Validità e modalità redazionali del testamento pubblico

Cass. sez. 2 del 31 ottobre 2023 n. 30.221, rel. Criscuolo (sempre stimolanti le riflesisoni di questo relatore in tema successorio):

<<Questa Corte, anche di recente, ha ribadito che nel testamento pubblico le operazioni attinenti al ricevimento delle disposizioni testamentarie e quelle relative alla confezione della scheda sono idealmente distinte e, pertanto, possono svolgersi al di fuori di un unico contesto temporale; in tal caso, qualora la scheda sia predisposta dal notaio, condizione necessaria e sufficiente di validità del testamento è che egli, prima di dare lettura della scheda stessa, faccia manifestare di nuovo al testatore la sua volontà in presenza dei testi (Cass. n. 1649 del 23/01/2017; Cass. n. 2742/1975).

In passato è stato poi precisato che (Cass. n. 3552/1971), poiché la legge prescrive a pena di nullità per la formazione del testamento pubblico, che il testatore dichiari in presenza dei testimoni la sua volontà e che il notaio, dopo averne curato la redazione in iscritto, debba darne lettura al testatore in presenza dei testimoni stessi, la osservanza di tale duplice formalità, da eseguire entrambe alla simultanea presenza del notaio, del testatore e dei testimoni, è intesa al fine di raggiungere la maggiore garanzia di certezza che il contenuto del testamento sia l’eco fedele della libera e cosciente volontà manifestata dal testatore. Pertanto tale finalità di legge, nel caso di testamento già predisposto dal notaio senza la presenza dei testimoni non è raggiunta se non a condizione che, prima di dar lettura dell’atto, il notaio faccia manifestare di nuovo al testatore la sua dichiarazione di volontà in presenza dei testimoni, e ciò non può essere supplito dalla sola lettura dell’atto fatta dal notaio alla presenza dei testimoni e del testatore, ancorché questi ne confermi il contenuto con semplici monosillabi di approvazione o con gesti espressivi del capo.

La legge nella sostanza prescrive che siano adempiute le seguenti formalità: a) dichiarazione della volontà del testatore alla presenza dei testimoni; b) riduzione di essa per iscritto a cura del notaio; c) lettura dell’atto al testatore ed ai testimoni; d) menzione dell’esecuzione di tali formalità.

Non è però necessario che tutte le operazioni siano effettuate senza soluzione di continuità.

L’atto impugnato conferma l’effettiva esecuzione di tutte le dette formalità, e non può spiegare alcuna rilevanza la circostanza addotta dai ricorrenti circa il fatto che la testatrice aveva in una prima fase espresso una diversa volontà.

Infatti, come si ricava dal complesso della ricostruzione in fatto operata dai giudici di rinvio, è emerso che il notaio aveva inizialmente verificato la volontà della testatrice di beneficiare con il testamento anche alcune delle persone che avrebbero dovuto prendere parte all’atto come testimoni, il che ne aveva determinato il temporaneo allontanamento.

Era quindi seguita una interlocuzione tra la notaia e la testatrice (rientrando nei precisi doveri di diligenza del notaio, quello di indagare la reale volontà della parte, onde inquadrare le intenzioni del testatore nel sistema della legge ed a darne pratica attuazione, senza che tale compito infranga il precetto della libertà e spontaneità delle disposizioni testamentarie, così Cass. n. 869/1960), all’esito della quale la seconda era pervenuta alla diversa determinazione di istituire unica erede la T. (verosimilmente in quanto rassicurata circa il fatto che il marito di questa aveva assunto l’informale impegno di provvedere anche in favore dei soggetti che del pari si voleva inizialmente beneficiare). Deve, quindi, reputarsi che proprio tale colloquio abbia permesso la definitiva formulazione delle volontà testamentarie e che il verbale di redazione del testamento pubblico abbia quindi avuto ad oggetto la raccolta delle volontà in tal senso determinatesi, non potendo pertanto più spiegare alcuna influenza, ai fini dell’accertamento della presenza dei testimoni, quanto in precedenza avvenuto, trattandosi di una fase che presenta una soluzione di continuità rispetto alla definitiva manifestazione di volontà.

