Differenza tra non applicabilità dello safe harbour e affermazione di responsabilità

La corte distrettuale del Wisconsin -western dist.-  31.03.2023, caso No. 21-cv-320-wmc, Hopson + Bluetype c. Google + Does 1 e 2, ha ben chiara la differenza tra i due concetti: che non sia invocabile il  safe harbour non significa che ricorra in positivo responsabilità (anche se di fatto sarà probabile).

Non altrettanto chiara ce l’hanno alcuni nostri opininisti (dottrina e giurisprudenza).

Nel caso si trattava del safe harbour per il copyright in caso di procedura da notice and take down e in particolare da asserita vioalzione della procedura che avrebbe dovuto condurre google a “rimettere su” i materiali in precedenza “tirati giu” (§ 512.g) del DMCA).

<<Here, plaintiffs allege that defendant Google failed to comply with § 512(g)’s
strictures by: (1) redacting contact information from the original takedown notices; (2) failing to restore the disputed content within 10 to 14 business days of receiving plaintiffs’ counter notices; and (3) failing to forward plaintiffs’ counter notices to the senders of the takedown notices. As Google points out, however, its alleged failure to comply with  § 512(g) does not create direct liability for any violation of plaintiffs’ rights. It merely denies Google a safe harbor defense should plaintiffs bring some other claim against the ISP for removing allegedly infringing material, such as a state contract or tort law claim. Martin, 2017 WL 11665339, at *3-4 (§ 512(g) does not create any affirmative cause of action; it
creates a defense to liability); see also Alexander v. Sandoval, 532 U.S. 275, 286-87 (2001) (holding plaintiffs may sue under a federal statue only where there is an express or implied private right of action). So, even if Google did not follow the procedure entitling it to a safe harbor defense in this case, the effect is disqualifying it from that defense, not creating liability under § 512(g) of the DMCA for violating plaintiffs’ rights.>>

Ancora nulla circa tale procedura in UE: gli artt. 16-17 del DSA reg. UE 2022/2065 non ne parlano (pare lasciarla all’autonomia contrattuale) e nemmeno lo fa la dir. specifica sul copyright,  art. 17 dir. UE 790/2019.

(notizia e link dal sito del prof. Eric Goldman)

Azione di responsabilità verso l’amministratore di SRL e azione per conflitto di interessi: non sono uguali

Non c’è sempre chiarezza concettuale sul rapporto tra le due azioni.

Cass. sez. I del 13.03.2023 n. 7279, rel. Nazzicone, prima pare far confusione:

<<La facoltà per la società di agire, ai sensi dell’art. 2475-ter c.c., per l’annullamento dei contratti conclusi dagli amministratori in conflitto di interessi, per conto proprio o di terzi, ove il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo, non esclude, invero, che la medesima condotta sia posta a fondamento non di un’azione caducatoria – qual è quella prevista nella norma menzionata – ma dell’azione di risarcimento del danno patito dalla società>>.

Ovvio che <non esclude>: l0azione diannullamento exc art. 2475 ter ha presupposti ed efetto diversi da quella di danno exc art. 2476 c.1 cc. Quindi pià che non esclude avrebbe dovuto diure “è altro da”.

Seguono precisazioni (ma solo teoriche e quindi vaghe) sul concetto di conflitto.

Poi ne giungono altre sull’azione di danno, un pò più centrate:

<<Più in generale, l’azione di responsabilità sociale è esperibile nei confronti dell’amministratore ogni qualvolta le sue condotte, valutate ex ante, risultino manifestamente avventate e imprudenti, né assumendo rilievo il principio di insindacabilità degli atti di gestione in presenza di scelte di natura palesemente arbitraria (Cass. 16 dicembre 2020, n. 28718).

Pertanto, nel caso di conflitto di interessi con la società rappresentata, la sfera dei poteri di indagine del giudice si amplia, potendo essere considerato il merito di quella scelta, nel senso che il giudice è chiamato a valutare la ragionevolezza della stessa, secondo un giudizio ex ante, tenendo conto della mancata adozione delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo nonché della diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione (cfr., fra le altre, Cass. 22 giugno 2020, n. 12108; Cass. 22 giugno 2017, n. 15470). [No, mai si entra nel merito: solo chje la negligenza qui comprende il conflitto]

L’amministratore, dunque, risponde dei danni causati alla società, qualora abbia fatto prevalere l’interesse extrasociale, come dovrà accertarsi da parte del giudice di merito, allorché verifichi che egli abbia agito senza che la scelta abbia un fondamento razionale o se non sia accompagnata dalle verifiche imposte dalla diligenza richiesta, ma sia, al contrario, connotata da imprudenza (o, addirittura, da dolo).

