La donazione sottoposta a condizione sospensiva “si premoriar” non viola il divieto di patti successori (anche se il donante è già affetto da male incurabile)

Cass. 13.12.2023 sez. 2 n° 34.858, rel. Fortunato:

<<Ai fini della configurazione di un patto successorio vietato, occorre accertare: 1) se il vincolo giuridico abbia avuto la specifica finalità di costituire, modificare, trasmettere o estinguere diritti relativi ad una successione non ancora aperta; 2) se la cosa o i diritti formanti oggetto della convenzione siano stati considerati dai contraenti come entità della futura successione e se siano, comunque, ricompresi nella successione stessa; 3) se il promittente abbia inteso provvedere in tutto o in parte della propria successione, privandosi, così dello “jus poenitendi”; 4) se l’acquirente abbia contrattato o stipulato come avente diritto alla successione stessa; 5) se il programmato trasferimento, dal promittente al promissario, avrebbe dovuto aver luogo “mortis causa”, ossia a titolo di eredità o di legato (cfr. da ultimo, Cass. 14110/2021; già in tal senso Cass. 1683/1995; Cass. 2404/1971).

L’art. 485 [rectius: 458]¯ c.c. mira a salvaguardare il principio – di ordine pubblico – secondo cui la successione mortis causa può essere disciplinata, oltre che dalla legge, solo dal testamento (cd. tipicità degli atti mortis causa) e a tutelare la libertà testamentaria fino alla morte del disponente.

In considerazione della ratio del divieto sono – invece – sottratti all’ambito applicativo della norma i negozi in cui l’evento morte non è causa dell’attribuzione, ma viene ad incidere esclusivamente sull’efficacia dell’atto, il cui scopo non è di regolare la futura successione.

In particolare, secondo un autorevole orientamento dottrinale (condiviso esplicitamente da questo Corte: cfr. Cass. 19198/2020), l’atto mortis causa vietato (diverso dal testamento) è destinato a regolare i rapporti che scaturiscono dalla morte del soggetto, senza produrre alcun effetto, neppure prodromico o preliminare fino a quando il soggetto è in vita.

Il negozio mortis causa investe rapporti e situazioni che si formano in via originaria con la morte del soggetto o che dall’evento morte traggono una loro autonoma qualificazione, mentre il negozio post mortem valido è destinato a regolare una situazione preesistente, sia pure subordinandone gli effetti alla morte di una delle parti.

Nei primi tale evento incide sia sull’oggetto che sulla posizione del beneficiario, nel senso che la disposizione mortis causa interessa non il bene come si trova al momento dell’atto, ma come esso figura nel patrimonio del disponente al momento della morte (cd. quod superest) e nel quale il beneficiario è considerato tale in quanto esistente al momento in cui l’atto acquisterà definitiva efficacia.

In carenza di tali condizioni il negozio integra un atto inter vivos ed è in genere valido, salvo che specifiche clausole o condizioni contrattuali conservino in capo al disponente il potere di farne venir meno gli effetti e il carattere vincolante.

In definitiva, l’atto mortis causa è diretto a regolare i rapporti patrimoniali e non patrimoniali del soggetto per il tempo e in dipendenza della sua morte, senza produrre alcun effetto, nemmeno prodromico o preliminare.

L’evento della morte riveste un ruolo diverso nell’atto post mortem, perché qui l’attribuzione è attuale nella sua consistenza patrimoniale e non è limitata ai beni rimasti nel patrimonio del disponente al momento della morte (Cass. SU 18831/2019, nonché Cass. 18198/2020).

Su tali premesse la giurisprudenza assolutamente prevalente di questa Corte ha da tempo riconosciuto piena validità, sia pure in presenza di determinate condizioni, alla donazione con clausola sospensiva di efficacia subordinata alla premorienza del donante (clausola si premoriar; Cass. 2619/1976; nello stesso senso Cass. 576/1950; contra Cass. 4053/1987).

Ferma, difatti, la nullità della donazione mortis causa per violazione dell’art. 485 [altro uguale laspus calami] c.c., la donazione con clausola sospensiva di premorienza del donante produce effetti preliminari immediati in vita del donante ed investe un singolo bene inteso come entità separata dal resto del patrimonio, sempre che permangano l’irrevocabilità della disposizione e l’immediata costituzione del vincolo giuridico tra le parti, con conseguente attualità dell’attribuzione la cui efficacia è solo differita alla morte, avendo il donatario facoltà di compiere atti conservativi e finanche di disporre del bene (sotto condizione).

Il bene donato viene valutato dai contraenti non quale entità che residua al momento della morte, ma nella sua consistenza ed oggettività al momento del perfezionamento del negozio.

L’eventuale contrasto della donazione con il divieto di patti successori può allora dipendere dalla persistenza di un residuo potere dispositivo in capo al donante, tale da minare o rendere solo apparente l’irrevocabilità della disposizione e la sua immediata efficacia vincolante, non in sé per la maggior o minore probabilità del verificarsi dell’evento condizionante.

La premorienza del donante e’, per sua natura, evenienza incerta anche ove il donante versi in condizioni di malattia irreversibili (non potendo escludersi, in linea di principio, che premuoia il donatario per cause accidentali, improvvise, impreviste e indipendenti dal suo stato di salute sicché la donazione non diviene efficace), né è – in tal caso – prevedibile la durata della vita residua, conservando utilità pratica la connotazione di irrevocabilità della disposizione.

Questa Corte ha chiarito che per accertare nei singoli casi se le parti abbiano posto una donazione inter vivos, coi requisiti richiesti per la sua validità, ovvero un’attribuzione patrimoniale gratuita, di altra natura, eventualmente non consentita dalla legge, è necessario procedere alla ricerca della volontà negoziale delle parti in applicazione delle regole ermeneutiche stabilite dalla legge per la interpretazione dei contratti e, in particolare, del criterio dell’interpretazione complessiva, che postula l’esame delle varie clausole dell’atto onde interpretarle le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna di esse il senso risultante dal loro complesso, facendo, inoltre, applicazione del principio secondo cui la qualificazione giuridica del rapporto dedotto in giudizio non dipende dal significato letterale delle parole o dal nomen juris attribuitogli dalle parti, ma dal suo concreto contenuto e dalla comune intenzione delle parti (cfr., testualmente, Cass. 1547/1966).

Nel caso di cui si discute, la Corte di merito ha, appunto, stabilito che la donazione era immediatamente efficace ed aveva ad oggetto beni (quote sociali) considerati nella loro consistenza e valore al momento della disposizione, dando vita ad un vincolo giuridico produttivo di effetti prodromici, valorizzando l’assenza di elementi che deponessero – anche solo in via indiretta – per l’effettiva persistenza in capo al donante di un potere dispositivo, a conferma dell’irrevocabilità dell’attribuzione.

Benché P.M. fosse certamente affetto da un male incurabile, la sua premorienza rispetto alla sorella poteva al più considerarsi altamente probabile ma non certa, né comunque imminente (la morte è sopraggiunta mesi dopo il perfezionamento della donazione, nell'(Omissis)), permanendo, nonostante la gravità delle condizioni di salute del donante, lo scopo pratico di assicurare il trasferimento delle quote in capo alla sorella con effetti irrevocabili e parzialmente anticipati, indirizzando da subito, nella direzione auspicata, le vicende del complesso aziendale.

L’unico motivo di ricorso non merita, pertanto, accoglimento, non potendo addebitarsi alla Corte di merito di aver escluso la violazione dell’art. 485 c.c., sottovalutando le condizioni di grave malattia e il grado di probabilità della premorienza del donante rispetto alla donataria nella ricerca dello scopo pratico voluto dai contraenti; è incensurabile, nella presente sede di legittimità, la qualificazione della donazione quale negozio inter vivos valido alla luce degli indici posti in rilievo nella sentenza, consistenti nella natura condizionale della clausola di premorienza, nell’idoneità dell’atto a produrre effetti prodromici e nell’assenza di previsioni che, anche solo indirettamente, conducessero a ravvisare la permanenza in capo al donante della facoltà di revoca della disposizione>>.

Ancora sulla determinazione dell’assegno divorzile

Cass. sez. I, Ord., 12/12/2023 n. 34 .711, rel. Caiazzo:

Motivo di ricorso in Cass.:

<L’unico motivo denunzia la violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, per aver la Corte d’appello valorizzato il divario reddituale e patrimoniale tra le parti, senza considerare che la parte immobiliare del ricorrente proveniva integralmente dalla sua famiglia per successione ereditaria e che la sua famiglia aveva vissuto esclusivamente delle rendite di tali immobili, non svolgendo quest’ultima attività lavorativa retribuita. Pertanto, il ricorrente assume: che la rilevante suddetta differenza preesisteva al matrimonio, e che l’ex moglie non aveva contribuito alla sua formazione, decidendo di non lavorare per scelta personale, anche dopo la fine del rapporto coniugale nel 2008, dunque la Corte territoriale non si era attenuta ai principi fissati nell’ordinanza del 2021, non accertando il nesso eziologico tra il contributo dell’ex moglie alla conduzione della vita familiare e la formazione del patrimonio dell’ex marito e della stessa ex moglie>.

Insegnamenti della SC:

<La funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi (SU, n. 18287/18).