La necessità della presenza di testimoni e del rispetto delle formalità prescritte dalla legge si pone quindi solo in relazione a tutte le attività intraprese dopo il detto colloquio riservato con la notaia, per le quali fa piena fede l’atto pubblico, non potendosi quindi invocare ai fini della sua inveridicità la circostanza che la P. fosse stata inizialmente allontanata allorché la prima intenzione della Cravero (come detto, poi superata) appariva volta a beneficiarla.

L’erroneo presupposto interpretativo da cui prende le mosse la tesi dei ricorrenti è che siano avvinte in un’unitaria valutazione e considerazione le due distinte fasi in cui si sarebbe venuta a determinare la volontà della testatrice, trascurando di considerare, come invece emerge dalle prove raccolte, e ritenute attendibili dai giudici di rinvio, che vi fu un ripensamento della testatrice, e che quindi il rispetto dei requisiti di forma di cui all’art. 603 c.c. si imponeva solo allorché era maturata in maniera definitiva la volontà della testatrice, corrispondente a quella poi documentata nel testamento oggetto di causa>>.

Reintegrazione verso il donatario e mancato previo esperimento dell’accettazione con beneficio di inventario ex art. 564 cc: applicazione della riduzione proporzionalità in caso di atto coevi

Altra interessante decisione del dr. Criscuolo in tema successorio (Cass. sez. II, 27/10/2023 n. 29.891):

<<Rappresenta principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui (Cass. n. 30079/2019) solo il legittimario totalmente pretermesso che impugna per simulazione un atto compiuto dal “de cuius”, a tutela del proprio diritto alla reintegrazione della quota di legittima, agisce, sia nella successione testamentaria che in quella “ab intestato”, in qualità di terzo e non in veste di erede, acquisendo quest’ultima qualità solo in conseguenza del positivo esercizio dell’azione di riduzione, sicché, come tale, non è tenuto alla preventiva accettazione dell’eredità con beneficio di inventario; né vi è tenuto quando agisca per far valere una simulazione assoluta od anche relativa, ma finalizzata a far accertare la nullità del negozio dissimulato, in quanto, in queste ipotesi, l’accertamento della realtà effettiva consente al legittimario di recuperare alla massa ereditaria i beni donati, mai usciti dal patrimonio del defunto (conf. Cass. n. 25441/2017). Invece, (cfr. Cass. n. 20971/2018) ove il legittimario sia anche erede e proponga un’azione di simulazione relativa, ma volta a far valere la validità del negozio dissimulato, tale domanda deve ritenersi proposta esclusivamente in funzione dell’azione di riduzione e postula, quale condizione per la propria ammissibilità, la previa accettazione beneficiata (conf. Cass. 4400/2011).

E’ stato altresì precisato che (Cass. n. 19527/2005) la disposizione di cui all’art. 564 c.c., che subordina la proposizione dell’azione di riduzione delle donazioni e dei legati da parte del legittimario alla sua accettazione con beneficio d’inventario, non opera nel caso in cui le donazioni e i legati siano fatte a persone chiamate come coeredi, e ciò perché la norma risponde alla “ratio” di evitare che la confusione dei patrimoni del “de cuius” e dell’erede impedisca al donatario e al legatario di verificare l’effettività della lesione della riserva [ndr: cosa nota] e, inoltre, all’esigenza, di cui è fatta menzione nella relazione al progetto definitivo del codice civile, di evitare il contrasto logico ed insanabile fra la responsabilità illimitata dell’erede, nonché il suo obbligo di rispettare gli atti di disposizione del defunto, e l’azione di riduzione della liberalità (conf. Cass. n. 1407/1987; Cass. n. 4270/1984). [ndr: già più interessante]