In particolare, ove si deduca la conclusione di un contratto in conflitto di interessi, non basta che il terzo abbia un interesse diverso o anche contrario a quello della società – situazione che può porsi, di regola, per i contratti sinallagmatici, ove al vantaggio economico prodotto da una condizione contrattuale per una parte corrisponde specularmente una minore convenienza per l’altra – dovendo essere interessi fra loro incompatibili e fare difetto i presupposti per addivenire a quel regolamento contrattuale, in quanto l’accordo non risponda a nessun interesse della società e sia per essa pregiudizievole>>.

Diritto di autore su fiabe , anzi su una loro particolare modalità editoriale-rappresentativa

Appello Firenze n. 669/2023 del 03.04.2023, RG 1132/2022, rel. Nicoletti, sul tema in oggetto conferma la sentenza di 1 grado circa la tutela come opera dll’ingegno della innovativa  modalitàò edutoriale di rapprestnazione di fiabe tradizionali:

<<Il giudicante, poi, correttamente, dopo aver esemplificato i dati terminologici di
cui sopra, ha ritenuto che l’oggetto di causa non fosse l’idea, ma l’opera
compiuta. Infatti, ha affermato che “nel caso di specie, l’opera di cui si chiede la
protezione è rappresentata dai cofanetti della collana “Carte in tavola”. Ora, è pacifico
che il contenuto dei cofanetti sia costituito dalle fiabe tradizionalmente raccontate ai
bambini. Tuttavia, applicando i suesposti principi, occorre guardare non all’idea in sé,
al contenuto dell’opera, bensì alla sua forma espressiva. Dalla disamina delle opere, il
cui deposito cartaceo è stato autorizzato in sede istruttoria, emerge come il suo autore abbia voluto rappresentarle mediante una visione personale delle stesse: il cofanetto,
ciascuno avente ad oggetto una fiaba, è composto da una serie di schede sulla quali
da un lato vi è il racconto della storia e, dall’altro, il disegno corrispondente, così che
poi poggiando tutte le carte in sequenza emerge la rappresentazione in disegni
dell’intera fiaba. Ebbene, si ritiene che una tale rappresentazione delle tradizionali
fiabe per bambini sia caratterizzata da innovazione ed originalità, distinguendosi dai
differenti libri con immagini colorate, per essere stampato sui due lati di singole
schede.”.
La ricostruzione del Tribunale, quindi, è del tutto in linea con l’interpretazione
costante fornita dalla giurisprudenza della normativa di riferimento.
E’ poi condivisibile l’affermazione secondo cui l’opera “Carte in tavola” presenta
un contenuto creativo, rappresentato dal fatto che il Faglia ha inteso
rappresentare e narrare delle fiabe tramite una nuova metodologia comunicativa,
ovvero quella della sequenza di carte contenenti delle illustrazioni, che nella loro
successione raccontano la storia. Tale metodologia di racconto, infatti, si presenta
come innovativa rispetto alla tradizione, differenziandosi dalla narrazione tramite libri e manuali.
L’innovazione creativa determinata dalla differente metodologia narrativa,
pertanto, connota il Faglia quale autore dell’opera, in quanto tale legittimato a
richiedere il riconoscimento della paternità della stessa.

E’ poi irrilevante il fatto che altri soggetti siano gli autori del testo e delle
illustrazioni>>

E poi:

<<L’art.  4 della legge sul diritto di autore, infatti, prevede che “senza pregiudizio dei diritti esistenti sull’opera originaria, sono altresì protette le elaborazioni di carattere creativo dell’opera stessa, quali le traduzioni in altra lingua, le trasformazioni da una in altra forma letteraria od artistica, le modificazioni ed aggiunte che costituiscono un rifacimento sostanziale dell’opera originaria, gli adattamenti, le riduzioni, i compendi, le variazioni non costituenti opera originale.”.
In tale ambito può essere calata anche l’opera di cui si discute, rientrando nel
concetto di “trasformazione da un’altra forma letteraria o artistica” anche la
narrazione di fiabe tradizionali mediante carte illustrate, in relazione alle quali
l’aspetto di creatività va rinvenuto proprio nella modalità di rappresentazione
della storia.
Quello che viene tutelato nel caso in esame, infatti, non è una mera idea, come
afferma l’appellante, ma l’ideazione di una forma di rappresentazione delle storie avente carattere innovativo>>

interessante applicazione dell’art. 1304 cc, poi , da parte della Corte , avendo l’altro convenuto stipulato in precedenza una transazione con l’attore.

