Determinazione del dare/avere da conto corrente e documentazione richiesta in base all’onere della prova: decalogo operativo dalla Cassazione per il caso di opposte domande

Interessante analisi in Cass. sez. 1 del 17 gennaio 2024 n. 1.763 rel. Campese , segnalata e linkata da Francsco Leo in post Linkedin (Cass. 1.763 che ora viene richiamata, anzi invocata, da Cass. n. 5387 del 29.02.2024, stessa sezione, stesso relatore, sub § 3.2).

Premessa:

<<2.9.2. Innanzitutto, è doveroso muovere dal rilievo che, nei rapporti bancari di conto corrente, una volta esclusa la validità della pattuizione di interessi ultralegali o anatocistici a carico del correntista (oppure la non debenza di commissioni di massimo scoperto o, ancora, il non corretto calcolo dei giorni valuta) e riscontrata la mancanza di una parte degli estratti conto, l’accertamento del dare ed avere può attuarsi con l’impiego anche di ulteriori mezzi di prova idonei a fornire indicazioni certe e complete che diano giustificazione del saldo maturato all’inizio del periodo per cui sono stati prodotti gli estratti conto stessi (cfr. Cass. n. 22290 del 2023; Cass. n. 10293 del 2023). Questi ultimi, infatti, non costituiscono l’unico mezzo di prova attraverso cui ricostruire le movimentazioni del rapporto. Essi – come rimarcato dalla già menzionata Cass. n. 37800 del 2022 (e sostanzialmente ribadito dalle più recenti Cass. n. 10293 del 2023 e Cass. n. 22290 del 2023) – consentono di avere un appropriato riscontro dell’identità e della consistenza delle singole operazioni poste in atto; tuttavia, in assenza di un indice normativo che autorizzi una diversa conclusione, non può escludersi che l’andamento del conto possa accertarsi avvalendosi di altri strumenti rappresentativi delle intercorse movimentazioni. In tal senso, allora, a fronte della mancata acquisizione di una parte dei citati estratti, il giudice del merito: I) ben può valorizzare altra e diversa documentazione, quale, esemplificativamente, e senza alcuna pretesa di esaustività, le contabili bancarie riferite alle singole operazioni, oppure, giusta gli artt. 2709 e 2710 cod. civ., le risultanze delle scritture contabili (ma non l’estratto notarile delle stesse, da cui risulti il mero saldo del conto: Cass. 10 maggio 2007, n. 10692 e Cass. 25 novembre 2010, n. 23974), o, ancora, gli estratti conto scalari (cfr. Cass. n. 35921 del 2023; Cass. n. 10293 del 2023; Cass. n. 23476 del 2020; Cass. n. 13186 del 2020), ove il c.t.u. eventualmente nominato per la rideterminazione del saldo del conto ne disponga nel corso delle operazioni peritali, spettando, poi, al giudice predetto la concreta valutazione di idoneità degli estratti da ultimo a dar conto del dettaglio delle movimentazioni debitorie e creditorie (come già opinato proprio dalla citata Cass. n. 13186 del 2020, non massimata, in presenza di una valutazione di incompletezza degli estratti da parte del giudice del merito), oppure, come sancito da una recentissima pronuncia di questa Corte tuttora in corso di pubblicazione (resa nel giudizio n.r.g. 14776 del 2019), anche la stampa dei movimenti contabili risultanti a video dal data base della banca, ottenuta dal correntista avvalendosi del servizio di home banking, se non contestata in modo chiaro, circostanziato ed esplicito dalla banca quanto alla sua non conformità a quanto evincibile dal proprio archivio (cartaceo o digitale); II) parimenti, può attribuire rilevanza alla condotta processuale delle parti e ad ogni altro elemento idoneo a costituire argomento di prova, ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ.

2.9.3. Successivamente, per far fronte alla necessità di elaborazione di tali dati così acquisiti, quello stesso giudice può certamente avvalersi di un consulente d’ufficio, essendo sicuramente consentito svolgere un accertamento tecnico contabile al fine di rideterminare il saldo del conto in base a quanto comunque emergente dai documenti prodotti in giudizio (cfr. Cass. n. 14074 del 2018; Cass. n. 5091 del 2016. Nel medesimo senso, si vedano pure Cass. n. 31187 del 2018; Cass. n. 11543 del 2019)>>.