Ai fini dell’attribuzione dell’assegno divorzile secondo il parametro assistenziale e perequativo – compensativo, è indispensabile il previo accertamento di un significativo squilibrio delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, rilevando a tal fine anche la suddivisione del patrimonio operata dal marito durante il matrimonio e dopo la separazione, in favore della moglie. Ne consegue, che ove sia accertato che, a seguito di tali attribuzioni, la situazione patrimoniale degli ex coniugi sia sostanzialmente equivalente – ancorchè costituita, per il marito, da reddito pensionistico e per la moglie da una rendita finanziaria – non sussistono presupposti per l’attribuzione dell’assegno in favore della moglie (Cass., n. 28936/22).

Inoltre, al fine di accertare se sussistano i presupposti per il riconoscimento dell’assegno divorzile in funzione compensativo-perequativa del sacrificio sopportato per aver rinunciato a realistiche occasioni professionali o reddituali, ferma l’irrilevanza del pregresso tenore di vita familiare, il giudice deve verificare: a) se tra gli ex coniugi, a seguito del divorzio, si sia determinato o aggravato uno squilibrio economico-patrimoniale prima inesistente (ovvero di minori proporzioni); b) se, in costanza di matrimonio, gli ex coniugi abbiano convenuto che uno di essi sacrificasse le proprie prospettive professionali per dedicarsi al soddisfacimento delle incombenze familiari; c) se, con onere probatorio a carico del richiedente, tali scelte abbiano inciso sulla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi determinando uno spostamento patrimoniale da riequilibrare; d) quale sia lo spostamento patrimoniale, e la conseguente esigenza di riequilibrio, causalmente rapportabile alle determinazioni comuni ed ai ruoli endofamiliari (Cass., n. 22738/21). Nella specie, il ricorrente si duole del fatto che la Corte d’appello abbia statuito sull’assegno divorzile senza accertare se l’ex moglie avesse apportato un contributo alla formazione del patrimonio dell’ex marito e se la scelta di non svolgere attività lavorativa fosse stata o meno concordata e avesse causato il sacrificio di aspettative professionali e lavorative.

Ora, la Corte territoriale, sul presupposto che nella specie non era contestato l’an, ma solo il quantum dell’assegno, ha affermato che l’ex moglie aveva contribuito alla formazione del patrimonio comune e personale dell’ex marito dedicandosi esclusivamente alla cura delle figlie dello stesso coniuge, dal 1992 almeno sino al 2008 (seguendo il marito nei viaggi all’estero, trasferendosi inizialmente in Svizzera) riducendo l’assegno divorzile a favore della B.B. a Euro 7.000,00 (da Euro 18.000,00) mensili in ragione delle proprietà immobiliari di cui lei era divenuta titolare per le donazioni ricevute in costanza di matrimonio da parte della famiglia del A.A..

Ora, considerando l’incommensurabile squilibrio reddituale e patrimoniale tra le parti, ma soprattutto il contributo fornito dalla ex-moglie alla famiglia, ove si è dedicata esclusivamente alla cura di marito e figlia (nata nel 2008), il giudice di merito ne ha tratto le conseguenze e ha ragionevolmente accertato il diritto della controricorrente all’assegno divorzile, in conformità del principio di diritto sancito nell’ordinanza di questa Corte n. 452/2021.

A tale soluzione non osta il rilievo secondo il quale l’ex moglie non ha lamentato di aver dovuto sacrificare aspettative lavorative nel darsi pienamente alla famiglia e alla figlia, e che l’intero suo patrimonio si sia formato esclusivamente con gli apporti dell’ex coniuge (le donazioni del marito e del suocero: un immobile a Parigi e la comproprietà al 50% di altri due immobili all’estero). Invero, da un lato, come rilevato dalla Corte territoriale, occorre considerare che l’ex moglie non ha più le condizioni e l’età per intraprendere ex novo un lavoro e che il suddetto indubbio contributo apportato alla formazione del patrimonio del ricorrente ha verosimilmente determinato un lauto accrescimento patrimoniale a favore di quest’ultimo>.

Peccato che la SC dimentichi che il presupposto, per far operare detti parametri, sia l’ “assenza di mezzi adeguati” (art. 7.5 legge divorzio). Irrilevante è che non ci sia più comntestazione sull’an ma solo sul quantum, data la generalità del ragionamento condotto.

Inadempimento della banca nella gestione patrimoniale costituito dalla modifica non acconsentita delle modalità gestionali inizialmente pattuite

Cass. sez. I del 21/09/2023  n. 27.015, rel. Mercolino:

<<in quanto imperniate sull’inosservanza degli obblighi derivanti dall’esecuzione dell’incarico conferito con il contratto di gestione patrimoniale, le censure proposte dai ricorrenti non attingono infatti la ratio decidendi della sentenza impugnata: quest’ultima, pur avendo escluso che la Banca avesse perseguito uno scopo diverso da quello che si erano prefissati i mandanti, ed avendo quindi ritenuto non configurabile un eccesso di mandato, non ha ritenuto affatto insussistente un inadempimento degli obblighi gravanti sulla Banca in qualità d’intermediario, ma ha espressamente riconosciuto che, a partire dall’anno 2000, essa aveva adottato di propria iniziativa modalità di gestione differenti dalle caratteristiche peculiari della linea pattuita con i clienti, omettendo d’informarli, in contrasto con quanto previsto dall’art. 7 delle condizioni generali di contratto; in proposito, la Corte territoriale ha richiamato la relazione del c.t.u. nominato nel corso del giudizio, da cui risultava che la strategia d’investimento programmata, che prevedeva il ricorso ad un’ampia gamma di strumenti finanziari, soprattutto di natura derivata, anche per finalità diverse da quelle di copertura, era stata sostituita da un’allocazione di portafoglio sostanzialmente bilanciata tra strumenti azionari e obbligazionari, con la conservazione di un unico strumento di natura derivata, il cui peso risultava pari all’1,03% del valore complessivo del portafoglio titoli.

Tale comportamento, oltre a porsi in contrasto con le condizioni specificamente concordate tra le parti, costituisce violazione degli obblighi previsti dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 24 per il servizio di gestione di portafogli, i quali comprendono, tra l’altro, quello di attenersi alle caratteristiche della gestione pattuita con il cliente ed alle istruzioni da lui impartite circa le operazioni da compiere, sì da potersi escludere che, in difetto di un’espressa manifestazione di volontà, lo stesso cliente possa pretendere dall’intermediario una modificazione unilaterale della precedente strategia d’investimento (cfr. Cass., Sez. I, 24/05/2012, n. 8237). Nell’ambito di tale contratto, le caratteristiche della linea d’investimento preventivamente concordata con il cliente (grado di rischio, benchmark, operazioni che l’intermediario può compiere senza autorizzazione preventiva, eventuali restrizioni, modalità di utilizzazione degli strumenti derivati, ricorso alla leva finanziaria) costituiscono infatti il parametro fondamentale cui l’intermediario deve attenersi nell’esecuzione del rapporto, nonché un termine di raffronto indispensabile ai fini della valutazione della diligenza del suo comportamento, godendo egli di una discrezionalità nell’impiego del capitale affidatogli, il cui esercizio impone di verificare, nell’ambito del predetto giudizio, anche se, avuto riguardo ai mutamenti eventualmente sopravvenuti nello scenario di mercato, il mantenimento nel portafoglio di determinati titoli precedentemente acquistati possa ritenersi conforme alla strategia pattuita e, in linea più generale, agli obblighi di correttezza gravanti sul gestore (cfr. Cass., Sez. I, 27/10/ 2020, n. 23568; 15/05/2020, n. 9024; 21/04/2016, n. 8089). Tale criterio è destinato d’altronde ad operare in una duplice direzione, ovverosia non solo in funzione del contenimento dei rischi che l’intermediario è autorizzato ad assumere, il quale gl’impone il compimento di scelte prudenziali, volte ad evitare d’incorrere in perdite superiori a quelle ritenute accettabili dall’investitore, sulla base della sua esperienza finanziaria e in conformità dei suoi obiettivi d’investimento, ma anche, in senso contrario, in funzione del raggiungimento di tali obiettivi, il quale gl’impone di cogliere le opportunità d’investimento di volta in volta offerte dal mercato finanziario, in modo tale da garantire al cliente la conservazione o l’incremento del capitale o rendimenti adeguati al livello di rischio concordato, in linea con le caratteristiche specifiche della gestione (cfr. Cass., Sez. I, 3/01/2017, n. 24; 24/02/2014, n. 4393).

