La violazione contrattuale è coperta da safe harbour editoriale ex § 230 CDA?

La questione è sfiorata dalla Appellate Division di New York 22.03.2022, 2022 NY Slip Op 01978, Word of God Fellowship, Inc. v Vimeo, Inc., ove l’attore agisce c. Vimeo dopo aver subito la rimozione di video perchè confusori sulla sicurezza vaccinale.

L’importante domanda trova a mio parere risposta negativa: la piattaforma non può invocare il safe harbour se viola una regola contrattuale che si era assunta liberamente.

Diverso è se, come nel caso de quo, il contratto di hosting preveda la facoltà di rimuovere: ma allora il diritto di rimozione ha base nel contratto e non nell’esimente da safe harbour

(notizia della sentenza e link dal blog del prof. Eric Goldman)

Concorrenza sleale tra editori anche per la raccolta pubblicitaria

Interessante (ma laconica) precisazione di Cass. 14.03.2022 n. 8270, rel. Fraulini, GEDI gruppo editoriale spa c. RTI-reti telefvisive italiane spa, relativa alla illecita pubblicazione da parte della prima sul proprio portale di video illeciti, su cui aveva diritti di autore/connessi la seconda.

Per quanto qui interessa, la SC conferma la decisione di appello, secondo cui i due editori sono concorrenti nella gara per raccogliere la pubblicità ai fini della concorrenza sleale ex art. 2598 n. 3 c.c.:

<<Una nozione “dinamica” di comunanza di clientela nel senso di richiedere l’accertamento che l’attività di cui si tratta, considerata nella sua naturale dinamicità, consenta di configurare, quale esito di mercato fisiologico e prevedibile, sul piano temporale e geografico, e quindi su quello merceologico, l’offerta dei medesimi prodotti [qui: spazi pubblicitari per inserzionisti], ovvero di prodotti affini e succedanei rispetto a quelli offerti dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale. Con tali presupposti, l’affermazione della Corte romana, secondo cui la concorrenza tra le due parti del giudizio poteva essere riguardata anche [sotto cosa altro? non riporta l’accertamento di Appello …] sotto il profilo della concorrenza sul mercato pubblicitario degli inserzionisti, che dal numero di utenti collegati trae certamente primaria indicazione per orientare le proprie scelte pubblicitarie, con conseguente rilevanza dell’utilizzazione non autorizzata dei contenuti immessi sulportale dell’odierna ricorrente, costituisce una valutazione che, in astratto, rientra nella larga nozione di comunanza di clientela e, in concreto, è un giudizio di fatto che si sottare al sindacato di questa Corte>>

Cioè , par di capire, permettendo la permanenza di video anche illeciti, favoriva i  conseguenti download degli utenti (cioè aumentava il numero di accessi) e quindi , adeguatamente rivelandolo, incrementava la propria attrattività  agli occhi degli inserzionisti.

Il punto è importante (anche se non nuovo) , ma purtroppo andava motivato di più, ben di più.

Si badi che il dare rilevanza al mercato della raccolta pubblicitaria comporta che tutti quelli che hanno portale web concorrono tra loro su tale mercato, a prescindere poi dal rispettivo mercato dei prodoitti/servizi caratteristici.

(Cor)Responsabilità di Youtube per violazione di copyright commessa da un suo utente

Il consueto problema della qualificazione giuridica della piattaforma Youtube in caso di violazione di copyright è affrontato dalla Southern District Court di New TYork, 21.03.22, Buisiness Casual v. Youtube, caso 21-cv-3610 (JGK).

Tre le causae petendi azionate.

Il direct infringement è escluso per insufficiente allegazione/prova dell’elemento soggettivo richeisto dalla common law, p. 8 ss

Più interessante è che per la Corte , oltre a ciò, esso è escluso a causa della licenza pretesa da Youtube per chi carica materiali propri, come noto. Essa infatti impedirebbbe di ravvisare contraffazione in Y.

L’attore tenta di eludere tale esito  (<<Business Casual contends that the License does not cover the conduct at issue here because the License does not grant any rights “to an unrelated third party, like TV-Novosti, to do whatever it pleases with Business Casual’s content.”>>): ma per la Corte la licenza è sufficientemente ampia da coprire le condotte sub iudice di Y., p. 12.

Ancora, a fronte di una incomprensibile causa petendi dell’attore circa il non sufficientemente motivato ricorso di Y. al safe harbour ex § 512 DMCA, la Corte rigetta, precisando -in breve ma esattamente- la costruzione giuridica del safe harbour: <<The DMCA safe harbors provide potential defenses against copyright infringement claims where, but for the safe harbors, the plaintiff has a meritorious cause of action against the defendant for copyright infringement>>, p.  13

Infine son rigettate pure le causae petendi del concorso nell’illecito, contributory infringement, e della respooonsabilità vicaria, vicarious infringement, 14-15.

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

Decadenza dal marchio per non uso quinquennale e relativo onere della prova

La Corte di Giustizia UE del 10.03.2022, C-183/21, Maxxus Group GmbH c. Globus Holding GmbH, inteviene sull’oggetto precisando che :

i) la questione dell’onere della prova del non uso decadenziale è armonizzata : quindi non è lasciata ai diritti nazionali, § 33.

ii) spetta al titolare della registrazione provare il proprio uso, non alla controparte provare il fatto negativo del non uso (quest’ultima quindi avrà solo l’onere di allegazione, però piuttosto semplice: basta letteralmente affermare il non uso protratto per cinque annu), §§ 35 ss.

Nessun ragionamento particolarmente interessante.

Nel caso specifico la Corte ha deciso quindi che osta a tale interpretazione la normativa nazionale che pone qualche onere probatorio anche in capo all’impugnante il marchio.

Da noi la questione è pacificamente disciplinata nello stesso senso, alla luce dell’attuale versione dell’art. 121 cod.propr. ind.

