Confessione di liberalità donativa di un’apparente vendita, contenuta nel testamento dell’apparente venditore

Utili precisazioni in Cass. 8 giugno 2022, sez. 2, n. 18.550 , rel. Scarpa.

La dichiarazione testramentaria (testamento pubblico), secondo cui una precedente vendita era in realtà una donazione, era del seguente tenore: <<(Q)ueste sono le mie volontà in quanto a mio figlio M. ho già donato in vita il podere di (OMISSIS), nel quale attualmente vivo, senza ricevere alcunché”.>>

Premesse del ragionamento della SC:

<<5.3. L’art. 2735 c.c., comma 1, seconda parte, dispone che la confessione stragiudiziale può essere contenuta anche in un testamento ed è liberamente apprezzata dal giudice. Le dichiarazioni di natura confessoria possono, quindi, essere rese anche in un testamento per atto pubblico notarile, come si assume avvenuto nella specie.

<<5.3.1. L’art. 587 c.c., comma 2, richiama le disposizioni di carattere non patrimoniale cui la legge riconosce efficacia se contenute in un atto che abbia la forma del testamento, anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale. La possibilità che il testamento esaurisca il suo contenuto in disposizioni di carattere non patrimoniale impone, quindi, che sia ravvisabile un “testamento in senso formale”, rivelante la funzione, tipica del negozio testamentario, di esercizio da parte dell’autore del generale potere di disposizione mortis causa. Il testamento, infatti, rappresenta l’unico tipo negoziale con il quale taluno può disporre dei propri interessi per il tempo della sua morte e perciò non può non consistere in un atto di “regolamento” post mortem degli interessi del testatore (“per il tempo in cui avrà cessato di vivere”), nel senso che la morte viene assunta dal dichiarante come punto di origine del complessivo effetto dell’assetto dettato.>>

Poi:

<<5.6. Il tratto peculiare della dichiarazione confessoria contenuta in un testamento, avente, per quanto detto, efficacia post mortem, è che essa assume necessariamente rilevanza probatoria non contro il de cuius, quanto, all’interno del giudizio in cui è dedotto il rapporto giuridico di cui il confitente era parte, contro l’erede che in tale rapporto sia subentrato (cfr. Cass. Sez. 2, 26/11/1997, n. 11851).

5.7. Nella controversia promossa dai legittimari che agiscono in riduzione e per l’accertamento di una donazione dissimulata compiuta dal de cuius in favore di altro legittimario istituito erede, la dichiarazione contenuta nel testamento, con la quale il medesimo testatore assuma di aver donato il bene apparentemente venduto, deve quindi essere assimilata ad una confessione stragiudiziale, trattandosi di affermazione vantaggiosa per i legittimari e sfavorevole per l’erede, al quale il valore confessorio di tale dichiarazione può essere opposto in quanto subentrante nella medesima situazione del proprio dante causa (arg. da Cass. Sez. 2, 15/05/2013, n. 11737; Cass. Sez. 2, 05/08/1985, n. 4387).>>

Sul fatto che il donatario/acquirente avesse fatto cancellare l’ipoteca pagando il debto residuo (il che non trasforma il negozio in negotium mixtum cum doantione):

<<5.9.2. Parimenti, pur avendo dato per accertato che C.M. aveva versato la somma di Lire 64.980.000 per estinguere l’ipoteca gravante sugli immobili, la Corte di Firenze ha escluso che a tanto l’acquirente avesse provveduto in esecuzione di un negotium mixtun cum donatione, e cioè di un contratto avente natura comunque onerosa, seppur stipulato dai contraenti con la finalità di raggiungere, per via indiretta, attraverso la voluta sproporzione tra le prestazioni corrispettive, una finalità diversa e ulteriore rispetto a quella dello scambio, consistente nell’arricchimento, per puro spirito di liberalità, del compratore che aveva ricevuto la prestazione di maggior valore. La configurabilità di un negotium mixtum cum donatione è stata congruamente smentita dai giudici del merito giacché mancava la prova che l’alienante C.L. avesse consapevolmente pattuito di ricevere un corrispettivo (pari all’accollo dell’esborso necessario per ottenere la cancellazione dell’ipoteca) inferiore rispetto al valore reale del bene trasferito, e deponendo, piuttosto, la confessione contenuta nel testamento per la natura del tutto gratuita dell’attribuzione patrimoniale.

Del vincolo ipotecario gravante sull’immobile donato e degli esborsi per la relativa cancellazione si dovrebbe, piuttosto, tener conto nell’accertare il valore del bene ai fini della determinazione dell’ammontare della porzione disponibile, nonché le spese sostenute dal donatario.><

E’ difficile ottenere dagli ex amministratori il risarcimento dei danni per violazione del dovere di istituire assetti adeguati ex art. 2381 cc

Trib. Bologna sent. 1821/2021 del 30.07.2021, RG 11424/2017, rel. Romagnoli, affronta tra gli altri anche il tema inoggetto.ù

<<1. OMESSA PREDISPOSIZIONE DEGLI ASSETTI 2381/5° co. c.c. e SOVVERTIMENTO DEGLI EQUILIBRI TRA CDA e AMM DELEGATI – Quanto agli addebiti ex art. 2381 c.c. il FALLIMENTO attribuisce agli amministratori la dupliceviolazione dell’art 2381 c.c. commi 3 e 5, per avere il Cda da un lato con delibera 9.5.2007 delegato leproprie attribuzioni a tutti i propri componenti, con ciò deprivando il consiglio delle proprieattribuzioni di controllo sull’operato dei delegati (co. 3) e dall’altro per non avere curato l’assettoorganizzativo, amministrativo e contabile in modo adeguato alla natura e dimensioni dell’impresa (co. 5).

Sul punto è necessario sinteticamente delineare la fisionomia e il progetto imprenditoriale della società. La società è stata costituita nel 2001 tra 5 soci noti imprenditori edili (coop Ansaloni, CostruzioniSveco Buriani, Costruzioni Di Giansante, Impresa Montanari) già operanti sul territorio bolognesespecie nell’edilizia pubblica e convenzionata.

