Reintegrazione verso il donatario e mancato previo esperimento dell’accettazione con beneficio di inventario ex art. 564 cc: applicazione della riduzione proporzionalità in caso di atto coevi

Altra interessante decisione del dr. Criscuolo in tema successorio (Cass. sez. II, 27/10/2023 n. 29.891):

<<Rappresenta principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui (Cass. n. 30079/2019) solo il legittimario totalmente pretermesso che impugna per simulazione un atto compiuto dal “de cuius”, a tutela del proprio diritto alla reintegrazione della quota di legittima, agisce, sia nella successione testamentaria che in quella “ab intestato”, in qualità di terzo e non in veste di erede, acquisendo quest’ultima qualità solo in conseguenza del positivo esercizio dell’azione di riduzione, sicché, come tale, non è tenuto alla preventiva accettazione dell’eredità con beneficio di inventario; né vi è tenuto quando agisca per far valere una simulazione assoluta od anche relativa, ma finalizzata a far accertare la nullità del negozio dissimulato, in quanto, in queste ipotesi, l’accertamento della realtà effettiva consente al legittimario di recuperare alla massa ereditaria i beni donati, mai usciti dal patrimonio del defunto (conf. Cass. n. 25441/2017). Invece, (cfr. Cass. n. 20971/2018) ove il legittimario sia anche erede e proponga un’azione di simulazione relativa, ma volta a far valere la validità del negozio dissimulato, tale domanda deve ritenersi proposta esclusivamente in funzione dell’azione di riduzione e postula, quale condizione per la propria ammissibilità, la previa accettazione beneficiata (conf. Cass. 4400/2011).

E’ stato altresì precisato che (Cass. n. 19527/2005) la disposizione di cui all’art. 564 c.c., che subordina la proposizione dell’azione di riduzione delle donazioni e dei legati da parte del legittimario alla sua accettazione con beneficio d’inventario, non opera nel caso in cui le donazioni e i legati siano fatte a persone chiamate come coeredi, e ciò perché la norma risponde alla “ratio” di evitare che la confusione dei patrimoni del “de cuius” e dell’erede impedisca al donatario e al legatario di verificare l’effettività della lesione della riserva [ndr: cosa nota] e, inoltre, all’esigenza, di cui è fatta menzione nella relazione al progetto definitivo del codice civile, di evitare il contrasto logico ed insanabile fra la responsabilità illimitata dell’erede, nonché il suo obbligo di rispettare gli atti di disposizione del defunto, e l’azione di riduzione della liberalità (conf. Cass. n. 1407/1987; Cass. n. 4270/1984). [ndr: già più interessante]

Infatti, la Corte ha ritenuto che (Cass. n. 18068/2012) è manifestamente infondata la questione di legittimità, per violazione degli artt. 2,3 e 24 Cost., della disposizione dell’art. 564 c.c., comma 1, che condiziona l’ammissibilità dell’azione di riduzione all’accettazione dell’eredità con il beneficio d’inventario solo nel caso in cui tale azione venga esercitata nei confronti di un terzo e non anche quando essa sia rivolta verso un coerede, essendo tale norma giustificata: 1) dall’esigenza di porre il convenuto in grado di conoscere l’entità dell’asse ereditario, esigenza maggiormente avvertita per il terzo, in quanto si presume che il coerede possa accertarsi dell’entità dell’asse con mezzi diversi dall’accettazione del beneficiato; 2) dalla “ratio” di evitare il contrasto logico insanabile tra la responsabilità “ultra vires” dell’erede per il pagamento dei debiti e dei legati, il suo obbligo di rispettare integralmente gli effetti degli atti compiuti dal defunto – quindi, anche delle donazioni – e l’azione di riduzione della liberalità; 3) dalla volontà del legislatore di non sacrificare il terzo a vantaggio dei creditori del defunto, i quali, invero, ai sensi dell’art. 557 c.c., comma 3, non approfittano della riduzione solo se il legittimario avente diritto alla riduzione ha accettato l’eredità con il beneficio d’inventario.

Poiché tra i destinatari della domanda di simulazione, chiaramente proposta al fine di far accertare la natura liberale dell’atto dissimulato, vi era anche C.B., beneficiario, secondo la tesi dei ricorrenti della donazione di un terreno appartenente alla de cuius e sito in (Omissis), la conclusione circa l’inammissibilità della domanda, in quanto non preceduta dall’accettazione beneficiata non può reputarsi corretta quanto all’azione avanzata nei confronti del fratello, e ciò anche alla luce del carattere personale dell’azione di riduzione che opera sia sul lato attivo (nel senso che ogni legittimario può autonomamente agire per la tutela della propria quota di riserva), sia dal lato passivo, ben potendo esercitarsi l’azione di riduzione nei confronti di un singolo donatario ovvero di un singolo beneficiario delle disposizioni testamentarie, nel rispetto, nel primo caso del criterio cronologico che presiede alla riduzione delle donazioni, e nel secondo caso del criterio di proporzionalità di cui all’art. 558 c.c.

Ne deriva che, ove dimostrata l’esistenza di una donazione dissimulata, a fronte dell’apparente vendita del detto terreno a favore del fratello dei ricorrenti, la medesima donazione ben potrà essere suscettibile di riduzione, se lesiva della quota di legittima degli istanti>>.

E poi:

<<E’ pur vero che la giurisprudenza di questa Corte ha evidenziato che (Cass. n. 22632/2013) qualora il legittimario, ai sensi dell’art. 564 c.c., non possa aggredire la donazione più recente a favore di un non coerede per aver accettato l’eredità senza beneficio d’inventario, non può aggredire la donazione meno recente a favore del coerede, se non nei limiti in cui risulti dimostrata l’insufficienza della donazione più recente a reintegrare la quota di riserva, non potendo ricadere le conseguenze negative del mancato espletamento di quell’onere su soggetti estranei all’assolvimento dello stesso (conf. Cass. n. 3500/1975), sicché occorre adeguare tale principio alla peculiare situazione in esame, che vede la presenza, sempre ove dimostrata la simulazione, di una pluralità di donazioni contenute in un medesimo atto, solo alcune delle quali aggredibili con l’azione di riduzione, stante il mancato rispetto della previsione di cui all’art. 564 c.c. per l’azione esperita verso i donatari non chiamati come coeredi.

In presenza però di donazioni coeve, deve reputarsi applicabile, in assenza di un’indicazione che consenta di invocare il criterio cronologico sopra richiamato, il criterio proporzionale, con la conseguenza che la donazione effettuata a C.B., ove dimostrata in sede di rinvio, potrà essere aggredita dagli attori nei limiti necessari a reintegrare la propria quota, ma in misura non eccedente quella che sarebbe stata la riduzione applicata ove si fosse considerato anche il valore delle donazioni coeve, e considerato il suddetto criterio proporzionale.

