L’uso del marchio/nome commerciale altrui nel keyword advertising costituisce “furto di proprietà”?

Edible IP cita Google presso una corte delle Georgia per quattro causae petendi in relazione all’uso del suo nome commerciale (“Edible Arrangements”) all’interno del suo keyword advertising(.

Ques’ultimo è la pubbicità tramite asta di Google sui termini ai fini dell’elenco dei risultati sponsorizzati della ricerca: di quelli “sponsorizzati”, non di quelli “naturali” (che nulla hanno di naturale, essendo frutto di precisi, studiatissimi e continuamente modificati algoritimi).

Ricordo qui solo la prima causa petendi, “theft of property”, secondo il codice della Georgia: <<Any owner of personal property shall be authorized to bring a civil action to recover damages from any person who willfully damages the owner’s personal property or who commits a theft as defined in Article 1 of Chapter 8 of Title 16 involving the owner’s personal property>> ( O.C.G.A. § 51-10-6 ).

Però la corte di appello , 2nd division, 29.01.2021, caso  A20A1594, EDIBLE IP, LLC v. GOOGLE, LLC, rigetta tutte le domande , tra cui quella basata sul cit. furto di porprietà, pp. 4-7.

Infatti l’allegazione di proprieà intellettuale sul termine non permette di ravvisare furto, per quanto possa essere creativa l’allegazione del difensore: <<Creative pleading cannot convert Google’s advertising program into a theft by taking. Edible IP has not alleged that it has a proprietary interest in Google’s search results pages or any right to control the advertising on those pages. It claims only that it ownsthe intellectual property associated with “Edible Arrangements.” The alleged “sale” of that term for advertising placement does not constitute theft.>>, p. 6/7.

La proprietà  intellettuale (PI), diremmo noi, non può essere qualificata come proprietà di cose, di res, nemmeno di energie. Vecchia questione quella del se alla PI possano applicarsi le regole dominicali di origina romane.

A me pare di si , in linea di principio: anche se non indiscriinatamente bensì solo dopo una attenta estensione analogica.

Resta da capire perchè non abbia azionato la tutela specifica per i marchi.

(notizia e link alla sentenza presi dal blog di Eric Goldman)

Può un politico bannare un follower dal proprio account Twitter? Si , se non si tratta di account ufficiale

La canditata Reisch (R.)  alle elezioni del parlamento del Missouri 44° distretto banna un follower (Campbell; poi: C.) per il semplice di aver ritweettato un post critico (caricato da terzi) nei suoi confronti.

C. agisce, facendo valere la violazione del diritto di parola in connessione con il 42 US Code § 1983, che suona così : “Every person who, under color of any statute, ordinance, regulation, custom, or usage, of any State or Territory or the District of Columbia, subjects, or causes to be subjected, any citizen of the United States or other person within the jurisdiction thereof to the deprivation of any rights, privileges, or immunities secured by the Constitution and laws, shall be liable to the party injured in an action at law, suit in equity, or other proper proceeding for redress, except that in any action brought against a judicial officer for an act or omission taken in such officer’s judicial capacity, injunctive relief shall not be granted unless a declaratory decree was violated or declaratory relief was unavailable. For the purposes of this section, any Act of Congress applicable exclusively to the District of Columbia shall be considered to be a statute of the District of Columbia“.

La questione allora è se R. agì “under color of state law”: l’attore dice di si, il convenuto di no. Così la corte: <<so the question this case presents is whether Reisch acted under color of statelaw when she blocked Campbell on Twitter. Campbell maintains that she did becauseshe blocked him for criticizing her fitness for political office even though she hadcreated a virtual forum for the public to discuss “the conduct of her office.” Reischsays she didn’t act under color of state law because she runs this Twitter account ina private capacity, namely, as a campaigner for political office>>, p. 4.

La corte di primo grado aveva ravvisato azione under color of state law.

La corte di appello del Missouri (8° circuito), con sentenza 27.01.2021, Campbell c. C. T. Reisch, n° 19-2994, invece, dice che non si tratta di account pubblico e dunque ben può il titolare bloccare chi vuole.