Infatti, la Corte ha ritenuto che (Cass. n. 18068/2012) è manifestamente infondata la questione di legittimità, per violazione degli artt. 2,3 e 24 Cost., della disposizione dell’art. 564 c.c., comma 1, che condiziona l’ammissibilità dell’azione di riduzione all’accettazione dell’eredità con il beneficio d’inventario solo nel caso in cui tale azione venga esercitata nei confronti di un terzo e non anche quando essa sia rivolta verso un coerede, essendo tale norma giustificata: 1) dall’esigenza di porre il convenuto in grado di conoscere l’entità dell’asse ereditario, esigenza maggiormente avvertita per il terzo, in quanto si presume che il coerede possa accertarsi dell’entità dell’asse con mezzi diversi dall’accettazione del beneficiato; 2) dalla “ratio” di evitare il contrasto logico insanabile tra la responsabilità “ultra vires” dell’erede per il pagamento dei debiti e dei legati, il suo obbligo di rispettare integralmente gli effetti degli atti compiuti dal defunto – quindi, anche delle donazioni – e l’azione di riduzione della liberalità; 3) dalla volontà del legislatore di non sacrificare il terzo a vantaggio dei creditori del defunto, i quali, invero, ai sensi dell’art. 557 c.c., comma 3, non approfittano della riduzione solo se il legittimario avente diritto alla riduzione ha accettato l’eredità con il beneficio d’inventario.

Poiché tra i destinatari della domanda di simulazione, chiaramente proposta al fine di far accertare la natura liberale dell’atto dissimulato, vi era anche C.B., beneficiario, secondo la tesi dei ricorrenti della donazione di un terreno appartenente alla de cuius e sito in (Omissis), la conclusione circa l’inammissibilità della domanda, in quanto non preceduta dall’accettazione beneficiata non può reputarsi corretta quanto all’azione avanzata nei confronti del fratello, e ciò anche alla luce del carattere personale dell’azione di riduzione che opera sia sul lato attivo (nel senso che ogni legittimario può autonomamente agire per la tutela della propria quota di riserva), sia dal lato passivo, ben potendo esercitarsi l’azione di riduzione nei confronti di un singolo donatario ovvero di un singolo beneficiario delle disposizioni testamentarie, nel rispetto, nel primo caso del criterio cronologico che presiede alla riduzione delle donazioni, e nel secondo caso del criterio di proporzionalità di cui all’art. 558 c.c.

Ne deriva che, ove dimostrata l’esistenza di una donazione dissimulata, a fronte dell’apparente vendita del detto terreno a favore del fratello dei ricorrenti, la medesima donazione ben potrà essere suscettibile di riduzione, se lesiva della quota di legittima degli istanti>>.

E poi:

<<E’ pur vero che la giurisprudenza di questa Corte ha evidenziato che (Cass. n. 22632/2013) qualora il legittimario, ai sensi dell’art. 564 c.c., non possa aggredire la donazione più recente a favore di un non coerede per aver accettato l’eredità senza beneficio d’inventario, non può aggredire la donazione meno recente a favore del coerede, se non nei limiti in cui risulti dimostrata l’insufficienza della donazione più recente a reintegrare la quota di riserva, non potendo ricadere le conseguenze negative del mancato espletamento di quell’onere su soggetti estranei all’assolvimento dello stesso (conf. Cass. n. 3500/1975), sicché occorre adeguare tale principio alla peculiare situazione in esame, che vede la presenza, sempre ove dimostrata la simulazione, di una pluralità di donazioni contenute in un medesimo atto, solo alcune delle quali aggredibili con l’azione di riduzione, stante il mancato rispetto della previsione di cui all’art. 564 c.c. per l’azione esperita verso i donatari non chiamati come coeredi.

In presenza però di donazioni coeve, deve reputarsi applicabile, in assenza di un’indicazione che consenta di invocare il criterio cronologico sopra richiamato, il criterio proporzionale, con la conseguenza che la donazione effettuata a C.B., ove dimostrata in sede di rinvio, potrà essere aggredita dagli attori nei limiti necessari a reintegrare la propria quota, ma in misura non eccedente quella che sarebbe stata la riduzione applicata ove si fosse considerato anche il valore delle donazioni coeve, e considerato il suddetto criterio proporzionale.

Al fine di meglio illustrare tale principio, si ipotizzi che la donazione effettuata in favore di tre donatari veda un’eccedenza rispetto alla disponibile pari ad un valore di 60, dovendo in ipotesi essere ridotta in tale misura, ne consegue che ove la donazione abbia attribuito i beni ai donatari in pari quota, ognuno vedrebbe ridotta la donazione ricevuta, in applicazione della regola proporzionale, per un valore di 20.