Al fine di meglio illustrare tale principio, si ipotizzi che la donazione effettuata in favore di tre donatari veda un’eccedenza rispetto alla disponibile pari ad un valore di 60, dovendo in ipotesi essere ridotta in tale misura, ne consegue che ove la donazione abbia attribuito i beni ai donatari in pari quota, ognuno vedrebbe ridotta la donazione ricevuta, in applicazione della regola proporzionale, per un valore di 20.

Se però, per effetto della previsione di cui all’art. 564 c.c., la domanda di riduzione sia ammissibile solo nei confronti di uno dei donatari, la riduzione non potrà in ogni caso eccedere il valore di 20, che sarebbe stato oggetto di riduzione anche nel caso di ammissibilità della domanda nei confronti di tutti i donatari, non potendo l’omessa accettazione beneficiata da parte del legittimario ripercuotersi in danno del soggetto chiamato come coerede, per il quale non opera la condizione di cui al citato art. 564 c.c.>>

Cass. sez. 3 del 27.10.2023 n. 29.859, rel., Vincenti:

<<Pertanto, la prescrizione del diritto al risarcimento del danno da fatto illecito inizia a decorrere non dal momento della verificazione materiale dell’evento di danno, bensì dal momento della conoscibilità del danno inteso nella sua dimensione giuridica; un danno ingiusto, cioè, che non soltanto sia “oggettivamente percepibile” all’esterno (elemento della conoscibilità del danno), ma che – attraverso parametri oggettivi quali la diligenza esigibile all’uomo medio e il livello di conoscenze scientifiche proprie di un determinato contesto storico – possa essere astrattamente ricondotto alla condotta colposa/dolosa di un terzo (requisito della rapportabilità causale).

Il principio così delineato (ossia, della conoscibilità del danno nella sua dimensione giuridica) trova applicazione, ai fini dell’individuazione dell’exordium praescriptionis, in tutti i casi di esercizio del diritto al risarcimento del danno, con la precisazione, tuttavia, che il carattere mobile dell’iniziale dies a quo e il suo “spostamento in avanti” si giustificherà nelle ipotesi in cui sia dato scindere, sotto il profilo temporale, il momento dell’accadimento materiale dell’evento di danno e il diverso momento della “esteriorizzazione del danno” nei termini sopra precisati.

Infatti, è solo in questi casi – a differenza di quelli in cui si possa apprezzare la coincidenza tra la verificazione dell’evento di danno e la conoscibilità del danno ingiusto patito -, che l’individuazione di un “dies a quo mobile” è sorretto dalla ratio di evitare che il termine di prescrizione inizi a decorrere in assenza della percezione di aver subito un danno ingiusto.

Ed è ciò che avviene, a titolo meramente esemplificativo, nei casi di responsabilità per danni cd. lungo-latenti, come quello di danni da emotrasfusioni infette. Non a caso la sentenza delle Sezioni Unite n. 576/2008, ha enunciato l’anzidetto principio proprio con riferimento al caso di “chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo” >>.

Poi: <<- E’ principio consolidato che, qualora l’illecito civile sia considerato dalla legge come reato ma il giudizio penale non sia stato promosso, ancorché per difetto di querela, all’azione civile di risarcimento si applica, ai sensi dell’art. 2947 c.c., comma 3, l’eventuale più lunga prescrizione prevista per il reato purché il giudice civile accerti, incidenter tantum, con gli strumenti probatori ed i criteri propri del relativo processo, l’esistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto-reato in tutti i suoi elementi costitutivi, sia soggettivi che oggettivi (tra le altre: Cass. n. 24988/2014 e Cass. n. 2350/2018, richiamate anche nella sentenza impugnata).

Tuttavia, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale (pp. 8 e 9 della sentenza impugnata), non è “necessario”, a tal fine, dover coltivare “un’espressa domanda volta a ottenere in via incidentale l’accertamento dell’ipotizzato reato”, giacché – alla luce dell’orientamento del pari consolidato di questa Corte (per tutte: Cass., S.U., n. 9993/2016; Cass. n. 24260/2020; Cass. n. 21404/2021) – la deduzione circa l’applicabilità del termine prescrizionale più lungo di cui all’art. 2947 c.c., comma 3, integra una contro-eccezione in senso lato, la cui rilevazione può avvenire anche d’ufficio, nel rispetto dei termini di operatività delle preclusioni relative al thema decidendum ex art. 183 c.p.c., qualora sia fondata su nuove allegazioni di fatto.

Là dove invece essa sia basata su fatti storici già allegati entro i termini di decadenza propri del giudizio ordinario a cognizione piena, la sua proposizione è ammissibile nell’ulteriore corso del giudizio di primo grado, in appello e, con il solo limite della non necessità di accertamenti di fatto, anche in Cassazione, dove non integra una questione nuova inammissibile.

La rilevabilità ex officio della contro-eccezione e’, dunque, subordinata alla allegazione – tempestiva, giacché effettuata originariamente con l’atto introduttivo del giudizio ovvero perché le nuove circostanze fattuali sono state dedotte nei termini di cui all’art. 183 c.p.c. (così da consentirne il rilievo officioso anche oltre detti termini) – dei fatti posti a suo fondamento e, quindi, ai fini dell’applicazione dell’art. 2947 c.c., comma 3, del “fatto considerato dalla legge come reato”, ossia delle circostanze da cui evincere la sussistenza degli elementi costitutivi (oggettivi e soggettivi) del reato di omicidio colposo, ex art. 589 c.p>>.

Ancora:

<< In tema di danno non patrimoniale risarcibile, iure haereditatis, in caso di morte causata da un illecito, la tassonomia invalsa che distingue tra varie voci di danno (danno biologico terminale, danno morale terminale, danno catastrofale o catastrofico, danno da lucida agonia) risponde ad una esigenza meramente descrittiva e non viene a configurare delle categorie giuridiche.

A tal fine, infatti, ciò che rileva è la reale fenomenologia del pregiudizio ed è sotto tale profilo che, pur nell’unitarietà della liquidazione del danno non patrimoniale, si diversificano le conseguenze dannose risarcibili, le quali, dunque, se effettivamente sussistenti, sono tutte da riconoscere, senza che si verifichi una duplicazione risarcitoria ingiustamente locupletativa.

