La Cassazione sulla riserva da (ri-)valutazione delle partecipazoni col metodo del patrimonio netto (art. 2426 n. 4/3 cc)

Nel caso di cambio di metodo di stima (da costo di acquisto a patrimonio  netto pro quota)  delle partecipazooni in società collegate o controllate, l’art. 2426 n. 4.3 impone di costituire una riserva non distribuibile.

Si pone allora il problema se questa possa essere usata a copertura perdite e anzi se costuisca componente reddituale per compensare perdite di esercizio e permettere la distribuzione di dividendi (così la censura di alcuni soci alla società).

L’interssante argomento (son pochissime le decisioni della SC in tema di valutazioni di bilancio) è esplorato da Cass. sez. I 12.05.2022 n. 15.087, rel. Nazzicone.

La SC si occupa della prima parte del problemA : <<Entrambi i ricorsi, pur articolando vari motivi, propongono la seguente questione: se ed a quali condizioni sia legittimo l’utilizzo a copertura delle perdite di esercizio – in tal modo rendendo lecita la ripartizione di utili ai soci, cui invece, ai sensi dell’art. 2433 c.c., comma 3, non potrebbe farsi luogo in presenza di perdite “fino a che il capitale non sia reintegrato o ridotto in misura corrispondente” – della riserva non distribuibile costituita, ai sensi dell’art. 2426 c.c., comma 1, n. 4, mediante la valutazione alla stregua del criterio del patrimonio netto, in luogo che in base al criterio del costo di acquisto prescritto dal n. 1 della medesima disposizione, delle partecipazioni in società controllate, la quale abbia fatto emergere una plusvalenza iscritta nella detta riserva.>>, § 4.

La scelta è discrezionale per il CdA: <<La valutazione secondo il metodo del patrimonio netto, invece, lascia emergere la c.d. sostanza economica del bene, come può essere più proficuo in talune evenienze, onde la riserva viene iscritta nel bilancio dall’organo amministrativo che opta per tale criterio. Ma torna la logica prudenziale, laddove la legge impone la costituzione di una “riserva non distribuibile” ai soci: in quanto potrebbe, allora, operarsi una distribuzione di utili solo sperati e, di fatto, la restituzione di patrimonio ai soci e la lesione dell’integrità del capitale sociale.

La regola è dunque dettata per evitare il rischio di indebite fuoriuscite di ricchezza dal patrimonio della società, ed, in particolare, la distribuzione di ricchezza tra i soci, impoverendo il patrimonio dell’ente e ponendo così a repentaglio le ragioni dei creditori, i quali invece hanno diritto ad essere soddisfatti con priorità rispetto ai soci (così Cass. 23 marzo 2004, n. 5740).

Al riguardo, questa Corte ha già avuto modo di rilevare l’esistenza di un potere discrezionale di rivalutazione da parte degli amministratori, ma sempre secondo i criteri di legge, statuendo che non è in sé illecita, in tema di azione di responsabilità contro gli amministratori, la mancata rivalutazione in bilancio delle partecipazioni in imprese controllate o collegate, pure consentita dall’art. 2426 c.c., comma 1, n. 4, perché si tratta di una scelta discrezionale rimessa all’organo gestorio, che ha la facoltà, e non l’obbligo, di valutare le menzionate immobilizzazioni finanziarie con il metodo del patrimonio netto, seguendo le modalità indicate dalla norma, invece di iscriverle al costo di acquisto (Cass. 28 maggio 2020, n. 10096).>> § 4.2.

L’imputazione delle riserve a copertura delle perdite : <<Ma se il capitale è tuttora elemento preservato dal legislatore, in vista delle funzioni che gli competono, allora va confermato il principio secondo cui esso può essere eliso dalle perdite solo dopo l’assorbimento delle riserve, intaccate però dalle perdite sulla base di un ordine successivo, il quale comporta l’imputazione delle medesime secondo una progressione rigida: dalla riserva meno vincolata e più disponibile alla riserva più vincolata e, quindi, meno disponibile. (….) Si tratta di principio posto a tutela di un interesse più generale, che trascende quello del singolo socio, essendo dettato, in particolare, a protezione dell’affidamento che i terzi abbiano fatto sulla consistenza del capitale sociale, che, perciò, non può essere intaccato prima che siano state esaurite le altre voci del patrimonio stesso.