Se però, per effetto della previsione di cui all’art. 564 c.c., la domanda di riduzione sia ammissibile solo nei confronti di uno dei donatari, la riduzione non potrà in ogni caso eccedere il valore di 20, che sarebbe stato oggetto di riduzione anche nel caso di ammissibilità della domanda nei confronti di tutti i donatari, non potendo l’omessa accettazione beneficiata da parte del legittimario ripercuotersi in danno del soggetto chiamato come coerede, per il quale non opera la condizione di cui al citato art. 564 c.c.>>

Cass. sez. 3 del 27.10.2023 n. 29.859, rel., Vincenti:

<<Pertanto, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito inizia a decorrere non dal momento della verificazione materiale dell’evento di danno, bensì dal momento della conoscibilità del danno inteso nella sua dimensione giuridica; un danno ingiusto, cioè, che non soltanto sia “oggettivamente percepibile” all’esterno (elemento della conoscibilità del danno), ma che – attraverso parametri oggettivi quali la diligenza esigibile all’uomo medio e il livello di conoscenze scientifiche proprie di un determinato contesto storico – possa essere astrattamente ricondotto alla condotta colposa/dolosa di un terzo (requisito della rapportabilità causale).

Il principio così delineato (ossia, della conoscibilità del danno nella sua dimensione giuridica) trova applicazione, ai fini dell’individuazione dell’exordium praescriptionis, in tutti i casi di esercizio del diritto al risarcimento del danno, con la precisazione, tuttavia, che il carattere mobile dell’iniziale dies a quo e il suo “spostamento in avanti” si giustificherà nelle ipotesi in cui sia dato scindere, sotto il profilo temporale, il momento dell’accadimento materiale dell’evento di danno e il diverso momento della “esteriorizzazione del danno” nei termini sopra precisati.

Infatti, è solo in questi casi – a differenza di quelli in cui si possa apprezzare la coincidenza tra la verificazione dell’evento di danno e la conoscibilità del danno ingiusto patito -, che l’individuazione di un “dies a quo mobile” è sorretto dalla ratio di evitare che il termine di prescrizione inizi a decorrere in assenza della percezione di aver subito un danno ingiusto.

Ed è ciò che avviene, a titolo meramente esemplificativo, nei casi di responsabilità per danni cd. lungo-latenti, come quello di danni da emotrasfusioni infette. Non a caso la sentenza delle Sezioni Unite n. 576/2008, ha enunciato l’anzidetto principio proprio con riferimento al caso di “chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo” >>.

Poi: <<- E’ principio consolidato che, qualora l’illecito civile sia considerato dalla legge come reato ma il giudizio penale non sia stato promosso, ancorché per difetto di querela, all’azione civile di risarcimento si applica, ai sensi dell’art. 2947 c.c., comma 3, l’eventuale più lunga prescrizione prevista per il reato purché il giudice civile accerti, incidenter tantum, con gli strumenti probatori ed i criteri propri del relativo processo, l’esistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto-reato in tutti i suoi elementi costitutivi, sia soggettivi che oggettivi (tra le altre: Cass. n. 24988/2014 e Cass. n. 2350/2018, richiamate anche nella sentenza impugnata).

Tuttavia, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale (pp. 8 e 9 della sentenza impugnata), non è “necessario”, a tal fine, dover coltivare “un’espressa domanda volta a ottenere in via incidentale l’accertamento dell’ipotizzato reato”, giacché – alla luce dell’orientamento del pari consolidato di questa Corte (per tutte: Cass., S.U., n. 9993/2016; Cass. n. 24260/2020; Cass. n. 21404/2021) – la deduzione circa l’applicabilità del termine prescrizionale più lungo di cui all’art. 2947 c.c., comma 3, integra una contro-eccezione in senso lato, la cui rilevazione può avvenire anche d’ufficio, nel rispetto dei termini di operatività delle preclusioni relative al thema decidendum ex art. 183 c.p.c., qualora sia fondata su nuove allegazioni di fatto.