Del resto, è proprio la rilevanza decisiva che, nell’ambito del contratto in esame, riveste l’indicazione delle caratteristiche della gestione, ai fini dell’individuazione degli obblighi di comportamento gravanti sull’intermediario, a giustificare la previsione dell’obbligo, posto a carico dell’intermediario dallo art. 28 del regolamento Consob, d’informare prontamente l’investitore, nel caso in cui il patrimonio affidatogli abbia subito una riduzione per effetto di perdite superiori ad una determinata percentuale del suo controvalore, e ciò essenzialmente al fine di consentirgli di determinarsi liberamente e consapevolmente in ordine all’eventuale esercizio della facoltà di recesso, oppure di concordare con lui eventuali modificazioni della strategia d’investimento, che l’intermediario non è autorizzato a variare di propria iniziativa ed all’insaputa del cliente, come accaduto nel caso in esame. E’ in quest’ottica che, pur avendo escluso la configurabilità di una violazione dell’art. 1711 c.c., la sentenza impugnata ha richiamato la valutazione espressa dal c.t.u., secondo cui la Banca non aveva rispettato pienamente il mandato conferitole dai ricorrenti, avendo progressivamente adottato come riferimento un benchmark inadeguato al profilo di rischio/rendimento della linea di gestione concordata: ed ha pertanto concluso per la sussistenza di un inadempimento della mandataria, consistente nell’aver adottato scelte d’investimento non del tutto in linea con quelle previste dal contratto, senza informare i clienti>>.

Revocatoria del fondo patrimoniale (costituito dopo l’ingiunzione contro i fideiussori) ed estraneità del debito ai bisogni familiari

Cass. sez. I del 13/12/2023 n. 34.872, rel. Russo:

<<Si deve qui premettere che il fondo patrimoniale, rappresenta effettivamente – come afferma la parte – un sistema idoneo a garantire la soddisfazione dei bisogni della famiglia, ma non esclude del tutto la possibilità per i creditori di aggredire i beni in essa inclusi, poiché nella definizione del punto di equilibrio tra l’interesse della famiglia e quello dei creditori non si è totalmente obliterato il principio di cui all’art. 2740 c.c., ma si è introdotto uno speciale regime di responsabilità patrimoniale. Inoltre, esso non crea uno schermo impermeabile ai rimedi che i creditori possono esperire avverso le attività dirette ad eludere o vanificare in toto la garanzia patrimoniale generica.

3.1- Il fondo patrimoniale costituito ex art. 167 c.c., impone un vincolo di destinazione su determinati beni, per far fronte ai bisogni della famiglia, con la conseguenza, in ragione di quanto dispone l’art. 170 c.c., che “la esecuzione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può aver luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia”. Qualora sorga controversia sulla assoggettabilità dei beni ad esecuzione forzata deve, pertanto, accertarsi in fatto se il debito si possa dire contratto per soddisfare i bisogni della famiglia (o se il titolare del credito non ne conosceva l’estraneità a tali bisogni); con la importante precisazione che, se è vero che tale finalità non si può dire sussistente per il solo fatto che il debito sia sorto nell’esercizio dell’impresa, è vero altresì che tale circostanza non è nemmeno idonea ad escludere, in via di principio, che il debito si possa dire contratto, appunto, per soddisfare tali bisogni (v. Cass. 10166/2020). Per contestare il diritto del creditore ad agire esecutivamente, ed anche il diritto di iscrivere ipoteca giudiziale, il debitore opponente deve sempre dimostrare la regolare costituzione del fondo e la sua opponibilità al creditore procedente, e pure che il suo debito verso quest’ultimo venne contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia; la rispondenza o meno dell’atto ai bisogni della famiglia richiede una verifica estesa al riscontro di compatibilità con le più ampie esigenze dirette al pieno mantenimento e all’armonico sviluppo familiare, cosicché l’estraneità non può considerarsi desumibile soltanto dalla tipologia di atto (ad es. la fideiussione prestata in favore di una società) in sé e per sé considerata (Cass.. 29983 del 25/10/2021).

Pertanto, i creditori vengono distinti in base alla natura dei bisogni dai quali origina il rapporto obbligatorio e della condizione soggettiva in cui si trovavano al momento dell’insorgenza dell’obbligo, tra creditori della famiglia, ai quali è riservata la garanzia generica sui beni attributi al fondo, creditori che ignoravano l’estraneità dei debiti ai bisogni familiari, che dall’art. 170 c.c., sono equiparati ai precedenti, e creditori che conoscevano tale estraneità; a questi ultimi è preclusa l’esecuzione sui beni del fondo e sui relativi frutti. La destinazione dei beni ai bisogni della famiglia è quindi favorita attraverso la sottrazione dei beni stessi all’azione esecutiva di una specifica categoria di creditori, ferma restando la possibilità per tutti i creditori di agire, se ne ricorrono i presupposti, in revocatoria ordinaria, posto che l’atto di costituzione del fondo patrimoniale, anche se compiuto da entrambi i coniugi, è un atto a titolo gratuito, soggetto ad azione revocatoria ai sensi dell’art. 2901 c.c., comma 1, n. 1), se sussiste la conoscenza del pregiudizio arrecato ai creditori (Cass. n. 4933 del 07/03/2005; Cass. n. 15310 del 07/07/2007; Cass. n. 24757 del 07/10/2008; Cass. n. 2530 del 10/02/2015).

4.- Nella specie, l’istituto di credito non ha preteso di agire sui beni del fondo patrimoniale, ma ha affermato che la costituzione del fondo patrimoniale reca pregiudizio alle proprie ragioni e quindi ha chiesto e ottenuto che il negozio venisse dichiarato inefficace nei suoi confronti ai sensi dell’art. 2901 c.c..

L’azione pauliana, come è noto, è diretta a far dichiarare giudizialmente l’inefficacia, nei confronti del creditore stesso, degli atti di disposizione del patrimonio con cui il debitore arrechi pregiudizio alle sue ragioni, per consentire allo stesso di esercitare sui beni oggetto dell’atto azioni esecutive e cautelari. L’accoglimento della domanda proposta ex art. 2901 c.c., produce quindi l’effetto di rendere inopponibile, e solo nei confronti del creditore che ha agito in revocatoria, l’atto dispositivo del debitore, senza incidere sulla validità inter partes dell’atto stesso, né sulla sua opponibilità ai terzi rimasti estranei al giudizio revocatorio (Cass. 25855/2021).

La banca ha posto a fondamento della propria azione revocatoria la circostanza che -ove non ottenesse la dichiarazione di inefficacia- non potrebbe agire sui beni del fondo patrimoniale ed è in ciò che consiste il pregiudizio, come correttamente ritenuto dalla Corte d’appello, pregiudizio che la dichiarazione di inefficacia rimuove perché consente alla banca di agire liberamente sui beni del fondo patrimoniale, pur se questo resta validamente costituito.

L’effetto tipico della costituzione del fondo, vale a dire la (parziale) sottrazione dei beni alla garanzia patrimoniale generica, non si produce nei confronti del creditore vittorioso nell’esperimento dell’azione pauliana e non sarà quindi necessario, in questo caso, verificare se il credito per cui si agisce deriva da obbligazione contratta nell’interesse della famiglia e se il creditore ne fosse consapevole o meno.

Correttamente pertanto la Corte di merito ha focalizzato l’attenzione non già sulla conoscenza da parte della banca della – pretesa- estraneità del credito vantato ai bisogni della famiglia, quanto sulla sussistenza di eventus e scientia damni.

Quanto al resto, si tratta di censure di merito oppure generiche, a fronte di una ampia motivazione resa dalla Corte d’appello-condivisibile in punto di diritto e non rivedibile in punto di fatto- la quale osserva che la circostanza che il credito sia sub judice non fa venire meno la facoltà della banca di agire per la conservazione della garanzia patrimoniale posto che assume rilevanza, ai fini che qui interessano, una nozione lata di credito estesa anche al credito litigioso; la Corte ha altresì osservato che l’eventus damni si ha non soltanto quando l’atto dispositivo comprometta totalmente la consistenza patrimoniale del debitore ma anche quando lo stesso determini una variazione quantitativa che rende più difficile la soddisfazione delle ragioni del creditore, così uniformandosi in punto di diritto ai principi costantemente affermati da questa Corte (da ultimo Cass. n. 20232 del 14/07/2023); infine la Corte di merito ha affermato che i due fideiussori erano ben consapevoli, nel momento in cui hanno costituito il fondo patrimoniale e vi hanno conferito tutti i loro immobili, non solo di avere già prestato la fideiussione e dell’inadempimento della debitrice principale, ma anche della emissione del decreto ingiuntivo nei loro confronti.

Irrilevante è infine, nella fattispecie, il richiamo alla protezione dell’habitat domestico della famiglia; la questione rileva qualora ci siano figli minori, nei rapporti tra i genitori, ai fini della assegnazione della casa familiare, vicende che qui non sono state dedotte>>.