Deve, dunque, confermarsi il principio, secondo cui le riserve appostate al passivo dello stato patrimoniale di una società di capitali possono essere imputate a riduzione delle perdite (salvo diversa specifica previsione normativa) solo in un ordine di progressiva minore disponibilità, da ultimo residuando, in tal caso secondo le maggioranze dell’assemblea straordinaria, l’operazione di riduzione del capitale sociale.>>

 – La riserva non distribuibile ex art. 2426 c.c., comma 1, n. 4.: << … Quella in esame è dunque, giocoforza, una riserva che deve essere intaccata – per il principio di imputazione delle riserve dalla meno vincolata alla più vincolata – solo dopo che altre riserve prive del vincolo di non distribuibilità siano state già erose dalle perdite.

Nell’ambito delle poste del patrimonio netto, pertanto, se si può aderire all’opinione secondo cui la riserva da plusvalenza del valore delle controllate è utilizzabile a copertura delle perdite, tuttavia proprio per evitare l’effetto indiretto di derogare di fatto al regime della indistribuibilità è necessario che, per la regola della graduazione delle voci iscritte al patrimonio netto, difettino in bilancio poste del netto più liberamente disponibili. Onde essa potrà essere utilizzata per ridurre o eliminare le perdite soltanto dopo ogni altra riserva distribuibile iscritta in bilancio, ma prima del capitale; in mancanza, si verificherebbe la “liberazione” della riserva dal suo status di maggiore tutela, prima che le altre riserve siano state utilizzate a tal fine, in dispregio della ratio della disposizione.  …. In sostanza, in tal caso le riserve derivanti dal metodo del patrimonio netto o da quello del fair value sono utilizzabili solo dopo le riserve disponibili e la riserva legale, in quanto riserve da utili realizzati, anteposte a quelle da utili non realizzati. Pertanto, il principio prudenziale ha consigliato di prevedere sì la facoltà di utilizzare, per la copertura delle perdite di esercizio, le riserve indisponibili derivanti da dette plusvalenze: ma pur sempre dopo l’imputazione a riduzione delle perdite di ogni altra riserva in bilancio, ivi compresa la riserva legale>>, § 4.6.

Si afferma (§ 2.1) che il principio contabile nazionale n. 21 dell’OCI (valutazione delle parteipazioni) è fonte normativa: non viene però chiarito tramite quale atto normativo.

Confusione tra liquidazione della quota e liquidazione della società in una società in nome collettivo

Cass. n. 9135 del 21.03.2022 , rel. Dongiacomo, fa luce sul tema.

<<Nella società di persone, in effetti, anche se composta da due soli soci, la morte di uno dei soci determina lo scioglimento del rapporto particolare del socio defunto alla data del suo decesso mentre i suoi eredi acquistano contestualmente il diritto alla liquidazione della quota secondo i criteri fissati dall’art. 2289 c.c., vale a dire un diritto di credito ad una somma di denaro equivalente al valore della quota del socio defunto in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si è verificato lo scioglimento (Cass. 10802 del 2009) per cui, salvo che si verifichi l’ipotesi disciplinata dall’ultima parte dell’art. 2284 c.c. (“salvo contraria disposizione del contratto sociale, in caso di morte di uno dei soci, gli altri devono liquidare la quota agli eredi, a meno che preferiscano sciogliere la società ovvero continuarla con gli eredi stessi e questi vi acconsentano”), e cioè la continuazione della società per volontà del socio superstite e degli eredi del socio defunto, questi ultimi rimangono estranei alla società, di cui assumono la veste di creditori della somma di denaro equivalente al valore della quota del de cuius.     Nelle società di persone, infatti, gli eredi del socio defunto non acquisiscono la posizione di quest’ultimo nell’ambito della società e non assumono pertanto la qualità di soci, ma hanno soltanto il diritto (che sorge indipendentemente dal fatto che la società continui o si sciolga) alla liquidazione della quota del loro dante causa (Cass. n. 3671 del 2001).

In definitiva, anche nella società di persone composta da due soli soci, ove la morte di un socio determini il venir meno della pluralità dei soci, non può riconoscersi un diritto degli eredi del socio defunto a partecipare alla liquidazione della società ed a pretendere una quota di liquidazione, anziché il controvalore in denaro della quota di partecipazione, in quanto lo scioglimento della società costituisce un momento successivo ed eventuale rispetto allo scioglimento del rapporto sociale limitatamente al socio e trova causa non tanto nel venir meno della pluralità dei soci quanto nel persistere per oltre sei mesi della mancanza della pluralità medesima (Cass. n. 8670 del 2000).