Ma son cose note.    Ecco ora la parte più interessante, per il caso in cui la documentazione in atti non permetta in alcun modo la ricostruzione dei movimenti sul conto  per i periodi azionati:

<<2.9.5. In quest’ottica, dunque, potrà certamente trovare applicazione anche il criterio dell’azzeramento del saldo o del cd. saldo zero, il quale, pertanto, altro non rappresenta che uno dei possibili strumenti attraverso il quale può esplicitarsi il meccanismo della ripartizione dell’onere probatorio tra le parti sancito dall’art. 2697 cod. civ.

2.9.6. Ne consegue che se la banca agisca in giudizio per il pagamento dell’importo risultante a saldo passivo ed il correntista chieda, a sua volta, la rideterminazione del saldo, concludendo o per la condanna dell’istituto di credito a pagare in proprio favore o per l’accoglimento della domanda di quest’ultimo in misura inferiore rispetto a quella originariamente formulata, l’eventuale carenza di alcuni estratti conto o, comunque di altra documentazione che consenta l’integrale ricostruzione dell’andamento del rapporto, comporta che: I) per quanto riguarda la banca, il calcolo del dovuto potrà farsi:   I-a) nell’ipotesi in cui non ci sia in atti documentazione che risalga all’inizio del rapporto (ricordandosi, in proposito, che la banca non può sottrarsi all’assolvimento di un tale onere invocando l’insussistenza dell’obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni, perché non si può confondere l’onere di conservazione della documentazione contabile con quello di prova del proprio credito. Cfr. Cass. n. 13258 del 2017; Cass. n. 7972 del 2016; Cass. n. 19696 del 2014; Cass. n. 1842 del 2011; Cass. n. 23974 del 2010; Cass. n. 10692 del 2007), azzerando il saldo di partenza del primo estratto conto disponibile (ove quest’ultimo non coincida, appunto, con il primo estratto del rapporto) e procedendo, poi, alla rideterminazione del saldo finale utilizzando la completa documentazione relativa al periodo successivo fino alla chiusura del conto (o alla data della domanda);   i-b) laddove manchi documentazione riguardante uno o più periodi intermedi, azzerando i soli saldi intermedi: intendendosi, con tale espressione, che non si dovrà tenere conto di quanto eventualmente accumulatosi nel periodo non coperto da documentazione, sicché si dovrà ripartire, nella prosecuzione del ricalcolo, dalla somma che risultava a chiusura dell’ultimo estratto conto disponibile (la banca, cioè, perde solo quello che si sarebbe accumulato nel periodo non coperto dagli estratti conto mancanti, sicché il dato finale risulterà abbattuto di quella somma); II) per quanto riguarda, invece, il correntista che lamenti l’illegittimo addebito di importi non dovuti (per anatocismo, usura, pagamento di interessi ultralegali non pattuiti per iscritto, commissioni di massimo scoperto etc.) e ne chieda la restituzione, egli si trova, in realtà, in posizione praticamente analoga a quella della banca, atteso che il calcolo del dovuto potrà farsi tenendo conto che:    II-a) nell’ipotesi in cui non ci sia in atti documentazione che risalga all’inizio del rapporto, egli o dimostra l’eventuale vantata esistenza di un saldo positivo in suo favore, o di un minore saldo negativo a suo carico (ma, in tal caso, la corrispondente documentazione vale per entrambe le parti, per il congegno di acquisizione processuale), o beneficia comunque dell’azzeramento del saldo di partenza del primo estratto conto disponibile (ove quest’ultimo non coincida, appunto, con il primo estratto del rapporto) e della successiva rideterminazione del saldo finale avvenuta utilizzando la completa documentazione relativa al periodo successivo fino alla chiusura (o alla data della domanda);    II-b) laddove manchi documentazione riguardante uno o più periodi intermedi, anche in tal caso, egli, se sostiene che in quei periodi si è accumulata una somma a suo credito o un minore importo a suo debito per effetto, ad esempio di anatocismo e/o usura e/o pagamento di interessi ultralegali non pattuiti e/o commissioni di massimo scoperto non concordate, lo deve provare, producendo la corrispondente documentazione che, in tal caso, però, nuovamente sarà utilizzabile anche per la controparte, sempre per il congegno di acquisizione processuale. Altrimenti, beneficerà del meccanismo di azzeramento del/i saldo/i intermedio/i nel significato in precedenza chiarito, con l’evidente risultato che la banca, per quel/quei periodo/i, non ottiene niente ed il correntista, per lo stesso o gli stessi periodi, nulla recupera. Questi, cioè, è come se non ci fossero, posto che nessuno ha provato che cosa sia successo. Con la conseguenza che l’estratto conto immediatamente successivo, e tutti i successivi ancora, devono essere corretti ricollegando l’ultimo saldo disponibile al primo saldo in cui ricominciano ad essere presenti gli estratti conto.