Restituzione delle attribuzioni al congiuge dopo la separazione

Cass.  sez. I, ord. 13 dicembre 2023 n. 34.883, rel. Poletti:
<<In tema di separazione personale, non sono ripetibili le attribuzioni effettuate da un coniuge in favore dell’altro in costanza della vita matrimoniale, in quanto – in assenza di prova contraria – si presume che tali dazioni concorrano a realizzare il progetto di vita in comune. Sono invece ripetibili le attribuzioni successive alla separazione posto che in tal caso è certamente cessato il progetto familiare.
Il dovere di contribuzione è per i ‘bisogni della famiglia’ e, dunque, va inteso (non nell’interesse esclusivo dell’altro coniuge, ma) in senso solidaristico (cioè nell’interesse collettivo della famiglia) ed ampio (ad es., costituisce adempimento del dovere di contribuzione: mettere a disposizione della famiglia una casa di cui si era già proprietari prima delle nozze affinché vi si possa vivere senza doverne acquistare un’altra; effettuare le spese di ristrutturazione sulla casa di proprietà dell’altro coniuge per poterla abitare congiuntamente; partecipare alle spese per l’acquisto dell’abitazione familiare da parte del coniuge in regime di separazione dei beni ….)”, per cui deve escludersi (salvo che sia fornita prova contraria) la ripetibilità delle attribuzioni eseguite per concorrere a realizzare un progetto di vita comune>>.
(massima di Valerfia Cianciolo di Ondif)

Precisazioni sull’assegno (separatorio) di mantenimento e su quello divorzile

Cass. 12/12/2023  n. 34.728, rel. Russo:

<<Questa Corte ha invero affermato che in presenza di una convivenza stabile si deve presumere che le risorse economiche vengano messe in comune, salvo la prova contraria data dall’interessato (Cass.16982/2018). E però, perché possa legittimamente farsi ricorso a detta presunzione, occorre preventivamente accertare che si tratti di una relazione non solo “affettiva” ma di un rapporto stabile e continuativo, ispirato al modello solidale che connota il matrimonio, che non necessariamente deve sfociare in una stabile coabitazione, purché sia rigorosamente provata la sussistenza di un nuovo progetto di vita dello stesso beneficiario con il nuovo partner, dal quale discendano inevitabilmente reciproche contribuzioni economiche, gravando il relativo l’onere probatorio sulla parte che neghi il diritto all’assegno (Cass. n. 3645 del 07/02/2023).

Questa Corte ha inoltre affermato, in tema di divorzio, che, ove sia richiesta la revoca dell’assegno in favore dell’ex coniuge a causa dell’instaurazione da parte di quest’ultimo di una convivenza “more uxorio”, il giudice deve procedere al relativo accertamento tenendo conto, quale elemento indiziario, dell’eventuale coabitazione con l’altra persona, in ogni caso valutando non atomisticamente ma nel loro complesso l’insieme dei fatti secondari noti, acquisiti al processo nei modi ammessi dalla legge, e gli eventuali ulteriori argomenti di prova, rilevanti per il giudizio inferenziale in ordine alla sussistenza della detta convivenza, intesa quale legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale i conviventi si siano spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale (Cass. n. 14151 del 04/05/2022).

6.1.- Questo orientamento, pienamente condivisibile, va qui ribadito, con le opportune precisazioni in ordine alle ragioni per le quali la convivenza può comportare la perdita dell’assegno di separazione. [non condivisibile: la convivenza non dà diritto ad alcuna stabilità, è puro fatto]

In tema di assegno divorzile, infatti, è principio consolidato che qualora sia instaurata una stabile convivenza tra un terzo e l’ex coniuge, viene meno la componente assistenziale all’assegno divorzile, e se ne perde il correlativo diritto, ma non viene meno la componente compensativa, qualora l’interessato alleghi e dimostri non solo di essere privo anche nell’attualità di mezzi adeguati e impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, ma anche, nel caso concreto, il comprovato emergere di un contributo dato alle fortune familiari e al patrimonio dell’altro coniuge (Cass. sez. un. 32198 del 05/11/2021; Cass. n. 14256 del 05/05/2022). Di conseguenza qualora sia stato il coniuge divorziato ad intraprendere una nuova relazione familiare di fatto, non necessariamente ciò comporta il venire meno dell’assegno di divorzio, perché, anche rimodulato nel quantum, il diritto può essere mantenuto.

Assegno di divorzio ed assegno di mantenimento sono però diversi quanto a natura presupposti e funzioni; e segnatamente, l’assegno di mantenimento che il coniuge privo di mezzi può ottenere in sede di separazione è privo della componente compensativa, consistendo nel diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario mantenimento, in mancanza di adeguati redditi propri (art. 156 c.c.).

Nel quadro normativo del codice civile la separazione dei coniugi ha funzione conservativa, pur se la legge sul divorzio le ha affiancato anche una funzione dissolutiva, tanto che questa Corte ha affermato che in tema di crisi familiare, in ragione dell’unica causa della crisi, nell’ambito del procedimento di cui all’art. 473-bis c.p.c., comma 1 è ammissibile il ricorso dei coniugi proposto anche con domanda congiunta e cumulata di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio. Secondo l’id quod prelumque accidit, si osserva che la crisi separativa conduce, sia pure attraverso la disciplina di una graduazione e assottigliamento delle posizioni soggettive (diritti e doveri) dei coniugi, dal fatto separativo e con altissima probabilità all’esito divorzile successivo (Cass. n. 28727 del 16/10/2023).

La funzione conservativa della separazione, ad oggi, si invera prevalentemente nel riconoscimento del diritto del coniuge economicamente debole a mantenere lo stesso tenore di vita. In fase di separazione infatti alcuni doveri matrimoniali vengono meno (ad esempio l’obbligo di coabitazione) oppure si attenuano (ad esempio l’obbligo di fedeltà), ma è essenzialmente conservata la solidarietà economica, espressione del principio costituzionale di parità dei coniugi, che si esprime nel dovere di assistenza, in ragione della quale il coniuge cui non sia addebitabile la separazione ha diritto a mantenere lo stesso tenore di vita matrimoniale e quindi a ricevere un assegno di mantenimento dal coniuge economicamente più forte.

In termini, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che la separazione personale, a differenza dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, presuppone la permanenza del vincolo coniugale, sicché i “redditi adeguati” cui va rapportato, ai sensi dell’art. 156 c.c., l’assegno di mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell’addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea, dalla quale deriva solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione, e che ha una consistenza ben diversa dalla solidarietà post-coniugale, presupposto dell’assegno di divorzio (Cass. n. 12196 del 16/05/2017; conf. Cass. n. 16809 del 24/06/2019; Cass. n. 4327 del 10/02/2022).

Il diritto all’assegno di mantenimento è quindi fondato sulla persistenza del dovere di assistenza materiale; il principio di parità richiede che tale sostegno sia reciproco, senza graduazioni o differenze, ma anche solidale, il che significa che chi ha maggiori risorse economiche deve condividerle con chi ne ha di meno. In ogni caso, il coniuge economicamente debole deve essere consapevole che la separazione è una condizione di possibile, anzi probabile, breve durata e che nella maggior parte dei casi non prelude a una riconciliazione bensì allo scioglimento del vincolo, in seguito al quale l’assegno di divorzio è riconosciuto -se riconosciuto- sulla base di diversi presupposti e prescindendo dal rapporto con il tenore di vita (Cass. civ. sez. un. 18287/2018).

Tuttavia, finché perdura lo stato di separazione resta attiva la solidarietà matrimoniale, che si concreta nel dovere di assistenza tra coniugi, sebbene diversamente attuato che in costanza di convivenza, e cioè con una prestazione patrimoniale periodica, perché i coniugi non vivono più insieme; ed è attivo anche – di conseguenza – il legame con il modello matrimoniale concretamente vissuto dai coniugi e cioè il pregresso tenore di vita. Ciò non significa che detto legame non possa essere spezzato per effetto di una scelta volontaria, ed in tal senso la giurisprudenza di questa Corte, la quale ha affermato che durante la separazione personale, la formazione di un nuovo aggregato familiare di fatto ad opera del coniuge beneficiario dell’assegno di mantenimento, operando una rottura tra il preesistente tenore e modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale ed il nuovo assetto fattuale, fa venire definitivamente meno il diritto alla contribuzione periodica (Cass. n. 32871 del 19/12/2018).

7.- Il Collegio ritiene di aderire a tutt’oggi a questo orientamento, considerando che l’assegno di mantenimento è fondato – come sopra si diceva – sulla persistenza di uno dei doveri matrimoniali e non ha – a differenza dell’assegno di divorzio – componenti compensative.

Nel nostro ordinamento il modello di relazione familiare tra due adulti, sia essa fondata sul matrimonio, che sulla unione civile, che su un rapporto di fatto, è un modello monogamico: non è consentito contrarre matrimonio o unione civile se si è già vincolati da analogo legame, e neppure stipulare validi patti di convivenza se si è legati da altro vincolo matrimoniale o da altra convivenza regolata da patto (L. n. 76 del 2016, comma 57, art. 1, che prevede in tal caso la nullità insanabile del patto).

L’ordinamento non tollera la concorrenza di due vincoli solidali fondati sullo stesso tipo di relazione, e pertanto il coniuge separato non può al tempo stesso beneficiare dell’assistenza materiale del dell’altro coniuge e della assistenza materiale del (nuovo) convivente.

Quanto sopra esposto rende evidente l’errore della Corte d’appello di Lecce che non ha accertato, iuxta alligata et probata, e a fronte della contestazione della ricorrente sull’assenza di prova di una convivenza stabile, le caratteristiche del legame tra l’odierna ricorrente l’uomo di cui si parla nella relazione investigativa, e non ha spiegato le ragioni per cui, in relazione a quanto accertato, ha ritenuto di revocare l’assegno di mantenimento.

