Diligenza del cliente e doveri di vigilanza in capo alla banca nella gestione del conto corrente online (su servizi di pagamento, d lgs. 11 del 2010 e frodi informatiche)

Assai interessante (perchè analitica) Trib. Milano 28.02.2023 n. 1596/2023, RG 5377/2022, giud. Francesco Ferrari, sull’oggetto.

Caso classico di uso fraudolento di credenziali altrui per storno di somme, tramite -pare- cambio illecito di cellulare agganciato al profilo del cliente.

Riporto solo su quest’ultimo punto:

<<Da parte sua la convenuta ha prodotto l’estratto dei log relativi alle operazioni compiute, nonché agli avvisi via mail e tramite smartphone abilitato, attestando in tal modo come il device originariamente abilitato dal Manfrida a operare attraverso l’App della banca fosse stato sostituito con uno smartphone differente, evidenziando come le parti nel contratto avessero pattuito come, in caso di contestazioni in ordine a operazioni, avrebbero fatto fede i log estratti dal server della banca.
La difesa attorea non ha contestato la provenienza e quanto attestato in detti tabulati (la cui estrazione dai server della banca è stata confermata testimonialmente dall’operatore che aveva curato detta operazione), ma, viceversa, li ha a sua volta invocati quale conferma, a suo dire, della responsabilità della convenuta, la quale non si sarebbe avveduta che le operazioni abusive compiute dai truffatori fossero state disposte utilizzando uno smartphone con sistema operativo Android, quando, invece, lo smartphone in uso all’attore e da questi abilitato operasse con sistema operativo Iphone.
Tale rilievo non può trovare condivisione, in quanto dalla stessa operatività documentata attraverso i log e i tabulati degli alert emerge inequivocabilmente come la sostituzione dello smartphone abilitato sia avvenuta in seguito all’attuazione da parte dell’attore o, quanto meno, sfruttando l’ingenua cooperazione di quest’ultimo, dell’apposita procedura di sostituzione del device abilitato.
In particolare emerge come, una volta avviata la procedura, la banca abbia inviato in due differenti occasioni password temporanee (il cui inserimento era indispensabile per procedere) sulla vecchia utenza telefonica, ossia quella del Manfrida, e sull’indirizzo mail dell’attore e che tali password sono state effettivamente utilizzate per portare a termine l’operazione di sostituzione dello smartphone.
Le cautele utilizzate per effettuare tale sostituzione, ossia l’invio di due password temporanee al cliente, consente di non ritenere sospetta l’operazione in quanto tale, la quale di norma viene effettuata da tutti i clienti, nel momento in cui cambiano il telefono cellulare o una utenza; se, infatti, per poter procedere è necessario utilizzare codici temporanei inviati sull’utenza del cliente, è chiaro che solo quest’ultimo ne possa disporre e, quindi, possa essere abilitato a dare corso alla sostituzione dello smartphone.
Il semplice cambio di device, pertanto, non può essere considerato motivo di allarme o di sospetto, come vorrebbe sostenere la difesa attorea.
Al contrario, l’utilizzo delle password temporanee costituisce un indice inequivoco che porta a presumere come la sostituzione dello smartphone abilitato sia avvenuta con la negligente cooperazione dell’attore, il quale deve avere messo a disposizione i codici di volta in volta solo a lui inviati, al fine di consentire il completamento della procedura.
Una volta completata la sostituzione dello smartphone abilitato, i truffatori, in possesso dell’id e del pin dell’attore (in quanto deve presumersi da questi comunicati in occasione della operazione di cui sopra), hanno potuto utilizzare il token installato sul loro smartphone per poter liberamente operare sul conto corrente del Manfrida.
Le circostanze di fatto in cui si è svolta la vicenda, così come sopra ricostruita, conducono, quindi, a ritenere provata l’esclusiva responsabilità, per colpa grave, dell’attore>>.

Significativa poi è la successiva parte motivatoria sul dovere di monitoraggio e sorveglianza attiva della banca, che non riporto qui.