Oscuro tentativo di distinguere tra onere di allegazione e onere della prova da parte del giudice del rinvio (v. questione sollevata sub a), al § 23)

la Corte Suprema della Georgia sulla vicenda “Speedfilter” di Snapchat

Prosegue la lite sulla pericolosità dell’applicazione Speed Filter di Snapchat, su cui v. già  mio post 19..05.2021.

Interviene la Corte Suprema della Geogia con sentenza 15.03.2022, S21G0555, MAYNARD et al. v. SNAPCHAT, per dire che Snapchat ha un dovere di progettare le applicazioni tenendo conto dei rischi prevedibili producibili a carico degli utenti e che in particolare lo aveva anche in relazione a qhllo poi concretatosi in danno nella vicenda de qua (aver favorito l’eccessiva velocità e la distrazione dell’utente che vuole farsi riprendere mentre guida).

Si tratta in pratica di una precisazione sulla diligenza che avrebbe dovuto essere tenuta dal produttore in fase progettuale.   La SC non si sofferma invece sugli altri elementi della fattispecie di responsabilità (aquiliana) : violazione, nesso di causa, danno.

<<Similarly, under our decisional law, when designing a product,
a manufacturer has a duty to exercise reasonable care in “selecting
from among alternative product designs” to “reduce[] the
[reasonably] foreseeable risks of harm presented by [a] product.
>>, p. 8.

<<A breach of a duty constitutes a proximate cause of an injury
only if the injury is the “probable” result of the breach, “according to
ordinary and usual experience,” as opposed to “merely [a] possible”
result of a breach, “according to occasional experienc
>>, p. 13

<As shown by the above discussion, considerations regarding
foreseeability are intertwined with questions of duty, breach, and
proximate causation in negligent-design cases. When determining
whether a manufacturer owes a decisional-law design duty with
respect to a particular risk of harm posed by a product, the question
is whether that particular risk was reasonably foreseeable.
>>, p. 15

<<only reasonably foreseeable risks of harm posed by a product trigger a manufacturer’s duty to use reasonable care in selecting from alternative designs under our decisional law. See Jones, 274 Ga. at 118. Applying that standard,
the Maynards adequately alleged at the motion-to-dismiss stage
that Snap owed Wentworth a design duty with respect to the
particular risk of harm at issue here – namely, injury to a driver
resulting from another person’s use of the Speed Filter while driving
at excess speed.
>>, p. 15-6.

Specificamente i Maynards (gli attori) avevano allegato <<that Snap could reasonably foresee that its product design created this risk of harm based on,
among other things, the fact that Snap knew that other drivers were
using the Speed Filter while speeding at 100 miles per hour or more
as part of “a game,” purposefully designed its products to encourage
such behavior, knew of at least one other instance in which a driver
who was using Snapchat while speeding caused a car crash, and
warned users not to use the product while driving. The Maynards
further alleged that, “[o]nce downloaded, Snapchat’s software
continues to download and install upgrades, updates, or other new

features” from Snap, meaning that the Maynards may be able to
introduce evidence showing that Snap continued developing its
product and released new versions of the software between the
initial launch of the Speed Filter and the date of Wentworth’s
accident, after obtaining real-world information about how the
Speed Filter was in fact being used. Given these allegations, we
cannot say as a matter of law at the motion-to-dismiss stage that the
Maynards could not introduce evidence that, when designing the
Speed Filter, Snap could reasonably foresee that the product’s
design created a risk of car accidents like the one at issue here,
triggering a duty for Snap to use reasonable care in designing the
product in light of that risk. See Collins v. Athens Orthopedic Clinic,
P.A., 307 Ga. 555, 560 (2) (a) (837 SE2d 310) (2019) (noting that a
motion to dismiss for failure to state a claim cannot be granted
unless “the plaintiff would not be entitled to relief under any state
of provable facts asserted in support of the allegations in the
complaint and could not possibly introduce evidence within the
framework of the complaint sufficient to warrant a grant of the relief

sought” (punctuation omitted)); see also Lemmon v. Snap, Inc., Case
No. CV 19-4504-MWF (KSX), 2019 WL 7882079, at *7 (C.D. Cal. Oct.
30, 2019) (holding that plaintiffs asserting a car-crash-related
wrongful-death claim against Snap “sufficiently alleged a duty”
owed by Snap because the plaintiffs’ allegation that “[car] accidents
ha[d] occurred as a result of users attempting to capture [a 100
m.p.h.] Snap” as part of a “game” prevented the court from
“determin[ing] that the harm from the Speed Filter was not
foreseeable as a matter of law”). Cf. Sturbridge Partners, Ltd. v.
Walker, 267 Ga. 785, 787 (482 SE2d 339) (1997) (“[E]vidence of the
prior burglaries was sufficient to give rise to a triable issue as to
whether or not Sturbridge had the duty to exercise ordinary care to
safeguard its tenants against the foreseeable risks p osed by the
prior burglaries.”)
>>, p. 17-18.

E poi: << a manufacturer’s design duty for purposes of a
negligent-design claim extends to all reasonably foreseeable risks
posed by a produc
>>, p. 20.

Naturalmente il vero problema è il caso di un uso totalmente improprio: deve risponderne il produttore? cioè deve tenerne conto quando progetta il prodotto?

<<Contrary to the opinion of the Court of Appeals majority,
our decisional law does not recognize a blanket exception to a
manufacturer’s design duty in all cases of intentional or tortious
third-party product misuse. Nevertheless, we emphasize that
intentional or tortious third-party misuse may be an important
consideration in determining whether a manufacturer owes a
decisional-law design duty in a particular case, whether the
manufacturer breached that duty, and whether the manufacturer’s
breach was a proximate cause of the resulting injury. 