Presupposti per l’assegno divorzile

Cass. 20.04.2023 n. 10.702:

Sintesi della giurisprudenza:

<<In definitiva, occorre un rigoroso accertamento del fatto che lo squilibrio,
presente al momento del divorzio, fra la situazione reddituale e patrimoniale
delle parti è l’effetto del sacrificio da parte del coniuge più debole a favore delle
esigenze familiari, il che giustifica il riconoscimento di un assegno perequativo,
cioè di un assegno tendente a colmare tale squilibrio, mentre in assenza della
prova di questo nesso causale, l’assegno può essere solo eventualmente
giustificato da una esigenza assistenziale, la quale tuttavia consente il
riconoscimento dell’assegno solo se il coniuge più debole non ha i mezzi
sufficienti per un’esistenza dignitosa, o non può pr ocurarseli per ragioni
oggettive>>.

Applicazione al caso de quo:

<<Nella specie, quanto alla componente perequativo compensativa dell’assegno
(attesa la sperequazione reddituale tra gli ex coniugi), la Corte d’appello ha
rilevato che nessuna delle parti risultava avere sacrificato il proprio percorso professionale onde consentire la crescita dell’altro coniuge ovvero risultava
avere contribuito alla formazione “di un patrimonio familiare (inesistente)”.
La ricorrente deduce che non si sarebbe tenuto conto del “consistente capitale”
La ricorrente deduce che non si sarebbe tenuto conto del “consistente capitale” da essada essa investito nella ristrutturazione della casa coniugale di proprietà investito nella ristrutturazione della casa coniugale di proprietà esclusiva dell’ex marito.esclusiva dell’ex marito.

Ora, in ordine ai presupposti dell’assegno divorzile, questa Corte, a Sezioni Unite, con la sentenza n. 18287/2018, ha chiarito, con riferimento ai dati normativi già esistenti, che: 1) “il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto”; 2) “all’assegno divorzile in favore dell’ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell’autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate”; 3) “la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi”.

Successivamente, questa Corte ha chiarito (Cass. 21926/2019) che “L’assegno divorzile ha una imprescindibile funzione assistenziale, ma anche, e in pari misura, compensativa e perequativa. Pertanto, qualora vi sia uno squilibrio effettivo, e di non modesta entità, tra le condizioni economico-patrimoniali degli ex coniugi, occorre accertare se tale squilibrio sia riconducibile alle scelte comuni di conduzione della vita familiare, alla definizione dei ruoli all’interno della coppia e al sacrificio delle aspettative di lavoro di uno dei due. Laddove, però, risulti che l’intero patrimonio dell’ex coniuge richiedente sia stato formato, durante il matrimonio, con il solo apporto dei beni dell’altro, si deve ritenere che sia stato già riconosciuto il ruolo endofamiliare dallo stesso svolto e – tenuto conto della composizione, dell’entità e dell’attitudine all’accrescimento di tale patrimonio ? sia stato già compensato il sacrificio delle aspettative professionali oltre che realizzata con tali attribuzioni l’esigenza perequativa, per cui non è dovuto, in tali peculiari condizioni, l’assegno di divorzio” (cfr. anche Cass. 15773/2020; Cass. 4215/2021). In Cass. 24250/2021, si è affermato che ” sciolto il vincolo coniugale, in linea di principio ciascun ex coniuge deve provvedere al proprio mantenimento, tuttavia tale principio è derogato, in base alla disciplina sull’assegno divorzile, oltre che nell’ipotesi di non autosufficienza di uno degli ex coniugi, anche nel caso in cui il matrimonio sia stato causa di uno spostamento patrimoniale dall’uno all’altro coniuge, “ex post” divenuto ingiustificato, spostamento patrimoniale che in tal caso deve essere corretto attraverso l’attribuzione di un assegno, in funzione compensativo-perequativa. Pertanto, ove ne ricorrano i presupposti e vi sia una specifica prospettazione in tal senso, l’assegno deve essere adeguato a compensare il coniuge economicamente più debole, in funzione perequativo-compensativa, del sacrificio sopportato per aver rinunciato a realistiche occasioni professionali-reddituali – che il coniuge richiedente l’assegno ha l’onere di dimostrare nel giudizio – al fine di contribuire ai bisogni della famiglia, rimanendo, in tal caso, assorbito l’eventuale profilo assistenziale” (cfr. anche Cass. 23583/2022).

In definitiva, occorre un rigoroso accertamento del fatto che lo squilibrio, presente al momento del divorzio, fra la situazione reddituale e patrimoniale delle parti è l’effetto del sacrificio da parte del coniuge più debole a favore delle esigenze familiari, il che giustifica il riconoscimento di un assegno perequativo, cioè di un assegno tendente a colmare tale squilibrio, mentre in assenza della prova di questo nesso causale, l’assegno può essere solo eventualmente giustificato da una esigenza assistenziale, la quale tuttavia consente il riconoscimento dell’assegno solo se il coniuge più debole non ha i mezzi sufficienti per un’esistenza dignitosa, o non può procurarseli per ragioni oggettive. [questa è la parte più im,prtante della  motivazione]

Nella specie, quanto alla componente perequativo-compensativa dell’assegno (attesa la sperequazione reddituale tra gli ex coniugi), la Corte d’appello ha rilevato che nessuna delle parti risultava avere sacrificato il proprio percorso professionale onde consentire la crescita dell’altro coniuge ovvero risultava avere contribuito alla formazione “di un patrimonio familiare (inesistente)”.