Nei casi di scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio (e la morte del socio è uno di questi), perfezionatosi prima del verificarsi di una causa di scioglimento della società, al socio uscente (ed, in caso di morte, ai suoi eredi) spetta, pertanto, soltanto la liquidazione della sua quota ai sensi dell’art. 2289 c.c. e non il diritto, che presuppone l’acquisto della qualità di socio, alla quota di liquidazione della società quale risulta all’esito del riparto del patrimonio sociale (residuo al pagamento dei debiti sociali ai sensi degli artt. 2280 e 2282 c.c.) fra tutti i soci (Cass. n. 9397 del 2011)>>

Principio al limite dell’ovvio: una cosa è essere creditori del valore della quota caduta in eredità ma on cosiM; cosa giuridicamnte assai diversa è essere creditori della quota di liquidazione dell’ente in quanto soci.

Applkcati questi principi al caso , segue la critica alla sentenza di appello: <<Non può, dunque, condividersi la soluzione seguita dalla sentenza impugnata: lì dove, in sede di scioglimento della comunione ereditaria tra gli eredi del socio defunto, ha, in sostanza, provveduto non già, come avrebbe dovuto fare, a dividere l’eredità tra i due coeredi, attribuendo agli stessi (tra l’altro) il diritto (nei confronti della società) alla liquidazione della quota già spettante al defunto, ma, in difetto di qualsivoglia domanda giudiziale in tal senso, a liquidare il patrimonio sociale, ripartendolo tra il coerede che era anche socio superstite, cui ha assegnato l’azienda sociale, ed il coerede non socio, cui ha attribuito il diritto al relativo conguaglio (“al coerede estraneo alla compagine sociale, impossibilitato (oltre che non interessato) a subentrare al de cuius in una società che neppure il socio superstite aveva intenzione di proseguire, spetta, pertanto, in sede di scioglimento della comunione ereditaria, una somma pari alla metà del valore della quota aziendale di pertinenza del padre al momento dell’apertura della successione, fermo restando che in tal modo l’intera azienda rimane attribuita al coerede che in vita del de cuius era socio con la quota del 2%…). Il diritto che spetta ai soci superstiti in sede di divisione di un’eredità che comprenda una quota di società di persone non e’, infatti, quello al riparto conseguente allo scioglimento dell’ente collettivo, che comporta la cessazione del rapporto sociale con effetti per tutti i soci con conseguente suddivisione tra tutti i partecipanti del patrimonio residuato al pagamento dei debiti, ma quello, previsto dagli artt. 2284 e 2289 c.c., alla liquidazione della quota del singolo socio nei confronti del quale, per effetto della sua morte, si è sciolto il rapporto sociale, che non è il diritto ad una parte del patrimonio sociale ma solo ad una somma di denaro corrispondente al valore della partecipazione.>>

Non c’è responsabilità di Uber per gli assalti a passeggeri compiuti da falsi Uber drivers

Così la Corte di appello californiana, 2 app. dist.-division one, 01 giungo 2022, B310131 (Los Angeles County Super. Ct. No. 19STCV11874).

Questione molto interessante, anche a livello teorico. Il punto è se U. doveva una protezione speciale alle attrici (vittime di adescamenti e aggressione da parte di falsi guidatori U.) ad es. fornendo accurate informazioni sull’esistenza di tali rischi nonchè predisponendo soluzioni (informatiche o altro)  per evitarli.

La domanda giudiziale:  << Through the SAC, the Jane Does seek to hold Uber liable for failing to warn them about or implement other measures to protect them against rapists employing the fake Uber scheme in the portions of West Hollywood and Los Angeles where the Uber entities knew rapists had repeatedly implemented the scheme. The SAC alleges the Uber entities “have not taken . . . any affirmative precautions to warn Uber users in” these or any other areas “of the continuous fake Uber sexual assault scheme” (capitalization omitted), and have not implemented additional safety features to help Uber app users assure they are entering the car of their authorized Uber driver>>, p. 8.