As in other areas of the law where a defendant’s duty extends only to reasonably
foreseeable risks, the likelihood and nature of a third party’s use of
a product may be relevant in determining whether the particular
risk of harm from a product was reasonably foreseeable, and thus
whether a manufacturer owed a decisional-law design duty to avoid
that risk in a particular ca se. Cf. Doe v. Prudential-Bache/A.G.
Spanos Realty Partners, L.P., 268 Ga. 604, 605-606 (492 SE2d 865)
(1997) (concluding that, although “ questions of foreseeability”
underlying a landlord’s “duty to protect tenants from the
[foreseeable] criminal attacks of third parties” are “generally for a
jury,” the evidence of foreseeability on summary judgment could not
support a finding that the landlord owed a duty to the victim of a
criminal attack). Third-party product use may also be relevant in

determining whether a manufacturer breached its design duty if, for
example, danger from such use was so unlikely as to render
reasonable a manufacturer’s decision not to address it. See Banks,
264 Ga. at 736 n.6 (1) (noting that a relevant factor in the risk-utility
analysis is the likelihood of a danger). Finally, the likelihood and
nature of a third party’s tortious product use may be relevant in
determining whether a manufacturer’s breach can be considered a
proximate cause of the injury or whether, under the doctrine of
intervening causes, the third party’s conduct should be deemed the
sole proximate cause of the injury. See Johnson, 311 Ga. at 593
>>, pp. 29-31.

Si v. da noi la corrispondente disciplina fornita dall’art. 117 cod. cons., secondo cui

<<Un prodotto e' difettoso quando non offre la sicurezza che ci si
puo'  legittimamente  attendere tenuto conto di tutte le circostanze,
tra cui:
    a) il  modo in cui il prodotto e' stato messo in circolazione, la
sua  presentazione, le sue caratteristiche palesi, le istruzioni e le
avvertenze fornite;
    b) l'uso   al  quale  il  prodotto  puo'  essere  ragionevolmente
destinato  e  i  comportamenti  che, in relazione ad esso, si possono
ragionevolmente prevedere;
    c) il tempo in cui il prodotto e' stato messo in circolazione.
  2.  Un  prodotto  non puo' essere considerato difettoso per il solo
fatto  che un prodotto piu' perfezionato sia stato in qualunque tempo
messo in commercio.
  3.  Un  prodotto  e'  difettoso  se  non offre la sicurezza offerta
normalmente dagli altri esemplari della medesima serie.

Si noti spt. la lettera b), naturalmente.

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

Obblighi di avvertenza per prodotti venduti sul suo marketplace anche per lo stesso Amazon (che nemmeno può invocare il safe harbour ex 230 CDA)

Secondo una legge californiana del 1986 (c.d. <<Proposition 65>>), No person in thecourse of doing business shall knowingly and intentionally expose any
individual to a chemical known to the state to cause cancer or reproductive
toxicity without first giving clear and reasonable warning to such individual,
except as provided in Section 25249.10.”.

Il punto è : Amazon rientra nel concetto di <person in the couirse of doing business> gravato dal voere informativo cit.? Si, secondo la corte di appello della California, 1st app. district, Lee c. Amazon, A158275 in un caso concernente crema richiarante la pelle  mna contenente mercurio in eccesso.

Amazon siostiene naturalmente di non car parte della catena distrivbutiva, ma la difesa è respinta: <<The trial court was clearly correct to reject Amazon’s claim to beoutside the chain of distribution. Proposition 65 imposes the duty to provide
 warnings on any “person in the course of doing business,” which
unquestionably includes Amazon’s activities here. As the trial court
explained, “there is no language in section 25249.l l(f) [‘definitions’ for
Proposition 65] or the new regulations expressly limiting the duty to provide
a Proposition 65 warning only to a ‘manufacturer, producer, packager,
importer, supplier, or distributor of a product,’ or a ‘retail seller’ (under more
limited circumstances described in C.C.R. § 25600.2(e)), or limiting the broad language in the operative statute imposing the warning requirement on any
‘person in the course of doing business’ who ‘knowingly and intentionally
expose[s] any individual’ to a listed chemical. (Health & Saf. Code § 25249.6.)
The phrase ‘person in the course of doing business’ is broadly worded and not
limited to parties in the chain of distribution of a product or whose status is
defined in the regulations. (See Health & Saf. Code, § 25249.11(b).)” Amazon
manages and oversees all aspects of third-party sales on its Web site,
including accepting payment and providing refunds to customers on sellers’
behalf, providing the only channel for communication between customers and
sellers, earning fees from sellers for each completed sale and, for sellers
utilizing the FBA program, storing the products and arranging for their
delivery to customers. There can be no question Amazon was, in the words of
one court, “pivotal in bringing the product here to the consumer.” (Bolger v.
Amazon.com (2020) 53 Cal.App.5th 431, 438 (Bolger).>>, pp. 36-37.

Inolktre Amazon noin ha titolo per invoare l’esimente del § 230 CDA per gli editori (in senso opposto il giudioce di priomo grado).

La questione non è semplice.

L’attore Lee afferma che <<Amazon violated Proposition 65 exposing consumers to mercury without warnings through its own conduct. The claims do not
attempt to hold Amazon responsible for thirdparty sellers’ content (except in
the sense that Amazon would have been able to disclaim responsibility for
providing warnings if the sellers had provided them). As we have discussed,
the claims do not require Amazon to modify or remove thirdparty content
but rather to provide a warning where Amazon’s own conduct makes it
subject to Health and Safety Code section 25249.6>>, p. 76