L’account era stato aperto prima dell’elezione e dunque non era ufficiale. Nè cambia tale qualificazione  il fatto che successivamente la canditata sia stata eletta: <<We don’t intimate that the essential character of a Twitter account is fixedforever. But the mere fact of Reisch’s election did not magically alter the account’scharacter, nor did it evolve into something different. A private account can turn intoa governmental one if it becomes an organ of official business, but that is not whathappened here. The overall theme of Reisch’s tweets—that’s she’s the right person forthe job—largely remained the same after her electoral victory. Her messagesfrequently harkened back to promises she made on the campaign trail, and she toutedher success in fulfilling those promises and in her performance as a legislator, oftenwith the same or similar hashtags as the ones she used while a candidate. So it seemsto us that Reisch used the account in the main to promote herself and position herselffor more electoral success down the road—a conclusion supported by the campaign-related tweet that led to this litigation>>, p. 7.

In breve, la corte pensa che l’account Twitter di R.  <<is more akin to a campaign newsletter than to anything else, and so it’s Reisch’s prerogative to select her audienceand present her page as she sees fit. She did not intend her Twitter page “to be like a public park, where anyone is welcome to enter and say whatever they want”>>.

La pensa all’opposto il giudice Kelly, autore della dissenting opinion: <<In short, Reisch’s persistent invocation of her position as an electedofficial overwhelmed any implicit references one might perceive to her campaign orfuture political ambitions>>.

(notizia e link alla sentenza presi dal  blog di Eric Goldman)

Prime decisioni del Facebook Oversight Board

Il Facebook Oversight Board (FOB) , organo creato da Facebook (F.) per decidere su ricorsi contro decisioni di content moderation di F. e di Instagram, ha emesso il 28 gennaio 2021 le prime sei decisioni.

E’ la prima volta che un Board così strutturato (indipendente, dice F.) e autorevole si pronuncia sulle decisioni sul <take down/keep> di un  social network (prob. è la prima volta in assoluto di un Board di qualunque tipo). Inoltre capita che lo faccia con il più grosso social del mondo.

E’ questione che da anni sta al centro del dibattito mondiale sulla content moderation praticata dalle piattaforme.

Si tratta allora di giorno importante e non solo per chi si occupa della materia.

Alcune delle sei decisioni hanno rovesciato la decisione in prima battuta di F.

Qui il link alle decisioni nel sito di FOB e qui invece il link al Facebook Oversight Board blog (FOBblog) di Lawfare , che, oltre a riprodurre le decisioni stesse (v. <Case Documents>) , le esamina approfonditamente con i migliori specialisti (v. <Lawfare Analysis> ove ad es. il post 28 gennaio 2021 di Evelyn Douek).

Approfondita sentenza d’appello sulla esenzione da responsabilità per gli internet provider (Twitter) ex § 230 CDA

La corte di appello della California approfondisce la interpretazione del § 230 Communication Decency Act, che offre il noto safe harbour agli inernet service providers.

Si tratta della 1st Appellate District-division one, 22.01.2021 n. A158214, Murphy c. Megan.

La sentenza è alquanto analitica e interessante, anche perchè affronta e supera due insidiose prospettazioni attoree, contrarie alla concedibilità del safe harbour a Twitter (poi: T.).

I fatti.   Meghan Murphy (M.), giornalista freelance con 25.000 follower,  aveva postato su T. messaggi intolleranti verso donne transgender. T. prima l’avvisa di rimuoverli e poi la sospende in via definitiva

M.  cita T. e fa valere violazione di contratto, promissory estoppel e violazione della legge sulla concorrenza sleale (unfair and fraudulent business practices).

E’ il § A della Discussion  ad esaminare il § 230(c)(1) CDA, unica questione qui ricordata.

Per la corte sono soddisfatti i tre requisiti previsti e dunque il safe harbour va concesso a T., p .13/4.

Si noti che non si tratta di mancata rimozione di contenuti di terzi asseritamente illeciti , bensì dell’opposto caso di illecita rimozione di contenuti dell’attore in causa.

M. cerca di evitare il § 230 CDA,  dicendo che no ns itratta di contenuti di terzi ma di promesse contrattuale dello stesso T.

La Corte rigetta questo argomento, dicendo che può applicarsi anche alle vioalazioni contrattuali e agli proissory estoppel, trattandosi sempre di materiale altrui (cioè non T..) . Riconosce però che altri giudici si son pronunciati in senso opposto, p. 15-23

Questo è il primo dei due punti particolarmente interessanti.