La ricorrente deduce che non si sarebbe tenuto conto del “consistente capitale” da essa investito nella ristrutturazione della casa coniugale di proprietà esclusiva dell’ex marito.

Ora, dalla sentenza non risulta tale allegazione e in ricorso non si dice dove, come e quando tale documentazione sarebbe stata prodotta nel presente giudizio e solo nella memoria la ricorrente fa riferimento a documentazione (estratti conto corrente integrali del conto bancario comune delle parti) “prodotti in sede separativa” . Peraltro, questa Corte (Cass. 18749/2004) ha già affermato che “i bisogni della famiglia, al cui soddisfacimento i coniugi sono tenuti a norma dell’art. 143 c.c., non si esauriscono in quelli, minimi, al di sotto dei quali verrebbero in gioco la stessa comunione di vita e la stessa sopravvivenza del gruppo, ma possono avere, nei singoli contesti familiari, un contenuto più ampio, soprattutto in quelle situazioni caratterizzate da ampie e diffuse disponibilità patrimoniali dei coniugi, situazioni le quali sono anch’esse riconducibili alla logica della solidarietà coniugale” (nell’enunciare il principio, si è confermato la sentenza impugnata, la quale – esclusa la configurabilità, nella specie, di un mutuo endofamiliare – aveva ritenuto espressione di partecipazione alle esigenze dell’intero nucleo familiare, ai sensi della citata norma codicistica, il consistente intervento finanziario della moglie a titolo di concorso nelle spese relative alla ristrutturazione della casa di villeggiatura di proprietà del marito ma di uso familiare comune). E successivamente, si è precisato (Cass. 10927/2018) che “poiché durante il matrimonio ciascun coniuge è tenuto a contribuire alle esigenze della famiglia in misura proporzionale alle proprie sostanze, secondo quanto previsto dall’art. 143 c.c. e art. 316 bis c.c., comma 1, a seguito della separazione non sussiste il diritto al rimborso di un coniuge nei confronti dell’altro per le spese sostenute in modo indifferenziato per i bisogni della famiglia durante il matrimonio”.

Nella specie, comunque si deduce che ciò (il contributo nelle spese di ristrutturazione della casa di proprietà dell’ex coniuge) dovrebbe rilevare sotto l’aspetto del contributo richiesto per assolvere alla funzione perequativo-compensativa dell’assegno, ma la deduzione risulta generica ed aspecifica.

Sul piano delle condizioni patrimoniali delle parti e del criterio perequativo-compensativo, la Corte ha dunque operato una valutazione in fatto, motivata, sulla mancata rinuncia da parte di entrambi i coniugi ai propri percorsi professionali, né è dimostrato l’affermato contributo della ricorrente alla formazione del patrimonio familiare.

Quanto alla componente assistenziale dell’assegno, la Corte d’appello ha tenuto conto delle documentate condizioni di salute della U., rilevando che la grave patologia oncologica era insorta durante il matrimonio e che, a seguito del divorzio, la U., malgrado le fosse riconosciuta un’invalidità nella misura del 75% dal 2018, aveva continuato a svolte l’attività di libera professione, avendo dichiarato una “retribuzione mensile media pari a circa Euro1.000,00”, concludendo per un giudizio di inattendibilità dei redditi dichiarati (peraltro, solo attraverso dichiarazioni sostitutive di atto notorio, per quanto emerge).

Deve poi aggiungersi che la stessa ricorrente assume di avere rinunciato a richiedere un sussidio in relazione all’invalidità riconosciutale in sede amministrativa, “in ragione della libera professione esercitata, confidando nel mantenimento di una soglia reddituale tale da consentirle di prescindere dalla richiesta di invalidità/accompagno” (pag. 16 del presente ricorso).

Il principio enunciato dalle Sezioni Unite, nella sentenza sopra richiamata del 2018 è che il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale e IN PARI MISURA compensativa e perequativa, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive (Cass. S.U. 18287/2018; Cass. 21234/2019).

Nella specie, la Corte d’appello ha accertato che le condizioni di salute della U. (isterectomia) erano già sussistenti alla data del matrimonio (durato meno di dieci anni), che la stessa non ha cessato l’attività lavorativa, che – anzi – la medesima non ha contestato di prestare attività lavorativa, come psicologa, in un altro centro, che la odierna ricorrente, pur essendo invalida al 75%, non ha richiesto né pensione di invalidità, né assegno di mantenimento, proprio perché continuava a lavorare>>.