Sul risarcimento del danno da violazione della data protection (art. 82 GDPR)

Corte di Giustizia 04.05.2023, C-300/21, UI v. Österreichische Post AG sulla disciplina europea del risarcimento da violazione privacy (anzi, data protection…):

L’articolo 82 GDPR deve essere interpretato nel senso che:

1) la mera violazione delle disposizioni di tale regolamento non è sufficiente per conferire un diritto al risarcimento.
2) osta a una norma o una prassi nazionale che subordina il risarcimento di un danno immateriale, ai sensi di tale disposizione, alla condizione che il danno subito dall’interessato abbia raggiunto un certo grado di gravità.
3)  ai fini della determinazione dell’importo del risarcimento dovuto in base al diritto al risarcimento sancito da tale articolo, i giudici nazionali devono applicare le norme interne di ciascuno Stato membro relative all’entità del risarcimento pecuniario, purché siano rispettati i principi di equivalenza e di effettività del diritto dell’Unione.

La regola sub 1) è scontata.

Quella sub 3) quasi (ma è utile la precisazione del limite del rispetto della effettività del diritto UE).

Più interessante è quella sub 2).

Il diritto degli eredi del beneficiario di assicurazione sulla vita

Cass. sez. III del 27.04.2023 n. 11.101 , rel. Sestini, interviene sul tema  riportando i passi di Cass. sez. un. 11421/2021 (su cui v. mio post) :

<< “la designazione generica degli “eredi” come beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita, in una delle forme previste dal comma 2 dell’art. 1920 c.c., comporta l’acquisto di un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione da parte di coloro che, al momento della morte del contraente, rivestano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione indicata all’assicuratore per individuare i creditori della prestazione;

la designazione generica degli “eredi” come beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita, in difetto di una inequivoca volontà del contraente in senso diverso, non comporta la ripartizione dell’indennizzo tra gli aventi diritto secondo le proporzioni della successione ereditaria, spettando a ciascuno dei creditori, in forza della eadem causa obligandi, una quota uguale dell’indennizzo assicurativo;

allorché uno dei beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita premuore al contraente, la prestazione, se il beneficio non sia stato revocato o il contraente non abbia disposto diversamente, deve essere eseguita a favore degli eredi del premorto in proporzione della quota che sarebbe spettata a quest’ultimo”;

le Sezioni Unite sono intervenute con riferimento ad un’ipotesi in cui l’assicuratore aveva ripartito l’indennizzo, in parti eguali, fra i cinque eredi dell’assicurato, ossia il fratello e i quattro nipoti (figli di una sorella già deceduta all’epoca in cui era stata stipulata la polizza assicurativa); nel caso, i giudici di merito avevano ritenuto che al fratello dell’assicurato spettasse la metà della somma assicurata e avevano pertanto condannato l’assicuratore a versare all’attore la differenza fra quanto già erogato e la metà dovutagli; la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dell’assicuratore affermando -come detto- che, nel caso in cui uno dei beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita premuoia al contraente, la prestazione da eseguire a favore degli eredi del premorto va commisurata alla quota che sarebbe spettata a quest’ultimo;>>.

Per poi così osservare:

<<più precisamente, le Sezioni Unite hanno osservato che “l’attribuzione del diritto iure proprio al beneficiario per effetto della designazione giustifica (…) l’applicabilità all’assicurazione sulla vita per il caso morte del comma 2 dell’art. 1412 c.c.”; “in tal caso, l’acquisto del diritto alla prestazione assicurativa in favore degli eredi del beneficiario premorto rispetto allo stipulante opera, peraltro, iure hereditatis, e non iure proprio, e quindi in proporzione delle rispettive quote ereditarie, trattandosi di successione nel diritto contrattuale all’indennizzo entrato a far parte del patrimonio del designato prima della sua morte, nella medesima misura che sarebbe spettata al beneficiario premorto, secondo la logica degli acquisti a titolo derivativo”; “dunque, con la regola che implica l’identificazione degli “eredi” designati con coloro che abbiano tale qualità al momento della morte del contraente coopera la regola della trasmissibilità del diritto ai vantaggi dell’assicurazione in favore degli eredi del beneficiario premorto, quale conseguenza dell’acquisto già avvenuto in capo a quest’ultimo”; “la premorienza di uno degli eredi del contraente, già designato tra i beneficiari dei vantaggi dell’assicurazione, comporta, quindi, non un effetto di accrescimento in favore dei restanti beneficiari, ma, stando l’assenza di una precisa disposizione sul punto ed in forza dell’assimilabilità dell’assicurazione a favore di terzo per il caso di morte alla categoria del contratto a favore di terzi, un subentro per “rappresentazione” in forza dell’art. 1412, comma 2, c.c.”; tanto premesso e rilevato che, nel caso specifico, la sorella dell’assicurato era deceduta prima della stipula della polizza (e, quindi, prima che potesse essere designata fra i beneficiari della stessa), la Corte ha affermato che “non vi era spazio per applicare il comma 2 dell’art. 1412 c.c., ovvero per ravvisare una trasmissione per “rappresentazione” agli eredi (della sorella) dei vantaggi dell’assicurazione nella medesima quota che sarebbe spettata a quella”;>>