L’altro (il più importante)  riguarda il rapporto tra il n° 1 e il n° 2 del § 230(c) CDA.

Per M. , la piattaforma potrà tutt’al più invocare il n° 2 (irresponsabilità per rimozione), non il n° 1, p. 23 ss..

Per la corte invece opera il n° 1 , che copre tutte le decisioni interenti la pubblicazione, sia nel senso di di pubblicare che in quello di rimuovere, purchè si tratti di materiali di terzi.

Il n° 2 cit. dà protezione addizionale a condotte che già non siano coperte dal n° 1: ad es. [o soprattutto]  non coperte perchè non si tratta in tutto o in parte di materiali altrui ma invece totalmente/parzialmente riconducibili al service provider. Dice così : <<as the Ninth Circuit explained in Barnes, section 230(c)(1) “shields from liability all publication decisions, whether to edit, to remove, or to post, with respect to content generated entirely by third parties.” (Barnes, supra, 570F.3d at p.1105, italics added.) Section 230(c)(2), on the other hand, applies “not merely to those whom subsection (c)(1) already protects, but any provider of an interactive computer service”regardless of whether the content at issue was created or developed by third parties.(Barnes, at p.1105.) Thus, section 230(c)(2)“provides an additional shieldfrom liability,” encompassing, for example, those interactive computer service providers “who cannot take advantage of subsection (c)(1) ….because they developed, even in part, the content at issue.” (Barnes, at p.1105, italics added.)>>, p. 24.

(notizia e link alla sentenza presi dal law blog di Eric Goldman)

Copiare post di una community da un social ad un altro , per evitare di sottostare a condizioni d’uso non gradite: è lecito sotto il profilo copyright?

Un gestore/moderatore di una pagina , relativa ad una comunità locale, su un social (LiveJournal) non accetta che il social cambi le condizioni d’uso per adeguarle al diritto russo . Per questo si sposta su altro social (Dreamwith).

Un follower, però, gli fa causa, dicendo che tale riproduzione viola il copyright sui suoi post.

La corte distrettuale del Massachusetts nega che vi sia violazione, affermando il ricorrere del fair use (17 US COde § 107): si tratta di US D.C. of Mass., 21.01.2021, Monsarrat c. Newman, civ. act. n. 20-10810-RGS (sub Discussion.a, p. 3 ss). Sopratutto perchè è rispettato il criterio più imporante dei quatro (l’ultimo, quello relativo all’effetto economico-concorrenziale, pp. 7/8.

Sul fair use v. lo studio “quantitativo” della giurisprudenza 1978-2019 in <<An Empirical Study of U.S. Copyright Fair Use Opinions Updated, 1978-2019>>, di Barton Beebe, NEW YORK UNIVERSITY JOURNAL OF INTELLECTUAL PROPERTY & ENTERTAINMENT LAW, vol.10/1, 2020 .

Viene anche proposta una domanda ex diffamazione , a causa della ripubblicazione di vecchi messaggi diffamatori (parrebbe, non è chiarissimo; sub Discussion.b, p. 8 ss.; il republishing è citato a p. 10). Pertanto il moderatore con ciò sarebbe divenuto <publisher>, non più mero <host> di informazioni altrui : in breve, l’informazione sarebbe propria (anche) del moderatore, invece che (solo) di chi a suo tempo la caricò.

Il moderatore covneuto invoca tuttavia il § 230 CDA.

La Corte accoglie l’eccezione, non avcendo l’attore provato un coinvolgimento del moderatore nella produzione della notizia diffamatoria, p. 10-11.

La decisione è interessante: amplia assai il concetto di <internet service provider> , che in tali termini potrà probabilmente essere usato anche nel diritto nazionale ed euroipeo.

(notizia e link alla sentenza dal blog di Eric Goldman)

Sulla genericità (apparente) di marchio denominativo

Interessante decisione sul marchio denominativo “IT’S LIKE MILK BUT MADE FOR HUMANS” per  Classi 18, 25, 29, 30 and 32  della classificazione di Nizza, emessa  da Trib. UE 20.01.2021, T-253/20, Oatly AB c. EUIPO. (di seguito solo : T.). Presente soprattutto due profili di interesse.