2.9.7. In questo modo, dunque, il problema del rischio di due saldi difformi viene meno e, in buona sostanza, il meccanismo dell’azzeramento (anche di quello, prima definito intermedio, per eventuali intervalli temporali in cui mancano gli estratti conto) funziona allo stesso modo sia per la banca che per il correntista>>.

La prima parte della sentenza è pure interessante per il c.d. litigator. Afferma che la condotta silente(omissiva del CT di parte nel subprodedimnti ex art. 198 cpc attuaz. di fronte all’ingresso di documenti mai propdottio prima non può costituire consenso tacito. Il quale ultimo deve provenire proprio e solo dalla aperte: v. infatti il § 1.7.6 per cui “In tema di consulenza tecnica di ufficio ex art. 198 cod. proc. civ., l’acquisizione, da parte del consulente di ufficio, di documenti non precedentemente prodotti dalle parti, possibile anche se volta a provare fatti principali e non meramente accessori, necessita del consenso espresso, tacito o per facta concludentia, delle parti stesse, insufficiente rivelandosi quello eventualmente desumibile dalla condotta tenuta, nel corso delle operazioni peritali, dai loro consulenti, essendo questi ultimi privi del potere di impegnare le prime su questioni diverse da quelle inerenti alle indagini tecniche svolte dal consulente di ufficio”.

Risarcimento del danno subito dal possessore per spoglio illecito: ricorre l’ingiustizia del danno ma resta salva la tutela petitoria

Cass. sez. III dell’ 11/12/2023 n. 34.540, rel. Iannello, in un’azione di danno da spoglio possessorio, la cui illiceità era stata accertata con sentenza passata in giudicato ex art. 1168 cc contro l’IACP di Palermo :

<<La pretesa risarcitoria trova nella specie fondamento, ex art. 2043 c.c., nel fatto illecito compiuto dall’Iacp, ossia nelle modalità con le quali l’Istituto è rientrato nel possesso dell’immobile occupato dalla C., al contempo spogliandone quest’ultima: fatto, questo, integrante spoglio meritevole di tutela di reintegra, secondo accertamento giudiziale passato in giudicato e, come tale, non più suscettibile di sindacato sotto tale profilo qualificatorio.

Rispetto a tale fatto costitutivo del vantato credito risarcitorio nessun rilievo impeditivo può assumere l’eventuale insussistenza di un effettivo ius possidendi in capo alla parte illecitamente privata del possesso.