Di conseguenza, in accoglimento del quarto motivo di ricorso, respinti gli altri, la sentenza in esame deve essere cassata con rinvio alla Corte d’appello di Lecce in diversa composizione per un nuovo esame attenendosi ai seguenti principi di diritto:

7.1.- “In tema di crisi familiare, se durante lo stato di separazione il coniuge avente diritto all’assegno di mantenimento instaura un rapporto di fatto con un nuovo partner, che si traduce in una stabile e continuativa convivenza, ovvero, in difetto di coabitazione, in un comune progetto di vita connotato dalla spontanea adozione dello stesso modello solidale che connota il matrimonio, caratterizzato da assistenza morale e materiale tra i due partner, viene meno l’obbligo di assistenza materiale da parte del coniuge separato e quindi il diritto all’assegno.

La prova dell’esistenza di un tale legame deve essere data dal coniuge gravato dall’obbligo di corrispondere assegno.

Dalla prova della stabilità e continuità della convivenza può presumersi, salvo prova contraria, che le risorse economiche siano state messe in comune; ma nel caso in cui difetti la coabitazione, la prova dovrà essere rigorosa, dovendosi dimostrare che, stante il comune progetto di vita, i partner si prestano assistenza morale e materiale”>>

Sulla opportunità o meno nei singoli casi del riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio (art. 250 c.c.)

Cass. sez. I   del 28/11/2023 n. 33.097, rel. Iofrida:

<<Il diritto al riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio può essere sacrificato solamente in presenza di motivi gravi ed irreparabili tali da compromettere in modo irreversibile lo sviluppo psico-fisico del minore. Tale è il discrimen che il giudice deve vagliare in concreto al fine di valutare il bilanciamento tra opposti interessi, quali l’esigenza di affermare la verità biologica e l’interesse di preservare i rapporti familiari nonché lo sviluppo del minore.

Il suddetto principio trova fondamento nella distinzione dei concetti giuridici di “riconoscimento” ed “esercizio della responsabilità genitoriale”. Il riconoscimento inteso come status genitoriale non può essere mai eluso, a meno che il minore non possa subire un pregiudizio gravissimo – da accertarsi in concreto – da parte del padre, dato ad esempio dal “suo inserimento in un ambiente di criminalità organizzata ed attualmente detenuto per tali gravi reati” (cfr. Cass. 23074/2005). Non sono sufficienti mere pendenze penali né la sola “valutazione del rischio di un eventuale distacco del minore dall’attuale contesto di affidamento deve costituire interferenza ostativa al riconoscimento, posto che non vi è alcun nesso con l’esercizio del diritto alla genitorialità, potendo invece tale valutazione costituire oggetto di giudizio in diverso procedimento “ad hoc” ” (Cass. 2645 del 2011).

La titolarità dell’esercizio della responsabilità genitoriale, al contrario, può essere – successivamente al riconoscimento effettuato – soggetta a limitazione fino alla decadenza, ove venga evidenziata una situazione di pregiudizio grave o comunque di interferenza negativa con il benessere del minore (nell’ipotesi in cui si adottino provvedimenti conformativi).

Sul tema, la Suprema Corte si è poi espressa ritenendo che “nel giudizio volto al riconoscimento del figlio minore di anni quattordici da parte del secondo genitore, nell’ipotesi di opposizione del primo che lo abbia già effettuato, occorre procedere ad un bilanciamento, il quale non può costituire il risultato di una valutazione astratta, ma deve procedersi ad un accertamento in concreto dell’interesse del minore nelle vicende che lo riguardano, con particolare riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione all’esigenza di un suo sviluppo armonico, dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale” (Cass. 18600/2021). Nella fattispecie con cui si è misurata la sentenza, veniva in questione “l’abituale condotta violenta e prevaricatrice del padre biologico nei confronti della madre e dei suoi familiari, frutto di un modello culturale di rapporti di genere, che doveva invece essere posta in evidenza nell’operazione di bilanciamento”: bilanciamento – quello tra l’esigenza di affermare la verità biologica e l’interesse alla stabilità dei rapporti familiari (sostanzialmente equivalente a quello tra il diritto soggettivo di colui che vuole riconoscere il figlio e l’interesse del minore a non subire una forte compromissione del proprio sviluppo psico-fisico, di cui si è in precedenza detto) – che la pronuncia postula non poter essere declinato in astratto, come, invece, accaduto nella motivazione della sentenza di appello impugnata in quel giudizio.

Nella successiva sentenza n. 24718/2021, questa Corte ha ulteriormente precisato che “Il diritto, come quello alla vita familiare, stabilito all’art. 8 Cedu, non presenta carattere assoluto ma, al contrario, può essere sacrificato all’esito di un giudizio di bilanciamento con il concreto interesse del minore a non subire per effetto del riconoscimento un grave pregiudizio per il proprio sviluppo psico fisico. L’accertamento da svolgersi, tuttavia, deve essere rigoroso perché non qualsiasi turbamento può incidere sull’indicato diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto ma solo il pericolo, fondato su un giudizio prognostico concretamente incentrato sulla situazione personale e relazionale del genitore e del minore che abbia ad oggetto la verifica del pericolo per lo sviluppo psico-fisico non traumatico del minore stesso, derivante dal riconoscimento richiesto. Non può essere assunto come elemento di comparazione il concreto esercizio della responsabilità genitoriale, per modulare il quale vi sono strumenti di tutela diversi, ma deve trattarsi di un grave pregiudizio causalmente determinato dall’esistenza sopravvenuta dello status genitoriale. Poiché la corretta e veritiera rappresentazione della genitorialità costituisce elemento costitutivo dell’identità del minore e del suo equilibrato sviluppo psico-fisico, la sottrazione radicale del rapporto giuridico paterno o materno, conseguente al diniego di riconoscimento ex art. 250 c.c., può essere giustificata soltanto dalla valutazione prognostica di un pregiudizio superiore al disagio psichico indubitabilmente conseguente dalla mancanza e non conoscenza di uno dei genitori, da correlarsi alla pura e semplice attribuzione della genitorialità” (in applicazione di tale principio, questa Corte ha cassato con rinvio la sentenza impugnata che, nel rigettare la domanda proposta ex art. 250 c.c., aveva del tutto omesso di effettuare il predetto bilanciamento, limitandosi a considerare i vari precedenti penali del padre e l’intervenuta revoca del permesso di soggiorno).

Di recente (Cass. 8762/2023), si è ribadito che “nel giudizio volto al riconoscimento del figlio naturale, l’opposizione del primo genitore che lo abbia già effettuato non è ostativa al successivo riconoscimento, dovendosi procedere ad un accertamento in concreto dell’interesse del minore nelle vicende che lo riguardano, con particolare riferimento agli effetti del provvedimento richiesto in relazione all’esigenza di un suo sviluppo armonico, dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale; del pari, è ammissibile l’attribuzione del cognome del secondo genitore in aggiunta a quello del primo, purché non arrechi pregiudizio al minore in ragione della cattiva reputazione del secondo e purché non sia lesiva della identità personale del figlio, ove questa si sia già definitivamente consolidata, con l’uso del solo primo cognome, nella trama dei rapporti personali e sociali” (cfr. anche Cass. 5634/2023).

In definitiva, nel caso in cui l’altro genitore (che abbia già effettuato il riconoscimento) non presti il consenso, il giudice deve operare un bilanciamento tra il diritto soggettivo di colui che vuole riconoscere il figlio e l’interesse del minore a non subire una forte compromissione del proprio sviluppo psico-fisico, da compiersi operando un giudizio prognostico, che valuti non già il concreto esercizio della responsabilità genitoriale, per modulare il quale vi sono diversi strumenti di tutela, ma la sussistenza, nel caso specifico, di un grave pregiudizio per il minore che derivi dal puro e semplice acquisto dello status genitoriale e che si riveli superiore al disagio psichico conseguente alla mancanza o non conoscenza di uno dei genitori>>.

Questgo oper il giudice a quo che aveva malamnte applicato queste regole:

<<Il giudice di secondo grado non ha fatto buon governo dei principi sopra esposti, confermando la decisione di primo grado che aveva respinto la domanda di riconoscimento della figlia naturale da parte del padre.

La Corte di merito, dopo avere descritto, sulla base delle informative assunte, la personalità del padre biologico, dando atto che lo stesso, tossicodipendente (e la condizione di tossicodipendenza non risultava, all’epoca, risolta, come emergeva dalla relazione del Servizio Dipendenze del carcere di (Omissis)), aveva già riportato, nonostante la giovane età, molteplici condanne in sede penale (anche per atti persecutori ai danni della madre della minore di cui è chiesto il riconoscimento e danneggiamento seguito da incendio all’autovettura della di lei madre), si è soffermata, dovendo verificare l’interesse in concreto della minore al riconoscimento da parte del ricorrente, su questioni concernenti l’esercizio della responsabilità genitoriali, estranee al giudizio de quo, e costituenti oggetto di separato giudizio (sospeso) di dichiarazione dello stato di adottabilità della minore.