Segnalzione di C. Fossati su Ondif.

Precisazioni della Cassazione sull’interpretazione dei brevetti

– I –

Principio di diritto enunciato in tema di contraffazione brevettuale per equivalenti da Cass. n. 120 del 04.01.2022, rel. Ioffrida:

“”In tema di brevetti per invenzioni industriali e della loro contraffazione per equivalente, ai sensi dell’art. 52, comma 3 bis, del Codice Proprietà Industriale, di cui al D.Lgs. n. 30 del 2005, come modificato ad opera del D.Lgs. 13 agosto 2010, n. 131, il giudice – chiamato a valutare l’esistenza di un illecito contraffattorio deve preliminarmente determinare l’ambito della protezione conferita dal brevetto, poi individuare analiticamente le singole caratteristiche del trovato, così come espressamente rivendicate nel testo brevettuale, interpretate anche sulla base della loro descrizione e dei disegni allegati, e quindi verificare se ogni elemento così rivendicato si ritrovi anche nel prodotto accusato della contraffazione, anche solo per equivalenti, così intendendosi, secondo una delle possibili metodologie utilizzabili, quelle varianti del trovato che possano assolvere alla stessa funzione degli elementi propri del prodotto brevettato, seguendo sostanzialmente la stessa via dell’inventore e pervenendo al conseguimento dello stesso risultato””.

Precisazione (quella in rosso) non da poco: il riferimento è alla element by element approach , corollario della all elements rule (come talora si osserva, mentre invece non è necessitato a livello logico: conf. Rossi F., Teoria degli <<equivalenti>> ed <<element by element approach>> in EPC 2000 e nel nuovo art. 52, comma 3-bis, C.P.I., in Riv. dir. ind. 2010, 261).

– II –

Diverso aspetto colto da Cass. sez. I del 01.02.2023 n. 3013, rel. Catallozzi sul rapporto tra rivendiocazioni da un lato e  descrizione/disegni dall’altro:

<< – ciò posto, si osserva che, come osservato anche nello stesso precedente giurisprudenziale di questa Corte richiamato dalle ricorrenti, la descrizione ed i disegni allegati alla domanda di concessione di un brevetto industriale, pur non potendo in alcun modo determinarne l’ambito della tutela concessa dal brevetto laddove questo sia del tutto generico con riferimento all’indicazione dei limiti della protezione, possono essere utilizzati al fine di chiarire e interpretare la rivendicazione (cfr. Cass. 9 aprile 2019, n. 22079);

– infatti, l’individuazione dell’ambito di protezione brevettuale e dei relativi limiti è enucleabile anche attraverso la descrizione e i disegni del brevetto stesso, che assolvono a una funzione esplicativa delle rivendicazioni (cfr. Cass. 16 dicembre 2019, n. 33232; Cass. 5 marzo 2019, n. 6373; Cass. 28 luglio 2016, n. 15705);

– pertanto, pur riconoscendo la validità della regola che pone la sufficiente descrizione dell’invenzione quale requisito per il rilascio del brevetto e la centralità del ruolo delle rivendicazioni nell’individuazione dell’ambito della tutela, deve ritenersi che l’interpretazione di queste ultime non si limita al testo letterale delle stesse, pur non potendosi estendere a tutto ciò che può essere dedotto da un esperto del ramo dalla considerazione della descrizione e dei disegni;

– in particolare, non può disconoscersi la valenza interpretativa della descrizione e dei disegni nei casi, quale quello in esame, in cui tali strumenti, nel circostanziare la struttura di una certa caratteristica del trovato, consentono di puntualizzare, in funzione limitativa, l’oggetto della rivendicazione, formulata in termini ampi e caratterizzati da inevitabile genericità, partecipando alla dichiarazione di volontà del titolare circa il perimetro della tutela richiesta;

– in tali casi, l’utilizzo delle descrizioni e dei disegni, lungi dall’estendere l’ambito della protezione oltre quella espressa dalle rivendicazioni, permette che la concessione della privativa sia maggiormente aderente alla volontà del titolare e, coerentemente con quanto disposto dall’art. 52, comma 3, cod. prop. ind., realizza un’equa protezione del titolare e una ragionevole sicurezza giuridica ai terzi, potenzialmente avvantaggiati dalla limitazione dell’ambito di protezione;>>

Affermazione non condivisibile , svalutando troppo il ruolo delle rivendicazioni e valorizzando troppo quello di descrizione e disegni: in contrasto con la “peripheral definition theory” , assai più coerente con la ratio dell’esclusiva brevettuale (su cui Cass. 120/2022 : v. mio post).