In siffatta prospettiva, la giurisprudenza di questa Corte (tra le molte: Cass. n. 26727/2018; Cass. n. 18056/2019; Cass. n. 21837/2019), assumendo a fondamento la reale fenomenologia dei pregiudizi alla persona, ha comunque tradotto l’anzidetta esigenza meramente descrittiva nei seguenti termini: a) il “danno biologico terminale” è un pregiudizio alla salute, da invalidità temporanea sebbene massimo nella sua entità ed intensità, da accertarsi con criteri medico-legali e da liquidarsi comunque, avuto riguardo alla specificità del caso concreto, se tra le lesioni colpose e la morte intercorra un apprezzabile lasso di tempo; b) il “danno catastrofale” (o anche detto: “danno morale terminale”, “danno da lucida agonia”), consiste nel pregiudizio subito dalla vittima in ragione della sofferenza provata nel consapevolmente avvertire l’ineluttabile approssimarsi della propria fine ed è risarcibile a prescindere dall’apprezzabilità dell’intervallo di tempo intercorso tra le lesioni e il decesso, rilevando, ai fini della liquidazione in via equitativa in base alle specificità del caso concreto, soltanto l’intensità della sofferenza medesima>>.

Infine;

<<. Giova, infatti, rammentare che la responsabilità della struttura sanitaria per i danni da perdita del rapporto parentale, invocati iure proprio dai congiunti di un paziente deceduto, è qualificabile come extracontrattuale, dal momento che, da un lato, il rapporto contrattuale intercorre unicamente col paziente, e dall’altro i parenti non rientrano nella categoria dei “terzi protetti dal contratto”, potendo postularsi l’efficacia protettiva verso terzi del contratto concluso tra il nosocomio ed il paziente esclusivamente ove l’interesse, del quale tali terzi siano portatori, risulti anch’esso strettamente connesso a quello già regolato sul piano della programmazione negoziale (tra le altre: Cass. n. 14258/2020 e Cass. n. 21404/2021)>>.

Azione di reintegrazione della legittima o della quota ab intestato? Differenze a livello di prova della simulazione donativa

Sempre interessanti le consideraizoni di diritto successorio del dr. Criscuolo della 2 sezione Cass. civ., qui nella ordinanza 27.10.2023 n. 29.281.

<<La Corte ritiene che debba darsi continuità al principio di diritto recentemente affermato da Cass. n. 16535/2020, secondo cui quando la successione legittima si apre su un “relictum” insufficiente a soddisfare i diritti dei legittimari alla quota di riserva, avendo il “de cuius” fatto in vita donazioni che eccedono la disponibile, la riduzione delle donazioni pronunciata su istanza del legittimario ha funzione integrativa del contenuto economico della quota ereditaria di cui il legittimario stesso è già investito “ex lege”, determinando il concorso della successione legittima con la successione necessaria. Pertanto, la circostanza che il legittimario, nel chiedere l’accertamento della simulazione di atti compiuti dal “de cuius”, abbia fatto riferimento alla quota di successione “ab intestato” non implica che egli abbia inteso far valere i suoi diritti di erede piuttosto che quelli di legittimario, qualora dall’esame complessivo della domanda risulti che l’accertamento sia stato comunque richiesto per il recupero o la reintegrazione della quota di legittima lesa.

La vicenda nella quale risulta essere stato formulato il principio ora riportato risulta per molti versi sovrapponibile a quella in esame, posto che anche in quel caso ad agire per la simulazione era la figlia del de cuius, nata al di fuori del matrimonio, e nei confronti di una donazione che aveva gravemente ridotto la consistenza del patrimonio relitto, sul quale la figlia, erede legittima, ma anche legittimaria, avrebbe potuto soddisfare i propri diritti successori.

Analogamente a quanto accaduto nella fattispecie, i giudici di appello avevano reputato che l’attrice, agendo quale erede legittima del de cuius, avesse chiesto l’accertamento della simulazione degli atti indicati prospettando la simulazione per interposizione fittizia di persona e, incidentalmente, accennando anche a simulazioni relative, dissimulanti donazioni indirette, al fine di acquisire i beni all’asse ereditario e conseguire anche la quota disponibile senza integrazione della quota di riserva, escludendo che la domanda di reintegrazione della quota di riserva fosse stata compiutamente proposta dall’attrice con il richiamo alla “lesione dei diritti riservati ad essa dalla legge”, nonché con la generica richiesta di “reintegrazione della quota di sua spettanza previa riduzione di quanto pervenuto ai figli legittimi dal coniuge nella misura che sarà accertata e dovuta rispetto al patrimonio complessivamente ricostruito”.

Questa Corte ha però ritenuto non condivisibile tale conclusione, rilevando che la quota di riserva continua a rimanere oggetto di un diritto proprio del legittimario ancorché egli, chiamato all’eredità per legge o per testamento (Cass. n. 4991/1978), abbia acquistato la qualità di erede con l’accettazione, così che, anche quando il legittimario agisce per la reintegrazione della quota riservata, sebbene erede di una delle parti contraenti, sono a lui inapplicabili le limitazioni probatorie previste per le parti originarie in materia di prova della simulazione (Cass. n. 5515/1984), posto che in tal caso si pone in una posizione antagonista rispetto al de cuius, opponendosi alla volontà negoziale manifestata dal dante causa come qualsiasi altro terzo, con ciò giovandosi del più favorevole regime probatorio in ordine alla simulazione previsto dall’art. 1417 c.c. (Cass. n. 6315/2003), sottraendosi alle limitazioni probatorie in tema di prova della simulazione, operanti in linea di principio anche per l’erede della parte contraente (Cass. n. 6507/1980).

L’atto compiuto dal de cuius assume l’idoneità a ledere i diritti del legittimario e quindi il legittimario nutre interesse ad accertare che un bene, alienato sotto l’apparenza del negozio oneroso, è in realtà una donazione soggetta a riunione fittizia ed eventualmente a riduzione. Ha altresì interesse, come nella vicenda in esame, a far valere la simulazione assoluta del negozio, al fine di fare accertare che un bene oggetto di alienazione fa parte del relictum ereditario (Cass. n. 4100/1980), essendo stato altresì chiarito che “Il legittimario è ammesso a provare, nella veste di terzo, la simulazione di una vendita fatta dal de cuius per testimoni e presunzioni, senza soggiacere ai limiti fissati dagli artt. 2721 e 2729 c.c., a condizione che la simulazione sia fatta valere per un’esigenza coordinata con la tutela della quota di riserva tramite la riunione fittizia” (Cass. n. 12317/2019).

Ciò non vuol dire però che l’erede, solo perché legittimario, quando impugni per simulazione un atto compiuto dal de cuius, venga a trovarsi sempre e comunque nella veste di terzo e non in quella del contraente (Cass. n. 7134/2001), ma è pur sempre necessario che l’accertamento della simulazione sia richiesto dal legittimario in tale specifica veste, per rimediare a una lesione di legittima, intesa l’espressione in senso ampio, in modo da comprendere non solo la reintegrazione in senso proprio, tramite la riduzione della donazione dissimulata, ma anche il recupero all’asse ereditario del bene oggetto di alienazione simulata ovvero di donazione dissimulata nulla per difetto di forma (Cass. n. 8215/2013; n. 19468/2005).