La regola nel diritto usa: <<The general rule that one has no duty, absent a special relationship, to protect others against harm at the hands of third parties is rooted in the idea that, “[g]enerally, the ‘person who has not created a peril is not liable in tort merely for failure to take affirmative action to assist or protect another’ from that peril.” (Brown, supra, 11 Cal.5th at p. 214, italics added, quoting Williams v. State of California (1983) 34 Cal.3d 18, 23.) A necessary corollary to this is that when a defendant has affirmatively “created a peril” that foreseeably leads to the plaintiff’s harm (Williams, supra, at p. 23), the defendant can, even absent a special  elationship, be held liable for failing to also protect the plaintiff from that peril. This scenario does not represent a true exception to the general rule that there is no duty to protect. Rather, it involves more than a mere failure to protect (nonfeasance), and instead involves both misfeasance— the defendant has “ma[de] the plaintiff’s position worse, i.e., defendant has created a risk”—and the nonfeasance of failing to protect against that risk once created. (Weirum v. RKP General, Inc. (1975) 15 Cal.3d 40, 49 (Weirum).)>>, p. 17

Di conseguenza : <<The fake Uber scheme may be a foreseeable result of the Uber business model, and the Jane Does’ assailants may not have been able to as easily commit their crimes against the Jane Does, were it not for the Uber app and the Uber business model. But these connections cannot establish that the harm the
Jane Does suffered is a “necessary component” of the Uber entities’ actions. (
Sakiyama, supra, 110 Cal.App.4th at p. 408.) “The violence that harmed [the Jane Does]”—abduction and rape—“[is] not ‘a necessary component’ of” the Uber business model. (See Melton, supra, 183 Cal.App.4th at p. 535.) Nor does such harm become a necessary component of the Uber business model because the Uber entities marketed the Uber app as safe to use, refused to cooperate with sexual assault investigations, or concealed sexual assaults related to the use of the app. Even accepting such allegations as true, the Uber entities still are not alleged to have “[taken] . . . action to stimulate the criminal conduct” (ibid.), as was the case in Weirum, where defendants encouraged plaintiffs to drive as quickly as possible to the designated location. (See Weirum, supra, 15 Cal.3d at p. 48.) To the contrary, like the defendants in Sakiyama, the Uber entities made efforts to prevent the type of conduct that harmed the plaintiffs—namely, they included matching system features in the Uber app that, if utilized, can
thwart efforts like the fake Uber scheme. The conduct based on which the Jane Does seek to impose liability thus does not constitute misfeasance that can give rise to a duty to protect>>, P. 22 .

E se fosse stata portata in corte da noi? Può dirsi che che U. abbia il dovere ex art. 2043 (certo non contrattuale) di avvisare l’utenza che ci son falsi autisti e di implementare meccanismi di autenticazione o altro, per non incapparvi? Una risposta positiva  pare tutt’altro che impossibile. Non parrebbe però utile la disciplina della responsabilità precontrattuale , dato che non c’è stato alcun contatto tra le vittime e U.

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

Sulla responsabilità di Amazon per prodotti in violazione di marchio venduti da terzi sul suo marketplace

Sono arrivate la conclusioni 02.06.2021 del bravo avvocato generale Szpunar nella causa C-148/21 e C-184/21, Louboutin c. Amazon.

Il quesito è semplice ma importante: Amazon è responsabile per le contraffazioni di marchio realizzate da terzi con prodotti venduti sul suo market place tramite i servizi accessori di stoccaggio e distribuzione?

L’AG dice di no e la analisi è incentrata sul cocnetto di <uso> posto dalla dir. 2017/1001 art. 9.2.

Si noti che si tratta di responsabilità diretta per violazione di disciplina sui marchi, che è armonizzata a livello euroeo: non di quella indiretta per concorso in illecito civile generale , ancora di competenzxsa nazionale (la distinzione è ricordata dall’AG, § 76 ss):

A parte che le categorie responsabilità diretta/indiretta hanno base teorica precaria , dato che l’art. 2055 non distingue , vediamo i punti salienti del ragionamento.

Il primo è quello per cui l’analisi va fatta dal punto di vista dell’utente medio dei prodotti de quibus, §§ 58-61 e § 72.

Il secondo è che A. è precisa nel distinguiere i segni distintivi propri da quelli usati dai clienti sul marketplace, § 86.