Era stata negata la registrazione per prodotti in classe 29 (caseari …), 30 (dolci biscotti etc.) e  32 bevande etc., § 6, sulla base dell’art. 7.1.b in connessione all’art. 7.2 del reg. 2017/1001 (carenza di distintività).

Il T. ricorda che la funzione protetta  è quella distintiva, § 20.

Basta anche un minimo grado di distintività, § 22.

I criteri per il giudizio di distintività sono uguali per ogni clase merceologica,  anche se la percezione nel pubblico può variare , § 25.

Il contenuto elogiativo non per questo priva il marchio di distintività , potendola mantenere assieme alla sua valenza promozionale (da noi : art. 13.1.a c.p.i.). E’ il primo profilo di interesse : la possibilità di convivenza dei due aspetti. Osserva il T.: <<consequently, a trade mark consisting of an advertising slogan must be regarded as being devoid of any distinctive character if it is liable to be perceived by the relevant public only as a mere promotional formula. By contrast, and according to settled case-law, such a mark must be recognised as having distinctive character if, apart from its promotional function, it may be perceived immediately by the relevant public as an indication of the commercial origin of the goods and services concerned >, § 28

Circa l’individuazione del parametro soggettivo (consumatore di riferimento)  si tratta della english speaking people: e cioè solo quella degli stati ove  tale lingua è lingua ufficiale e non di quelli ove, pur non essendolo, è tuattavia lingua largamente conosciuta, § 35

Infine (l’altro profilo di interesse) il messaggio veicolato dal marchio denominativo (sostituto del latte ma privo degli effetti nocivi talora prodotti dal latte) è sufficientemente distintivo.  Infatti la contrappoitzione tra la prima parte (è come il latte) e la seconda (ma non ne ha gli svantaggi) porta a tale conclusione. In altra parole il marchio de quo <<conveys a message which is capable of setting off a cognitive process in the minds of the relevant public making it easy to remember and which is consequently capable of distinguishing the applicant’s goods from goods which have another commercial origin. The mark applied for therefore has the minimum degree of distinctive character required by Article 7(1)(b) of Regulation 2017/1001>>, §§ 46 e 48.

Affermazione di una certa importanza e foriero di sviluppi futuri: se si genera un processo cognitivo facilitante la  memorizzazione, si genera anche distintività ai sensi delle disposizioni de quibus.

Il blocco della piattaforma PARLER da parte di Amazon dopo i fatti di Washington

E’ balzata agli onori delle cronache mondiali la piattaforma Parler (poi: “P.”)

Si tratta di piattaforma di orientamento conservatore verso la quale si ipotizzava sarebbe andato Trump , dopo la sua sospensione dell’account Twitter

Dopo i fatti di Capitol Hill a Washington di inizio anno, nei quali seguaci estremisti di Trump hanno cercato di impedire il perfezionamento del processo di investitura del nuovo Presidente (così almeno parrebbe) , la piattaforma social P. è stata sospesa da Amazon, sul cui servizio cloud appoggiava i propri dati. Di fatto quindi le ha impedito di funzionare.

P. è una piattaforma sostanzialmente svolgente un servizio analogo a Twitter.

Il giorno dopo questa sospensione , P. agisce presso la corte distrettuale di Washington nei confronti del servizio cloud di Amazon (poi: A.), Amazon Web Services (AWS) , facendo valere tre titoli giuridici: 1° intesa restrittiva della concorrenza tra Amazon e Twitter, 2° violazione contrattuale, 3° interferenza illecita nei rapporti di business altrui.

 La Corte adita però rigetta la domanda con provvedimento D.C. for the Western District of Washington at Seattle, 21.01.2021, Parler c. Amazon Web Services, case n° 2:21-cv-0031-BJR .

P. non nega che certi post siano abusivi o che violino le clausole di Amazon, pagina 3. Dice però che Amazon sapeva e che anzi apparentemente collaborava, p. 34

Emerge che dopo i fatti di inizio gennaio e il bannaggio di Trump da Twitter e Facebook, P. ha avuto un’enorme richiesta di adesioni,  pagina 4.