Lo studente che lascia diffamare i docenti dando le credenziali del social a suoi amici, autori dei post, non è protetto dal safe harbor ex 230 CDA

L’appello del 6° circuito, n° 22-1748, JASON KUTCHINSKI c. FREELAND COMMUNITY SCHOOL DISTRICT; MATTHEW A. CAIRY and TRACI L. SMITH , decide una lite promossa dall’alunno impugnante la sanzione disciplinare irrogatagli per aver dato le credenziali Instagram ad amici , autori di post diffamatori di docenti della scuola.

L’alunno non è infatti qualificabile come publisher o spealker, essendo invece coautore della condotta dannosa:

<<Like the First, Fourth, and Ninth Circuits, we hold that when a student causes, contributes to, or affirmatively participates in harmful speech, the student bears responsibility for the harmful speech. And because H.K. contributed to the harmful speech by creating the Instagram account, granting K.L. and L.F. access to the account, joking with K.L. and L.F. about their posts, and accepting followers, he bears responsibility for the speech related to the Instagram account.
Kutchinski disagrees and makes two arguments. First, Kutchinski argues that Section 230 of the Communications Decency Act, 47 U.S.C. § 230, bars Defendants from disciplining H.K. for the posts made by K.L. and L.F.     This is incorrect. Under § 230(c)(1), “[n]o provider or user of an interactive computer service shall be treated as the publisher or speaker of any information provided by another information content provider.” To the extent § 230 applies, we do not treat H.K. as the “publisher or speaker” of the posts made by K.L. and L.F. Instead, we have found that H.K. contributed to the harmful speech through his own actions>>.

Che poi aggiunge:

<<Second, Kutchinski argues that disciplining H.K. for the posts emanating from the Instagram account violates H.K.’s First Amendment freedom-of-association rights. “The First Amendment . . . restricts the ability of the State to impose liability on an individual solely because of his association with another.” NAACP v. Claiborne Hardware Co., 458 U.S. 886, 918–19 (1982). “The right to associate does not lose all constitutional protection merely because some members of the group may have participated in conduct or advocated doctrine that itself is not protected.” Id. at 908. But Defendants did not discipline H.K. because he associated with K.L. and L.F. They determined that H.K. jointly participated in the wrongful behavior. Thus, Defendants did not impinge on H.K.’s freedom-of-association rights>>.

(notizia e link alla sentenza dal blog del prof. Eric Goldman)

Sfruttamento della rinomanza del marchio altrui o lecita parodia? La Corte Suprema parteggia per il titolare del marchio in JACK DANIEL’S PROPERTIES, INC. v. VIP PRODUCTS LLC

Ecco la decisione della Corte Suprema 8 giugno 2023, No. 22–148, in JACK DANIEL’S PROPERTIES, INC. v. VIP PRODUCTS LLC.

Il tema dei confini della lecita parodia/satira rispetto allo sfruttamento della notorietà altrui è sempre difficile da trattare. O meglio, quello del se e in che limiti possa darsi diritto di espressione ad imprese commerciali: agendo per lucro, infatti,  è plausibile che le loro condotte mirino al lucro , invece che contribuire al democratico dibattito nella società (marketplace of ideas). Ma allora il problema potrebbe allargarsi dato che qualunque artista professionista agisce anche per lucro: viene meno la creatività? No di certo.

Comunque la Corte taglia corto: non si può nemmeno discutere di diritto di parola e di parodia (espresamente prevista, si badi,  dal 15 US code § 1125.(c)(3)(A)(ii)) quando avviene nell’ambito di attività commerciale e integrando direttamente la fattispecie tipica di violazione di marchio altriu.

Il noto Rogers test che si applica appunto nella questione violazione di privativa vs. diritto di parola (per gli expressive works)  non si applica, cassando la decisione di appello del 9 circuito.

Dal Syllabo:

<<(b) In this case, VIP conceded that it used the Bad Spaniels trademark and trade dress as source identifiers. And VIP has said and done more in the same direction with respect to Bad Spaniels and other similar products. The only question remaining is whether the Bad Spaniels trademarks are likely to cause confusion. Although VIP’s effort to parody Jack Daniel’s does not justify use of the Rogers test, it may make a difference in the standard trademark analysis. This Court remands that issue to the courts below. Pp. 17–19.
2. The Lanham Act’s exclusion from dilution liability for “[a]ny noncommerical use of a mark,” §1125(c)(3)(C), does not shield parody, criticism, or commentary when an alleged diluter uses a mark as a designation of source for its own goods. The Ninth Circuit’s holding to the contrary puts the noncommercial exclusion in conflict with the statute’s fair-use exclusion. The latter exclusion specifically covers uses “parodying, criticizing, or commenting upon” a famous mark owner, §1125(c)(3)(A)(ii), but does not apply when the use is “as a designation of source for the person’s own goods or services,” §1125(c)(3)(A). Given that carve-out, parody is exempt from liability only if not used to designate source. The Ninth Circuit’s expansive view of the noncommercial use exclusion—that parody is always exempt, regardless whether it designates source—effectively nullifies Congress’s express limit on the fair-use exclusion for parody. Pp. 19–20.>>

e poi da p. 2 della sentenza:

<<Today, we reject both conclusions. The infringement issue is the more substantial. In addressing it, we do not decide whether the threshold inquiry applied in the Court of Appeals is ever warranted. We hold only that it is not appropriate when the accused infringer has used a trademark to designate the source of its own goods—in other words, has used a trademark as a trademark. That kind of use falls within the heartland of trademark law, and does not receive special First Amendment protection. The dilution issue is more simply addressed. The use of a mark does not count as non commercial just because it parodies, or otherwise comments on, another’s products>>.