Nemmeno i servizi aggiuntivi e valore aggiunto di stoccaggio e distribuzione possono dire che ci sia un USO del segno altrui da parte di A., §§ 92 e 95

Si può concordare o meno col ragionamento.   L’AG comunque pare svalutare il riferimento nell’art. 9/3 del cit. reg. 2017/1001 allo stoccaggio e alla comunicazione commerciale.       Se in queste fasi della sua attività A. permette l’uso di segni in violazione, come può dirsi che non ne faccia <uso>? Quanto meno come concorso, fattispecie da ritenersi rientrante nell’armonizzazione europea (non potendosi farvi rientrare solo le violazioni monosoggettive)?

Dato il modello di business di A., il problema poi può porsi anche per altre privative armonizzate (diritto di autore, design) .

Può forse porsi anche per altre discipline settoriali come la responsabilità del produittore (però A. è ben attenta a dare tutte le informazioni sul  prodotture per evitare l’applcaizione dell’art. 116 cod. cons.) o la garanzia di conformità ex art. 128 cod. cons. (A. può considerarsi <venditore> quando eroga i citt. servizi aggiuntivi?)

Risarcimento del danno, cagionato dalla banca all’investitore per omesso avviso di aumento del rischio, e restituzione dei titoli

Importante insegnamento da Cass. sez. I , 5 maggio 2022, rel. Nazzicone sull’oggetto, anche se  del tutto in linea con le regole comuni sul risarcimento del danno.

Un investitore aveva chiesto i danni alla banca per non essere stato avvertito del peggioramento del rischio portato da un investimento obbligazionario, avvertimento cui la banca si era contrattualmente impegnata in base all’accordo c.d. <Patti Chiari>.

La banca tra le sue difese propone, per il caso di soccombenza, la domanda di restituzione dei titolo de quibus

La corte di appello respinge detta domanda restitutoria ma la Cass. la accoglie. E per la semplice ragione che l’investitore, avendo già ottenuto compensazione in toto del danno, non può trattenersi anche i titoli, se potrebbero in futuro avere qualche valore.  Ciò infatti determinebbe una ultra compensaizone e cioè un suo arricchimento, inammissibile in base all’art. 1223 cc

<<Se, invero, la restituzione costituisce applicazione del principio del ripristino dello status quo ante conseguente ad una pronuncia caducatoria del contratto, come indica l’art. 1422 c.c., in tema di nullità, il quale espressamente richiama la disciplina dell’indebito (salvi gli adattamenti che possano ritenersi necessari nell’ambito di una restituzione conseguita a caducazione del contratto), non è men vero che i principi del risarcimento del danno – i quali richiedono che esso copra l’intero pregiudizio sofferto e non produca, invece, a sua volta un indebito arricchimento del danneggiato (e’ appena il caso di rilevare come qui sia del tutto estraneo il tema dei c.d. danni punitivi) – implicano la necessità, in caso di condanna dell’intermediario al risarcimento del danno patito dall’investitore, commisurato all’integrale perdita di valore dei titoli ad un dato momento (e, quindi, con rimborso della esatta somma investita, detratto solo quanto in precedenza perduto per cause indipendenti dall’inadempimento dell’intermediario) di accogliere nel contempo la domanda restitutoria dei titoli medesimi, perlomeno tutte le volte che il loro residuo valore sia stato considerato pari a zero, ma non vi sia la prova che tale rimanga in via definitiva (ad esempio, per essersi ormai il cliente definitivamente privato dei titoli senza corrispettivo, o per annullamento dei medesimi, o altre evenienze) …

La restituzione dei titoli ha così lo scopo, sotto tale profilo, di commisurare il risarcimento all’effettivo danno patito.

A completamento di tali principi, occorre ora pure considerare, sul piano della esatta liquidazione del danno, come dovuta la restituzione dei titoli, pur al momento della decisione reputati privi di valore residuo e come tali non scomputati dal quantum liquidato: ciò, almeno tutte le volte in cui non sia stato, da parte del giudice del merito, altresì accertato non solo che quei titoli non avessero valore al momento della decisione, ma anche che essi siano insuscettibili di riacquistarlo in futuro in favore del cliente, ad esempio perché annullati, ceduti definitivamente o per altra ragione.