Tra il 10 e l’  11 gennaio , A. ha sospeso tutti i servizi di P.  oscurandola.  Per cui il giorno dopo (l’11 gennaio ) P. deposita  domanda giudiziale, pagina 5

I requisiti  per ottenere la preliminary injunction sono quelli indicati a pagina 5: << (1) that it is likely to succeed on the merits; (2) that it is likely to suffer irreparable harm in the absence of preliminary relief; (3) that the balance of equities tips in its favor; and (4) that an injunction serves the public interest>>

Circa la prima domanda azionata (antitrust), P.  non ha dato prova dell’azione concertata tra Amazon e Twitter, limitandosi a sollevare meri sospetti di un trattamento preferenziale a favore di Twitter da parte di Amazon, pagina 6/7.

In breve << Parler has proffered only faint and factually inaccurate speculation in support of a Sherman Act violation. AWS, in contrast, has submitted sworn testimony disputing Parler’s allegations. Parler therefore has failed to demonstrate at this stage a likelihood of success on its Sherman Act claim>>, p. 8

Viene rigettata anche la seconda domanda, relativa alla violazione contrattuale, precisamente basata sulla mancata concessione del preavviso di trenta giorni.

La corte valorizza però la condotta di P. , a sua volta in violazione, la quale per tanto -secondo i termini contrattuali- ha permesso ad A. di negare il preavviso, pagina 8/9.

Circa la terza domanda (le interferenze illecite nei rapporti contrattuali) come detto sopra non ci sono prove sufficienti, pagina 9/10

Circa il periculum in mora (irreparable injury) , non sarebbe necessario discuterne, mancando il fumus boni iuris. Ciononostante , data la gravità dei temi denunciati, La Corte va anche a discutere sul danno irreparabile.

Anche sotto questo profilo , però , la corte rigetta le allegazioni di P.,  in quanto il danno può  essere irreparabile, ma non è probabile: cioè è solo potenziale, non probabile (likely), pagina 10-11

Circa il bilanciamento dei danni reciproci, manca la prova che il bilanciamento sia nettamente favorevole a P. , come richiesto.  Dice infatti la corte: <<while the “balance of hardships” may fall heaviest on Parler in the form of potential monetary loss, AWS has convincingly argued that forcing it to host Parler’s users’ violent content would interfere with AWS’s ability to prevent its services from being used to promote—and, as the events of January 6, 2021 have demonstrated, even cause—violence…. It cannot be said, therefore, that the balance of hardships “tips sharply” in Parler’s favor>>, p. 12.

Cerca l’ultimo punto (l’interesse pubblico) , la corte respinge l’idea che questo induca a privilegiare l’obbligo di Amazon di ospitare contenuti anche abusivi e violenti. Anche sotto tale profilo dunque rigetta la domanda di P., pp. 12/13

Precisamente così dice: <<The Court explicitly rejects any suggestion that the balance of equities or the public interest favors obligating AWS to host the kind of abusive, violent content at issue in this case, particularly in light of the recent riots at the U.S. Capitol. That event was a tragic reminder that inflammatory rhetoric can—more swiftly and easily than many of us would have hoped—turn a lawful protest into a violent insurrection. The Court rejects any suggestion that the public interest favors requiring AWS to host the incendiary speech that the record shows some of Parler’s users have engaged in. At this stage, on the showing made thus far, neither the public interest nor the balance of equities favors granting an injunction in this case>> p. 13

Viene segnalato che P. non è più scaricabile nemmeno da altri due giganti del web (Google Play Store Apple App Stor) e che -a fine antitrust- Amazon raccoglie circa un terzo dei fatturati nei servizicCloud (così Hal Singer , There Are Lots of Competition Problems on the Internet. Parler’s Takedown Is Not One of Them, 21.01.2021, promarket.org , centrato sui profili antitrust)

(notizia delle sentenza e link alla stessa dal blog di Eric Goldman)

Onere della prova della qualità di erede nella prosecuzione del rapporto processuale

In caso di decesso della parte pendente lite, a chi spetta l’onere di provare la qualità di erede (o l’assenza  della stessa) in colui che è  chiamato in causa in riassunzione o tramite impugnazione (come nel caso de quo)?

Per Cass. 13.851 del 06.07.2020 , rel. Graziosi, spetta al chiamato all’eredità. Precisamente spetta al chiamato, che sia destinatario di un atto di impulso prcessuale proveniente dalla parte non colpita da evento interruttivo, provare l’assenza della propria qualità di erede .