Da noi l’art. 21 c.p.i. non prevede l’uso lecito come parodia nè diritto di espressione.

V. ora il post 21 giugno u.s. di Lisa Ramsey, Resolving Conflicts Between Trademark and Free Speech Rights After Jack Daniel’s v. VIP Products (Guest Blog Post).  e tra i saggi più impegnati Jack Daniel’s vs. Bad Spaniels—Does a Dog Toy Get Heightened First Amendment Protection? di Jelena Laketić nel Berkeley Technology Law Journal.

V. ora l’interessante saggio dei proff. Tushnet e Lemley, 11.01.2024, “First Amendment Neglect in Supreme Court Intellectual Property Cases” .

E’ divisibile l’immobile abusivo se è stata presentata domanda di sanatoria e sono state pagare le rate? Si

Così per Cass.  sez. 2 n° 9255 del 04.04.2023, rel. Tedesco.

<<La Corte d’appello motivava il diniego a causa del carattere abusivo dell’immobile, non superata dalla presentazione della istanza di condono, in assenza del provvedimento di concessione in sanatoria. (…)

In questo senso la Corte non ha tenuto conto che domanda di condono corredata della prova dell’avvenuto versamento delle prime due rate dell’oblazione costituisce documentazione alternativa rispetto alla concessione in sanatoria (Cass. n. 20258/2009), tale da comportare il venir meno dell’impedimento giuridico alla divisione (Cass. S.U., n. 25021/2019). L’ulteriore rilievo che si legge nella sentenza impugnata, desunto dalla relazione del consulente tecnico, che il Comune aveva richiesto documentazione integrativa che non era stata presentata, di per sé, non fornisce argomento per negare le implicazioni derivanti, sotto il profilo della commerciabilità del bene, dalla esistenza della domanda di condono e dal pagamento delle due rate. È circostanza pacifica nella causa che la quota indivisa dell’immobile, ritenuto non divisibile dalla Corte territoriale, era stata oggetto di atto notarile inter vivos>>.

Questo invece il passaggio nella sentenza di appello censurato dalla SC:

<<Invero, ritiene la Corte di condividere il principio espresso dalla Suprema Corte secondo cui, “quando sia proposta domanda di scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria che sia), il giudice non può disporre la divisione che abbia ad oggetto un fabbricato abusivo o parti di esso, in assenza della dichiarazione circa gli estremi della concessione edilizia e degli atti ad essa equipollenti, come richiesti dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 46 e dalla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, comma 2, costituendo la regolarità edilizia del fabbricato condizione dell’azione ex art. 713 c. c., sotto il profilo della ”possibilità giuridica”, e non potendo la pronuncia del giudice realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello che è consentito alle parti nell’ambito della loro autonomia negoziale. La mancanza della documentazione attestante la regolarità edilizia dell’edificio e il mancato esame di essa da parte del giudice sono rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio.» (Cass.Sez.Unite 7 ottobre 2019 n.25021).
Nel caso di specie è lo stesso appellante che da atto della mancanza di regolarità, avendo evidenziato di aver presentato domanda di sanatoria, non potendo, tuttavia, detta circostanza assumere rilievo dirimente, per come correttamente affermato dal Giudice di prime cure, in assenza del provvedimento di rilascio della concessione in sanatoria>>.

Sul rapporto tra rivendicazioni e descrizione nella domanda brevettuale

Precisazioni sul tema dal Board of Appeal dell’ufficio europeo EPO 23.01.2023 , caso T 0169/ 20 – 3.3.06, application n° 13750929.5, Patent Proprietor: Reckitt Benckiser Vanish B.V. , Opponent: Henkel AG & Co. KGaA.

V. qui la pagina in epo.org nonchè il link diretto alla decisione.

Grazie a Rosie Hughes di IPKat per segnalazione e link.