Alcune precisazioni concettuali si rendono al riguardo opportune:

– la lesione del possesso o della detenzione può provocare danni non riparabili con il mero ripristino della situazione anteriore, che si identificano sia nella diminuzione patrimoniale che la vittima subisce per il ristabilimento dello status quo antea, sia nel mancato esercizio del potere di fatto;

– il risarcimento può però pure avere funzione sostitutiva del recupero della situazione possessoria, nell’ipotesi in cui quest’ultimo si presenti impossibile (di fatto) per distruzione della cosa o smarrimento o perdita irrecuperabile di essa dopo lo spoglio, ovvero (giuridicamente) perché la medesima è stata alienata ad un terzo ignaro, che ne ha acquistato il possesso (arg. ex art. 1169);

– in entrambi i casi la lesione del possesso che consegua ad un’attività di spoglio rilevante ai sensi dell’art. 1168 c.c., mette in essere una tipica fattispecie di illecito extracontrattuale, a condizione che, ovviamente, il fatto materiale compiuto dal terzo si traduca in un danno effettivo per il titolare della situazione possessoria;

– proprio su tale piano (quello cioè della possibilità di configurare un danno risarcibile conseguente alla lesione del possesso) si era in passato, nella dottrina, affacciata una tesi restrittiva (ora echeggiata dalla motivazione della sentenza impugnata) secondo la quale, essendo la tutela possessoria delineata dalla legge sotto il profilo della “mera azione” e non del diritto soggettivo, le restrizioni apportate alla situazione di fatto non potrebbero essere qualificate “ingiuste” ai sensi dell’art. 2043, non avendo il sistema lo scopo “di garantire incondizionatamente al possessore senza titolo i vantaggi economici del godimento del bene”;

tale tesi non ha però più ragion d’essere a fronte della ormai pacifica diversa ricostruzione del concetto di “danno ingiusto” ex art. 2043 c.c., come danno arrecato non iure, ossia in assenza di una causa giustificativa, e risolventesi nella “lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento, a prescindere dalla sua qualificazione formale, ed, in particolare, senza che assuma rilievo la qualificazione dello stesso in termini di diritto soggettivo” (Cass. Sez. U. 22/07/1999, n. 500);

– essendo dunque ormai superato l’antico dogma dell’illecito come lesione di un diritto soggettivo assoluto, deve ritenersi acquisito che anche colui il quale, per circostanze contingenti, si trovi ad esercitare su di una cosa un potere soltanto di fatto può, dal danneggiamento di essa, risentire un danno risarcibile, indipendentemente dall’esistenza del diritto all’esercizio di quel potere (v. in tal senso già Cass. 24/02/1981, n. 1131 secondo cui “qualsiasi possessore o detentore può, agendo in possessorio a tutela del suo rapporto col bene, chiedere anche il ristoro dei danni determinati dall’attività illecita del terzo”, giacché “l’azione di responsabilità extracontrattuale non postula necessariamente una identità tra il titolo al risarcimento e il titolo giuridico di proprietà o di godimento”, con la conseguenza che nel giudizio risarcitorio non è necessario per l’attore dimostrare il suo diritto sul bene, ma è sufficiente dimostrare di trovarsi in una relazione di fatto con la cosa e di avere subito un danno patrimoniale per la mancata disponibilità di essa; v. anche, conff., Cass. 14/05/1979, n. 2780; 14/05/1993, n. 5485; 29/01/2014, n. 1964, in motivazione);

– ne discende anche che alcun rilievo impeditivo può nemmeno avere la pretesa della nuova assegnataria di ottenere il pieno godimento dell’immobile a lei successivamente locato: trattandosi di pretesa derivata la stessa non varrebbe di per sé a rendere meno illecita l’azione spoliatrice dell’Iacp ed a privare dunque di fondamento la conseguente pretesa risarcitoria;

– il diritto dell’Iacp sul bene, e quello derivato della nuova locataria, agiscono sul diverso e non incompatibile terreno della tutela petitoria;

entrambi, in particolare, rimangono tutelabili con azioni reali o personali di rilascio del bene, pur tenendo ferma la riconosciuta illiceità dello spoglio in precedenza compiuto dall’ente proprietario e salvi gli effetti dell’eventuale mala fede del possessore, che rimane possibile far valere al fine di ottenere, in seno ad eventuale giudizio di rivendica, la restituzione del bene o il controvalore di questo, insieme con i frutti dovuti per legge dal possessore di mala fede (v. Cass. 12/05/1987, n. 4367)>>.