Ciò naturalmente , sempre che la parte, non colpita dall’evento interruttivo, abbia individuato il presunto erede in base ad un titolo <<allo stato>> sufficiente, cioè dotato di sufficiente apparenza: ad es. in base ad una precisa delazione ereditaria, la quale ha un lungo termine prescrizionale, sicchè la controparte non puà stare ad attenderne il decorso per proseguire il processo (nella sentenza sono ricordati pure l’altra opinione , secondo cui spetta alla parte non colpita dall’evento provare in modo completo la qualità ereditaria).

La soluzione può forse condividersi.

Nonlo può invece il discorso sulla <vicinanza alla prova>.

Questa non è una deroga alla regola posta dall’art. 2697, come vuole invece la SC, laddove dice: <<Allora la prossimità/vicinanza della prova trae le conseguenze dalla peculiare natura di fattispecie in cui di una ordinariamente agevole possibilità di fornire la prova fruisce una parte soltanto, svincolando dall’usuale canone di ripartizione degli oneri probatori delineato dall’art. 2697 c.c.>>

La vicinanza alla prova, invece, è un criterio di integrazione dell’art. 2697 cc laddove non è chiara la distizione tra fatti costitutivi , da una parte, e fatti modificativi/estintivi, dall’altra.    Concorda A. Mondini, Contro il criterio di vicinanza alla fonte di prova come opzione disapplicativa dell’art. 2697 c.c., annotando la sentenza in Foro it., ed. online, 2021 (già il titolo della nota chiarisce l’opinione dell’a.).

La sospensione di Tik Tok da parte del Garante Privacy

Il Garante privacy (GP) sospende Tik Tok a seguito della nota e triste vicenda della minorenne palermitana.

Si tratta del provvedimento n. 20 reg. provv. del 22.01.2021 [doc. web n. 9524194].

Già erano state contestate nel recente passato violazioni della privacy: v.  provvedimento di dicembre 2020.

Nel provvedimento sospensivo del 22 gennaio le norme invoicate sono l’art. 66 (che però ha solo valenza di coordinamento con gli altri Stati), l’art. 58/2 lett. f (potere di emanare il rimedio) e l’art. 25/1 che impone al titolare del trattamento di adottare misure opportune per la protezione dei dati.

Il GP dunque sospende Tik Tok fino a che non predisponga metodi di verifica dell’età degli utenti (da vedere cosa esiste in proposito) e comunque al momento fino al 15 febbraio 2021.

Qui però il problema non è tanto il consapevole o meno consenso al trattamento dati da parte di un minore: v. art. 8 GDPR sul consenso degli infra sedicenni  e pure consid. 38, 58 e 75 GDPR.

E’ invece il tipo di comunicazioni che i minori ricevono e cui prendono parte, cioè la consapevolezza della rischiosità: è una questione di capacità di intedere il senso e gl effetti di certi comportamenti. Il problema sussisterebbe anche se la comunicazione sui social avvenisse in forma anonima.

 

Finalmente la bozza delle modifiche europee alla regolamentazione dei servizi digitali

la Commissione UE a dicembre 2020 ha fatto circolare la bozza di legislazione sui servizi digitali nota come Digital Services Act , che modifica anche la Direttiva sul commercio elettronico (n 31 del 2000 da noi attuata con il decreto legislativo 70 del 2003).

Si tratta di Proposal for a REGULATION OF THE EUROPEAN PARLIAMENT AND OF THE COUNCIL on a Single Market For Digital Services (Digital Services Act) and amending Directive 2000/31/EC,  del 15 dicembre 2020, COM(2020) 825 final  – 2020/0361(COD) .

Ora è tradotta in italiano col nome di <legge sui servizi digitali>.

L’atto è complesso e non vale la pena qui di esaminarlo in dettaglio, dovendo superare lo scoglio del Consiglio e del Parlamento (ove saranno possibili diverse modifiche , come l’esperienza insegna).

Accenno brevemente alle disposizioni che sembrano più significative ad oggi. E’ utile leggere pure l’EXPLANATORY MEMORANDUM iniziale e ad es. qui il rapporto con le altre leggi europee (Consistency with other Union policies)

Va tenuto conto che questo strumento normativo è stato presentato contemporaneamente ad un’altro , il  regolamento sui profili concorrenziali delle piattaforme, detto Digital Markets Act

Il cap. 1 contiene soprattutto definizioni.