Viene costituita in srl con capitale iniziale di 80 mila euro e nel 2004 si trasforma in spa con capitale di500 mila euro (poi aumentato nel 2009 a 2,5 mio).  Emerge con chiarezza in atti che il progetto imprenditoriale è quello di cogliere le opportunità offertedalla nuova legislazione urbanistica LR 20/2000 che introduce i nuovi strumenti di programmazioneurbanistica (PSC, POC e RUE) al posto dei vecchi PRG, con il fine di procurare alle imprese socie ilavori di realizzazione dei nuovi interventi di sviluppo urbanistico del territorio.

Orbene, il dovere di predisporre assetti interni adeguati (che il FALLIMENTO sembra assumereviolato limitatamente all’assetto organizzativo e amministrativo) è chiaramente finalizzato alla tempestiva verifica dei sintomi di crisi dell’impresa e alla tempestiva adozione degli interventi dirimedio; non è, cioè, un obbligo astratto, né risponde a parametri predeterminati e nella fattispecie non è precisato in quale modo, e con quali accorgimenti gli assetti interni sarebbero stati più adeguati o lacrisi dell’impresa rilevata più tempestivamente.

Né è dato sostenere che gli amministratori avrebbero tout court omesso di predisporre assetti interni adeguati – “quantomeno quello organizzativo e amministrativo” – perché la società aveva una struttura semplice, senza distinzione di mansioni né di aree di competenza, né personale alle sue dipendenze.          Osserva il collegio che ciò si deve alla finalità primaria per cui è stata costituita, quella di cogliere le opportunità offerte dalla nuova legislazione urbanistica del territorio bolognese all’indomani dell’approvazione della LR 20/2000 e, verosimilmente, alla circostanza che la società non è mai giuntaa realizzare l’obiettivo della progettazione e realizzazione dei nuovi insediamenti urbanistici.

Ad ogni modo, osserva il collegio che la norma ove prevede che gli assetti debbano essere adeguati allanatura e alle dimensioni dell’impresa chiaramente rimanda ad una valutazione nel concreto ed alla necessaria individuazione di carenze che abbiano ragionevolmente posticipato l’emersione del dissesto;

in ogni caso, e conclusivamente, osserva il collegio che l’obbligo di predisporre assetti adeguati non può essere svincolato dalle conseguenze pregiudizievoli che direttamente la sua violazione possa avere determinato, cosicchè nella fattispecie la mancata allegazione di alcun danno (che il FALLIMENTO esplicita essere richiesto unicamente per le acquisizioni dei terreni, su cui infra) conduce a ritenere infondato l’addebito di responsabilità.

Quanto alla violazione dell’art. 2381 c.c. là dove demanda al consiglio di amministrazione il controllo sull’operato degli amministratori delegati (3° co.) – che nella fattispecie sarebbe stato eluso con il conferimento a tutti gli amministratori, presidente compreso, disgiuntamente tra loro, di ampie deleghedi ordinaria e straordinaria amministrazione (doc. 11 FALL.) – basti osservare che la norma non impone la composizione “mista” del consiglio, composto da amministratori delegati e da amministratori privi di deleghe e che il CdA, come organo collegiale, non perde la sua autonomia né isuoi poteri di impulso e controllo sull’attività dei suoi delegati per il fatto di essere compostounicamente da AD;    nella fattispecie, inoltre, emerge dai verbali del CdA (prodotti dal FALLIMENTO)che gli amministratori delegati riferivano analiticamente in collegio sull’attività espletata e in particolare che le operazioni inerenti i terreni acquisiti o da acquisire erano approvate all’unanimità deicomponenti, ciò che dimostra che l’attività di controllo del CdA come organo collegiale veniva regolarmente espletata.

In ultima analisi, osserva il collegio che non sono censurati singoli atti compiuti dagli amministratori in virtù delle deleghe operative che non siano stati oggetto di verifica da parte del CdA e soprattutto che,ancora una volta, non viene allegato alcun danno derivante dalla pretesa violazione, sicchè l’addebitoancora una volta si apprezza infondato>>.

Piccolo appunto.   Prima di ragionar sul danno, bisogna individuare l’inadempimento. E trattandosi di assetti asseritamente inadeguati (o mancanti del tutto) , il giudice avrebbe allora dovuto affrontare il tema della esistenza o meno di negligenza organizzativa (a prescidere dal danno, lo ripeto): cosa che non ha fatto, essendo rimasto assai sulle generiche.

Poteri di indagine del giudice nella quantificazione dell’assegno di mantenimento da separazione personale e rilevanza di redditi non dichiarati

Cass., sez. 1, del 19.07.2022 n. 22.616, rel. Reggiani, affronta analiticamente i temi in oggetto.

Dopo iniziali esatte considerazioni, così conclude sui redditi evasi:

<<Dall’esame delle norme sopra richiamate si evince con chiarezza che ciò che rileva, ai fini della determinazione degli assegni di mantenimento del coniuge e dei figli in sede di separazione, è l’accertamento del tenore di vita condotto dai coniugi quando vivevano insieme, a prescindere, pertanto, dalla provenienza delle consistenze reddituali o patrimoniali da questi ultimi godute, assumendo rilievo anche i redditi occultati al fisco, in relazione ai quali l’ordinamento prevede, anzi, strumenti processuali, anche ufficiosi, che ne consentano l’emersione ai fini della decisione.

Le indagini della polizia tributaria hanno proprio tale funzione, posto che, di fronte a risultanze incomplete o inattendibili, il giudice ha la possibilità di fare ricorso, anche d’ufficio, a tale mezzo di ricerca della prova, poiché l’occultamento di risorse economiche rende per definizione estremamente difficile la dimostrazione della realtà delle stesse in base alle regole dell’ordinario riparto dell’onere della prova, rischiando di pregiudicare il diritto di difesa di chi ha interesse alla loro emersione processuale>>

Sul potere del giuduce di disporre indagini tramite Polizia Tributaria:

<<4.2. Il potere del giudice di disporre indagini della polizia tributaria è la massima espressione della particolarità della disciplina regolatrice dei procedimenti in esame. Qualora ritenga che gli elementi di prova offerti non siano sufficienti o attendibili, infatti, è lo stesso giudice che, per il tramite della polizia tributaria, interviene dando disposizioni ufficiose, per accertare la reale situazione economica e patrimoniale dei coniugi.

In quanto deroga ai generali principi dell’onere della prova, è di fondamentale rilievo la delimitazione dell’ambito di operatività di tale potere ufficioso.