Là dove invece essa sia basata su fatti storici già allegati entro i termini di decadenza propri del giudizio ordinario a cognizione piena, la sua proposizione è ammissibile nell’ulteriore corso del giudizio di primo grado, in appello e, con il solo limite della non necessità di accertamenti di fatto, anche in Cassazione, dove non integra una questione nuova inammissibile.

La rilevabilità ex officio della contro-eccezione e’, dunque, subordinata alla allegazione – tempestiva, giacché effettuata originariamente con l’atto introduttivo del giudizio ovvero perché le nuove circostanze fattuali sono state dedotte nei termini di cui all’art. 183 c.p.c. (così da consentirne il rilievo officioso anche oltre detti termini) – dei fatti posti a suo fondamento e, quindi, ai fini dell’applicazione dell’art. 2947 c.c., comma 3, del “fatto considerato dalla legge come reato”, ossia delle circostanze da cui evincere la sussistenza degli elementi costitutivi (oggettivi e soggettivi) del reato di omicidio colposo, ex art. 589 c.p>>.

Ancora:

<< In tema di danno non patrimoniale risarcibile, iure haereditatis, in caso di morte causata da un illecito, la tassonomia invalsa che distingue tra varie voci di danno (danno biologico terminale, danno morale terminale, danno catastrofale o catastrofico, danno da lucida agonia) risponde ad una esigenza meramente descrittiva e non viene a configurare delle categorie giuridiche.

A tal fine, infatti, ciò che rileva è la reale fenomenologia del pregiudizio ed è sotto tale profilo che, pur nell’unitarietà della liquidazione del danno non patrimoniale, si diversificano le conseguenze dannose risarcibili, le quali, dunque, se effettivamente sussistenti, sono tutte da riconoscere, senza che si verifichi una duplicazione risarcitoria ingiustamente locupletativa.

In siffatta prospettiva, la giurisprudenza di questa Corte (tra le molte: Cass. n. 26727/2018; Cass. n. 18056/2019; Cass. n. 21837/2019), assumendo a fondamento la reale fenomenologia dei pregiudizi alla persona, ha comunque tradotto l’anzidetta esigenza meramente descrittiva nei seguenti termini: a) il “danno biologico terminale” è un pregiudizio alla salute, da invalidità temporanea sebbene massimo nella sua entità ed intensità, da accertarsi con criteri medico-legali e da liquidarsi comunque, avuto riguardo alla specificità del caso concreto, se tra le lesioni colpose e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo; b) il “danno catastrofale” (o anche detto: “danno morale terminale”, “danno da lucida agonia”), consiste nel pregiudizio subito dalla vittima in ragione della sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine ed è risarcibile a prescindere dall’apprezzabilità dell’intervallo di tempo intercorso tra le lesioni e il decesso, rilevando, ai fini della liquidazione in via equitativa in base alle specificità del caso concreto, soltanto l’intensità della sofferenza medesima>>.

Infine;

<<. Giova, infatti, rammentare che la responsabilità della struttura sanitaria per i danni da perdita del rapporto parentale, invocati iure proprio dai congiunti di un paziente deceduto, è qualificabile come extracontrattuale, dal momento che, da un lato, il rapporto contrattuale intercorre unicamente col paziente, e dall’altro i parenti non rientrano nella categoria dei “terzi protetti dal contratto”, potendo postularsi l’efficacia protettiva verso terzi del contratto concluso tra il nosocomio ed il paziente esclusivamente ove l’interesse, del quale tali terzi siano portatori, risulti anch’esso strettamente connesso a quello già regolato sul piano della programmazione negoziale (tra le altre: Cass. n. 14258/2020 e Cass. n. 21404/2021)>>.

Azione di reintegrazione della legittima o della quota ab intestato? Differenze a livello di prova della simulazione donativa

Sempre interessanti le consideraizoni di diritto successorio del dr. Criscuolo della 2 sezione Cass. civ., qui nella ordinanza 27.10.2023 n. 29.281.