Il capitolo 2 è quello che qui interessa maggiormente. Riguarda la responsabilità dei fornitori di servizi internet , articoli 3 e seguenti.  Rimane la tripartizione passata.

Resta uguale la disciplina del mere conduit provider e del caching prpovider, articoli 3/4

Cambia invece un pò (non ci sono però stravolgimenti) quella circa l’hosting. provider. Ad es.  il safe harbour non si applica, quando la piattaforma fa apparire di essere non un mero fornitore di hosting bensì’ il fornitore diretto dell’informazione sub iudice: <<Paragraph 1 shall not apply with respect to liability under consumer protection law of online platforms allowing consumers to conclude distance contracts with traders, where such an online platform presents the specific item of information or otherwise enables the specific transaction at issue in a way that would lead an average and reasonably well-informed consumer to believe that the information, or the product or service that is the object of the transaction, is provided either by the online platform itself or by a recipient of the service who is acting under its authority or control.>>, art.  5 paragrafo 3 (novità assai significativa).

Importante  è pu re l’articolo 6:  il fatto di portare avanti indagini volontarie non fa venir meno necessariamente il safe harbor

Rimane il divieto di imporre obblighi generali di monitoraggio:  la norma appare sostanzialmente invariata (art. 7)

Nell’articolo 8 viene specificato l’ex paragrafo 2 dell’articolo 15 cioè l’assoggettaabilità ad injunction.

Qui ad esempio la particolarità è che la denuncia la richiesta dell’autorità deve concernere un elemento specifico (specific item) a  contenuto illecito. La disciplina viene inoltre arricchita in vario modo (v. paragrafo 2).

La disciplina viene ulteriormente integrata dall’articolo 9 il quale a differenza dell’articolo 8 riguardo a un ingiunzione di fornire informazioni (mentre l’articolo 8 riguardava un ingiunzione per agire contro illegalità). Anche qui si richiede uno specific item , anche se muta l’oggetto: non è più per un oggetto illegale ma è riferito a soggetti (gli utenti dell piattaforma, gli uploaders).

il capitolo III sezione 1, artt. 10 ss. impone una disciplina organizzativa a carico di tutte le piattaforme: vengono imposti l’istituzione di un point of contact, doveri di  trasparenza nel reporting , eccetera

Iel capo III sezione II viene (finalmente!) regolato il meccanismo di notice And Take down con una certa analiticità (articoli 14 e 15)

Ci sono altre disposizioni importanti : ad es. l’esenzione per le imprese micro e piccole (individuate con rinvio all’allegato della  Raccomandazione 2003/361/EC).

Interessante poi l’articolo 19 sui trusted flagger,  che dà priorità alle segnalazione provenienti da questi soggetti particolarmente credibili (trusted flagger appunto, le cui caratteristiche sono indicate al § 2).

E poi previsto il dovere di sospensione per i violatori frequenti , articolo 20, e uno per la notificazione di sospetti di violazioni penali , articolo 21.

E’ posto un obbligo di tracciabilità delle informazioni per i contratti conclusi tramite la piattaforma -articolo 22- e un altro addizionale di trasparenza , ex articolo 23

Ci sono doveri speciali per le very large online platforms . Queste sono quelle con utenti mensili pari/maggiori di 45 milioni (sono ad es. tenute ad eseguire un Risk Assessment , articolo 26). Queste dovranno anche adottare delle misure di mitigation of Risk secondo l’articolo 27 e avranno doveri addizionali (tipo Independent Audit ed altri ancora)

Il capitolo 4 concerne l’enforcement , comprensivo pure di una regola sulla giurisdizione , articolo 40

E’  creata la figura dei cosiddetti Digital Services Coordinators cioè l’Autorità che in ogni Stato sovrintenderà l’attuazione della normativa. I poteri di questi Digital Services coordinators sono indicati  nell’articolo 41

Viene istituito uno un Board indipendente per i servizi digitali (articolo 42) , sostanzialmente per un migliore applicazione del regolamento

La successiva sezione 3 del cap. 4 (art. 50 segg.)  disciplina le conseguenze in caso di violazioni da parte delle very large online platforms (di cui al cit. art. 25).

Infine, il regolamento abroga gli articoli 12-15 della direttiva 2000/31, cit. all’inizio.