4.3. In tale ottica, questa Corte ha più volte precisato che la L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9, non può essere letto nel senso che il “potere” del giudice di disporre indagini di polizia tributaria debba essere considerato come un “dovere” imposto dalla “mera contestazione” delle parti in ordine alle rispettive condizioni economiche (v. Cass. Sez. 1, n. 10344 del 17/05/2005).

La relativa istanza e la contestazione dei fatti incidenti sulla posizione reddituale del coniuge devono, infatti, basarsi su fatti specifici e circostanziati (Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 23263 del 15/11/2016, con riferimento all’assegno divorzile; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 2098 del 28/01/2011, con riguardo al contributo al mantenimento dei figli).

Lo stesso principio è stato enunciato espressamente con riguardo ai giudizi di separazione, in virtù della sopra menzionata applicazione analogica della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9 (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 10344 del 17/05/2005).

Per poter fondatamente richiedere l’attivazione dei poteri ufficiosi in questione, non basta, dunque, contestare genericamente la veridicità delle allegazioni e delle prove altrui, ma occorre che siano offerti fatti concreti, in grado di mettere in discussione la rappresentazione della parte avversa in ordine alle condizioni di vita delle parti, come avviene proprio nel caso in cui siano prospettate entrate occultate al fisco.

Ovviamente tale onere di allegazione probante non arriva fino alla dimostrazione dell’effettiva maggiore entità delle consistenze reddituali della controparte e dell’incidenza delle stesse sul tenore di vita familiare o sulle condizioni economiche delle parti.

Ciò che rileva è la deduzione di fatti concreti, risultanti dagli atti di causa, che inducano a far ritenere che la parte detenga sostanze economiche o patrimoniali ulteriori rispetto a quelle rappresentate in giudizio.

Si tratta, in sintesi, della necessità di far emergere elementi circostanziati in ordine all’incompletezza o all’inattendibilità della rappresentazione delle condizioni reddituali o patrimoniali delle parti.

4.4. Questa Corte ha più volte affermato che il diniego delle indagini in questione non è sindacabile, purché esso sia correlabile, anche per implicito, ad una valutazione di superfluità dell’iniziativa e di sufficienza dei dati istruttori acquisiti (così Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 8744 del 28/03/2019; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 14336 del 06/06/2013; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 16575 del 18/06/2008; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 9861 del 28/04/2006).

E’, tuttavia, evidente che tale valutazione di superfluità deve fondarsi su corretti presupposti giuridici, tra cui quelli inerenti alla individuazione degli elementi che rilevano ai fini della decisione.

In particolare, si deve tenere conto del fatto che, ai fini dell’accertamento del tenore di vita familiare, funzionale alla quantificazione dell’assegno di mantenimento in favore di moglie e figli in sede di separazione, rilevano anche i redditi sottratti al fisco e goduti dalla famiglia.

Inoltre, come precisato in alcune pronunce di legittimità pienamente condivise dal Collegio, e qui ribadite, esiste un limite alla menzionata discrezionalità del giudice.

Tale limite è rappresentato dal fatto che quest’ultimo, pur potendosi avvalere delle indagini della polizia tributaria, non può rigettare le richieste delle parti relative al riconoscimento ed alla determinazione dell’assegno sotto il profilo della mancata dimostrazione, da parte loro, degli assunti sui quali le richieste si basano, avendo in tal caso l’obbligo di disporre tali accertamenti (così Cass., Sez. 1, n. 10344 del 17/05/2005 e Cass., Sez. 1, n. 8417 del 21/06/2000; v. già Sez. 1, Sentenza n. 3529 del 21/03/1992 e Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6087 del 03/07/1996).

In altre parole, se la parte ha offerto elementi concreti e specifici a sostegno della richiesta di indagini della polizia tributaria, il giudice di merito non può rigettare la richiesta e, nel contempo, rigettare anche le domande su di essa fondate.

Tale soluzione interpretativa risponde alla ratio della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9, che, come sopra evidenziato, attribuisce al giudice il potere ufficioso di disporre accertamenti patrimoniali, al fine di far emergere nel processo consistenze economiche non palesate dalle parti, quando, in ragione del loro occultamento, l’ordinaria ripartizione dell’onere della prova renderebbe estremamente difficoltosa, se non impossibile, la loro rivelazione.

Una soluzione diversa porterebbe ad un esito del tutto contrario alla ratio appena ricordata, consentendo di creare quello “sbarramento istruttorio” lamentato dalla ricorrente, per effetto del quale, ritenute superflue le indagini della polizia tributaria, anche le domande fondate sull’esito di tali indagini vengono rigettate a causa della mancanza di prova degli assunti fondanti che, invece, avrebbero potuto essere confermati dalle indagini non disposte>>

REsponsabilità del proprietario per danni al vicino, causati da negligenza dell’appaltatore nell’esecuzione di lavori di ristrutturazione

Secondo Cass. 12.07.2022 n. 21.977, sez. 3, rel. Rossetti, il proprietario è responsabile ex art. 2051 cc (cose in custodia)  per i danni all’appartamento sottostante anche se causati da neglienza dell’impresa da lui incaricata per lavori di ristrutturazione.

<<1.2. Questa Corte a tal riguardo ha ripetutamente affermato che l’art. 2051 c.c., trova applicazione sia quando il danno sia stato arrecato dalla cosa in virtù del suo intrinseco dinamismo, sia quando sia stato arrecato dalla cosa in conseguenza dell’agente dannoso in essa fatto insorgere dalla condotta umana (così già Sez. 3, Sentenza n. 987 del 27/03/1972, Rv. 357287 – 01, ma il principio è rimasto sempre immutato: più di recente, ex plurimis, Sez. 3, Sentenza n. 10649 del 04/06/2004, Rv. 573386 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 4480 del 28/03/2001, Rv. 545243 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 2331 del 16/02/2001, Rv. 543914 – 01).

E’ di conseguenza irrilevante, al fine di escludere la responsabilità ex art. 2051 c.c., che il processo dannoso sia stato provocato da elementi esterni, quando la cosa sia obbiettivamente suscettibile di produrre danni (ex plurimis, Sez. 3, Sentenza n. 6121 del 18/06/1999, Rv. 527663 – 01).