Onde occorre considerare, nella specifica situazione in esame, che il giudice del merito ha concluso nel senso che qualora la banca, in ipotesi controfattuale, avesse informato il cliente, in luogo che restare inerte, tempestivamente permettendogli di conoscere i rischi sopravvenuti – e, dunque, se la banca avesse adempiuto alla propria obbligazione informativa – il cliente avrebbe venduto i titoli, così incassando, secondo la ricostruzione sottesa alla sentenza impugnata, proprio la somma di Euro 79,00 a titolo obbligazionario, ma ovviamente privandosi, nel contempo, della titolarità dei titoli, in tale ipotetica operazione definitivamente alienati. Ed ha liquidato il danno in conformità.

Donde la regola del risarcimento integrale e non superiore del danno implica che, del pari, nella situazione patrimoniale del cliente i titoli non permangano, in quanto egli, bensì, incassi dalla controparte inadempiente l’equivalente dell’intero prezzo, ma, nel contempo, restituisca i titoli medesimi.

L’accertato valore nullo dei titoli ad una certa data, che abbia indotto la sentenza alla condanna al risarcimento pari all’integrale pagamento del prezzo ipoteticamente conseguibile a tale momento, in punto di fatto attiene unicamente il “valore zero” del titolo alla data della liquidazione, ma non in futuro, in quanto la illiquidità attuale di un prodotto finanziario non vuol dire mancanza di valore anche in epoca successiva. Invero, nonostante la perdita di valore al momento della decisione per il blocco dei pagamenti, i titoli possono, secondo l’id quod plerumque accidit, continuare a costituire oggetto di scambio sul mercato, nella prospettiva di un futuro rimborso, sia pure parziale, del relativo importo, posto che il default potrebbe avere comportato non già l’estinzione del debito, ma soltanto una sospensione delle restituzioni…

La soluzione qui accolta ha, quindi, anche il fine dell’economia processuale, prevenendo future liti.

6.3. – Nell’ambito di una visuale sistematica, può dirsi altresì che la condanna al risarcimento del danno, pari all’intero valore dei titoli in favore dell’investitore al momento del mancato disinvestimento, contenga in sé l’accertamento implicito del sopravvenuto venir meno della causa dell’attribuzione del pagamento di quel valore, e, dunque, anche del diritto a mantenere i titoli nel proprio patrimonio.

In simili casi, la tutela ripristinatoria realizzata a favore del cliente si avvicina sensibilmente ad una tutela “reale”. Se funzionalmente la restituzione del valore investito serve indubbiamente a rimuovere un danno provocato, ciò si realizza con una tecnica che è in fatto ripristinatoria.

Se è vero che permane la distinzione concettuale tra restituzione e risarcimento, in casi come quello all’esame il risultato finale tende a sovrapporsi, in quanto l’obbligazione risarcitoria dovuta della parte inadempiente coincide con la restituzione (di una parte) della somma investita (cfr. spunti in Cass. 11 marzo 2020, n. 7016). La causa dell’attribuzione dei titoli è nel contratto di investimento finanziario, attuato con lo specifico ordine; restituita, però, la somma pari al valore dei titoli che è andato perduto, del pari viene meno la giusta causa di attribuzione della res.>>

Principio di diritto:

In tema di intermediazione finanziaria, allorché sia pronunciata la condanna dell’intermediario al risarcimento del danno patito dall’investitore, in ragione dell’inadempimento ai propri obblighi, quantificato sull’assunto della perdita di integrale valore dei titoli al momento della decisione, va del pari disposta la restituzione dei titoli medesimi, quale espressione del medesimo principio di cui all’art. 1223 c.c., del risarcimento effettivamente corrispondente al danno, ogni qualvolta il loro residuo valore venga reputato, al momento della decisione, pari a zero, ma non risulti altresì in giudizio l’impossibilità di un successivo incremento del valore stesso, per essere stati i titoli annullati, definitivamente ceduti o per qualsiasi altra concreta evenienza“.

Resta oscuro, però: i) come possa dirsi venuto meno (risolto) il rapporto contrattuale (solo così infatti può ordinarsi la restituzione dei titoli), e ii) a chi incomba probatoriamente l’onere di provare che il titolo non avrà più valore.

Sub i) , si potrebbe ravvisare perdita di interesse reciproca sull’esecuzione del contratto inziale e dunque di risoluzione tacitamente accettata da entrambe le aprti (rectius: proposta tacitamente tramtie la domanda giudiziale dall’investitore e tacitamente accettata dalla banca tramite le difese svolte).