La fideiussione passa in capo alla società conferitaria ex art. 2558 cc

Il Trib. aveva deciso che la fideiussione non era circolata ex art. 2558 cc (da conferimento societario) perchè non era un contratto ma negozio unilaterale.

Riforma in appello perchè non era inquadrabile tra i contratti esclusi dal medesimo articolo.

Ricorso di legittimità respinto da Cass. sez. 3 ord. 15.01.2024 n. 1453, rel. Moscarini:

<<la Corte di merito ha correttamente ritenuto che il conferimento dell’impresa individuale [noi: azienda, non impresa!!!] in una società di capitali dà luogo ad un fenomeno traslativo che soggiace alla disciplina dell’art. 2558 c.c., con conseguente subentro ope legis della società di capitali in tutti i rapporti attivi e passivi dell’impresa ceduta; a tale stregua, anche alla luce della pronuncia Cass., n. 5495 del 2001, cui questo Collegio intende dare continuità, e che ha ad oggetto fattispecie del tutto sovrapponibile a quella in esame, va ribadito che la fideiussione è un contratto d’impresa essendo diretta a garantire gli obblighi derivanti dai rapporti commerciali tra la società garantita e l’impresa cui è subentrata la società, avendo quest’ultima certamente interesse ad avvalersi della garanzia fideiussoria a fronte dell’inadempimento della società garantita; la Corte d’Appello ha altresì precisato che, “posto il conferimento omnicomprensivo della ditta individuale nella società appellante  e quindi l’insussistenza di alcun patto derogatorio inerente alla fideiussione, l’opponente non ha mai dedotto la natura personale del contratto, integrante se del caso la seconda ipotesi eccettuativa dell’art. 2558 c.c., limitandosi a chiederne l’accertamento dell’avvenuta estinzione per essere stata la fideiussione prestata solo nei confrontidella ditta individuale.    Né il Gulino ha mai sostenuto la natura personale del contratto né ha mai esercitato il recesso dal contratto di fideiussione successivamente al conferimento della ditta garantita nella società per azioni mantenendo inalterati i rapporti commerciali con la Strano SpA per ben dieci anni senza mai manifestare la volontà di recedere; le richiamate rationes decidendi non sono idoneamente censurate in quanto la ricorrente si limita a basare la propria tesi difensiva sulla non applicabilità dell’art. 2558 c.c. alla fideiussioneperché contratto con obbligazioni a carico del solo proponente; é vero che l’art. 2558 c.c. deroga al 1406 c.c. che riguarda i contratti a prestazioni corrispettive non ancora eseguite ma, in quanto norma derogatoria ad un principio generale, essa è di stretta interpretazionee quindi non contemplando un’espressa limitazione ai contratti a prestazioni corrispettive non ancora eseguite, ma prevedendo quali uniche eccezioni i contratti intuitu personae e i contratti in relazione ai quali il terzo contraente non abbia esercitato il recesso entro tre mesi dalla notizia del trasferimento, non si può escludere che la fideiussione sia tra i contratti d’impresa in riferimento ai quali opera la successione prevista dall’art. 2558 c.c. in ragione della mera struttura della fideiussione, quale contratto con obbligazioni a carico del solo proponente>>.

Pronuncia sciatta per più motivi: i) confonde impresa con azienda; ii) non esamina il caso di fideiussione sorta da negozio unilaterale, invece che da contratto con obbligazioni a carico del proponente; iii) comunque non va ad esaminare la fideiussine sub iudice; iv) non comanda (come avrebbe dovuto), limitandosi invece ad avanzare ipotesi (<non si può escludere che…>); v) non dà conto del dettato normativo che parla solo di <contratti>, tra i quali nonn rientra il negozio unilaterale (v. sopra sub ii); vi) ragiona in modo oscuro sull’art. 1263 cc (“accessori del credito”).

Bilanciamento tra diritto della collettività all’informazione e diritto all’oblio dell’interessato: analitica pronuncia di legittimità

Cass. sez. I del 27/12/2023 n. 36.021, rel. Iofrida.