1.3. Ciò posto in diritto, rileva il Collegio in punto di fatto che tanto una tubazione idrica, quanto l’acqua in essa contenute, sono “cose” per i fini di cui all’art. 2051 c.c., ed a tali fini nulla rileva se abbiano arrecato un danno perché guaste per vetustà o perché guastate dall’uomo. Nell’uno, come nell’altro caso, infatti, grava pur sempre sul custode l’onere di vigilare affinché la propria cosa non arrechi danno a terzi.

In applicazione di questi principi, già in passato questa Corte ha ammesso l’invocabilità dell’art. 2051 c.c., nei confronti del custode d’un immobile che abbia arrecato danni a terzi in conseguenza dei lavori di restauro su esso eseguiti (così Sez. 3, Sentenza n. 723 del 27/01/1988, Rv. 457158 – 01, la quale ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto la responsabilità d’un Comune ex art. 2051 c.c. per i danni da infiltrazioni di acqua piovana ad un immobile, conseguenti alla difettosa esecuzione di opere di scavo lungo la contigua strada comunale).>>

Nè ha rilevanza che essita un contratto di appalto , in eseczine del quale sia stato cagionato ildanno:

<<1.4. Ne’ la responsabilità del custode può escludersi per il solo fatto che questi abbia affidati a terzi lavori di restauro.

E’ infatti altrettanto pacifico, nella giurisprudenza di questa Corte, che salva l’ipotesi in cui l’appalto comporti il totale trasferimento all’appaltatore del potere di fatto sull’immobile nel quale deve essere eseguito il lavoro appaltato, non viene meno per il committente detentore dell’immobile stesso che continui ad esercitare siffatto potere, il dovere di custodia e di vigilanza. (Sez. 3 -, Sentenza n. 41435 del 23/12/2021, Rv. 663448 – 01; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 31601 del 04/11/2021, Rv. 662646 – 01; Sez. 3 -, Sentenza n. 7553 del 17/03/2021, Rv. 660915 – 01).>>

Il primo punto è esatto, il secondo meno. Infatti nell’esecuzione di una ristrutturazione il potere di fatto lo esercita l’impresa, quanto meno circa le modalità esecutive dei lavori.

Risrcimento del danno da immissioni sonore intollerabili

Cass. 13.04.2022 n. 11.930, dez. 6, rel. Guizzi S.G., interviene sul tema. Tema  delicato perchè concerne un aspetto fondametnale della vita troppo trascurato e che merita invece: – ben maggiore attenzione a tutti i livelli (anche di norme tecniche per l’edilizia publica a privata); – pesanti risarcimenti, anche punitivi, non essendoci quasi mai un serio motivo per disturbare -spesso pesantamente- la tranquillità del prossimo, cosa che in altre parole potrebbe essere evitata con un minimo di accortezze (o di costi, se la fonte di inquinamento acustico è un’impresa)

C’è prima una precisazione sul risarcimento del danno nella moidalità equitativa:

<<che questa Corte ha ripetutamente affermato che “l’esercizio, in concreto, dei potere discrezionale contento ai giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità qualora la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e -valutativo seguito” (tra le altre, Cass. Sez. 3, sent. 13 ottobre 2017, n. 24070, Rv. 645831-01; in senso analogo Cass. Sez. 1, sent. 15 marzo 2016, n. 5090, Rv. 639029-01), essendosi anche precisato che, “al fine eli evitare che la relativa decisione si presenti come arbitraria e sottratta ad ogni controllo, è necessario che il giudice indichi, almeno sommariamente e nell’ambito dell’ampio potere discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al “quantum”” (Cass. Sez. 3, sent. 31 gennaio 2018, n. 9327 Rv. 617.590-01), ovvero che esso “spieghi le ragioni del processo logico sul quale essa è fondata, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo adottato” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 14 luglio 2015, n. 14645, Rv. 63609001);

– che, tuttavia, ciò non esige – con specifico riferimento alla liquidazione equitativa del danno ex artt. 844 e 2059 c.c., (come torna, invece, a sottolineare la ricorrente, nella propria memoria) –  l’adozione di criteri predeterminati, quali il ricorso ad una percentuale dell’invalidità temporanea o al valore reddituale dell’immobile, giacché la liquidazione del danno ex art. 2056 c.c., è essenzialmente da parametrare alle circostanze del singolo caso;

– che, piuttosto, va assicurato – in caso di immissioni intollerabili – “un consistente risarcimento” (cfr., in motivazione, Cass. Sez. 6-2, ord. 28 luglio 2021, n. 21649, Rv. 661953-01, nonché già Cass. Sez. 3, sent. 16 ottobre 2015, n. 20927, Rv. 637538-01), e ciò anche in conformità alle indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo;

– che essa, infatti, ha sanzionato più volte gli stati aderenti alla convenzione, i quali – in presenza di livelli di rumore significantemente superiori a quello massimo consentito dalla legge – non avevano adottato misure idonee a garantire una tutela effettiva del diritto al rispetto della vita privata e familiare (cfr. Corte Edu: sent. 9 novembre 2010 Dees v. Ungheria; sent. 20 magio 2010, Oluie v. Croazia; sent. 16 novembre 2004, Moreno Golne v. Spagna);

– che, d’altra parte, questa Corte ha pure sottolineato che il principio della tendenziale insindacabilità della liquidazione equitativa del danno in sede di giudizio di legittimità conosce eccezione solo quando i criteri adottati “siano manifestamente incongrui rispetto al caso concreto, o radicalmente contraddittori, o macroscopicamente contrari a dati di comune esperienza, ovvero l’esito della loro applicazione risulti particolarmente sproporzionato per eccesso o per difetto” (da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 25 maggio 2017, n. 13153, Rv. 644406-01; nello stesso senso già Cass. Sez. 3, sent. 8 novembre 2007, n. 23304, Rv. 6003/6-01, Cass. Sez. 3, sent. 14 luglio 2004, n. 13066, Rv. 574567-01);

– che, in altri termini, affinché la quantificazione del danno in via equitativa abbia a “non risultare arbitraria” , sufficiente “l’indicazione di congrue, anche se sommarie, ragioni del processo logico sul quale è fondata” (Cass. Sez. 6-3, ord. 17 novembre 2020, n. 26051, Rv. 659923-01), sicché la corretta applicazione degli artt. 1226 e 2056 c.c., mira, in definitiva, a scongiurare solo la c.d. “equità cerebrina”, ovvero ad assicurare un “modello di valutazione equitativa” a mente del quale “il giudice non può farsi guidare da concezioni personali o da mere intuizioni, col rischio di sconfinare nell’arbitrio”, avendo, invece, “il dovere di ispirarsi a criteri noti e generalmente accolti dall’ordinamento vigente, comportandosi come avrebbe fatto il legislatore se avesse potuto prevedere il caso” (così, in motivazione, Cass. Sez. 6-3, ord. 2 luglio 2021, n. 18795, Rv. 661913-01);>>