La clausola di designazione era così formulata: “beneficiari gli eredi testamentari e, in mancanza, gli eredi legittimi”.

Risarcimento in forma specifica vs rirsarcimento per equjivalente

Il punto della disciplina sul tema in oggetto è fatto da Cass. 20.04.2023 sez. III n° 10.686:

<<la disposizione dell’art. 2058 c.c. prevede che il danneggiato possa chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile (1 co.), consentendo tuttavia al giudice di disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore; ciò significa che, in relazione al danno subito da un veicolo, nel primo caso la somma dovuta è calcolata sui costi necessari per la riparazione, mentre nel secondo è riferita alla differenza fra il valore del bene integro (ossia nel suo stato ante sinistro) e quello del bene danneggiato (cfr. Cass. n. 5993/1997 e Cass. n. 27546/2017), ovvero nella “differenza fra il valore commerciale del veicolo prima dell’incidente e la somma ricavabile dalla vendita di esso, nelle condizioni in cui si è venuto a trovare dopo l’incidente, con l’aggiunta ulteriore della somma occorrente per le spese di immatricolazione e accessori del veicolo sostitutivo di quello danneggiato” (Cass. n. 4035/1975);

le due modalità di liquidazione si pongono, fra loro, in un rapporto di regola ed eccezione, nel senso che la reintegrazione in forma specifica (che vale a ripristinare la situazione patrimoniale lesa mediante la riparazione del bene) costituisce la modalità ordinaria, che può tuttavia essere derogata dal giudice -con valutazione rimessa al suo prudente apprezzamento (“può disporre”)- in favore del risarcimento per equivalente, laddove la reintegrazione in forma specifica risulti eccessivamente onerosa per la parte obbligata;

quanto all’eccessiva onerosità, la giurisprudenza di legittimità l’ha ritenuta ricorrente “allorquando il costo delle riparazioni superi notevolmente il valore di mercato del veicolo” (Cass. n. 2402/1998, Cass. n. 21012/2010 e Cass. n. 10196/2022), non mancando di rilevare che, se la somma occorrente per la reintegrazione in forma specifica “supera notevolmente il valore di mercato dell’auto, da una parte essa risulta eccessivamente onerosa per il debitore danneggiante e dall’altra finisce per costituire una locupletazione del danneggiato” (Cass. n. 24718/2013, in motivazione, a pag. 5);

ritiene il Collegio che, nel bilanciamento fra l’esigenza di reintegrare il danneggiato nella situazione antecedente al sinistro e quella di non gravare il danneggiante di un costo eccessivo, l’eventuale locupletazione per il danneggiato costituisca un elemento idoneo a orientare il giudice nella scelta della modalità liquidatoria e, al tempo stesso, un dato sintomatico della correttezza dell’applicazione dell’art. 2058,2 co. c.c.;

invero, va considerato che il danneggiato può avere serie ed apprezzabili ragioni per preferire la riparazione alla sostituzione del veicolo danneggiato (ad es., perché gli risulta più agevole la guida di un mezzo cui è abituato o perché vi sono difficoltà di reperirne uno con caratteristiche similari sul mercato o perché vuole sottrarsi ai tempi della ricerca di un veicolo equipollente e ai rischi di un usato che potrebbe rivelarsi non affidabile) e che una piena soddisfazione delle sue ragioni risarcitorie può comportare un costo anche notevolmente superiore a quello della sostituzione;

per altro verso, al debitore non può essere imposta sempre e comunque (a qualunque costo) la reintegrazione in forma specifica, dato che l’obbligo risarcitorio deve essere comunque parametrato a elementi oggettivi e che, pur tenendo conto dell’interesse del danneggiato al ripristino del bene e della possibilità che i costi di tale ripristino si discostino anche in misura sensibile dal valore di scambio del bene, non può consentirsi che al danneggiato venga riconosciuto più di quanto necessario per elidere il pregiudizio subito (ostandovi il principio -sotteso all’intero sistema della responsabilità civile- secondo cui il risarcimento deve essere integrale, ma non può eccedere la misura del danno e comportare un arricchimento per il danneggiato);