La Corte d’appello ha dato atto, infatti, che, anzitutto, anche a causa del riavvicinamento del M. alla C., nel (Omissis), già la madre della minore aveva deciso di interrompere il percorso comunitario in atto con la figlia e qualche mese dopo si allontanava anche dalla comunità, con conseguente fallimento del tentativo di recupero delle capacità genitoriali della stessa e che, alla luce di quanto rilevato dal consulente tecnico d’ufficio, in una consulenza, acquisita agli atti del primo grado, nel luglio 2019, vi era l’urgente necessità di inserimento della bambina in adeguato ambiente famigliare e la stessa, in comunità dai primi mesi di vita e ivi rimasta da sola da (Omissis), era stata positivamente inserita nel (Omissis) in una famiglia affidataria “a rischio giuridico”, con la quale aveva ormai costruito un legame di fiducia e di attaccamento ed aveva recuperato una condizione di benessere, costituendo ormai un rapporto identitario e familiare in abito diverso da quello biologico: a fronte dell’assenza di rapporti significativi della bambina con il padre e la rete parentale paterna (dovuti, peraltro, alla storia stessa della bambina, nata allorché il padre era in carcere e collocata in comunità sin dai primi mesi di vita), l’evoluzione della minore (che, nel 2019, mostrava “ritardo nelle tappe evolutive ed un alto rischio evolutivo”) doveva ritenersi incompatibile con l’attribuzione della paternità al M., risolvendosi in una frattura nel difficile equilibrio e nei progressi nello sviluppo psico-fisico raggiunti.

La Corte d’appello, dunque, ha negato il diritto al riconoscimento da parte del padre – in assenza del consenso della madre, che non si è espressa, rimanendo contumace – tenendo conto prevalentemente dei precedenti penali dei quali è gravato (uno soltanto in danno della madre e della nonna della minore), da alcuni dei quali egli risulta, peraltro, essere stato assolto.

E’ mancato qualsiasi accertamento in concreto – da espletarsi anche mediante consulenza tecnica d’ufficio – in ordine al pregiudizio effettivo che possa derivare alla minore dal puro e semplice acquisto dello status genitoriale, che – nel bilanciamento con il diritto soggettivo del padre al riconoscimento – risulti effettivamente prevalente, e che si riveli anche superiore al disagio psichico conseguente alla mancanza o non conoscenza di uno dei genitori>>.

Distinzione tra istituzione di erede e assegnazione di legato, instititutio ex re certa e cautela sociniana

La sempre interessante penna del rel. Criscuolo in materia successoria redige Cass. sez.2 28.11.2023 n. 33.011:

fatto:

<<Al fine di una migliore comprensione anche delle questioni che
pongono i successivi motivi, occorre ricordare che la vicenda trae
origine dalla successione di Rapisardi Matteo, il cui testamento
pubblico, recante la data del 9 agosto 1994, prevedeva
l’attribuzione alla moglie, Remer Anna Maria, dell’usufrutto vita
natural durante di tutto il suo patrimonio (immobili, mobili,
gioielli, argenteria, titoli di qualsiasi specie e natura, suppellettili,
ecc.), nonché la piena proprietà di tutti i crediti, dei titoli, dei mobili, arredi e suppellettili, gioielli e quant’altro si trova nelle
case di Catania e di Mascalucia e nel deposito mobili. Al figlio
Gaspare, a tacitazione dei suoi diritti di legittima, e con
l’eventuale eccedenza sulla disponibile, ha assegnato la piena
proprietà dell’intero palazzo di Catania e di quello di Mascalucia,
nonché il tratto di terreno su cui esisteva la fungaia, in S. Antonio
a Mascalucia.
A favore dei figli Caterina e Giovanni ha attribuito per il periodo
successivo al decesso dell’usufruttuaria, il diritto di abitazione nei
locali di cui gli stessi già disponevano nel palazzo di Catania,
aggiungendo, a chiusura del testamento, che nel resto delle
sostanze erano istituti eredi in parti eguali i figli Giovanni e
Caterina>>.

Diritto:

<<Quanto alla posizione della R., come detto beneficiaria dell’usufrutto generale sul patrimonio relitto e della piena proprietà di crediti, titoli, mobili, arredi, suppellettili e gioielli, ritiene il Collegio che debba darsi continuità al più recente orientamento di questa Corte che, nel dare risposta al dibattuto tema della qualificazione giuridica dell’attribuzione per testamento della qualità di usufruttuario generale (tema ampiamente dibattuto anche in dottrina), ha optato per la tesi dell’attribuzione a titolo particolare e precisamente a titolo di legato.

Trattasi di soluzione già sostenuta in passato (cfr. Cass. n. 986/1979, secondo cui l’attribuzione da parte del testatore del solo usufrutto non conferisce al beneficiario la qualità di erede, perché egli non succede in tal caso nell’universum ius del de cuius, così che il coniuge, nominato usufruttuario generale per disposizione testamentaria, non acquista la qualità di erede) e che deve reputarsi assolutamente prevalente nella più recente giurisprudenza che ha inteso superare la contraria affermazione di Cass. n. 13310/2002, allo stato rimasta pressoché isolata.

Infatti, Cass. n. 1557/2010 ha specificamente riaffermato che ove il testatore attribuisca il solo diritto di usufrutto, il beneficiario non succede “in universum ius” del defunto e, pertanto, non acquista la qualità di erede; nei suoi confronti, pertanto, non sussiste litisconsorzio necessario in sede di giudizio di divisione tra coeredi, trovando poi seguito anche in Cass. n. 13868/2018, secondo cui il lascito avente ad oggetto l’usufrutto, generale o pro quota, dell’asse ereditario costituisce legato, poiché l’usufruttuario non subentra in rapporti qualitativamente eguali a quelli del defunto e la sua responsabilità per i debiti deriva dal meccanismo dell’art. 1010 c.c. e non dalla qualità di erede (conf. anche Cass. n. 4435/2009).

Trattasi di esito interpretativo che risulta corrispondente a quello adottato dalla Corte d’Appello che a tal fine ha fatto rinvio ad un proprio precedente, senza che infici la correttezza della soluzione la mancata riproduzione delle motivazioni di quest’ultimo, trattandosi come detto di orientamento ormai assolutamente prevalente nella giurisprudenza di questa Corte.

La correttezza di tale esito non può poi essere posta in discussione per il rilievo che alla R., accanto all’usufrutto generale, era stata assegnata la piena proprietà di alcuni beni, ancorché indicati per categorie e non in maniera specifica, atteso che la Corte d’Appello, ha escluso che tale attribuzione fosse idonea a determinare una institutio ex certa re ex art. 588 c.c..

Va qui ribadito che in materia testamentaria, l’istituzione di beni in quota da parte del testatore impone di accertare, attraverso qualunque mezzo utile per ricostruirne la volontà, ma comunque secondo un’applicazione ermeneutica rigorosa della disposizione di cui all’art. 558 c.c., comma 2 se l’intenzione del testatore sia stata quella di attribuire quei beni e soltanto quelli come beni determinati e singoli ovvero, pur indicandoli nominativamente, di lasciarli quale quota del suo patrimonio, avendosi, nel primo caso, una successione a titolo particolare o legato e, nel secondo, una successione a titolo universale e istituzione di erede, la quale implica che, in seguito ad esame del complesso delle disposizioni testamentarie, resti accertata l’intenzione del testatore di considerare i beni assegnati come quota della universalità del suo patrimonio (Cass. n. 42121/2021)>>

E poi:

<<Inoltre (cfr. Cass. n. 24163/2013), in tema di distinzione tra erede e legatario, ai sensi dell’art. 588 c.c., l’assegnazione di beni determinati configura una successione a titolo universale (“institutio ex re certa”) qualora il testatore abbia inteso chiamare l’istituito nell’universalità dei beni o in una quota del patrimonio relitto, mentre deve interpretarsi come legato se egli abbia voluto attribuire singoli, individuati, beni, così che l’indagine diretta ad accertare se ricorra l’una o l’altra ipotesi si risolve in un apprezzamento di fatto, riservato ai giudici del merito e, quindi, incensurabile in cassazione, se congruamente motivato. Nella fattispecie emerge che la sentenza gravata, nel pervenire all’approdo interpretativo qui contrastato, è partita proprio dal tenore letterale delle espressioni usate nell’atto di ultima volontà, sottolineando che anche tenendo conto del differente tenore delle espressioni che prevedevano le attribuzioni fatte in favore della R. (“assegno”) da quelle che invece erano state effettuate in favore del figlio G. (“lascio”), doveva attribuirsi efficacia risolutiva in merito al dubbio posto circa la qualificazione delle attribuzioni, la volontà finale del testatore che, evidentemente consapevole della differenza tra la qualità di legatario e quella di erede, aveva riservato quest’ultima solo ai due figli C. e Gi., individuati come tali (ed inizialmente solo per la nuda proprietà) per quanto concerneva i beni>>. [non è accertamento di fatto, però, ma di diritto !!!]

Sulla cautela sociniana:

<<L’art. 550 c.c. ha sostanzialmente riprodotto nel codice l’istituto della cautela sociniana. Dispone infatti il comma 1 del citato articolo che, allorquando il testatore dispone di un usufrutto o di una rendita vitalizia il cui reddito eccede quello della disponibile, i legittimari ai quali è stata assegnata la nuda proprietà o di parte di essa, hanno la scelta o di eseguire tale disposizione o di abbandonare la nuda proprietà della porzione disponibile.