Questo minimum motivatorio è stato raggiunto dalal corte di appello: <<che, nella specie, tale onere di “sommaria e congrua” indicazione delle ragioni della quantificazione risulta soddisfatto, avendo la Corte partenopea ritenuto la liquidazione già disposta dal primo giudice “congrua sia in relazione alle modalità della condotta illecita” (attestando la sentenza che i rumori si sentivano anche nei giorni festivi, nelle ore serali e con gli infissi chiusi), “sia in relazione al lunghissimo arco di tempo in cui si è protratta, da correlare quantomeno alla durata del giudizio di primo grado” (radicato con citazione notificata il 22 febbraio 2001 e conclusosi il 12 luglio 2016);

che, dunque, in relazione a tali criteri — – indicativi della particolare intensità, oltre che perduranza nel tempo, della turbativa recata al diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, della Convenzione, ex art. 8 – la sentenza impugnata ha soddisfatto l’onere di sommariamente illustrare il processo valutativo seguito nella liquidazione del danno>>.

Infine il passaggio specifico della motivazione sul sempre superamento della soglia di nornale tollerabilità e del nesso di causa con un certo danno:
<<che, nella specie, la sentenza impugnata non ha fatto coincidere in un unico fatto (il superamento del limite della normale tollerabilità delle immissioni) la prova dell’esistenza del danno evento, o meglio dell’avvenuta lesione del diritto, e quella delle sue conseguenze pregiudizievoli;

– che la sentenza impugnata, infatti, ha motivato il superamento della normale tollerabilità delle immissioni rumorose sulla base delle risultanze dell’espletata CTU (la quale accertava che il rumore prodotto dalle lavorazioni “oscillava tra un minimo di 44,4 decibel ed un massimo di 50,9 decibel, mentre il rumore di fondo della zona, caratterizzata d’a particolare tranquillità, e pari a 37,7 decibel);

– che essa, poi, ha autonomamente motivato la ricorrenza del danno conseguenza lamentato dall’attrice, escludendo espressamente che lo  stesso potesse sussistere ipsa”, chiarendo che chi agisce in giudizio al fine di conseguirne il ristoro deve “provare di aver subito un effettivo pregiudizio in termini di disagi sofferti in dipendenza della difficile vivibilità della casa, potendosi al tal fine avvalere anche di presunzioni”;

– che, infine, queste ultime sono state tratte dalla duplice circostanza, per un verso, che l’appartamento dell’attrice “e’ posto al primo piano e presenta quattro vani (su cinque) che affacciano direttamente sul piazzale della società” convenuta, nonché, per altro verso, che i rumori si sentivano “anche nei giorni festivi”, pure “con gli infissi chiusi” e persino “nelle ore serali”;

– che tale conclusione risulta conforme alle indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, la “accertata esposizione ad immissioni sonore intollerabili può determinare una lesione del diritto al riposo notturno e alla vivibilità della propria abitazione, la cui prova può essere fornita dal danneggiato anche mediante presunzioni sulla base delle nozioni di comune esperienza” (così, in motivazione, Cass. Sez. 6-2, ord. n. 2-1649 del 2021, cit.; in senso analogo anche Cass. Sez. 3, sent. 19 dicembre 2014, n. 26899, Rv. 633753-01), senza che sia necessario dimostrare – come sostenuto dalla ricorrente nella propria memoria – un effettivo mutamento delle abitudini di vita;

– che, invero, la duplice circostanza valorizzata dalla sentenza -vale a dire, che le immissioni interessassero la quasi totalità dei vani dell’appartamento della F. e che le stesse non dessero requie, in nessun momento, a chi lo abitava – consentono di affermare in via presuntiva, secondo un dato di comune esperienza, la ricorrenza eli quella modificazione peggiorativa del diritto al rispetto della vita privata e familiare nella quale si indentifica,, in tale ambito, il danno conseguenza.;>>.

L’accettazione delle Terms of Service di Dropbox tramite il c.d. browsewrap non è valido

Secondo il distretto nord della California Case 4:20-cv-07908-HSG con sentenza 29 giugno 2022, Sifuentes c. Dropbox, l’accettazione tramite decisione di continuare a navigare non è sufficiente per far ritenere <voluta> una clausola arbitrale contenuta nelle TOS (terms of service).

In particolare, il  privato ricosncoe di aver accettato le TOS iniziali del 2011, ma non -tra le molte modifiche successive- quella del 2014, che aveva inserito una clausola arbitrale:

<< To show that Plaintiff had inquiry notice, Defendant must show that he was provided
reasonably conspicuous notice of the contract terms and unambiguously manifested his assent.
See Berman, 30 F.4th at 856 . “[O]nline providers have complete control over the design of their
websites,” and therefore have the responsibility to put users on notice of the terms to which they
wish to bind consumers.
Id. at 857 (citations omitted).

Defendant acknowledges that between
2011 and 2019 it modified its terms of service no less than twelve times, and contends that it sent
an email to Plaintiff in 2014 explaining the addition of a mandatory arbitration clause. Reply at 9.
There is nothing in the record to suggest that Plaintiff could not use the service until he indicated
his assent, that he would have been advised of new terms and conditions while using Defendant’s
services, or that Defendant ever tracked whether Plaintiff had opened its email.

Even if the email
alone could be considered “reasonably conspicuous notice,” Plaintiff took no action to
unambiguously manifest his assent.
See Berman, 30 F.4th at 856 (requiring the consumer to
“take[] some action, such as clicking a button or checking a box” in order to form an enforceable
contract under inquiry notice theory).
Defendant essentially argues that it contracted for the right to change the terms at will
because the 2011 TOS contains a provision stating that Defendant “may revise these Terms from
time to time” and that continuing to use the service constitutes agreement to any revised terms.
See Reply at 6; Dkt. No. 40-1 Exhibit E. Defendant’s argument misses the point. Given the complete lack of evidence of notice within Defendant’s service itself, Plaintiff’s ongoing use of the service is irrelevant to determining whether he had actual or constructive notice of the post-
2011 terms of service.