Risulta ormai in massima parte superato l’indirizzo che restringeva la facoltà del legittimario di valersi della prova testimoniale e di prove indiziarie al caso in cui l’azione di simulazione mirasse solo alla reintegrazione della quota di riserva e non si estendesse anche alla disponibile (Cass. n. 167/1972; n. 1361/1969). Viceversa, subentra invece al defunto il legittimario che non esercita un diritto proprio, contro la volontà del defunto, ma si vale di un titolo che lo pone nella identica situazione giuridica del dante causa (Cass. n. 8684/1986), dovendo quindi soggiacere a tutti i limiti per lui costituiti, fra i quali il limite delle alienazioni simulate, la cui rilevanza formale può essere rimossa solo con i mezzi di prova di cui disponeva il dante causa (Cass. n. 7134/2001). Così come il legittimario trae dal defunto anche il diritto di richiedere la collazione (Cass. n. 3932/2016), posto che in tal caso si trova nella medesima posizione del de cuius, sia ai fini della prova, sia ai fini della prescrizione dell’azione di simulazione (Cass. n. 536/2018; n. 4021/2007; n. 2092/2000).

Secondo la corte di merito le deduzioni operate dall’attrice con la domanda non consentivano di ritenere proposta l’azione di riduzione e ciò perché non vi era un riferimento all’azione di riduzione e non era dedotta la lesione della quota di legittima, ma nel compiere tale affermazione ha obliterato completamente il fatto che l’attrice aveva denunciato la mancanza del relictum, determinata dagli atti di disposizione compiuti in vita del genitore, sicché in ipotesi di insufficienza del relictum è gioco forza che i diritti riconosciuti dalla legge al legittimario non potrebbero essere soddisfatti altrimenti se non a scapito dei simulati acquirenti donatari, una volta fornita la prova della simulazione. La situazione non poteva ingenerare alcun equivoco in ordine al fatto che la domanda di simulazione era preordinata alla reintegrazione della quota di riserva (Cass. n. 19527/2005), come peraltro ricavabile dalla richiesta, parimenti contenuta nelle conclusioni dell’atto di citazione, di disporre la reintegra in favore dell’unica erede legittima, nonché legittimaria . Cass. n. 16535/2020 citata ha altresì chiarito come sia erroneo l’assunto secondo cui il richiamo alla qualità di erede legittima sia una enunciazione incompatibile con la intenzione dell’attrice di far valere il proprio diritto di legittimaria. Il legittimario erede ab intestato, il quale agisce in riduzione contro i donatari (o i legatari), non abdica né al titolo di erede legittimo in favore del titolo di legittimario, né alla quota ereditaria conseguita in virtù della successione intestata in favore della quota riservata. Il legittimario, piuttosto, fa valere tale sua qualità, concorrente con quella di erede legittimo, per far sì che la quota di successione intestata si adegui, in valore, alla quota di riserva tramite la riduzione delle donazioni e dei legati, ovvero che possa espandersi tramite il recupero con l’accertamento della nullità di atti dissimulati, di beni all’apparenza fuoriusciti dal patrimonio, avvalendosi però a tal fine del più agevole regime probatorio riservato al legittimario. La sentenza gravata non risulta essersi adeguata ai suesposti principi e deve pertanto essere cassata, con rinvio per nuovo esame, ad altra Sezione della Corte d’Appello di Roma>>.

Il servizio (filtrato?) di Gmail può fruire del safe harbour ex § 230 CDA

Eric Goldman riferisce (e dà link al testo) di US District court-East. Distr. of California 24 agosto 2023, No. 2:22-cv-01904-DJC-JBP, Republican National Committee v. Google.

Il gruppo politico di destra accusa Google (G.) di filtraggi illegittimi delle sue mail.

G. si difende con successo eccependo il safe harbour ex 230.c.2.a (No provider or user of an interactive computer service shall be held liable on account of—
(A) any action voluntarily taken in good faith to restrict access to or availability of material that the provider or user considers to be obscene, lewd, lascivious, filthy, excessively violent, harassing, or otherwise objectionable, whether or not such material is constitutionally protected;)

Il punto critico è l’accertamento dei requisiti di objectionable  e della buona fede.

Come osserva Eric Goldman, interessante è pure la considerazione di policy della corte:

<<Section 230 also addresses Congress’s concern with the growth of unsolicited commercial electronic mail, and the fact that the volume of such mail can make email in general less usable as articulated in the CAN-SPAM Act. See 15 U.S.C. § 7701(a)(4), (6).   Permitting suits to go forward against a service provider  based on the over-filtering of mass marketing emails would discourage providers from offering spam filters or significantly decrease the number of emails segregated. It would also place courts in the business of micromanaging content providers’ filtering systems in contravention of Congress’s directive that it be the provider or user that determines what is objectionable (subject to a provider acting in bad faith). See 47 U.S.C. § 230(c)(2)(A) (providing no civil liability for “any action voluntarily taken in good faith to restrict access to . . . material that the provide or user considers to be . . . objectionable” (emphasis added)). This concern is exemplified by the fact that the study on which the RNC relies to show bad faith states that each of the three email systems had some sort of right- or left- leaning bias. (ECF No. 30-10 at 9 (“all [spam filtering algorithms] exhibited political biases in the months leading up to the 2020 US elections”).) While Google’s bias was greater than that of Yahoo or Outlook, the RNC offers no limiting principle as to how much “bias” is permissible, if any. Moreover, the study authors note that reducing the filters’ political biases “is not an easy problem to solve. Attempts to reduce the biases of [spam filtering algorithms] may inadvertently affect their efficacy.” (Id.) This is precisely the impact Congress desired to avoid in enacting the Communications Decency Act, and reinforces the conclusion that section 230 bars this suit>>.

Determinazione del danno non patrimoniale subito da ente lucrativo a seguito di violenza privata (art. 610 c.p.)

Cass. sez. III del 24/10/2023, n. 29.472, rel. Tassone (da segnalazione Ondif):

<<7.1 L’art. 1226 c.c. (rubricato “Valutazione equitativa del danno”) stabilisce che “se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con valutazione equitativa”.

E’ opinione costante e risalente della giurisprudenza e della dottrina, scaturente dalla analisi della genesi storica della norma, che questa previsione abbia natura “sussidiaria” e “non sostitutiva”. [distinzione di assai dubbia utilità]

La liquidazione equitativa del danno ha natura sussidiaria, perché presuppone l’esistenza d’un danno oggettivamente accertato. Essa attribuisce al giudice di merito non già un potere arbitrario, ma una facoltà di integrazione in via equitativa della prova semipiena circa l’ammontare del danno.