La norma, che si inserisce tra gli strumenti di tutela approntati dal legislatore in favore del legittimario, prevede un particolare effetto – derivante dalla legge e non già dalla volontà del testatore – in base al quale il legittimario, senza la necessità di dover ricorrere all’azione di riduzione, se voglia conseguire la piena proprietà della quota di riserva spettantegli ex lege, ha il diritto potestativo di variare gli effetti della successione, conseguendo in luogo della nuda proprietà, anche della disponibile, la sola quota di legittima, ma in piena proprietà.

L’istituto in oggetto, le cui origini si fanno erroneamente risalire all’elaborazione del giureconsulto S.M.j., il quale ben più limitatamente ebbe a sostenerne la validità in un parere datato intorno all’anno 1550, tende, a differenza dell’azione di riduzione, ad impedire il verificarsi di una lesione qualitativa della quota di legittima (una disposizione infatti quale quella in oggetto potrebbe in concreto attribuire al legittimario ben più di quanto spettantegli per legge, ma con l’imposizione anche sulla quota di legittima di un usufrutto, assimilabile ai pesi ed alle condizioni, la cui apposizione risulta vietata ex art. 549 c.c. – così Cassazione civile, sez. I, 29 dicembre 1970 n. 2782). La legge in tal caso, perseguendo un evidente scopo di semplificazione, volendo cioè evitare tutte quelle complesse controversie che potrebbero insorgere ove si dovesse procedere ad una stima del valore dell’usufrutto o della rendita in termini di capitale, al fine di accertare se vi sia stata o meno lesione quantitativa della quota di legittima, pone il legittimario di fronte alla scelta se accettare la nuda proprietà anche della porzione disponibile, esponendosi al dato aleatorio della durata della vita dell’usufruttuario, ovvero se abbandonare la disponibile, o quanto di essa avrebbe conseguito, per ottenere immediatamente la quota di legittima, senza limitazione alcuna.

Qualora quindi il legittimario opti per “l’abbandono” della nuda proprietà della disponibile, la stessa passa al legatario di usufrutto, il quale pertanto diviene pieno proprietario della disponibile (con una deroga al principio per qui il legatario non succede mai in una quota di proprietà del patrimonio ereditario), mentre l’usufrutto a questi lasciato per la parte relativa alla quota di legittima, viene automaticamente a cadere, dovendo andare a far parte della quota di riserva, verso cui si è indirizzata la scelta del legittimario.

Previsione analoga a quella ora esaminata è poi prevista nell’art. 550 c.c., comma 2 con riferimento alla diversa ipotesi in cui il legato concerna la nuda proprietà di una quota eccedente la disponibile, mentre il legittimario sia stato beneficiato dell’usufrutto anche su beni che eccedano la sua quota di legittima.

Così riassunta la ratio che sottende la norma in esame, diversamente da quanto sostenuto in ricorso, deve piuttosto sottolinearsi come sia del tutto costante l’orientamento del giudice di legittimità, sebbene manifestatosi in non frequenti occasioni, per cui il potere attribuito dalla norma al legittimario di incidere unilateralmente sulla successione, prescinde dall’esercizio dell’azione di riduzione, la quale, impostata sul concetto di lesione quantitativa, non assicura al legittimario la qualità (piena proprietà), oltre che la quantità della legittima (Cass. n. 511/1995, Cass. n. 141/1985; Cass. n. 2782/1970).

Risulta perciò conforme a diritto la soluzione del giudice di appello che ha sostenuto che, a voler inquadrare le previsioni testamentarie oggetto di causa nella disciplina di cui all’art. 550 c.c., risultava escluso che l’attrice potesse far valere il diritto alla quota di riserva avvalendosi dell’azione di riduzione, dovendo piuttosto esercitare il diritto potestativo di abbandono della parte di nuda proprietà eccedente la legittima.>>

L’ex socio di s.n.c. non è responsabile per i canoni locatizi maturati dopo la sua uscita dalla società (anche se in base a contratto anteriore)

Cass . sez. III del 23/10/2023 n. 29.306, rel. Dell’Utri:

<<3. Osserva il Collegio come, ai sensi dell’art. 2290 c.c., “nei casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente a un socio, questi o i suoi eredi sono responsabili verso i terzi per le obbligazioni sociali fino al giorno in cui si verifica lo scioglimento”.

La stessa norma precisa, di seguito, che “lo scioglimento deve essere portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei; in mancanza non è opponibile ai terzi che lo hanno senza colpa ignorato”.

4. Secondo il chiaro dettato della norma, la responsabilità del socio verso i terzi per le obbligazioni di una società di persone deve ritenersi temporalmente correlata alla durata del rapporto sociale e, conseguentemente, esclusa oltre la data dello scioglimento del rapporto tra il socio e la società, a condizione che lo scioglimento sia stato portato con mezzi idonei a conoscenza dei terzi che lo hanno incolpevolmente ignorato.

5. Rispetto a tale principio generale, non assume valore decisivo la circostanza che una determinata obbligazione sociale sia stata contratta in epoca anteriore allo scioglimento del rapporto con un singolo socio, e che gli effetti di tale obbligazione sociale siano destinati (come nel caso di specie, in ragione della relativa natura) a permanere nel tempo, oltre l’epoca dello scioglimento del rapporto tra il socio e la società.

Gli effetti di una simile obbligazione, infatti, pur pienamente operanti, sotto il profilo del vincolo, sin dall’originaria costituzione del rapporto negoziale (e la cui sola esigibilità risulta condizionata alla scadenza di termini convenuti), devono ritenersi tali, a far tempo dal giorno in cui si verifica lo scioglimento del rapporto sociale, da non poter più coinvolgere, con riferimento alla prestazione non ancora esigibile, la responsabilità dei soci il cui rapporto con la società sia venuto meno.

6. A sostegno di tale interpretazione dell’art. 2290 c.c. varrà, in primo luogo, segnalare il valore significativo del dato letterale della norma, avendo il legislatore disposto una specifica limitazione nel tempo della responsabilità del socio per le obbligazioni sociali.

E’ vero che la norma non ha sancito una limitazione di detta responsabilità per le sole obbligazioni sociali contratte successivamente allo scioglimento. Ma l’uso del termine responsabilità implica l’intenzione del legislatore di non riferirsi al debito, ossia alla situazione obbligatoria come tale, cioè come fonte di vincolo per la società che l’ha contratta, bensì al momento in cui tale situazione dà luogo a responsabilità, ossia al momento in cui l’obbligazione sia divenuta esigibile e non sia stata adempiuta.

7. Dunque, benché le obbligazioni connesse a un contratto di locazione siano tutte direttamente riconducibili all’atto negoziale che ne costituì la fonte originaria (rimanendone unicamente condizionata la corrispondente esigibilità al tempo delle scadenze convenute), la responsabilità del singolo socio per dette obbligazioni (già esistenti e meramente soggette a termini di esigibilità) deve ritenersi, per legge, limitata nel tempo, ossia fino al giorno in cui si verifica l’eventuale scioglimento del rapporto sociale, sempre, naturalmente, sotto la condizione della regolare comunicazione ai terzi di detto scioglimento.

8. Sotto altro profilo, varrà sottolineare la coerenza dell’indicata interpretazione della norma con un intuitivo principio di elementare equità relazionale (o con un equilibrato contemperamento di interessi in conflitto), atteso che, a fronte della ragionevolezza dell’affidamento riposto dai terzi sulla (cor-)responsabilità dei singoli soci per le obbligazioni sociali, assume un preminente rilievo la decisiva considerazione dell’interruzione, attraverso lo scioglimento del rapporto sociale, di qualsivoglia forma di controllabilità, da parte del socio, del successivo corso dei rapporti della società con i terzi e, segnatamente, dell’adempimento delle relative obbligazioni ormai integralmente rimesse all’iniziativa, alla diligenza e alle scelte imprenditoriali dei soci superstiti, senza alcuna possibilità di interlocuzione per il socio uscente; là dove ai medesimi terzi, per converso, non può sfuggire, all’atto della contrazione di obbligazioni con una società, il rischio della sempre possibile variabilità nel tempo della struttura soggettiva della compagine sociale.

9. Le considerazioni che precedono, conseguentemente, inducono a ritenere pienamente legittima la decisione impugnata, avendo la corte territoriale correttamente evidenziato – una volta riscontrata la regolare comunicazione ai terzi dell’avvenuto scioglimento del rapporto del Q. con la società – la limitazione della responsabilità di quest’ultimo per le obbligazioni sociali fino alla data di scioglimento del rapporto (e dunque dei soli canoni maturati fino alla data dello scioglimento del rapporto sociale), dovendo escludersi, proprio ai sensi dell’art. 2290 c.c., l’invocabilità di una sua persistente responsabilità per le obbligazioni sociali relative ai canoni successivi (pur assunte in epoca anteriore allo scioglimento del vincolo sociale) a far data dalla cessazione del rapporto con la società>>.

Tutto esatto. Va aggiunto per scrupolo che la responsabilità per le obbligazioni anteriori dura oltre l’uscita del socio: nell’art. 2290 la limitazione temporale riguarda il fatto generatore dell’obbligo, non la sua azione in giudizio (nè cognitivo nè espropriativo). Non è cioè un termine analogo a quello posto dall’art. 1957 cc per l’azione del creditore verso il debitore principale.