Moreover, the 2011 TOS essentially disavows any obligation to alert
Plaintiff to changes: “If a revision, in our sole discretion, is material we will notify you (for
example via email to the email address associated with your account.”
See Dkt. No. 40-1 Exhibit E. But Ninth Circuit law is clear that it is a website owner’s duty to show clear notice and assent.
The Court finds that Defendant has not shown by a preponderance of the evidence that
Plaintiff had actual or inquiry notice of the updated terms of service. See Norcia, LLC, 845 F.3d
at 1283. Without actual or inquiry notice, there was no manifestation of mutual assent, and the
later terms of service do not impose an enforceable agreement to arbitrate>>.

Poco sopra sul cd browsewrap agreement:

<< Plaintiff denies that he agreed to the later terms of service that added mandatory arbitration provisions. Opp. at 1. Defendant, on the other hand, contends that Plaintiff assented to the subsequent versions by continuing to use Defendant’s service. Dkt. No. 47 at 7; see also Dkt. No.   40 at 9 n.2. Assent by continued use of a web service is a traditional feature of browsewrap agreements. Nguyen, 763 F.3d at 1176 (“The defining feature of browsewrap agreements is that the user can continue to use the website or its services without visiting the page hosting the browsewrap agreement or even knowing that such a webpage exists.”) (citation omitted). “Courts are more reluctant to enforce browsewrap agreements because consumers are frequently left unaware that contractual terms were even offered, much less that continued use of the website will be deemed to manifest acceptance of those terms.” Berman v. Freedom Financial Network, LLC, 30 F.4th 849, 856 (9th Cir. 2022). >>

Sulla conclusione del contratto via shrinkwraps o browsewraps v le riflessioni critiche di Lemley, Mark A., The Benefit of the Bargain (August 8, 2022). Stanford Law and Economics Olin Working Paper No. 575, Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=4184946 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.4184946

Patto di gestione della lite: è nulla la clausola per cui l’assicuratore non rimborsa le spese per i legali da lui non autorizzati

Cass. 5 luglio 2022 n. 21.220, sez. 3, rel. Rossetti, afferma quantoi in oggetto, con qualche scostamento dai precedenti.

L’art. 1917 c. 3 cc, infatti , è dichiarato inderobabile in pejus per l’assicurato dal seguente art. 1932 cc

In particolare << Il successivo art. 1932, primo comma, c.c., stabilisce che “le disposizioni degli
artt. (…) 1917 terzo e quarto comma (…) non possono essere derogate se
non in senso più favorevole all’assicurato”.
Pertanto una clausola contrattuale la quale subordini la rifusione delle spese
di resistenza sostenute dall’assicurato al
placet dell’assicuratore è una deroga
in pejus all’art. 1917, terzo comma, c.c., ed è affetta da nullità.
La legge infatti non pone condizioni al diritto dell’assicurato di ottenere il
rimborso delle suddette spese.
Resta solo da aggiungere che le spese di resistenza sostenute dall’assicurato
sono affrontate nell’interesse comune di questi e dell’assicuratore. Esse
costituiscono perciò spese di salvataggio ai sensi dell’art. 1914 c.c., e sono
soggette alla regola che ne subordina la rimborsabilità al fatto che non siano
state sostenute avventatamente (art. 1914, secondo comma, c.c., il quale
non è che una applicazione particolare del generale principio di cui all’art.
1227, secondo comma, c.c.).
Il relativo accertamento costituisce un apprezzamento di fatto riservato al
giudice di merito, che non è stato compiuto e che non può essere compiuto
in questa sede: ciò impedisce di decidere la causa nel merito, come richiesto
dal ricorrente
>>

Insegnamento che può far tremare le compagnie, dato che quasi tutte inseriscono la clausole per cui il rimborso non è dobueo per legali che esse on abbiano autorizzato.

la soluzione della Sc parrebbe corretta di fronte ad una disposizione muta in proposito.

Si noti il limite che la SC cerca di mettere a spese legali sconsiderate: quello delle spese c.d. di salvataggio ex ar. 1914 cc

Prova del credito bancario: successione di conti correnti con produzione di estratto conto solo dell’ultimo ma non dei precedenti estinti, il cui saldo costituisce la prima voce di quello prodotto

Interessante fattispecie (non so dire quanto frequente) e soluzione ragionevole (abbastanza scontata, non potendosene immaginare una diversa; v. però la perplessità in parentesi quadra) fornita da Cass. 15.601 del 16 maggio 2022, sez. 1, rel. Scotti .

In breve, per la SC tocca al correntista contestare alla Banca la prima voce (di apertura) di un estratto di conto corrente, quando sia costituita dal saldo di precedente conto ormai estinto , a sua volta preceduto da altri conti correnti estintisi (il  saldo di ciascuno dei quali era confluito come voce di apertura nel conto seguente).

 <<5.5. Inoltre il motivo asseritamente ignorato deduceva l’incompletezza degli estratti conto forniti dalla Banca solo perché non sarebbero stati parimenti forniti gli estratti conto completi di altri conti correnti precedentemente intrattenuti dalle societàgarantite e successivamente estinti e azzerati, senza dimostrareche anche tali altri conti fossero oggetto di causa.

Né può ritenersi incompleto un estratto conto solo perché laprima posta passiva registrata si riferisce ad un debito del correntista riveniente dalla chiusura di un altro rapporto bancario. [errore!!! Invece è incompleto, dato che la posta non si riferisce ad una operazione spefica ma è una sintesi di tutte quelle dell’estratto ultimo del conto chiuso]

5.6. Beninteso, ciò non significa che una banca possainserire nell’estratto conto il saldo negativo di precedenti contichiusi senza che il cliente possa al riguardo articolare alcuna difesa al riguardo.Certamente l’estratto conto che inizi con il saldo negativo diun precedente conto non può dirsi incompleto. La completezza,però, non significa necessariamente veridicità.

È anche vero, cioè, che detta posta, come tutte le poste di unconto, può essere oggetto di contestazione da parte del correntista (il quale ha appunto l’onere di contestare le varie poste del contonell’ambito della dialettica fra le parti voluta dal legislatore pergiungere all’accertamento del saldo) e, se una contestazione vi sia,scatta l’obbligo della banca di fornire la prova della correttezzadella posta di cui trattasi: prova che in un caso come quellooggetto del giudizio consisterebbe appunto, di regola, nella produzione degli estratti conto da cui risulti quel saldo negativo.