<<La Corte ritiene che debba darsi continuità al principio di diritto recentemente affermato da Cass. n. 16535/2020, secondo cui quando la successione legittima si apre su un “relictum” insufficiente a soddisfare i diritti dei legittimari alla quota di riserva, avendo il “de cuius” fatto in vita donazioni che eccedono la disponibile, la riduzione delle donazioni pronunciata su istanza del legittimario ha funzione integrativa del contenuto economico della quota ereditaria di cui il legittimario stesso è già investito “ex lege”, determinando il concorso della successione legittima con la successione necessaria. Pertanto, la circostanza che il legittimario, nel chiedere l’accertamento della simulazione di atti compiuti dal “de cuius”, abbia fatto riferimento alla quota di successione “ab intestato” non implica che egli abbia inteso far valere i suoi diritti di erede piuttosto che quelli di legittimario, qualora dall’esame complessivo della domanda risulti che l’accertamento sia stato comunque richiesto per il recupero o la reintegrazione della quota di legittima lesa.

La vicenda nella quale risulta essere stato formulato il principio ora riportato risulta per molti versi sovrapponibile a quella in esame, posto che anche in quel caso ad agire per la simulazione era la figlia del de cuius, nata al di fuori del matrimonio, e nei confronti di una donazione che aveva gravemente ridotto la consistenza del patrimonio relitto, sul quale la figlia, erede legittima, ma anche legittimaria, avrebbe potuto soddisfare i propri diritti successori.

Analogamente a quanto accaduto nella fattispecie, i giudici di appello avevano reputato che l’attrice, agendo quale erede legittima del de cuius, avesse chiesto l’accertamento della simulazione degli atti indicati prospettando la simulazione per interposizione fittizia di persona e, incidentalmente, accennando anche a simulazioni relative, dissimulanti donazioni indirette, al fine di acquisire i beni all’asse ereditario e conseguire anche la quota disponibile senza integrazione della quota di riserva, escludendo che la domanda di reintegrazione della quota di riserva fosse stata compiutamente proposta dall’attrice con il richiamo alla “lesione dei diritti riservati ad essa dalla legge”, nonché con la generica richiesta di “reintegrazione della quota di sua spettanza previa riduzione di quanto pervenuto ai figli legittimi dal coniuge nella misura che sarà accertata e dovuta rispetto al patrimonio complessivamente ricostruito”.

Questa Corte ha però ritenuto non condivisibile tale conclusione, rilevando che la quota di riserva continua a rimanere oggetto di un diritto proprio del legittimario ancorché egli, chiamato all’eredità per legge o per testamento (Cass. n. 4991/1978), abbia acquistato la qualità di erede con l’accettazione, così che, anche quando il legittimario agisce per la reintegrazione della quota riservata, sebbene erede di una delle parti contraenti, sono a lui inapplicabili le limitazioni probatorie previste per le parti originarie in materia di prova della simulazione (Cass. n. 5515/1984), posto che in tal caso si pone in una posizione antagonista rispetto al de cuius, opponendosi alla volontà negoziale manifestata dal dante causa come qualsiasi altro terzo, con ciò giovandosi del più favorevole regime probatorio in ordine alla simulazione previsto dall’art. 1417 c.c. (Cass. n. 6315/2003), sottraendosi alle limitazioni probatorie in tema di prova della simulazione, operanti in linea di principio anche per l’erede della parte contraente (Cass. n. 6507/1980).

L’atto compiuto dal de cuius assume l’idoneità a ledere i diritti del legittimario e quindi il legittimario nutre interesse ad accertare che un bene, alienato sotto l’apparenza del negozio oneroso, è in realtà una donazione soggetta a riunione fittizia ed eventualmente a riduzione. Ha altresì interesse, come nella vicenda in esame, a far valere la simulazione assoluta del negozio, al fine di fare accertare che un bene oggetto di alienazione fa parte del relictum ereditario (Cass. n. 4100/1980), essendo stato altresì chiarito che “Il legittimario è ammesso a provare, nella veste di terzo, la simulazione di una vendita fatta dal de cuius per testimoni e presunzioni, senza soggiacere ai limiti fissati dagli artt. 2721 e 2729 c.c., a condizione che la simulazione sia fatta valere per un’esigenza coordinata con la tutela della quota di riserva tramite la riunione fittizia” (Cass. n. 12317/2019).