come si è visto, la giurisprudenza di legittimità ha individuato il punto di equilibrio delle contrapposte esigenze facendo riferimento alla necessità che il costo delle riparazioni non superi “notevolmente” il valore di mercato del veicolo danneggiato; si tratta di un criterio che si presta a tutelare adeguatamente la posizione dell’obbligato rispetto ad eccessi liquidatori, ma non anche a tener conto della necessità di non sacrificare specifiche esigenze del danneggiato a veder ripristinato il proprio mezzo; esigenze che -come detto- debbono trovare tutela nella misura in cui risultino idonee a realizzare la migliore soddisfazione del danneggiato e, al tempo stesso, non ne comportino una indebita locupletazione;

in tale ottica, deve dunque ritenersi che, ai fini dell’applicazione dell’art. 2058,2 co. c.c., la verifica di eccessiva onerosità non possa basarsi soltanto sull’entità dei costi, ma debba anche valutare se la reintegrazione in forma specifica comporti o meno una locupletazione per il danneggiato, tale da superare la finalità risarcitoria che le è propria e da rendere ingiustificata la condanna del debitore a una prestazione che ecceda notevolmente il valore di mercato del bene danneggiato;>>

che però poi precisa:

<<tuttavia, per completezza di disamina, non può non considerarsi che, laddove il danneggiato decida -com’e’ suo diritto- di procedere alla riparazione anziché alla sostituzione del mezzo danneggiato, non risulta giustificato (perché si tradurrebbe in una indebita locupletazione per il responsabile) il mancato riconoscimento di tutte le voci di danno che competerebbero in caso di rottamazione e sostituzione del veicolo; invero, a fronte di un danno accertato, l’opzione del giudice in favore del criterio liquidativo per equivalente deve necessariamente comportare il riconoscimento di tutte le voci di danno che sarebbero spettate al danneggiato se non avesse scelto di riparare il mezzo e, quindi, anche di costi che non siano stati effettivamente sostenuti, ma che sono necessariamente da considerare nell’ambito di una liquidazione per equivalente che, per essere tale, deve comprendere tutti gli importi occorrenti per elidere il danno mediante la sostituzione del veicolo danneggiato; non si tratta, a ben vedere, di liquidare danni non verificatisi, ma di utilizzare in modo coerente, in relazione al danno cristallizzatosi al momento del sinistro, la tecnica liquidatoria prescelta; tecnica che risulta comunque tale da comportare, per l’obbligato, un esborso inferiore a quello cui sarebbe stato tenuto in caso di risarcimento in forma specifica; in tal modo pervenendosi a tutelare il danneggiante rispetto ad esborsi eccessivi conseguenti a scelte del danneggiato, senza tuttavia riconoscergli una locupletazione per il fatto che il danneggiato abbia preferito riparare il mezzo (e senza “punire” quest’ultimo per il fatto di avere compiuto tale legittima scelta, come avverrebbe se gli si riconoscesse meno di quanto avrebbe ricevuto se avesse rottamato l’auto);>> (grassetti nell’originale).

Assegno divorzile e nuova convivenza del coniuge creditore

Cass.sez. 1 del 31.01.2023 n. 2840, rel. Conti:

<<In effetti, la Corte di appello si è pienamente uniformata ai principi espressi da questa Corte in ordine all’esistenza di una convivenza di fatto, valorizzando l’esistenza di uno stabile rapporto di convivenza collegato anche al coinvolgimento nel progetto comune di figli della coppia – cfr., infatti, Cass., S.U. n. 32198 del 2012 ove si è chiarito che quanto al contenuto della prova della convivenza, in virtù del dovere di assistenza reciproca, anche materiale, che scaturisce dalla convivenza di fatto (in base alla L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 37), deve ritenersi che il coniuge onerato dell’obbligo di corrispondere l’assegno possa limitarsi a provare l’altrui costituzione di una nuova formazione sociale familiare stabile, e che non sia onerato del fornire anche la prova (assai complessa da reperire, per chi è estraneo alla nuova formazione familiare) di una effettiva contribuzione, di ciascuno dei conviventi, al menage familiare, perchè la stessa può presumersi, dovendo ricondursi e fondarsi sull’esistenza di obblighi di assistenza reciproci -. E nello stesso contesto le Sezioni Unite hanno aggiunto che ai fini del riconoscimento del carattere di stabilità della convivenza potrà farsi riferimento, come indica della L. n. 76 del 2016, art. 1, comma 37, alla dichiarazione anagrafica ivi indicata, se effettuata, o ad altri indici di stabilità in concreto (quali, a titolo esemplificativo, l’esistenza di figli della nuova coppia, la coabitazione, l’avere conti correnti in comune, la contribuzione al menage familiare)>>.