Sub ii), spetterà alla banca convenuta.

Diritto d’autore violato da tatuaggio?

Il Centr. Dist. della California, 31.05.2022, CV 21-1102 DSF (MRWx) , Sedlick v. Von Drachenberg e altri, affronta la proteggibilità di una fotografia nei confronti di una sua riproduzione su corpo umano tramite tatuaggio.

Si tratta di un’iconica, come si usa dire, rappresentazione di Miles Davis operata da un -pare- assai noto fotografo, tal Jeffrey Sedlik, il quale si accorge dai social del tatuaggio (sub C, p. 5)

I convenuti sono la tattoist e le due aziende coinvolte nell’attività (non il cliente che ricevette il tatuggio).

La corte non decide in via sommaria ma rinvia alla giuria.

Non sono in contestazione la proteggibilità nè il copiaggio. Solo che i convenuti dicono che la loro ripresa ha riguardato  elementi non proteggibili della fotografia.

La Corte affronta la questione adoperando i soliti due test (estrinseco e intrinseco, distinzione di assai dubbia esattezza logico-giuridica)

Circa l’estrinseco, ritiene che <there is a triable issue of substantial similarity under the extrinsic test>, p. 16.
Analoga, ma opposta, conclusione per il test intrinseco: <The Court finds a reasonable juror applying the intrinsic test could conclude that the works are not substantially similar in total concept and feel. See Swirsky v. Carey, 376 F.3d 841, 845 (9th Cir. 2004), as amended on denial of reh’g (Aug. 24, 2004) (“subjective
question [of] whether works are intrinsically similar must be left to the jury”). Because there are triable issues as to substantial similarity under both the extrinsic and intrinsic tests, the Court DENIES Sedlik’s motion as to copyright infringement>, ivi
.
Ancora, la corte ritiene che ci fossero ampi margini di espressività, per cui cocnede la broad proteciuon, p.14.

le due riproduzioni sono queste:

originale foto, sopra; tatuaggio, sotto

Incerta la corte anche per l’eccezione di fair use e in particolare per i suoi quattro fattoro: alcuni li ritiene a favore di attore o convenuto , altri invece allo stato non decidibili e meritevoli di esame da parte della giuria sub 2, p. 17 ss

Nessun cenno al peculiare supporto di esecuzione della riproduzione (corpo umano) nè a problemi di attuazione di eventuali ordini di rimozione o distruzione (si dice che i tatuaggi siano  difficilmente cancellabili)

(notizia , link alla sentenza e link alle due immagini dal blog del prof. Eric Goldman)

Come condurre il giudizio di contraffazione tra due marchi, uno denominativo e l’altro figurativo/denominativo (con parola capovolta)

Trib. UE 01.06.2022 , T-363/20 , PAo Moskow v. EUIPO, giudica della confondibilità trea i seguenti due marchi (per prodotti uguali: dolciumi):

marchio posteriore, oggetto di contestazione
marchio anteriore, azionato dall’impugnante

* * *

Interessa sopratutto la parte relativa alla ravvisabilità o meno di una componente predominante (evidentemente nel marchio sub iudice), che precede il consueto giudizio sulla somigliana visuale, fonetica econcettuale (a  § 74 ss)

Il T. conferma il giudizio amministrativo per cui non può ravvisari una componente dominante.

Il punto pià interenssante è l’elemento denominativo <krowka> alll’interno della figura e la sua collocazione rovesciata che ne riduce la leggibilità:

<< 55   Second, it must be held that the Board of Appeal did not make an error of assessment in finding that the contested mark did not contain any element which was more visually eye-catching than others. More specifically, it was justified in finding that, contrary to the applicant’s contentions, the element ‘krówka’, positioned upside down in the rectangle situated in the upper part of that mark, did not constitute a dominant element of that mark.

56      In that regard, first of all, it should be noted that the applicant misinterprets the contested decision in so far as it submits that the Board of Appeal found that the element ‘krówka’ will not be perceived by the relevant public, whereas the Board of Appeal merely noted, in paragraph 31 of the contested decision, that that public will have difficulty in perceiving and reading that element, without, however, taking the view that it was negligible.