Ciò non vuol dire però che l’erede, solo perché legittimario, quando impugni per simulazione un atto compiuto dal de cuius, venga a trovarsi sempre e comunque nella veste di terzo e non in quella del contraente (Cass. n. 7134/2001), ma è pur sempre necessario che l’accertamento della simulazione sia richiesto dal legittimario in tale specifica veste, per rimediare a una lesione di legittima, intesa l’espressione in senso ampio, in modo da comprendere non solo la reintegrazione in senso proprio, tramite la riduzione della donazione dissimulata, ma anche il recupero all’asse ereditario del bene oggetto di alienazione simulata ovvero di donazione dissimulata nulla per difetto di forma (Cass. n. 8215/2013; n. 19468/2005).

Risulta ormai in massima parte superato l’indirizzo che restringeva la facoltà del legittimario di valersi della prova testimoniale e di prove indiziarie al caso in cui l’azione di simulazione mirasse solo alla reintegrazione della quota di riserva e non si estendesse anche alla disponibile (Cass. n. 167/1972; n. 1361/1969). Viceversa, subentra invece al defunto il legittimario che non esercita un diritto proprio, contro la volontà del defunto, ma si vale di un titolo che lo pone nella identica situazione giuridica del dante causa (Cass. n. 8684/1986), dovendo quindi soggiacere a tutti i limiti per lui costituiti, fra i quali il limite delle alienazioni simulate, la cui rilevanza formale può essere rimossa solo con i mezzi di prova di cui disponeva il dante causa (Cass. n. 7134/2001). Così come il legittimario trae dal defunto anche il diritto di richiedere la collazione (Cass. n. 3932/2016), posto che in tal caso si trova nella medesima posizione del de cuius, sia ai fini della prova, sia ai fini della prescrizione dell’azione di simulazione (Cass. n. 536/2018; n. 4021/2007; n. 2092/2000).

Secondo la corte di merito le deduzioni operate dall’attrice con la domanda non consentivano di ritenere proposta l’azione di riduzione e ciò perché non vi era un riferimento all’azione di riduzione e non era dedotta la lesione della quota di legittima, ma nel compiere tale affermazione ha obliterato completamente il fatto che l’attrice aveva denunciato la mancanza del relictum, determinata dagli atti di disposizione compiuti in vita del genitore, sicché in ipotesi di insufficienza del relictum è gioco forza che i diritti riconosciuti dalla legge al legittimario non potrebbero essere soddisfatti altrimenti se non a scapito dei simulati acquirenti donatari, una volta fornita la prova della simulazione. La situazione non poteva ingenerare alcun equivoco in ordine al fatto che la domanda di simulazione era preordinata alla reintegrazione della quota di riserva (Cass. n. 19527/2005), come peraltro ricavabile dalla richiesta, parimenti contenuta nelle conclusioni dell’atto di citazione, di disporre la reintegra in favore dell’unica erede legittima, nonché legittimaria . Cass. n. 16535/2020 citata ha altresì chiarito come sia erroneo l’assunto secondo cui il richiamo alla qualità di erede legittima sia una enunciazione incompatibile con la intenzione dell’attrice di far valere il proprio diritto di legittimaria. Il legittimario erede ab intestato, il quale agisce in riduzione contro i donatari (o i legatari), non abdica né al titolo di erede legittimo in favore del titolo di legittimario, né alla quota ereditaria conseguita in virtù della successione intestata in favore della quota riservata. Il legittimario, piuttosto, fa valere tale sua qualità, concorrente con quella di erede legittimo, per far sì che la quota di successione intestata si adegui, in valore, alla quota di riserva tramite la riduzione delle donazioni e dei legati, ovvero che possa espandersi tramite il recupero con l’accertamento della nullità di atti dissimulati, di beni all’apparenza fuoriusciti dal patrimonio, avvalendosi però a tal fine del più agevole regime probatorio riservato al legittimario. La sentenza gravata non risulta essersi adeguata ai suesposti principi e deve pertanto essere cassata, con rinvio per nuovo esame, ad altra Sezione della Corte d’Appello di Roma>>.