Principio errato, anche perchè non sorge alcun dovere di mantenimento in caso di convivenza di fatto.    Erroneo è il rif. al co. 37 dell’art. 1 L. 76 del 2016 : qui l’ “assistenza materiale” è solo una situazione fattuale da cui la legge desume il ricorrere del concetto di “convivenza di fatto” (cioè è un sintagma descrittivo, non prescrittivo), alla quale poi applica la nuova disciplina . Quest’ultima però nulla dispone  circa diritti di mantenimento durante la convivenza, ma solo quello agli alimenti dopo la cessazione (co. 65)

Meta vince in appello contro 47 Stati USA per l’addebito di abuso di posizione dominante (acquisizioni aggressive ed escludenti)

L’Appello del District of Columbia Circuit rigetta l’impugnazione dei 47 Stati , dopo perso il primo grado contro FAcebook, circa l’addebito di abuso di posizone dminante.

Si tratta della sentenza 27.04.2023, caso n° 21-7078, leggibile qui oppure qui , pdf della pagina web della corte.

La sentenza di primo grado caso No. 20-3589 (JEB) del 28.06.2021  è qui oppure qui.

La rigetta soprattutto per “laches” (negligente ritardo, “Verwirkung” forse)

 

La disciplina della contitolarità di un marchio (unanimità o maggioranza per la concessione di licenza) spetta al diritto nazionale, non a quello armonizzato europeo

Così Corte di Giustizia 27.04.2023 , C-686/21, caso Legea.

Vediamo il passo circa il reg. 40/94:

Quanto al regolamento n. 40/94, quest’ultimo, pur riconoscendo la comproprietà di un marchio dell’Unione europea, non contiene alcuna disposizione che disciplini le condizioni di esercizio, da parte dei contitolari di un tale marchio, dei diritti conferiti da quest’ultimo, tra cui quello di decidere di concedere una licenza d’uso o di recedere dal relativo contratto.

37 Orbene, dall’articolo 16, paragrafo 1, del regolamento n. 40/94 si evince che il marchio dell’Unione europea, in quanto oggetto di proprietà, è assimilato a un marchio nazionale registrato nello Stato membro determinato secondo le norme stabilite in detto articolo. Ne consegue che, in assenza di disposizioni di tale regolamento che disciplinino le modalità di adozione, da parte dei contitolari di un marchio dell’Unione europea, della decisione di concedere una licenza d’uso di quest’ultimo o di recedere dal relativo contratto, dette modalità sono disciplinate dal diritto di tale Stato membro.

Motivazione leggerina ma forse esatta nell’esito.

v. mio post sulle conclusioni dell’AG , un pò più consistenti sotto il profilo teorico.

 

L’azione di danno ex § 512.f Copyright Act concerne solo l’abuso di copyright, non di marchio

UNITED STATES DISTRICT COURT CENTRAL DISTRICT OF CALIFORNIA, CV 22-4355-JFW(JEMx), del 21 aprile 2023,  Yuga Labs, Inc. -v- Ripps, et al., decide una lite su marchio  in causa promossa dal titolare del NFT “Bored Ape” contro un visual artist (Ripps) che lo critica: Ripps is a visual artist and creative designer who purports to create artwork that comments in the boundaries between art, the internet, and commerce. According to Defendants, Yuga has deliberately embedded racist, neo-Nazi, and alt-right dog whistles in the BAYC NFTs and associated projects.3 Beginning in approximately November 2021, Ripps began criticizing Yuga’s use of these purported racist, neo-Nazi, and alt-right dog whistles through his Twitter and Instagram profiles, podcasts, cooperation with investigative journalists, and by creating the website gordongoner.com.