La liquidazione equitativa ha, poi, natura non sostitutiva, perché ad essa non può farsi ricorso per sopperire alle carenze o decadenze istruttorie in cui le parti fossero incorse (tanto colpevoli quanto incolpevoli, sopperendo in quest’ultimo caso il rimedio della rimessione in termini, e non della liquidazione equitativa). (….)

7.3 Orbene, nel caso di specie la corte di merito ha affermato l’esistenza della lesione all’immagine, quale articolazione del danno non patrimoniale derivante da condotta illecita integrante reato, ritenendo che, a causa del comportamento della odierna ricorrente, tale da integrare gli estremi del reato di cui all’art. 610 c.p., la società Sammi ha patito una turbativa durante lo svolgimento della sua attività professionale di organizzazione di eventi, e, più precisamente, “ha subito l’illecito nell’ambito di una festa organizzata e già in corso, di fronte ad una pluralità di persone, invitati e personale delle varie ditte impegnate nell’evento, quindi nello svolgimento di attività proprie dell’ambito economico della Sammi, caratterizzato da una comportamento volontariamente posto in essere per creare disagio, appare giustificata l’esistenza del danno non patrimoniale, come corretta la sua valutazione in via equitativa” (p. 7 della sentenza impugnata). (….)

7.4 Ne’ risulta configurabile vizio di ultra o extrapetizione per essere il quantum risarcitorio stato liquidato di importo superiore alla cifra espressamente indicata dalla parte danneggiata nelle proprie conclusioni di merito.

Nelle proprie precisate conclusioni la Sammi s.r.l. ha sempre indicato la clausola “o della somma maggiore o minore ritenuta di giustizia”, che secondo costante orientamento di questa corte non è formula di stile, ma costituisce valida clausola di salvaguardia, quando il danno da risarcire non consente una puntuale determinazione ex ante del quantum risarcibile. Pertanto, nella originaria incertezza sulla esatta determinabilità del quantum, la indicazione di un importo chiesto a titolo risarcitorio, se accompagnata dalla formula “o la somma maggiore o minore ovvero altra somma ritenuta di giustizia”, viene di regola a manifestare, in senso ottativo, la volontà della parte diretta ad ottenere quella somma che risulterà spettante all’esito del giudizio, senza porre limitazioni al potere liquidatorio del giudice (Cass., 26/09/2017, n. 22330; Cass., 08/02/2006, n. 2641). [giusto ma ovvio: chi l’ha sollevata va sanzionato nelle spese di lite]

7.5 Risulta invece fondata la censura, su cui il terzo motivo ulteriormente si articola, di erroneità ed illegittimità della sentenza impugnata sotto il profilo della liquidazione equitativa del danno non patrimoniale accertato.

7.6 Questa Corte ha già avuto modo di affermare che il secondo presupposto per l’applicazione dell’art. 1226 c.c. è che l’impossibilità (o la rilevante difficoltà) nella stima esatta del danno sia: (a) oggettiva, cioè positivamente riscontrata e non meramente supposta; (b) incolpevole, cioè non dipendente dall’inerzia della parte gravata dall’onere della prova (Cass., 17/11/2020, n. 26051; sulla impossibilità che la liquidazione equitativa possa essere utilizzata per colmare lacune istruttorie imputabili alle parti si vedano, ex plurimis, Cass., 10/07/2003, n. 10850; Cass., 16/06/1990, n. 6056 del 6056; Cass., 16/12/1963, n. 3176).

Pertanto, si è precisato che la liquidazione equitativa del danno, legittima nel solo caso in cui il danno si accerti nella sua esistenza ontologica, richiede altresì, onde non risultare arbitraria, le indicazioni di congrue, anche se sommarie, ragioni del processo logico sul quale è fondata (Cass., 17/11/2020, n. 26051).

Si è poi ulteriormente affermato (Cass., 14/10/2021, n. 28075) che l’evocazione in sé del giudizio equitativo non solleva il giudice dal dovere di rendere compiuta motivazione, dalla quale sia dato trarre i parametri sulla base dei quali egli si è orientato. I predetti parametri sono costituiti da criteri valutativi collegati a emergenze verificabili, o per lo meno logicamente apprezzabili e, comunque, sempre ragionevoli e pertinenti al tema della decisione.

Libero il giudizio finale equitativo, esso, non potendo ridursi a un asserto arbitrario, deve trovare necessaria giustificazione nei criteri e nei parametri, previamente individuati dal giudice ed in modo da essere – per quanto possibile – oggettivi e (oltre che non manifestamente incongrui per difetto o per eccesso) controllabili a posteriori, che ne costituiscono l’intelaiatura di legittimità.

7.7 Orbene, dopo aver correttamente accertato l’esistenza del danno non patrimoniale, la corte di merito non ha fatto buon governo dei suindicati principi, in quanto (v. p. 7 della sentenza impugnata) nel rigettare i motivi di appello dedotti sotto il profilo della erroneità della sua liquidazione equitativa, confermando la sentenza di primo grado, si è limitata, con formula stereotipata e generica, a ritenere “corretta la sua (del danno non patrimoniale: n.d.r.) valutazione equitativa”.

Una siffatta motivazione, svolta unicamente per relationem a quella della sentenza di primo grado (Cass., 11/09/2018, n. 21978; Cass., 09/03/2021, n. 6397), non supera il sindacato di legittimità, perché non fa riferimento ad alcun parametro, oggettivo, certo e verificabile e dunque non rende percepibile il ragionamento logico con cui il giudice di appello ha ritenuto di confermare la liquidazione equitativa del danno da parte del giudice di prime cure.[importante e giusto; anche se pur esso ovvio: è la motivaizone a rendere accettabile socialmente l’esito dell’esercizio della giurisdizione]

In definitiva, la gravata sentenza va cassata nella parte in cui la corte territoriale ha proceduto alla concreta liquidazione del danno non patrimoniale senza applicare alla fattispecie il seguente principio di diritto: ai fini della liquidazione di un danno non patrimoniale è necessario che il giudice di merito proceda, dapprima, all’individuazione di un parametro di natura quantitativa, in termini monetari, direttamente o indirettamente collegato alla natura degli interessi incisi dal fatto dannoso e, di seguito, all’adeguamento quantitativo di detto parametro monetario attraverso il riferimento a uno o più fattori necessariamente caratterizzati da oggettività, controllabilità e non manifesta incongruità (né per eccesso, né per difetto), idonei a consentire a posteriori il controllo dell’intero percorso di specificazione dell’importo liquidato>> [giusto , solo che a volte un parametro sensato può esser assi difficile da reperire]

In G.U.C.E. il nuovo regolamento UE sulle indicazioni geografiche per prodotti artigianali e industriali

in GUCE odierna (serie L, n. 2023/2041 con la nuova modalità di pubblicazione “atto per atto”; v. ilcaso.it) il “Regolamento (UE) 2023/2411 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 ottobre 2023, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche per i prodotti artigianali e industriali e che modifica i regolamenti (UE) 2017/1001 e (UE) 2019/1753” .