E poi: << Contrary to Amazon’s characterization, enforcing its obligations under
Proposition 65 does not require it to “monitor, review, and revise” product
listings. As both Lee and the Attorney General point out, the “knowingly and
intentionally” requirement in Health and Safety Code section 25249.6 means
Amazon is required to provide a warning where it has knowledge a product
contains a listed chemical—for example, from public health alerts or direct
notice. We recognize that any responsibility to provide warnings Amazon
might have under section 25249.6 would not result in liability if the third-
party seller of a skin-lightening product its If a skin-lightening cream is sold in a brick-and-mortar drug store thatwas aware the product contained mercury, there is no question that retailseller would have some obligation to provide Proposition 65 warnings—depending, of course, on whether entities further up the distribution chainhad provided warnings for the products and, if not, could be held to account.Nothing in the text or purposes of the CDA suggests it should be interpretedto insulate Amazon from responsibilities under Proposition 65 that wouldapply to a brick-and-mortar purveyor of the same product.Not only would such an interpretation give Amazon a competitiveadvantage unintended by Congress in enacting the CDA, but it would beinimical to the purposes of Proposition 65. Amazon makes it possible forsellers who might not be able to place their products in traditional retailstores to reach a vast audience of potential customers. (E.g., Bolger, supra,53 Cal.App.5th at p. 453 [“The Amazon website . . . enables manufacturersand sellers who have little presence in the United States to sell products tocustomers here”].) The evidence in this case indicates that mercury-containing skin-lightening products are overwhelmingly likely to have beenmanufactured outside the United States—unsurprisingly, as FDAregulations prohibit use of mercury as a skin-lightening agent in cosmetics.(21 C.F.R. § 700.13.) This makes it all the more likely Amazon may be theonly business that can readily be compelled to provide a Proposition 65warning for these products. (See 2016 FSOR, supra, p. 55 [discussingimpracticality of enforcing warning requirement against foreign entitywithout agent for service of process in United States]; Bolger, supra,53 Cal.App.5th at p. 453 [noting as first factor supporting application of strictliability doctrine to Amazon that it “may be the only member of thedistribution chain reasonably available to an injured plaintiff who purchasesa product on its website”].) Amazon is thus making available to consumers,and profiting from sales of, products that clearly require Proposition 65warnings, yet are likely to have been manufactured and distributed byentities beyond the reach of reasonable enforcement efforts. InsulatingAmazon from liability for its own Proposition 65 obligations in thesecircumstances would be anomalousto review the product’s packaging and/or listing on the Web site to determine whether a warning was provided by the third-party seller. These facts do not mean Lee’s claims necessarily treats Amazon as a speaker or publisher of information provided by the third-party sellers. If Amazon has actual or constructive knowledge that a product contains mercury, it might choose to review the product listing to determinewhether the third-party seller had provided a Proposition 65 warning before providing the warning itself or removing the listing. But nothing inherently requires Amazon to do so. It could choose, instead, to act on its knowledge by providing the warning regardless, pursuant to its own obligations under Proposition 65>>

Tale legge << “ ‘is a remedial law, designed to protect
the public’ ” which must be construed “ ‘broadly to accomplish that protective
purpose.’ ” (Center for Self-Improvement & Community Development v.
Lennar Corp., supra, 173 Cal.App.4th at pp. 1550–1551, quoting People ex rel.
Lungren v. Superior Court, supra, 14 Cal.4th at p. 314.) Moreover, states’
“police powers to protect the health and safety of their citizens . . . are
‘primarily, and historically, . . . matter[s] of local concern.’ ” (Medtronic, Inc.79
v. Lohr (1996) 518 U.S. 470, 485.) The United States Supreme Court has
explained that “[w]hen addressing questions of express or implied pre-
emption, we begin our analysis ‘with the assumption that the historic police
powers of the States [are] not to be superseded by the Federal Act unless that
was the clear and manifest purpose of Congress.’ [Citation].” (Altria Group,
Inc. v. Good (2008) 555 U.S. 70, 77.) The “strong presumption against
displacement of state law . . . applies not only to the existence, but also to the
extent, of federal preemption. [Citation.] Because of it, ‘courts should
narrowly interpret the scope of Congress’s “intended invalidation of state
law” whenever possible.’ [Citation].” (Brown v. Mortensen (2011) 51 Cal.4th
1052, 1064.)
As the Ninth Circuit has explained, Congress intended “to preserve the
free-flowing nature of Internet speech and commerce without unduly
prejudicing the enforcement of other important state and federal laws. When
Congress passed section 230 it didn’t intend to prevent the enforcement of all
laws online; rather, it sought to encourage interactive computer services that
provide users neutral tools to post content online to police that content
without fear that through their ‘good samaritan . . . screening of offensive
material,’ [citation], they would become liable for every single message posted
by third parties on their website.” (Roommates.com, supra, 521 F.3d at
p. 1175, quoting § 230(c).)
The text of section 230(e)(3) is clear that state laws inconsistent with
section 230 are preempted while those consistent with section 230 are not
preempted. Proposition 65’s warning requirement is an exercise of state
authority to protect the public that imposes obligations on any individual who
exposes another to a listed chemical. Proposition 65 is not inconsistent with
the CDA because imposing liability on Amazon for failing to comply with its own, independent obligations under Proposition 65, does not require treating Amazon as the publisher or speaker of third-party sellers’ content.

Accordingly, if Lee can establish all the elements of a violation of Proposition
65, section 230 does not immunize Amazon from liability>>, pp. 79-80

(notizia della sentenza e link dal blog del prof. Eric Goldman)

Nullità della fideiussione riproducente clausole ABI concorrenzialmente illecite

Le sezioni unite hanno appianato la questione della nullità delle fideiussioni riproducenti clausole, predisposte da ABI, violanti della disciplina antitruist.

Si tratta di Cass. s.un. 30.12.2021 n. 41.994, rel. Valitutti.