I ricorrenti sostengono appunto di aver contestato, nel giudizio di merito le poste iniziali di quei conti in quanto costituitedal saldo negativo di altri conti nei quali era stati applicati interessianatocistici e addebitate spese non dovute.Se una tale contestazione fosse stata effettivamentesollevata, i giudici di merito avrebbero dovuto pretendere dallabanca la produzione anche degli estratti conto per così dire«secondari». Sennonché la deduzione dei ricorrenti di avercontestato nel merito, per la ragione appena detta, la correttezzadei saldi negativi dei conti secondari, è oltremodo generica, vistoche essi non indicano quando e come l’avrebbero sollevata nelgiudizio di merito, e dunque inammissibile, dato che anche lasentenza impugnata non vi fa alcun cenno>>.

La SC non indica alcuna disposizione di legge per sorreggere il suo giudizio.

Si v. ad es l’art. 50 TUB per l’ingiunzione e l’art. 119 TUB sulle comunicazioni periodiche alla clientela.

Usura nella compravendita immobiliare, giustizia contrattuale e nell’impugnazione di lodo arbitrale ex art. 829.3 cpc

App. Milano n. 1978/2022, del 08 giugno 2022, RG 1978/2021, RCS c. Kryalos, giudice Raineri, decide l’impuignazione del noto lodo arbitrale RCS v. Blackrock sugli immobili sede del Corriere.

Alcuni passaggio significativi:

– l’usura non si applica alla compravendita di beni e cioè ad operazioni che non siano finanziarie, § 7 p. 23 ss, nè la sua nuova disciplina ex L. 108 del 1996 fa venir meno l’applicaiblitò della rescissione per lesione, p. 27:

<<8. Le considerazioni sin qui esposte depongono nel senso di escludere la nullità dei contratti intercorsi
fra le parti, vuoi per la ritenuta inapplicabilità del concetto di usura declinato dall’art. 644 c.p., pur nella
attuale formulazione, al caso di specie, vuoi per la inapplicabilità del rimedio della nullità derivata.
Nessuna violazione dell’ordine pubblico può, conclusivamente, rintracciarsi nel Lodo parziale che ha
deciso in conformità.
>>

– circa l’usura reale (rigettata), si v. il passaggio sulla giustizia contrattuale e cioè sulla sindacabilità economica dei contratti da parte di in giudice in applicaizone di un fantomatico principio di proporzionalità nelle prestazioni:

<< Quanto alla iniquità dello scambio, seppure l’esperto chiamato ad esprimersi sul valore di
mercato del compendio immobiliare abbia rilevato un indubbio scostamento fra il (presunto)
valore di mercato ed il prezzo di cessione – non senza avere più e più volte sottolineato
l’intrinseca opinabilità delle sue valutazioni – non può omettersi di evidenziare che, prima di
definire la compravendita con Blackstone, RCS aveva condotto di propria iniziativa, con
l’assistenza di un
advisor finanziario di primario standing (Banca IMI) e sotto il costante
monitoraggio del Collegio sindacale, un’attività di sollecitazione del mercato, rivolgendosi ad
oltre trenta investitori, scelti in ragione della loro rappresentatività di tutte le tipologie di
potenziali acquirenti, nessuno dei quali aveva proposto condizioni economiche migliori. E il
confronto del prezzo pattuito nell’APA con le offerte ricevute da RCS durante il procedimento
competitivo dimostrava, altresì, che tutte le alternative di mercato si assestavano, in modo
totalmente autonomo e genuino, su valori sostanzialmente omogenei.
La difesa di Kryalos non ha omesso di citare, in proposito, le dichiarazioni rese dalla stessa
RCS, le quali depongono inequivocabilmente nel senso del pieno compiacimento del Gruppo
per la conclusione dell’operazione di cessione alle condizioni convenute, ritenute del tutto
soddisfacenti ed in linea con i riferimenti forniti dal perito indipendente, nonché con gli
obiettivi contenuti nel Piano industriale della società
22. >>

– buona fede e correttezza non servono come base per permettere tale controllo del giudice alla luce di un principio di proprizionalità tra le prestazioni, p. 34

– infine il punto più interessante è quello sul cocnetto di <<ordine pubblico>> violato dal lodo, unico motivo impugnatorio se le parti non hanno espressamente previsto la sua impugnabilità per vioolazione di legge (art. 829.c cpc).

Per la sua importanza , lo riporto tutto:

<< L’importanza della individuazione del significato della nozione di ordine pubblico nel giudizio di
impugnazione risulta, peraltro, ancor più cruciale ove si tenga conto del fatto che sono state ritenute
compromettibili anche le controversie aventi ad oggetto rapporti giuridici regolati da norme imperative.
Questa Corte ritiene di aderire alla tesi, peraltro maggioritaria in dottrina ed in giurisprudenza, della
non coincidenza fra “norme imperative” e “ordine pubblico”. Non solo perché, se vi fosse coincidenza,
l’art. 829 co. 4 c.p.c. sarebbe privo di portata precettiva in quanto l’annullabilità del Lodo per
violazione dell’ordine pubblico garantirebbe già quella censura, ma soprattutto perché, come già
in
limine
osservato, in ambito civilistico, le norme imperative, benché inderogabili perché poste a presidio
di interessi generali, non sempre implicano, ove violate, la nullità del contratto; la quale può essere
esclusa dalla legge, allorché essa preveda diversi esiti con salvezza degli effetti negoziali.
E sarebbe, all’evidenza, contraddittorio sostenere che la violazione delle medesime norme imperative
non determini la nullità di un contratto ed implichi, al contrario, la nullità di un Lodo (sul presupposto
che tutte le norme imperative apparterrebbero all’ordine pubblico).
Per contro, non è neppure corretto affermare che un Lodo che violi norme imperative sia, per ciò solo,
contrario all’ordine pubblico. Affinché si configuri tale contrasto, occorre avere riguardo al “contenuto
concreto” della decisione, nel senso che il Lodo, frutto di una errata applicazione della norma
inderogabile, sarà contrario all’ordine pubblico solo nel caso in cui produca effetti che l’ordinamento
non può recepire.
A titolo di esempio, sarà certamente contrario all’ordine pubblico un Lodo che accerti, crei o modifichi
rapporti giuridici che, se regolati da un contratto, sarebbero illeciti (si pensi al Lodo che accerti il diritto
di schiavitù; la validità di atti dispositivi di beni sottratti al commercio; che condanni a prestazioni
vietate, quali la vendita di organi).
Ma il complesso delle norme imperative – la cui violazione può, ai sensi dell’art. 1418 comma 1 c.c.,
comportare la nullità di un contratto – non ricade necessariamente nella nozione di “ordine pubblico”
nell’accezione declinata dall’art. 829, comma 3, c.p.c.
Del resto è lo stesso legislatore ad aver fornito nella Legge Delega n. 80/2005 – cui è seguita la riforma
dell’arbitrato – una chiave di lettura inequivocabile, subordinando l’impugnabilità del lodo per
violazione di regole di diritto all’esplicita previsione delle parti, salvo diversa previsione di legge e
salvo il contrasto con i principi fondamentali dell’ordine giuridico“.
Orbene, come condivisibilmente argomentato dalla difesa di Kryalos, RCS compie l’errore di
considerare qualunque norma di natura inderogabile suscettibile ad ergersi a norma di ordine pubblico
rilevante ai sensi dell’art. 829, comma 3, c.p.c., laddove sia accompagnata da un richiamo alla tutela di
interessi generali. Il che la spinge a teorizzare una sorta di
nullità riflessa delle pronunce arbitrali quale
conseguenza dalla (pretesa) nullità dell’operazione di compravendita degli immobili per violazione di
norma imperativa o illiceità della causa. Ma l’ordine pubblico
ex art. 829, comma 3, c.p.c. non può
essere confuso con l’interesse collettivo o pubblico, dovendosi esso ricondurre ad un insieme selettivo e
circoscritto di principi essenziali – assai più ristretto di quello assegnato in altri ambiti dell’ordinamento
– cosicché non può ritenersi integrato da mere violazioni di norme imperative, censurabili solo entro i
limiti sanciti dal primo periodo della disposizione (vale a dire per espressa pattuizione delle parti o
previsione di legge).
In altri termini, i principi di ordine pubblico vanno individuati nei principi fondamentali della nostra
Costituzione, o in quelle altre regole che, pur non trovando in essa collocazione, rispondono
all’esigenza, di carattere universale, di tutelare quei diritti fondamentali dell’uomo la cui lesione si
traduce in uno stravolgimento dei valori fondanti l’intero assetto ordinamentale
25. Allorché, invece, si
controverta di norme che, ancorché́ non derogabili dalle parti, sono poste a presidio di interessi
economici disponibili – o dettate a tutela di interessi generali o pubblici che governano, purtuttavia,
rapporti tra privati – la loro eventuale violazione non può ergersi a violazione dell’ordine pubblico nel
senso inteso dall’art. 829, comma 3, c.p.c
>>

Cui va aggiunto il (leggermente criptico) passaggio seguente: << Non solo. Proprio in ragione della impossibilità di dedurre errores in iudicando nelle impugnative post
Riforma, deve coerentemente desumersi che solo il “contenuto concreto” del Lodo possa determinare la
contrarietà dello stesso all’ordine pubblico, non già la violazione dei principi di diritto applicati dagli
arbitri al rapporto controverso, ove questa non si sia trasfusa in un dispositivo
ex se lesivo di tale
superiore principio. Poiché, diversamente opinando, si assisterebbe ad una surrettizia introduzione di
errores in iudicando, in palese contrasto con la disciplina di legge >> (forse spiegabile con l’immediatamene seguente prosieguo della motivaizone)

La piattaforma social perde il safe harbour ex § 230 CDA per negligent design (prodotto difettoso) se permette l’uso anonimo

Il distretto dell’Oregon , Portland division, con sentenza 13 luglio 2022, Case 3:21-cv-01674-MO , A.M. v. Omegle.com llc+1, pone un interessante insegnamento.

La piattaforma social perde il safe harbour se il danno ad un utente è causato non solo dal fatto di altro utente , ma anche dal fatto proprio omissivo (anzi, forse è commissivo),  consistente nel design difettoso della propria architettura informatica . Difetto consistente ad es. nel permettere l’anonimato e il non dichiarere/accertare l’età (nel caso, aveva abbinato casualmente maggiorennne e minorenne, risultata poi adescata dal primo).

Astutamente (o acutamente) per bypassare la barriera del § 230 CDA l’avvocato dell’attore aveva azionato la responsabilità del produttore (social) per prodotto difettoso (negligent design della piattaforma).

Quindi non può dirsi sia stato azionata responsabilità per fatto solo del terzo utente.

<< Here, Plaintiff’s complaint adequately pleads a product liability lawsuit as to claims one
through four.
2 Omegle could have satisfied its alleged obligation to Plaintiff by designing its
product differently—for example, by designing a product so that it did not match minors and
adults. Plaintiff is not claiming that Omegle needed to review, edit, or withdraw any third-party
content to meet this obligation. As I will discuss in more detail below, the content sent between
Plaintiff and Fordyce does not negate this finding or require that I find Omegle act as a publisher.
The Ninth Circuit held in
Lemmon that a defendant “allow[ing] its users to transmit usergenerated content to one another does not detract from the fact that [a plaintiff] seek[s] to hold
[the defendant] liable for its role in violating its distinct duty to design a reasonably safe
product.” 995 F.3d at 1092. “The duty to design a reasonably safe product is fully independent of
[a defendant’s] role in monitoring or publishing third party content.”
Id. In Lemmon it was
immaterial that one of the decedents had sent a SnapChat with the speed filter on it. Instead,
what mattered is that the claim treated defendant as a product manufacturer by accusing it of
negligently designing a product (SnapChat) with a defect (the interplay between the speed filter
and the reward system).
In this case, it similarly does not matter that there were ultimately chats, videos, or
pictures sent from A.M. to Fordyce. As I stated at oral argument, it is clear that content was
created; however, claims one through four do not implicate the publication of content. Tr. [ECF
32] at 10:6–11:8. What matters for purposes of those claims is that the warnings or design of the
product at issue led to the interaction between an eleven-year-old girl and a sexual predator in his
late thirties
>>