Avevo postato in settembre il link ad una prima bozza,

L’atto  è importante.

La norma centrale è quella sulla protezione, art. 40 (oltre alle definizioni iniziali, naturalmente)

Poi ricordo:

  • principio della porta aperta per le associazioni di produttori, art. 45;
  • invocabilità come anteriorità nelle ADR sull’assegnazione dei nomi di dominio (entro la UE),. art. 46;
  • l’usabilità del simbolo IGP dell’Unione (v. allegati al reg. UE 664/2014);
  • è insufficientemente precisa la regola per cui la protezione si applica anche “alle merci vendute mediante la vendita a distanza, come il commercio elettronico” (art. 40.4.b): sembra mancare ogni criterio di localizzazione territoriale entro la UE (non potendosi pensare ad una applicazione extraterritoriale mondiale).

Curioso è che siano protetti anche i prodotti industriali (e non solo quelli artigianali): cioè pure quelli “realizzati in modo standardizzato, compresa la produzione in serie e mediante l’uso di macchine” (art. 4 sub 1.b; la precedente definizione sub 1.a) pare definire infatti la artigianalità).       La reputazione legata al luogo (art. 6) rimane anche quando si passa alla produzione automatizzata/seriale?

Diritto alla copia della cartella sanitaria, esercitato invocando il GDPR

Corte di giustizia 26.10.2023 , C-307/22, in una richiesta del cliente al dentista di copia della cartella sanitaria , per valutare l’esattezza della sua prestazione professionale :

<<1)    L’articolo 12, paragrafo 5, e l’articolo 15, paragrafi 1 e 3, del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati),

devono essere interpretati nel senso che

l’obbligo di fornire all’interessato, a titolo gratuito, una prima copia dei suoi dati personali oggetto di trattamento grava sul titolare del trattamento anche qualora tale richiesta sia motivata da uno scopo estraneo a quelli di cui al considerando 63, prima frase, di detto regolamento.

2) L’articolo 23, paragrafo 1, lettera i), del regolamento 2016/679

deve essere interpretato nel senso che:

una normativa nazionale adottata prima dell’entrata in vigore di tale regolamento può rientrare nell’ambito di applicazione di detta disposizione. Tuttavia, una siffatta facoltà non consente di adottare una normativa nazionale che, al fine di tutelare gli interessi economici del titolare del trattamento, ponga a carico dell’interessato le spese di una prima copia dei suoi dati personali oggetto di tale trattamento.

3) L’articolo 15, paragrafo 3, prima frase, del regolamento 2016/679

deve essere interpretato nel senso che:

nell’ambito di un rapporto medico/paziente, il diritto di ottenere una copia dei dati personali oggetto di trattamento implica che sia consegnata all’interessato una riproduzione fedele e intelligibile dell’insieme di tali dati. Tale diritto presuppone quello di ottenere la copia integrale dei documenti contenuti nella sua cartella medica che contengano, tra l’altro, detti dati, qualora la fornitura di una siffatta copia sia necessaria per consentire all’interessato di verificarne l’esattezza e la completezza nonché per garantirne l’intelligibilità. Per quanto riguarda i dati relativi alla salute dell’interessato, tale diritto include in ogni caso quello di ottenere una copia dei dati della sua cartella medica contenente informazioni quali diagnosi, risultati di esami, pareri di medici curanti o eventuali terapie o interventi praticati al medesimo>>.

L’ar. 15.3 (diritto all’accesso) dispone: << Il titolare del trattamento fornisce una copia dei dati personali oggetto di trattamento. In caso di ulteriori copie richieste dall’interessato, il titolare del trattamento può addebitare un contributo spese ragionevole basato sui costi amministrativi. Se l’interessato presenta la richiesta mediante mezzi elettronici, e salvo indicazione diversa dell’interessato, le informazioni sono fornite in un formato elettronico di uso comune>>.

Legato di usufrutto generale a favore del legittimario, tra cautela sociniana (art. 550 cc) e legato sostitutivo di legittima (art. 551 cc)?

In questa alternativa sta la qualificazione giuridica della fattispecie esaminata da Cass. sez. 2 del 18.10.2023 n. 28.962, rel. Tedesco.

Il testatore aveva lasciato usufrutto generale alla moglie e legato altri beni a dei parenti.

Nei giudizi di merito era stato applicato l’art. 551 cc , ma la SC applica l’art 550.

Parte dicendo che l’usufrutto genrtale non è istituzione di erede ma legato (non approfondisce, pur essendo il tema assai dibattuto).

Poi precisa:

<<6. In mancanza di una chiara volontà del testatore di tacitare l’onorato, il legato in favore del legittimario si presume in conto di legittima, e quindi si considera un lascito da imputarsi alla quota, analogamente alle donazioni senza dispensa dall’imputazione. E’ tuttavia vero che, quando il legato abbia ad oggetto l’usufrutto generale, la fattispecie di riferimento, più che quella del legato in conto, è quella prevista dall’art. 550 c.c.>>

Quindi :

<<La Corte territoriale, nonostante abbia considerato erroneamente tardiva la deduzione, l’ha ritenuta comunque infondata. La sentenza impugnata, dopo avere delineato in termini scolastici la nozione dell’istituto, pone in luce la differenza fra la cautela sociniana e l’azione di riduzione, per poi concludere che “la diversità di presupposti, struttura e finalità delle disposizioni di cui agli artt. 550 e 554 c.c., comporta l’incompatibilità delle scelte, nel senso che qualora il legittimario opti per la prima, non potrà agire utilizzando lo strumento della riduzione apprestato dalla seconda delle disposizioni citate”. Queste riflessioni sembrano configurare un rapporto di alternatività fra i due strumenti, nel senso che il legittimario, nella situazione considerata dall’art. 550 c.c., potrebbe scegliere fra il conseguimento della legittima in piena proprietà o l’esercizio dell’azione di riduzione. Naturalmente non è così: quando il testatore abbia disposto nei modi stabiliti dall’art. 550 c.c., la scelta che si pone al legittimario non è fra l’abbandono della disponibile e l’esercizio dell’azione di riduzione, ma fra l’esecuzione delle disposizioni testamentarie e l’abbandono della disponibile, che gli consente di avere la legittima in proprietà, non essendoci più spazio a quel punto per l’applicabilità del rimedio della riduzione (Cass. n. 511/1995).