57      In any event, that finding of the Board of Appeal can only be upheld. As the Board of Appeal correctly stated in paragraph 31 of the contested decision, consumers in the European Union usually read from left to right, and not from right to left, reversing the letters. It cannot therefore be disputed that, in the light of the way in which it is represented in the contested mark, the element ‘krówka’, even if it cannot be described as illegible, will not be immediately identified by the relevant public, that is to say, without a certain mental effort on its part. That public will have even greater difficulty reading that element because it does not proceed to analyse the various details of the mark when making a purchase (see, to that effect, judgment of 11 November 2009, Frag Comercio Internacional v OHIM – Tinkerbell Modas (GREEN by missako), T‑162/08, not published, EU:T:2009:432, paragraph 43). As EUIPO correctly observes, that would be all the more true in the situation, defended by the applicant, where the relevant public has only a low level of attention.

58      The two reviews produced by the applicant during the proceedings before the Board of Appeal, which establish that consumers are able to recognise words written upside down, are not such as to call into question the considerations set out in paragraphs 55 to 57 above. As the Board of Appeal correctly pointed out in paragraph 32 of the contested decision, the hypotheses covered by those reviews can be distinguished from the circumstances of the present case, in which the element ‘krówka’, represented upside down, is preceded by another word, also represented upside down, and those two elements will be perceived by the relevant public as being invented words and in which they are followed by the expression ‘milk fudge’ written upright, which, for its part, is easily legible.

59      In short, the element ‘krówka’ is only one of the non-negligible elements which make up the contested mark. Even if the attention of the relevant public were to be drawn more by the word elements of that mark, this would be more by the expression ‘milk fudge’ than by the element ‘krówka’, if only because the two elements making up that expression are not upside down. In addition, the element ‘krówka’ is not isolated, but is preceded by the element ‘mleczna’, which is also represented upside down.

60      Next, it is to no avail that the applicant relies on the fact that the contested mark could also be viewed when turned upside down. In that regard, it should be borne in mind that, when assessing whether they are identical or similar, signs must be compared in the form in which they are protected, that is to say, as they were registered or as they appear in the application for registration. The actual or potential use of registered marks in another form is irrelevant when comparing signs (judgment of 21 April 2021, Chanel v EUIPO – Huawei Technologies (Representation of a circle containing two interlaced curves), T‑44/20, not published, EU:T:2021:207, paragraph 25).

61      The orientation of signs, as set out in the application for registration, may have an impact on the scope of their protection and, consequently, in order to avoid any uncertainty and doubt, the comparison between the signs can be carried out only on the basis of the shapes and orientations in which those signs are registered or applied for (judgment of 21 April 2021, Representation of a circle containing two interlaced curves, T‑44/20, not published, EU:T:2021:207, paragraph 26).

62      Lastly, as EUIPO correctly submits, it is irrelevant that, in EUIPO’s register, the contested mark is described as containing the element ‘krówka’, given that that register will not be consulted by the relevant public>>

Accettazione online implicita delle condizioni generali nell’iscriversi ad un social (Triller)

La corte esamina la questione del se il richiamo ai terms of service e privacy policy , collocato in calce alla schermata sia sufficientemente chiaro e cioè richiami sufficientemente l’attenzione dell’utente (secondo quanto chiesto dalla giurisprudenza usa).

Nel caso specifico l’accertamento mirava a verificaare se vi fosse un contratto: in caso positivo sarebbe stata infatti preclusa la domanda di ingiusto arricchimento (sub III, p. 22 ss.)

Si tratta di South dist. of NY 18 aprile 2022, Case 1:21-cv-11228-JSR, Wilson v. Thriller (Trille è un social concorrente di TikTok).

La Corte si richiama al caso Meyer v. Uber del 2017 e dà la stessa risposta: il richiamo alle condizioni generali , pur se collocato in calce e in piccolo tramite link,  è sufficientemente evidente da richiamare l’attenzione dell’utente.

Le schermate nei due casi giudiziari son messe a paragone graficamente  in sentenza:

a sinsitra la schermata del caso de quo e a destra quella del caso Meyer v. Uber Techs del 2017

La risposta della corte può lasciare perplessi: il rinvio nella schermata di destra è più chiaro/evidente di quello nella schermata di sinistra, ove è confuso da un mix di colori sgargianti.

(notizia e link alla sentenza dal blog di profg. Eric Goldman)