Azione di riduzione da parte dell’legittimario pretermesso, acquisto della qualità ereditaria ed azione per la divisione dei beni caduti in successione

Cass. sez. II del 08/11/2023 n. 31.125, rel. Criscuolo, ci fa ripassare alcuni principi  consolidati in materia:

<<Rileva a tal fine la circostanza che oggetto dell’azione di riduzione, in quanto lesiva dei diritti di legittimaria dell’attrice, è una disposizione testamentaria del de cuius, con la quale, pretermettendo A., il testatore aveva istituto erede universale il solo figlio maschio.

Tenuto, quindi, conto della massa ereditaria, per effetto delle operazioni di riunione fittizia (queste sì da compiere sulla base della stima dei beni alla data di apertura della successione), si è escluso che la lesione derivasse dalle donazioni pur compiute in vita in favore del convenuto (trattandosi di donazioni che per il loro ammontare gravavano sulla disponibile), ed è stato invece appurato che a risultare lesiva era proprio l’istituzione di erede universale, che andava ridotta, e quindi resa inefficace nei confronti dell’attrice, nei limiti in cui era necessario assicurarle quanto dovuto a titolo di quota di riserva (in quanto ancora insoddisfatta all’esito dell’imputazione delle liberalità a sua volta ricevute in vita dall’attrice).

In presenza di un’istituzione di erede universale ovvero per quote astratte dell’intero patrimonio, il legittimario pretermesso non è erede al momento di apertura della successione, ma lo diviene solo una volta esperita vittoriosamente l’azione di riduzione.

Inoltre, se ai sensi dell’art. 560 c.c., nel caso in cui la riduzione abbia ad oggetto disposizioni a titolo di legato ovvero donazioni (ed in via estensiva istituzioni ex certa re), l’effetto della riduzione è quello di rendere efficace solo la disposizione che abbia avuto ad oggetto il singolo bene, attribuendolo per intero al legittimario (ove la lesione travolga per intero l’attribuzione) ovvero rendendolo comune fra beneficiario e legittimario, nei limiti necessari ad assicurare la reintegra dei diritti del secondo, nel diverso caso in cui la lesione derivi da una disposizione di erede a titolo universale, l’effetto dell’accoglimento dell’azione di riduzione è quello di far acquisire al legittimario la qualità di erede su tutti i beni caduti in successione, ovvero a creare una comunione su quelli oggetto di liberalità ove a loro volta idonei a determinare la lesione, con il riconoscimento sui primi di una quota indivisa pari all’ammontare della legittima ancora insoddisfatta, ragguagliata al valore del relictum.

Già in passato questa Corte ha ricordato come le disposizioni testamentarie lesive della legittima non siano nulle né annullabili ma, sino a quando esse non vengano impugnate con l’azione di riduzione, conservano la loro piena efficacia. Di conseguenza, ove il de cuius abbia distribuito, con il testamento alle persone in questo indicate, tutto il suo patrimonio, mediante disposizioni a titolo universale o particolare, pretermettendo alcuni legittimari, questi non partecipano, de iure, alla comunione per il semplice fatto che si è aperta la successione testamentaria, giacché il loro diritto sui beni ereditari può realizzarsi soltanto mediante l’esperimento dell’azione di riduzione. Il legittimario, pertanto, non può chiedere la divisione dei beni lasciati dal de cuius, senza aver prima esercitato l’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie. Inoltre, per ragioni di economia processuale, è tuttavia consentito, in ipotesi del genere, che le azioni di riduzione e di divisione siano proposte cumulativamente nello stesso processo, con la seconda avanzata in subordine all’accoglimento della prima, la quale ha carattere pregiudiziale (Cass. n. 1206/1962; Cass. n. 1077/1964; Cass. n. 160/1970; Cass. n. 2367/1970).

Il principio è stato anche di recente ribadito, essendosi confermato che l’azione di riduzione e quella di divisione, pur presentando una netta differenza sostanziale, possono essere fatte valere nel medesimo processo, in quanto – per evidenti ragioni di economia processuale – è consentito al legittimario di chiedere, anzitutto, la riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni che assume lesive della legittima e, successivamente, nell’eventualità che la domanda di riduzione sia accolta, l’azione di divisione, estesa anche a quei beni che, a seguito dell’accoglimento dell’azione di riduzione, rientrano a far parte del patrimonio ereditario divisibile (Cass. n. 19284/2019; Cass. n. 4140/1992).

Alla base di tale principio si pone la premessa che il legittimario pretermesso non è erede al momento dell’apertura della successione, ma lo diviene per effetto dell’esercizio vittorioso dell’azione di riduzione e concorre poi alla comunione dei beni relitti, secondo una quota di entità corrispondente al valore della quota di riserva non soddisfatta, così che, ove i beni relitti, assegnati per testamento in maniera universale ad altri soggetti, siano di entità superiore alla quota di riserva, sugli stessi si instaura una comunione secondo le quote da determinare in base ai criteri esposti, comunione che può essere sciolta subito dopo l’accoglimento dell’azione di riduzione e nello stesso giudizio, alla luce delle esigenze di economia processuale, alle quali i precedenti richiamati fanno riferimento.

In ipotesi, peraltro, il legittimario ben potrebbe accontentarsi solo di esercitare l’azione di riduzione, al fine di conseguire il riconoscimento della titolarità pro quota dei beni caduti in successione ed assegnati ad altri per testamento, salvo poi decidere in un secondo momento di chiederne la divisione.

Ne consegue che, tenuto conto di quanto statuito dal Tribunale di Termini Imerese nella sentenza appellata, a fronte di una massa di beni relitti (e quindi con esclusione di quelli donati), pari ad Euro 1.980.062,99 (cfr. pag. 23), essendo la quota di legittima ancora non soddisfatta dell’attrice pari ad Euro 409.078,82 (cfr. pag. 25), sui beni relitti l’attrice ha acquisito una quota ideale pari al 20,66% (409.078,82: 1.980.062,99 = x: 100; x = 409.078,82-100/1.980.062,99= 20,66).

Risulta quindi pertinente rispetto all’ipotesi oggetto di causa il richiamo effettuato dalla difesa della ricorrente a quanto affermato da Cass. n. 2975/1991, secondo cui, ai fini della determinazione della quota di legittima e della quota disponibile, deve aversi riguardo, ai sensi degli artt. 556 e 564 c.c., esclusivamente al valore dell’asse ereditario al tempo dell’apertura della successione, differentemente dalla stima dei beni per la formazione delle quote per la divisione ereditaria, che a norma dell’art. 726 c.c., deve farsi con riferimento al loro stato e valore venale al tempo della divisione anche quando si provveda alla reintegrazione della legittima (conf. Cass. n. 739/1977).

Infatti, una volta appurata l’entità della lesione e la necessità quindi di ridurre la disposizione testamentaria a titolo universale, insorge, per effetto proprio dell’accoglimento della riduzione, una comunione tra erede istituito e legittimario, secondo le quote come sopra individuate, comunione per il cui scioglimento valgono le regole ordinariamente dettate, tra cui proprio la previsione di cui all’art. 726 c.c., in ordine alla necessità di attualizzazione della stima dei beni alla data dell’effettivo scioglimento>>.

E poi:

<<La logica che sottende la soluzione alla quale il Collegio intende aderire è sostanzialmente la medesima che è alla base dell’altrettanto pacifico orientamento secondo cui, nel procedimento per la reintegrazione della quota di eredità riservata al legittimario, il momento di apertura della successione rileva per calcolare il valore dell’asse ereditario (mediante la cd. riunione fittizia), stabilire l’esistenza e l’entità della lesione della legittima, nonché determinare il valore dell’integrazione spettante al legittimario leso, sicché quest’ultima, ove avvenga mediante conguagli in denaro nonostante l’esistenza, nell’asse, di beni in natura, va adeguata, mediante rivalutazione monetaria, al mutato valore del bene – riferito al momento dell’ultimazione giudiziaria delle operazioni divisionali – cui il legittimario avrebbe diritto affinché ne costituisca l’esatto equivalente (Cass. n. 5320/2016; Cass. n. 7478/2000).

Una volta acquisita la qualità di erede, o meglio di coerede, per effetto dell’esercizio dell’azione di riduzione, tale qualità reca con sé anche la necessità di poter avvantaggiarsi degli eventuali incrementi di valore dei beni in relazione ai quali è stata riconosciuta la contitolarità, in vista del soddisfacimento della quota di riserva, ovvero, ed è caso non infrequente nei periodi in cui il mercato immobiliare subisca delle crisi, di subire le conseguenze del deprezzamento dei beni stessi>>.

Principio di diritto:

<<In caso di pretermissione del legittimario per effetto di istituzione di erede a titolo universale, a seguito dell’esperimento vittorioso dell’azione di riduzione sui beni relitti ovvero recuperati per effetto sempre dell’azione di riduzione, viene a determinarsi una situazione di comunione tra l’erede istituito ed il legittimario nella quale la quota del primo è corrispondente al valore della quota di legittima non soddisfatta determinata in proporzione al valore dell’intera massa, il tutto secondo la stima compiuta alla data di apertura della successione; tuttavia ove debba procedersi alla divisione della comunione così insorta, la stima dei beni in vista delle operazioni divisionali deve essere aggiornata alla luce del mutato valore dei beni tra la data di apertura della successione e quella di effettivo scioglimento della comunione>>.