Y. manda allora richieste di notice and take down (NATD) per marchio spt. ma anche per dir. di autrore.

R. reagisce azionando la disposizione nel  titolo.
Ma la corte -delle 25 richieste NATD- esamina solo quelle (quattro) che hanno portato al take down e solo quelli di copyrigjht (una), non quelle su marchio (tre). Del resto il tenore della norma è inequivoco.

E rigetta l’eccezione (o dom. riconvenzionale?): With respect to the only DMCA notice that resulted in the takedown of Defendants’ content,
Defendants have failed to demonstrate that the notice contains a material misrepresentation that
resulted in the takedown of Defendants’ content or that Yuga acted in bad faith in submitting the
takedown notice. Although Defendants argue that Yuga does not have a copyright registration for
the Ape Skull logo that was the subject of the DMCA takedown notice, a registration is not required
to own a copyright. Instead, a copyright exists at the moment copyrightable material is fixed in any
tangible medium of expression. Fourth Estate Public Benefit Corp. v. Wall-Street.com LLC, 139
S.Ct. 881, 887 (2019); see also Feist v. Publ’ns, Inc. v. Rural Tel. Serv. Co., 449 U.S. 340, 345
(1991) (holding that for a work to be copyrightable, it only needs to possess “some minimal degree
of creativity”). Moreover, courts in the Ninth Circuit have held that a logo can receive both
trademark and copyright protection. See, e.g., Vigil v. Walt Disney Co., 1995 WL 621832 (N.D.
Cal. Oct. 16, 1995).

La setnnza è itnerssante però anche -soprattutto.- per  il profili di mnarchio e concorrenza sleale circa l’uso dell’NFT.

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

Gestione di fondo comune di investimento: profili sostanziali e di successione processuale

Lineare e chiaro insegnamento sull’oggetto in Cass.  sez. 2 del 15.02.2023, n. 4741 , rel. Caponi.

Si trattava di un caso di successione tra due società di gestione nella titolarità di un fondo di investimenti

Premessa sostanziale circa il rapporto tra società di gestione e fondo di investimento:

<< Senonché, tutto ciò – che pur incontra il favore ricostruttivo di sem-pre più frequenti voci dottrinali, le quali si sono spinte fino a parlare di una rappresentanza quasi organica o «periorganica» in capo alla so-cietà di gestione – non trova attualmente corrispondenza nel diritto po-sitivo italiano, per come esso è stato interpretato – sulla scorta di un’analisi accorta – dalla giurisprudenza di questa Corte, specialmente ad opera di Cass. 16605/2010, secondo la quale: «La soluzione che meglio sembra rispondere alle esigenze sottese alla costituzione dei fondi comuni d’investimento e che trova più solidi agganci nella relativa disciplina resta quella che ravvisa nel fondo un patrimonio separato. La separazione, unitamente alle specifiche disposizioni […], garantisce adeguatamente la posizione dei partecipanti, i quali sono i proprietari sostanziali dei beni di pertinenza del fondo, lasciando però la titolarità formale di tali beni in capo alla società di gestione che lo ha istituito […]» oppure «dalla società di gestione subentrata nella gestione» (così, art. 36, co. 1 d.lgs. 58/1998).
Osserva inoltre Cass. 16605/2010, cit.: «In siffatte situazioni non si dubita che il patrimonio separato (o destinato) sia pur sempre da ri-condurre alla titolarità del soggetto (persona fisica o giuridica che sia) dal quale esso promana, ancorché occorra tenerlo distinto dal resto del patrimonio di quel medesimo soggetto o da eventuali altri segmenti patrimoniali ugualmente sottoposti ad analogo regime di separazione. Ogni attività negoziale o processuale posta in essere nell’interesse del patrimonio separato non può, perciò, che essere espletata in nome del soggetto che di esso è titolare, pur se con l’obbligo di imputarne gli effetti a quello specifico ben distinto patrimonio».
Nel caso di specie sotteso a quella pronuncia, Cass. 16605/2010 ne aveva desunto che, in caso di acquisto di un immobile nell’interesse del fondo, il bene acquistato deve essere intestato alla società di gestione la quale ne ha la titolarità formale ed è legittimata ad agire in giudizio per far accertare i diritti di pertinenza del patrimonio separato in cui il fondo si sostanzia >>.