7. In dottrina si ritiene che la scelta di cui all’art. 550 c.c., possa essere esercitata soltanto dal legittimario chiamato all’eredità, se e in quanto l’abbia accettata; infatti, poiché l’esecuzione del testamento spetta all’erede, soltanto al legittimario che rivesta tale qualifica può prospettarsi la scelta se eseguire le disposizioni testamentarie o abbandonare la disponibile per conseguire la legittima. Secondo tale opinione, il presupposto della vocazione ereditaria del legittimario deve rimanere fermo anche nell’ipotesi dell’art. 550 c.c., comma 2. In altre parole, l’ipotesi presuppone che il testatore abbia disposto a titolo particolare di tutti i suoi beni o di una parte eccedente la disponibile, legando l’usufrutto al legittimario e la nuda proprietà a un estraneo: il legittimario è erede ab intestato e, come tale, ha l’opzione prevista dalla norma in esame in luogo della riduzione. Se invece il testatore ha assegnato al legittimario l’usufrutto universale dei beni e istituito erede l’estraneo nella nuda proprietà, l’alternativa che si pone al primo non è se eseguire o no il legato, perché il legato è eseguito dall’erede [e] non dallo stesso legatario, bensì se accettarlo, domandandone l’esecuzione all’erede, o rifiutarlo per chiedere la quota legittima [in piena proprietà] mediante riduzione dell’istituzione a titolo universale dell’estraneo, che è appunto l’opzione prevista dall’art. 551 c.c.. Secondo una diversa opinione, quando il testatore dispone della nuda proprietà di tutto l’asse, lasciando ai legittimari soltanto l’usufrutto dell’asse, si ha, o almeno si può avere, una figura di legato tacitativo, cui l’art. 550 c.c., riconnette effetti speciali. In alternativa alla rinunzia al legato e alla richiesta della legittima, non sarebbe preclusa al legittimario la possibilità di valersi della cautela>>

La locazione stipulata da un comproprietario (nel caso specifico: a favore di altro comproprietario) va inquadrata nella gestione di affari

Cass. sez. III del 18/07/2023 n. 20.885, rel. Condello;

<<4. Il primo ed il secondo motivo, strettamente connessi, possono essere congiuntamente trattati e sono infondati, avendo, del tutto correttamente, la Corte d’appello ricondotto la fattispecie qui in esame, in cui si controverte della locazione di un bene comune da parte di un solo comproprietario, all’istituto della gestione d’affari, in conformità a quanto statuito dalle Sezioni Unite con la pronuncia n. 11135/2012.

Con tale sentenza è stato enunciato il seguente principio: “La locazione della cosa comune da parte di uno dei comproprietari rientra nell’ambito della gestione di affari ed è soggetta alle regole di tale istituto, tra le quali quella di cui all’art. 2032 c.c., sicché, nel caso di gestione non rappresentativa, il comproprietario non locatore può ratificare l’operato del gestore e, ai sensi dell’art. 1705 c.c., comma 2, applicabile per effetto del richiamo al mandato contenuto nel citato art. 2032 c.c., esigere dal conduttore, nel contraddittorio con il comproprietario locatore, la quota dei canoni corrispondente alla rispettiva quota di proprietà indivisa”.

A tale approdo le Sezioni Unite sono pervenute all’esito di un lungo excursus delle diverse posizioni emerse nella giurisprudenza di legittimità in merito alla questione relativa alla legittimazione del comproprietario non locatore ad agire direttamente per l’esercizio dei diritti e dei poteri contrattuali derivanti dalla stipulazione del contratto da parte dell’altro comproprietario, confermando che la locazione svolge pienamente i suoi effetti anche quando il locatore abbia violato i limiti dei poteri che gli spettano ex art. 1105 c.c. e ss., essendo sufficiente ai fini della stipula della locazione che abbia la disponibilità della cosa locata.

A fronte delle diverse soluzioni prospettate dalla giurisprudenza sul tema, le Sezioni Unite hanno ritenuto di dover inquadrare la fattispecie nell’ambito della gestione di affari altrui ex art. 2028 c.c., “consentendo tale disciplina di offrire una soluzione che vale a contemperare gli interessi e le posizioni dei vari soggetti coinvolti”.

Nel rilevare che l’esistenza di una situazione di contitolarità del bene da parte del gestore non è di ostacolo all’applicazione dell’art. 2028 c.c., hanno avuto cura di sottolineare che “elemento caratterizzante della gestione di affari è il compimento di atti giuridici spontaneamente ed utilmente nell’interesse altrui, in assenza di un obbligo legale o convenzionale di cooperazione” e che, a tal fine, si richiede, insieme alla spontaneità dell’intervento del gestore, all’animus aliena negotia gerendi, all’alienità dell’affare, all’utilità della gestione (utiliter coeptum), anche l’absentia domini, da intendersi non come impossibilità oggettiva o soggettiva di curare i propri interessi, bensì come semplice mancanza di un rapporto giuridico in forza del quale il gestore sia tenuto ad intervenire nella sfera giuridica altrui, ovvero quale forma di spontaneo intervento senza opposizione e/o divieto del dominus.

Sulla base di tali premesse, le Sezioni Unite hanno desunto le seguenti conclusioni: l’opposizione del comproprietario non locatore rileva solo se portata a conoscenza e manifestata prima della stipula del contratto, ai sensi dell’art. 2031 c.c., rimanendo, in caso contrario, il contratto di locazione pienamente efficace, ancorché non vi sia il consenso del comproprietario che non ha stipulato il contratto; il comproprietario non locatore che abbia ratificato l’operato dell’altro comunista, ai sensi dell’art. 1705 c.c., potrà sostituirsi al comproprietario locatore per il solo esercizio dei diritti di credito derivanti dall’esecuzione del mandato con preclusione del compimento di ogni altra azione derivante dal contratto.

Il contratto sottoscritto dal comproprietario locatore e dal conduttore è dunque valido ed efficace, cosicché la posizione del conduttore è posta al riparo da eventuali contrasti che dovessero insorgere tra i comproprietari in ordine alla gestione del bene comune, mentre il comproprietario non locatore, che sia a conoscenza dell’intenzione dell’altro comproprietario di addivenire alla stipula del contratto di locazione del bene comune, deve manifestare preventivamente il proprio dissenso, il che lo esonera dal dover adempiere le obbligazioni assunte dal gestore, ma conserva comunque la facoltà di ratificare il contratto stipulato dal comproprietario locatore (in senso conforme, Cass., sez. 3, 10/10/2019, n. 25433; Cass., sez. 3, 10/09/2019, n. 22540; Cass., sez. 3, 09/04/2021, n. 9476).

