma un atto introduttivo.

Il funzionameto del business dell’online advertiting sta  spt. al cap. V Industrial bacgounrd (ma inevitabilmente anche altrove, un pò dovunque anzi: ad es. all’esame del marcato rilevante, cap. VI).

Per una proficua lettura del documento , si dovrà familiarizzare con i termini  peculiari del settore., anche se nell’atto sono via via spiegati bene (ma magari non la prima volta, bensì dopo).

Le condotte in violazione sono esaminate al cap. VII.

Gli effetti lesivi sono esaminati al cap. VIII: <<Evidence of the anticompetitive effects from Google’s conduct includes the exit of rival firms and limited and declining entry rates in these markets (despite significant profits enjoyed by Google in those same markets). The harm to competition deprives advertisers, publishers and consumers of improved quality, greater transparency, increased output and/or lower prices>>, § 250 p. 92.

Precisamente le modalità di lesione alla concorrenza sono le seguenti:

  1. Denying rivals in the exchange market access to the necessary scale to compete effectively by denying rivals’ access to inventory and to advertiser demand;
  2. Substantially foreclosing competition in the market for exchanges and using market power in the exchange market to harm competition in the publisher ad server market;
  3. Substantially foreclosing competition in the market for publisher ad servers and using market power in the publisher ad server market to harm competition in the exchange market, the market for display ad buying tools for small advertisers, and the market for display ad buying tools for large advertisers;
  4. Substantially foreclosing competition in the markets for display ad buying tools for small advertisers and display ad buying tools for large advertisers by creating information asymmetry and unfair auctions by virtue of Google’s market dominance in the publisher ad serving tools and exchange markets;
  5. Increasing barriers to entry in the markets for publisher ad servers, exchanges, display ad buying tools for small advertisers, and display ad buying tools for large advertisers;
  6. Harming innovation, which would otherwise benefit publishers, advertisers and consumers;
  7. Harming publishers’ ability to effectively monetize their content, reducing publishers’ revenues, and thereby reducing output;
  8. Maintaining opacity on margins and selling processes, harming competition in the exchange and display ad buying tools markets;
  9. Increasing advertisers’ costs to advertise and reducing the effectiveness of their advertising, thereby harming businesses’ ability to deliver their products and services, and reducing output;
  10. Improperly shielding Google’s products from competitive pressures, thereby allowing it to continue to extract high margins while shielded from significant pressure to innovate.

(§ 251, P. 93-94)

La causae petendi sono al cap. IX (Claims) , e son per lo più basate sullo Sherman Act.

Le richieste (petita) sono al cap-. X PRAYER FOR RELIEF, § 357, pp. 114-116.

Sono molti i saggi dottrinali sul tema. Tra i più recenti e completi v.:

  1. Dina Srinivasan, Why Google Dominates Advertising Markets Competition Policy Should Lean on the Principles of Financial Market Regulation, 24 STAN. TECH. L. REV. 55 (2020), e qui sub II ELECTRONIC TRADING MARKETS nonchè – quanto al dominoi di Google- sub III GOOGLE DOMINATES ONLINE ADVERTISING MARKETS BY ENGAGING IN CONDUCT LAWMAKERS PROHIBIT IN OTHER ELECTRONIC TRADING MARKETS;
  2. il molto interessante (l’a. è un’autorità in materia) Hovenkamp, Herbert, Antitrust and Platform Monopoly (November 14, 2020). Yale Law Journal, Vol. 130, 2021, U of Penn, Inst for Law & Econ Research Paper No. 20-43 (leggibile in ssrn.com) : il saggio riguarda l’intero business delle piattaforme  e dà ampio spazio ai rimedi antitrust possibili (v. cap. III ANTITRUST REMEDIES AGAINST DOMINANT PLATFORMS).

Vivendi/Telecom: interviene il Consiglio di Stato sull’accertamento del “controllo di fatto”

Nella saga Vivendi/Telecom (una delle due della campagna d’Italia dell’impresa francese, l’altra essendo quella con Mediaset)  si è pronunciato il Consiglio di Stato a chiudere una lite un po’ particolare

E’ intervenuto in appello sulla decisione TAR , la quale esaminava la legittimità del provvedimento Consob 13 settembre 2017, in cui il rapporto partecipativo di Vivendi in Telecom veniva accertato costituire un controllo di fatto: ciò sia ai sensi dell’art. 2359 codice civile che dell’articolo 93 TUF che infine della disciplina in materia di operazioni con parti correlate ex  reg. Consob 17221/2010

Si tratta di  Cons. St. 14.12.2020, RG 6507/2019,  numero 7972/2020 Reg. prov. coll.

L’impugnativa di Telecom e Vivendi deduceva l’illegittimità per violazione del principio di legalità (Consob avrebbe eseguito tale accertamento senza averne alcun potere) e delle regole di partecipazione nel procedimento,  pagina 8/9 (più analiticamente all’inizio del § 6)

Quanto al primo punto, il collegio dice che, tramite la teoria dei poteri impliciti, la base legale per l’accertamento inerente a Vivendi/Telecom può essere ravvisata,  pagina 21. Precisa però, quasi sentisse di aver per qualche motivo osato troppo: <<nondimeno, tale base rimane debole, in quanto, nella specie, non risultano espressi né il corollario della nominatività né quello della tipicità>>. Trattasi di correzione assai strana, a conclusione della precedente affermazione , che complessivamente rende il giudizio perplesso e non chiaro.

Lascia molto perplessi anche tecnicamente, perché la base legale o c’è o non c’è in sede giudiziale; potrà discorrersi di <tesi debole> in sede dottrinale ma non in sede giudiziale in cui , se la questione è rilevante per il decidere, la base legale o c’è o non c’è.

In ogni caso è vero che la base normativa del potere, per l’emissione di provvedimenti accertativi in situaizoni come qualla de qua, non è affatto chiara.

Quanto al secondo punto , il collegio ritiene violato il dovere di far partecipare i soggetti interessati, per cui annulla il provvedimento impugnato , pagina 24 informatico