Poi la conseguenza processuale dell’applicaizne analogica della’rt. 111 c. 4 cpc.

Essa si basa sull’osservazione di dottrina che studiò gli acquisti a non domino e nel passo specifico l’origine storica del cit. art. 111 cpc.

Prob. il relatore si riferisce a Mengoni L., Gli acquisti <<a non domino>>, Giuffrè, 1975, 3 ed., p. 272 ss.

Ecco allora il principio di diritto, importante  assai a livello teorico (e pratico, per chi si occupa della materia):

«Se nel corso del processo, in cui è controverso un diritto attinente a un fondo comune di investimento, si trasferiscono da una società di gestione all’altra – ai sensi dell’art. 36, co. 1 d.lgs. 98/1998 – i rapporti di gestione relativi al fondo, il processo prosegue tra le parti originarie.

La società di gestione subentrata nella gestione può intervenire o essere chiamata nel processo e la società alienante può esserne estromessa.

In ogni caso, la sentenza pronunciata nei confronti delle parti originarie spiega i suoi effetti anche nei confronti della società di ge-stione subentrata».

Determinazione dell’assegno divorzile di mantenimento

Cass. sez. 1 ord. 28.03.2023 n. 8703, rel. Caprioli.

la SC ricorda il principio di diritto affermato da Cass. s.u. 18287/2018 “ai sensi della L. n. 898 del 1970 , art. 5 , comma 6, dopo le modifiche introdot te con la L. n. 74 del 1987 , il riconoscimento dell’assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale e in pari
misura compensativa e perequativa, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza
dei mezzi o comunque dell’impossibilità di pro curarseli per ragioni oggettive,
attraverso l’applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali
costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa
attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valu tazione
comparativa delle condizioni economico patrimoniali delle parti, in
considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli
familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relaex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto”.zione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto“.

Poi lo interpreta:

<<L’innovativo orientamento giurisprudenziale espresso da Cass. n. 11504/2017che ha per la prima volta affermato che l’indagine sull’an debeaturdell’assegno divorzile in favore del coniuge richiedente non va ancorata alcriterio del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, ma a quellodell’autosufficienza economica) è stato perciò integrato dalle SS.UU. medianteil riconoscimento della natura, oltre che assistenziale, ancheperequati va/compensativa dell’assegno, che discende direttamente dalladeclinazione del principio costituzionale di solidarietà.

In tale ottica, quando ognuno degli ex coniugi sia in grado di mantenersiautonomamente, l’assegno va riconosciuto in favore di quello e conomicamentepiù debole in una funzione equilibratrice non più finalizzata alla ricostituzionedel tenore di vita endoconiugale, ma volta a consentirgli il raggiungimento inconcreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito alla vitafamili are, dovendosi tener conto, in particolare, se, per realizzare i bisognidella famiglia, questi, anche in ragione dell’età raggiunta e della durata delmatrimonio, abbia rinunciato (alle) o sacrificato le proprie personali aspirazionie aspettative profess ionali. (cfr. in termini Cass. 1882/ 2019 e 5603/2020).

Il parametro della (in)adeguatezza dei mezzi o della impossibilità diprocurarseli per ragioni oggettive va quindi riferito sia alla possibilità di vivere autonomamente e dignitosamente (e, quindi, a ll’esigenza di garantire dettapossibilità al coniuge richiedente), sia all’esigenza compensativa del coniugepiù debole per le aspettative professionali sacrificate, per avere dato, in basead accordo con l’altro coniuge, un dimostrato e decisivo contribu to allaformazione del patrimonio comune e dell’altro coniuge.

Nell’ambito dell’accertamento di siffatte condizioni la cui prova, è bene ricordarlo, incombe sul richiedente (Cass. civ. 3 dicembre 2021, n. 38362;Cass. civ. 5 novembre 2021 n. 32198), lo squilibrio economico tra le parti el’alto livello reddituale del coniuge destinatario della domanda non costituiscono, da soli, elementi decisivi per l’attribuzione e la quantificazione dell’assegno. Il mero dato della differenza reddituale tra i coniug i, che è coessenziale alla ricostituzione del tenore di vita matrimoniale, è però estraneo alle finalità dell’assegno nel mutato contesto>>.

Parte finale (in rosso e sottolineata) molto importante e spesso trascurata.