La sez. sempl. ha rimesso alle ss.uu. come questioni di particolare importanza: <<1) se la coincidenza totale o parziale con le condizioni dell’intesa a monte – dichiarata nulla dall’organo di vigilanza di settore – giustifichi la dichiarazione di nullità delle clausole accettate dal fideiussore, nel contratto a valle, o legittimi esclusivamente l’esercizio dell’azione di risarcimento del danno; 2) nel primo caso, quale sia il regime applicabile all’azione di nullità, sotto il profilo della tipologia del vizio e della legittimazione a farlo valere; 3) se sia ammissibile una dichiarazione di nullità parziale della fideiussione; 4) se l’indagine a tal fine richiesta debba avere ad oggetto, oltre alla predetta coincidenza, la potenziale volontà delle parti di prestare ugualmente il proprio consenso al rilascio della garanzia, ovvero l’esclusione di un mutamento dell’assetto d’interessi derivante dal contratto.>>

Che ricorra nullità, non dovrebbe essere in discuissione, anche se alcuni aa. lo hanno sostenuto. L’efficacia della disciplina verrebbe meno se dipendesse solo dal rimedio del risarcimento del danno: serve tutela reale (che una parte fosse o meno parte della iniziael intesa vietata)

Così le SU: <<2.13. Va rilevato, invero, che la tesi secondo cui al consumatore sarebbe consentita la sola azione risarcitoria non convince, sia perché contraria a pressoché tutti i precedenti di questa Corte successivi alle Sezioni Unite n. 2207/2005, sia – e soprattutto – per ragioni inerenti alle specifiche finalità della normativa antitrust. Tuttavia, tale affermazione si riferisce – è bene ribadirlo – alla tesi più radicale, che esclude del tutto la tutela reale, ammettendo in via esclusiva quella risarcitoria, non potendo revocarsi in dubbio che come, nella specie, ha correttamente ritenuto la Corte d’appello tale forma di tutela è certamente ammissibile – come ha affermato la giurisprudenza unanime sul punto – ma non in via esclusiva, sebbene in uno all’azione di nullità.

2.13.1. Deve – per vero – osservarsi, al riguardo, che l’interesse protetto dalla normativa antitrust è principalmente quello del mercato in senso oggettivo, e non soltanto l’interesse individuale del singolo contraente pregiudicato, con la conseguente inidoneità di un rimedio risarcitorio che protegga, nei singoli casi, solo quest’ultimo, ed esclusivamente se ha subito un danno in concreto. Ed invero come rilevato da autorevole dottrina – l’obbligo del risarcimento compensativo dei danni del singolo contraente non ha una efficacia dissuasiva significativa per le imprese che hanno aderito all’intesa, o che ne hanno – come nella specie – recepito le clausole illecite nello schema negoziale, dal momento che non tutti i danneggiati agiscono in giudizio, e non tutti riescono ad ottenere il risarcimento del danno.

2.13.2. Per converso, è evidente che il riconoscimento, alla vittima dell’illecito anticoncorrenziale, oltre alla tutela risarcitoria, del diritto a far valere la nullità del contratto si rivela un adeguato completamento del sistema delle tutele, non nell’interesse esclusivo del singolo, bensì in quello della trasparenza e della correttezza del mercato, posto a fondamento della normativa antitrust.>>

Meno semplice è sciogliere il dubbio su parzialità/ totalità della nullità.

Le SU propendono per la prima alternativa: <<2.15.1. Va osservato – al riguardo – che la regola dell’art. 1419 c.c., comma 1 – ignota al codice del 1865, come pure al code civil, provenendo dall’esperienza tedesca – insieme agli analoghi principi rinvenibili negli artt. 1420 e 1424 c.c., enuncia il concetto di nullità parziale ed esprime il generale favore dell’ordinamento per la “conservazione”, in quanto possibile, degli atti di autonomia negoziale, ancorché difformi dallo schema legale. Da ciò si fa derivare il carattere eccezionale dell’estensione della nullità che colpisce la parte o la clausola all’intero contratto, con la conseguenza che è a carico di chi ha interesse a far cadere in toto l’assetto di interessi programmato fornire la prova dell’interdipendenza del resto del contratto dalla clausola o dalla parte nulla, mentre resta precluso al giudice rilevare d’ufficio l’effetto estensivo della nullità parziale all’intero contratto.

2.15.2. La giurisprudenza ha osservato – in proposito – che la nullità della singola clausola contrattuale – o di alcune soltanto delle clausole del negozio – comporta la nullità dell’intero contratto ovvero all’opposto, per il principio “utile per inutile non vitiatur”, la conservazione dello stesso in dipendenza della scindibilità del contenuto negoziale, il cui accertamento richiede, essenzialmente, la valutazione della potenziale volontà delle parti in relazione all’eventualità del mancato inserimento di tale clausola, e, dunque, in funzione dell’interesse in concreto dalle stesse perseguito (Cass., 10/11/2014, n. 23950). La nullità di singole clausole contrattuali, o di parti di esse, si estende, pertanto, all’intero contratto, o a tutta la clausola, solo ove l’interessato dimostri che la porzione colpita da invalidità non ha un’esistenza autonoma, né persegue un risultato distinto, ma è in correlazione inscindibile con il resto, nel senso che i contraenti non avrebbero concluso il contratto senza quella parte del suo contenuto colpita da nullità (Cass., 05/02/2016, n. 2314).

Agli effetti dell’interpretazione della disposizione contenuta nell’art. 1419 c.c., vige, infatti, la regola secondo cui la nullità parziale non si estende all’intero contenuto della disciplina negoziale, se permane l’utilità del contratto in relazione agli interessi con esso perseguiti, secondo quanto accertato dal giudice. Per converso, l’estensione all’intero negozio degli effetti della nullità parziale costituisce eccezione che deve essere provata dalla parte interessata (Cass. 21/05/2007, n. 11673).

2.15.3. E tuttavia, tale ultima evenienza è di ben difficile riscontro nel caso in esame. Ed invero, avuto riguardo alla posizione del garante, la riproduzione nelle fideiussioni delle clausole nn. 2, 6 e 8 dello schema ABI ha certamente prodotto l’effetto di rendere la disciplina più gravosa per il medesimo, imponendogli maggiori obblighi senza riconoscergli alcun corrispondente diritto; sicché la loro eliminazione ne alleggerirebbe la posizione. D’altro canto, però, il fideiussore (nel caso di specie socio della società debitrice principale) – salvo la rigorosa allegazione e prova del contrario – avrebbe in ogni caso prestato la garanzia, anche senza le clausole predette, essendo una persona legata al debitore principale e, quindi, portatrice di un interesse economico al finanziamento bancario. Osserva – al riguardo – il provvedimento n. 55/2005 che il fideiussore è normalmente cointeressato, in qualità di socio d’affari o di parente del debitore, alla concessione del finanziamento a favore di quest’ultimo e, quindi, ha un interesse concreto e diretto alla prestazione della garanzia.