A siffatti principi occorre attenersi anche nella fattispecie in esame, a nulla rilevando, come ritenuto dalla parte ricorrente, la qualità di comproprietario del bene in capo al conduttore A.G.. Come evidenziato dai giudici d’appello, “una volta riconosciuta ad un comproprietario la detenzione esclusiva della res comune in virtù di un contratto di locazione, ad opera del comproprietario che tale detenzione possa trasferire, a tale contratto, fondante un titolo di detenzione esclusiva, dovrà farsi riferimento nei rapporti con il comproprietario conduttore, potendo poi la disciplina in tema di rendiconto dei frutti e delle rendite senz’altro rilevare nei rapporti tra comproprietario locatore, che abbia riscosso per intero il canone di locazione, e gli altri comunisti, che siano rimasti estranei al contratto di locazione”.

La logica indicata dalle Sezioni Unite, cioè quella della gestione d’affari, è perfettamente ricorrente nel caso in cui uno dei comproprietari stipuli la locazione della cosa comune con altro comproprietario. Si potrebbe pensare che essa difetti, perché il comproprietario che assume le vesti di conduttore non potrebbe connotarsi contemporaneamente come soggetto per cui il comproprietario che assume la veste di conduttore agisca coma gerente. Ma, data la diversità della posizione di comproprietario e di quella di stipulante la locazione come conduttore, non si configura alcuna incompatibilità, trattandosi di posizioni giuridicamente distinte. Semmai, il comproprietario che riceve la res in locazione dovrà essere considerato – per un evidente principio di non contraddizione – automaticamente ratificante, per così dire ilico et immediate l’operato del suo collega stipulante come locatore.

In questa ottica, dunque, il contratto concluso dal comproprietario locatore, C.R., e A.G. conserva piena validità ed è dunque opponibile all’odierna ricorrente, comproprietaria del bene, che, come accertato dalla Corte d’appello, non essendosi preventivamente opposta alla stipula del contratto di locazione, non può pretendere la risoluzione del medesimo contratto, ma può soltanto chiedere il pagamento pro quota dei canoni di locazione maturati in data successiva alla intervenuta ratifica, coincidente con la data di notificazione dell’atto di intimazione dello sfratto per morosità>>.

Risarcimento del danno da micropermanenti

Cass. sez. III del 21/09/2023 n. 26.985, rel. Gianniti:

<<2.3.2. Sull’interpretazione da attribuire alle disposizioni ora richiamate, questa Corte ha già avuto modo di affermare in tema di risarcimento del danno da cd. micropermanente che l’art. 139, comma 2, ultimo periodo, D.Lgs. n. 209 del 2005 deve essere ancora interpretato, pur dopo la modifiche introdotte dalla L. n. 124 del 2017 e la pronuncia Corte Cost. n. 98 del 2019 nel senso che la prova della lesione e del postumo non deve essere data esclusivamente con un referto di accertamento clinico strumentale (radiografia, Tac, risonanza magnetica, ecc.), poiché è l’accertamento medico legale corretto, riconosciuto dalla scienza medica, a stabilire se tale lesione sussista, e quale percentuale del detto postumo sia ad essa ricollegabile (v. Cass., 8/4/2020, n. 7753).

Si è al riguardo altresì precisato che la disposizione contenuta nell’art. 32, comma 3 ter, D.L. n. 1 del 2012 (conv., con modif., nella L. n. 27 del 2012) [id est modifica all’art. 148 cod. assic. priv.] , costituisce non già una norma di tipo precettivo bensì una “norma in senso lato”, cui può essere data un’interpretazione compatibile con l’art. 32 Cost., dovendo essa essere intesa nel senso che l’accertamento della sussistenza della lesione dell’integrità psico-fisica deve avvenire con criteri medico-legali rigorosi ed oggettivi, ma l’esame clinico strumentale non è l’unico mezzo utilizzabile (salvo che ciò si correli alla natura della patologia), non essendo precluse fonti di prova diverse dai referti di esami strumentali, i quali non sono l’unico mezzo utilizzabile ma si pongono in una posizione di fungibilità ed alternatività rispetto all’esame obiettivo (criterio visivo) e all’esame clinico (v. Cass., 16/10/2019,, n. 26249; Cass., 19/1/2018, n. 1272).

D’altro canto, l’accertamento medico legale non può essere imbrigliato con un vincolo probatorio che si traduca in una limitazione della prova della lesione.

Pertanto, il suindicato rigore va inteso nel senso che, accanto a situazioni nelle quali in ragione della natura della patologia e della modestia della lesione l’accertamento strumentale risulta in concreto l’unico idoneo a fornirne la prova richiesta dalla legge richiede, ve ne possano essere altre per le quali in ragione della natura della patologia e della modestia della lesioni è possibile pervenire ad una diagnosi attendibile anche senza la relativa effettuazione, tenuto conto del ruolo insostituibile della visita medico legale e dell’esperienza clinica dello specialista alla cui stregua debbono risultare fondate le conclusioni scientificamente documentate e giuridicamente ineccepibili.

I criteri scientifici di accertamento e di valutazione del danno biologico tipici della medicina legale (e cioè il criterio visivo, il criterio clinico ed il criterio strumentale) non sono tra di loro gerarchicamente ordinati e neppure vanno unitariamente intesi, ma vanno utilizzati dal medico legale, secondo le legis artis, nella prospettiva di una “obiettività” dell’accertamento, che riguardi sia le lesioni che i relativi eventuali postumi.

Ad impedire il risarcimento del danno alla salute con esiti micropermanenti, dunque, non è di per sé l’assenza di riscontri diagnostici strumentali, ma piuttosto l’assenza di una ragionevole inferenza logica della sua esistenza stessa, che ben può essere compiuta sulla base di qualsivoglia elemento probatorio od anche indiziario, purché in quest’ultimo caso munito dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c.

La normativa vigente, dunque, valorizza, e al contempo grava di maggiore responsabilità, il ruolo del medico legale, imponendogli la corretta e rigorosa applicazione di tutti i criteri medico legali di valutazione e stima del danno alla persona.

Pertanto, è risarcibile anche il danno i cui postumi non sono “visibili” o insuscettibili di accertamenti strumentali, sempre che la relativa sussistenza possa essere affermata sulla base di un’ineccepibile e scientificamente inappuntabile criteriologia medico-legale.

Conclusione invero consentanea con il rilievo delle Sezioni Unite di questa Corte “che nel passaggio dal codice di procedura civile del 1865 al codice vigente l’istituto peritale è fatto oggetto, nel rinnovato assetto valoriale che ha posto il giudice al centro dell’ordinamento processuale, di un profondo ripensamento che, ben più di quanto non rendano percepibile l’assunzione di una nuova denominazione e la nuova collocazione nella topografia del codice, ne ha mutato alla radice la natura in nome di una diversa concezione del ruolo che – già in allora, ma tanto più oggi di fronte alla preponderante lievitazione del contenzioso ad alto tasso di specialità – l’apporto del sapere tecnico gioca nella risoluzione delle controversie civilistiche” (v. Cass., Sez. Un., 1/ 2/2022, n. 3086)>>.