Concorrenza sleale da parte del terzo

Cass. sez. I del 8 maggio 2023 n. 12.092, rel. Iofrida sull’annosa tradizionale questione:

<<Lamenta la ricorrente la violazione e falsa applicazione dell’art. 2598 c.c., oltre che vizi di omesso esame di fatto decisivo, in ordine sempre alla carenza in capo alla stessa della qualità di imprenditrice concorrente della cooperativa San Giovanni, eccepita sin dal primo grado, che, a suo avviso, avrebbe dovuto in ogni caso comportare necessariamente al rigetto delle domande svolte dalla controparte.
Ora si deve osservare, in linea di principio, che la concorrenza sleale costituisce fattispecie tipicamente riconducibile ai soggetti del mercato in concorrenza, sicché non è ravvisabile ove manchi il presupposto soggettivo del cosiddetto “rapporto di concorrenzialità”; tuttavia, l’illecito non è escluso se l’atto lesivo sia stato posto in essere da un soggetto (il cd. terzo interposto), che agisca per conto di un concorrente del danneggiato poiché, in tal caso, il terzo responsabile risponde in solido con l’imprenditore che si sia giovato della sua condotta, e, se il terzo sia un dipendente dell’imprenditore che ne ha tratto vantaggio, quest’ultimo ne risponde ai sensi dell’art. 2049 c.c., ancorché l’atto non sia causalmente riconducibile all’esercizio delle mansioni affidate al dipendente, risultando sufficiente un nesso di “occasionalità necessaria” per aver questi agito nell’ambito dell’incarico affidatogli, sia pure eccedendo i limiti delle proprie attribuzioni o all’insaputa del datore di lavoro (Cass. 31203/2017; Cass. n. 18691/2015; in argomento pure: Cass. n. 9117/2012; Cass. n. 17459/2007; Cass. n. 13071/2003); quando invece l’atto di concorrenza sleale sta stato compiuto da chi non sia dipendente dell’imprenditore che ne beneficia, la responsabilità dell’impresa concorrente viene affermata sulla base della regola dell’art. 2598 c.c., che qualifica illecito concorrenziale anche l’avvalersi “indirettamente ” di mezzi non conformi ai principi della correttezza professionale, laddove, pur in assenza di una partecipazione anche solo ispirativa, l’atto corrisponda all’interesse dell’imprenditore (Cass. n. 3446/1978), sempre che il terzo si trovi con il primo in una relazione tale da qualificare il suo agire come diretto ad avvantaggiare l’imprenditore della concorrenza sleale (Cass. n. 742/1981; Cass. n. 4755/1986; Cass. n. 5375/2001; Cass. n. 6117/2006; Cass. 4739/2012). La giurisprudenza di merito ha affermato in più occasioni la responsabilità della società per gli atti compiuti dall’amministratore, stante il rapporto organico e la valenza funzionale dell’atto al perseguimento dell’interesse sociale.
Il terzo autore dell’illecito concorrenziale, che agisca in collegamento con il concorrente del danneggiato, risponde in solido con l’imprenditore avvantaggiato dall’atto, mentre, mancando del tutto un collegamento tra il terzo autore del comportamento lesivo del principio della correttezza professionale e l’imprenditore concorrente del danneggiato, il terzo stesso è chiamato a rispondere ai sensi dell’art. 2043 c.c. (Cass. n. 17459/2007; Cass. n. 9117/2012; Cass. n. 18691/2015; Cass. 7476/2017). Da ultimo questa Corte (Cass. n. 18772/2019) ha ribadito che “Gli atti di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 c.c., presuppongono un rapporto di concorrenza tra imprenditori, sicché la legittimazione attiva e passiva all’azione richiede il possesso della qualità di imprenditore; ciò, tuttavia, non esclude la possibilità del compimento di un atto di concorrenza sleale da parte di chi si trovi in una relazione particolare con l’imprenditore, soggetto avvantaggiato, tale da far ritenere che l’attività posta in essere sia stata oggettivamente svolta nell’interesse di quest’ultimo, non essendo indispensabile la prova che tra i due sia intercorso un “pactum sceleris”, ed essendo invece sufficiente il dato oggettivo consistente nell’esistenza di una relazione di interessi tra l’autore dell’atto e l’imprenditore avvantaggiato, in carenza del quale l’attività del primo può eventualmente integrare un illecito ex art. 2043, c.c., ma non un atto di concorrenza sleale”. In motivazione, si è rammentato che, secondo i principi generali in materia di concorrenza sleale, nel caso di condotta posta in essere da un soggetto terzo diverso dagli imprenditori concorrenti, non è necessaria la dimostrazione della colpa nella commissione della condotta stessa e che, affinché la commissione del fatto lesivo della concorrenza da parte del terzo abbia rilievo ex artt. 2598 c.c. e segg., è necessario dimostrare l’esistenza di una relazione di interessi tra l’autore dell’atto e l’imprenditore avvantaggiato, mentre non trova applicazione l’inversione dell’onere della prova previsto dall’art. 2600 c.c..>>

(in verde il passo più interessante a livello operativo)