Al contempo, è del tutto evidente che anche l’imprenditore bancario ha interesse al mantenimento della garanzia, anche espunte le suddette clausole a lui favorevoli, attesa che l’alternativa sarebbe quella dell’assenza completa della fideiussione, con minore garanzia dei propri crediti [questo è il punto decisivo e sarebbe stato necessario approfondirlo:  è da vedere se il giudizio sia sempre corretto, potendo la banca anche astrattamente rifiutarsi di erogare il finanziamento senza le clausole sub iudice, scenario non considerato dalle S.U:. Comunque valutazione da fare in modo oggettivo, id est secondo l’operatore bancario medio e non secondo l’approccio idiosincatrico di quello specifico in lite, che potrebbe avere avuto una volontà opposta]

2.15.4. La nullità dell’intesa a monte determina, dunque, la “nullità derivata” del contratto di fideiussione a valle, ma limitatamente alle clausole che costituiscono pedissequa applicazione degli articoli dello schema ABI, dichiarati nulli dal provvedimento della Banca d’Italia n. 55/2005 (nn. 2, 6 e 8) che, peraltro, ha espressamente fatto salve le altre clausole.>>

Circa l’estensione a valle e pure a negozi tra soggetti che non erano parti della iniziale intesa vietata, così motiva: << 2.16. Occorre muovere – in tale prospettiva – dal rilievo che la disciplina dettata dalla L. n. 287 del 1990, art. 2, lett. a), ha per oggetto la protezione, in via immediata, dell’interesse generale alla libertà della concorrenza sancito – come si è detto – dall’art. 41 Cost., nonché, in ambito comunitario, dal Trattato di Maastricht del 1992 e – attualmente – dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (artt. 3 e 101). Ai sensi di tale normativa antitrust, qualsiasi fattispecie distorsiva della competizione di mercato, in qualunque forma essa venga posta in essere, anche – come nel caso di specie mediante una combinazione di atti di natura diversa, costituisce comportamento rilevante ai fini del riscontro della violazione della normativa in parola. In altri termini, il legislatore sia comunitario che nazionale – quest’ultimo adeguatosi al primo, in forza del disposto dell’art. 117 Cost., comma 1 – ha inteso impedire un “risultato economico”, ossia l’alterazione del libero gioco della concorrenza, a favore di tutti i soggetti del mercato ed in qualsiasi forma l’intesa anticoncorrenziale venga posta in essere.

2.16.1. Per tale ragione, i contratti a valle di accordi contrari alla normativa antitrust – in quanto costituenti “lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti” (Cass. Sez. U., n. 2207/2005) – partecipano della stessa natura anticoncorrenziale dell’atto a monte, e vengono ad essere inficiati dalla medesima forma di invalidità che colpisce i primi. Il legislatore nazionale ed Europeo – infatti – intendendo sanzionare con la nullità un “risultato economico”, ossia il fatto stesso della distorsione della concorrenza, ha dato rilievo – anche a comportamenti “non contrattuali” o “non negoziali”.

In tale prospettiva, si rende perciò rilevante qualsiasi forma di condotta di mercato, anche realizzantesi in forme che escludono una caratterizzazione negoziale, ed anche laddove il meccanismo di “intesa” rappresenti il risultato del ricorso a schemi giuridici meramente “unilaterali”. Da ciò consegue – come ha rilevato da tempo la giurisprudenza di questa Corte – che, allorché la L. n. 287 del 1990, art. 2, stabilisce la nullità’ delle “intese”, “non ha inteso dar rilevanza esclusivamente all’eventuale negozio giuridico originario postosi all’origine della successiva sequenza comportamentale, ma a tutta la più complessiva situazione – anche successiva al negozio originario – la quale – in quanto tale – realizzi un ostacolo al gioco della concorrenza” (Cass., n. 827/1999).

Il che equivale a dire che anche la combinazione di più atti, sia pure di natura diversa, può dare luogo, in tutto o in parte, ad una violazione della normativa antitrust, qualora tra gli atti stessi sussista un “collegamento funzionale” – non certo un “collegamento negoziale”, come opina parte della dottrina, attesa la vista possibilità che l'”intesa” a monte possa essere posta in essere, come nella specie, anche mediante atti che non rivestono siffatta natura – tale da concretare un meccanismo di violazione della normativa nazionale ed Eurounitaria antitrust. In altri termini, detta violazione è riscontrabile in ogni caso in cui tra atto a monte e contratto a valle sussista un nesso che faccia apparire la connessione tra i due atti “funzionale” a produrre un effetto anticoncorrenziale.

2.16.2. La funzionalità in parola si riscontra con evidenza quando il contratto a valle (nella specie una fideiussione) è interamente o parzialmente riproduttivo dell'”intesa” a monte, dichiarata nulla dall’autorità amministrativa di vigilanza, ossia quando l’atto negoziale sia di per sé stesso un mezzo per violare la normativa antitrust, ovvero quando riproduca – come nel caso concreto – solo una parte del contenuto dell’atto anticoncorrenziale che lo precede, in tal modo venendo a costituire lo strumento di attuazione dell’intesa anticoncorrenziale. Non è certo la deroga isolata – nei singoli contratti tra una banca ed un cliente – all’archetipo codicistico della fideiussione, ed in particolare agli artt. 1939,1941 e 1957 c.c., a poter, invero, determinare problemi di sorta, come è ormai pacifico nella giurisprudenza di legittimità, in termini di effetto anticoncorrenziale.

E’, invece, il predetto “nesso funzionale” tra l'”intesa” a monte ed il contratto a valle, emergente dal contenuto di tale ultimo atto che – in violazione dell’art. 1322 c.c. – riproduca quello del primo, dichiarato nullo dall’autorità di vigilanza, a creare il meccanismo distorsivo della concorrenza vietato dall’ordinamento. In siffatta ipotesi, la nullità dell’atto a monte è – per vero – veicolata nell’atto a valle per effetto della riproduzione in esso del contenuto del primo atto.

2.16.3. E ciò è tanto più evidente quando – come nella specie le menzionate deroghe all’archetipo codicistico vengano reiteratamente proposte in più contratti, così determinando un potenziale abbassamento del livello qualitativo delle offerte rinvenibili sul mercato. La serialità della riproduzione dello schema adottato a monte – nel caso concreto dall’ABI – viene, difatti, a connotare negativamente la condotta degli istituti di credito, erodendo la libera scelta dei clienti-contraenti e incidendo negativamente sul mercato.

2.16.4. Sotto tale profilo, è del tutto palese che la previsione di cui alla L. n. 287 del 1990, art. 2, comma 3, laddove stabilisce che “le intese vietate sono nulle ad ogni effetto”, costituisce una chiara applicazione del diritto Eurounitario, il quale come statuito dalla citata giurisprudenza Europea – afferma che la nullità (sancita, dapprima dall’art. 85, n. 2 del Trattato di Roma, dipoi dall’art. 81 del Trattato CE, infine dall’art. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) è assoluta, e che l’accordo che ricada sotto questa disposizione è privo di effetti nei rapporti fra i contraenti e “non può essere opposto ai terzi”. Si tratta, invero, proprio di quella nullità “ad ogni effetto” che sancisce la norma nazionale succitata, e che si riverbera sui contratti stipulati a valle dell’intesa vietata anche con soggetti terzi, estranei all’atto a monte, ma ai quali tale atto non è comunque opponibile.>>

Sulla parzialità , invece, così ragiona: <<2.18. E tuttavia, nei casi – come quello oggetto del presente giudizio – in cui dello schema dichiarato nullo dalla Banca d’Italia, vengano riprodotte solo le tre clausole succitate, il menzionato “principio di conservazione” degli atti negoziali, costituente nell’ordinamento la “regola”, impone di considerare nulli i contratti di fideiussione a valle solo limitatamente alle clausole riproduttive dello schema illecito a monte, poiché adottato in violazione della normativa – nazionale ed Eurounitaria – antitrust, a meno che non risulti comprovata agli atti una diversa volontà delle partì, nel senso dell’essenzialità – per l’assetto di interessi divisato – della parte del contratto colpita da nullità.

2.18.1. Va, per contro, esclusa – per diversi ordini di ragioni – la nullità totale del contratto a valle, con specifico riferimento alla fattispecie oggetto del presente giudizio. Ed invero, anche a prescindere dalle critiche mosse a siffatta impostazione – sotto i diversi profili della inconfigurabilità di un collegamento negoziale tra intesa e fideiussione, della non ravvisabilità di un vizio della causa o dell’oggetto, ecc.) -, è proprio la finalità perseguita dalla normativa antitrust di cui alla L. n. 287 del 1990 e dall’art. 101 del Trattato succitato ad escludere l’adeguatezza del rimedio in questione.

E’ di tutta evidenza, infatti, che – stante la finalizzazione di tale normativa ad elidere attività e comportamenti restrittivi della libera concorrenza – i contratti a valle sono integralmente nulli – come rilevato da autorevole dottrina – esclusivamente quando la loro stessa conclusione restringe la concorrenza, come nel caso di una intesa di spartizione, riprodotta integralmente nel contratto a valle. Quest’ultimo e’, invece, nullo solo in parte qua, laddove esso riproduca le clausole dell’intesa a monte dichiarate nulle dall’organo di vigilanza, e che sono le sole ad avere – in concreto – una valenza restrittiva della concorrenza, come nel caso dello schema ABI per cui è causa. Tutte le altre clausole, coerenti con lo schema tipico del contratto di fideiussione, restano invece – come nel caso concreto ha affermato il provvedimento della Banca d’Italia n. 55 del 2005 pienamente valide.

2.18.2. Le clausole del contratto di fideiussione a valle che riproducano quelle nulle dell’intesa a monte (nn. 2, 6 e 8) vengono, invero, a recepire – nel contenuto del negozio – le determinazioni di un’associazione di imprese, l’ABI, che – in quanto costituiscono elemento di valutazione e di riferimento per le scelte delle singole associate – possono contribuire a coordinare il comportamento di imprese concorrenti, falsando – il tal guisa – il gioco della libera concorrenza. Ed è per questo che, esclusivamente sotto tale profilo, la Banca d’Italia ha osservato che “la restrizione della concorrenza derivante da una siffatta intesa risulterebbe significativa nel mercato rilevante, atteso l’elevato numero di banche associate all’ABI”, e, di conseguenza, ha dichiarato la nullità dei soli articoli nn. 2, 6 e 8 dell’intesa a monte. Per converso, tutte le altre clausole del contratto di fideiussione – in quanto finalizzate, attraverso l’obbligazione di garanzia assunta dal fideiussore, ad agevolare l’accesso al credito bancario – sono immuni da rilievi di invalidità, come ha stabilito la Banca d’Italia nel citato provvedimento, nel quale ha espressamente fatte salve tutte le altre clausole dell’intesa ABI.

2.18.3. La conclusione cui è pervenuto, nel caso di specie, l’organo di vigilanza, è – del resto – pienamente conforme a quanto la Corte di Giustizia ha da tempo affermato in materia. Fin da tempi non recenti, infatti, la Corte ha stabilito che la sanzione della nullità si applica alle sole clausole dell’accordo o della decisione colpite dal divieto, a meno che dette clausole risultino inseparabili dall’accordo o dalla decisione stessi, nel qual caso soltanto essi saranno travolti integralmente (Corte Giustizia, 30/06/1966, C- 56/65, LTM; Corte Giustizia, 01/09/2008, C- 279/06, CEPSA).

Di conseguenza, alla nullità parziale dell’accordo o della deliberazione a monte corrisponde – per le ragioni suesposte – la nullità parziale del contratto di fideiussione a valle che ne riproduca le previsioni colpite da tale forma di invalidità, e limitatamente alle clausole riproduttive di dette previsioni, salvo che la parte affetta da nullità risulti essenziale per i contraenti, che non avrebbero concluso il contratto “senza quella parte del suo contenuto che è colpita da nullità”, secondo quanto prevede – in piena conformità con le affermazioni della giurisprudenza Europea, riferite alla normativa comunitaria – il diritto nazionale (art. 1419 c.c., comma 1). E sempre che di tale essenzialità la parte interessata all’estensione della nullità fornisca adeguata dimostrazione. Evenienza, questa, di ben difficile riscontro nel caso di specie, per le ragioni in precedenza esposte.>>

Compensazione delle spese di lite  per novità e controvertibilità delle questioni.

le banche ue non di adeguano al dovere di trasparenza sui rischi ambientali e climatici

Bacchettata della BCE alle maggiori banche UE, che sono sotto la sua supervisione (le minori sotto quella nazionale), circa i forti ritardi nell’adeguarsi ai doveri di trasparenza sui richi climatici e ambientali.

E’ appena uscito il reporto marzo 2022 di stima dei profressi fatti circa il tema, essendo già stato emanato negli anni precedenti l’avviso di provvedere.
La risposta è sconortante: poche si son adeguate e queste in modo parziale.

Si v. il report con chiari grafici pubblicato dalla Supervisione della BCE il 14 marzo 2022 Supervisory assessment of institutions’ climate-related and environmental risks disclosures e qui la pagina delle news in ordina cronologico portante il file.

Il legale che invia ad Amazon l’istanza di notice and take down non commette diffamazione

interessante fattispecie concreta decisa dalla Corte dell’Illinois, east. divis., 11 marzo 2022, No. 21 C 3648, The Sunny Factory, LLC v. Chen, 2.

Il legale di un impresa titolare di copyright intima ad Amazon la rimozione dei prodotti di un’azienda presente nel suo marketplace, che asseritamente violerebbero il diritto della cliente.

Amazon rimuove e il terzo “rimosso” cita in giudizio i legali per diffamazione , tortious interference (perdite pesanti nelle vendite) e dolosa misrepresentation ai sensi del § 512.f del DMCA.

La lite viene però decisa in modo sfavolevole all’azienda intimata e attrice nel presente processo, essenzialmente per mancanza dell’elememto soggettivo (dolo o malizia a secodna dei casi)in capo ai legali convenuti.

Da segnalare che per il diritto usa c’è un privilegio a favore dei legali che agiscano per conto dei clienti quando mandano diffide nel corso di una lite, sia per diffamazione che per tortious interference, p. 5 e rispett. 7.

Strano aver lasciato  per ultima la questione del DMCA , che probabilmente era la prima in ordine logico: negando la responsabilità in base a tale dispisizone, diventava poi assai dfifficile, forse impossibile, ravvisarne in base a diverso titolo

(sentenza e link alla stessa dal blog del prof. Eric Goldman)

La Cassazione sulla riproduzione dei quadri altrui a fini di “catalogazione” (art. 70 l. aut.)

Cass. 4038 del 08.02.2022, rel. Falabella, affronta il non semplice tema della riproducibilità in cataloghi e simili delle opere pittoriche altrui , quindi in scala ridotta (bisognerebbe vedere quanto ridotta!) alla luce dell’art. 70 l. aut..

Risponde in modo secco che la riproduzione in scala ridotta, se concernente l’intero quadro, è illecita: <<La Corte di appello ha ritenuto che la pubblicazione dello “(OMISSIS)”, col quale erano state riprodotte 24.000 opere figurative di S.M., fosse ricompresa nell’eccezione di citazione di cui all’art. 70 L. aut..

Il comma 1 di tale articolo prevede, come è noto, che “(I)l riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l’utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali”. Il tenore letterale della norma rende evidente che è consentita solo la riproduzione parziale delle opere dell’ingegno: ciò implica che le opere dell’arte figurativa possano essere riprodotte solo parzialmente, nei dettagli, e non nella loro integrità. In tal senso, questa Corte ha avuto già modo di precisare che la riproduzione di opere d’arte – inserite, nella specie, nel catalogo di una mostra – allorché sia integrale e non limitata a particolari delle opere medesime, quale che sia la scala adottata nella proporzione rispetto agli originali, non costituisce alcuna delle ipotesi di utilizzazione libera, previste in via di eccezione al regime ordinario dell’esclusiva dall’art. 70 cit. (Cass. 19 dicembre 1996, n. 11343).

La diversa soluzione proposta dalla Corte di merito, secondo cui, come si è visto, la duplicazione consentita, nel campo delle opere figurative, è quella che ha ad oggetto una parte soltanto della complessiva produzione di un artista, è da respingere, perché contraria al significato fatto palese dal testo dell’art. 70 L. aut.: norma, questa, pacificamente ritenuta di stretta interpretazione perché in deroga alla regola generale che attribuisce all’autore il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera (così Cass. 7 marzo 1997, n. 2089; cfr. pure Cass. 19 dicembre 1996, n. 11343 cit., in motivazione; nel medesimo senso, con riferimento alla disciplina contenuta nella dir. 2001/29/CE: Corte giust. CE 16 luglio 2009, C5/08, Malenovsky, 56; Corte giust. CE 26 ottobre 2006, C-36/05, Commissione /Spagna, 31).>>

L’opinione è difficilmente condivisibile.

La SC dimentica che <brani o parti> di opera è riferito a <riproduzione>, mentre non ci son limiti quantitativi per il <riassunto>.  E il quadro in scala ridotta va inserito in tale ultimo concetto: probabilmente già per interpretazione diretta e piana, ma comunque per quella estensiva e di certo per analogia (non c’è rapporto di regola eccezione tra diritto di autore e diritto di riassunto).

La SC censura poi la corte di appello per non aver esaminato la presenza del secondo requisito (fini di critica o discussione): ma se si nega il ricorrere del precedente requisito, l’esame di questo è superfluo.