Premesse:

<<<3.1. Va premesso, richiamandosi quanto sancito da Cass. n. 15160 del 2021, che, nel disegno personalistico – lo Stato è a servizio della persona, non viceversa – e pluralista prefigurato dalla Costituzione, l’art. 2 non può che essere interpretato se non come una norma di apertura, fonte e catalogo – come è stato incisivamente affermato da autorevole dottrina – di una “Costituzione culturale”, e ad essa vanno, pertanto, ricondotti una serie di diritti della persona, sia che essi siano previsti da norme di legge ordinaria, sia che debbano enuclearsi dal sistema, come per i diritti – in considerazione nella vicenda oggetto di esame – all’identità personale ed all’oblio. Al soggetto giuridico, quale destinatario neutro ed indifferenziato della regola giuridica, astratto centro di imputazione di situazioni giuridiche (la capacità giuridica di ciascuno soggetto si acquista con la nascita, recita l’art. 1 c.c.), subentra, dunque, nel sistema, la persona, quale fonte primaria di valori; ma la persona intesa non astrattamente, bensì nella individualità delle sue qualità soggettive e sociali (cfr. Cass., SU, n. 3677 del 2009, secondo cui nel danno non patrimoniale rientra qualsiasi ingiusta lesione di un valore inerente alla persona, garantito dall’art. 2 Cost.).

3.1.1. Orbene, la persona si individua, anzitutto, per certe caratteristiche esteriori. Viene, pertanto, in considerazione, in primis, il “diritto all’immagine”, enucleabile dall’art. 10 c.c. e dagli artt. 96 e 97 Legge sul diritto di autore, che prevedono il diritto al ritratto, che può essere pubblicato solo con consenso della persona ritratta (cfr. Cass. n. 10957 del 2010; Cass. n. 1748 del 2016).

3.1.2. Viene in rilievo, poi, il cd. “diritto all’identità personale”, il cui fondamento normativo è ravvisabile sempre nell’art. 2 Cost., e che risulta costruito – nelle elaborazioni della dottrina e nelle decisioni della giurisprudenza – come immagine sociale del soggetto, e non come idea meramente soggettiva che ciascuno abbia del proprio io; immagine costituita da quel coacervo di valori (intellettuali, politici, religiosi, professionali, ecc.) che caratterizzano una determinata persona e che questa non vuole vedere alterato o travisato all’esterno. Tale diritto confluisce (insieme a quelli all’immagine, alla riservatezza, al nome ed alla reputazione) nella previsione dell’art. 2 Cost., ossia nel valore unitario della persona, ed ha il proprio apparato di tutela negli artt. 6,7,10 e 2059 c.c. e nelle previsioni della legge sul diritto di autore, applicabili in via diretta e non analogica, in virtù di un’interpretazione adeguatrice di tali norme al precetto costituzionale (cfr. Cass. n. 16222 del 2015).

3.1.3. Nel valore “persona”, protetto dall’art. 2 Cost., confluisce, quindi, il “diritto alla riservatezza”. Conosciuto dagli ordinamenti anglosassoni da tempo (fin dalla fine dell’800), nella forma della cd. privacy, o right to be let alone, la tutela del riserbo trova oggi un fondamento normativo in un reticolo di testi legislativi nazionali ed internazionali: la L. n. 339 del 1958, art. 6 (obbligo di riservatezza del lavoratore domestico); le L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 6, con riferimento alla riservatezza del lavoratore, e L. 22 aprile 1941, n. 633, artt. 93 e 95 (legge sul diritto di autore), che tutelano l’intimità delle corrispondenze epistolari; la L. 22 maggio 1978, n. 194, art. 5, con riferimento alla riservatezza della donna in caso di interruzione della gravidanza; l’art. 8 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (CEDU), che tutela il “rispetto della vita privata e familiare”; gli artt. 2,14 e 15 Cost.; gli artt. 614 c.p. e ss..

3.1.4. Ciò posto, non può revocarsi in dubbio che il problema fondamentale che si pone con riferimento a tali diritti è costituito dal contemperamento tra libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost., art. 10 CEDU e art. 10 Carta di Nizza) ed il diritto alla privacy ed all’identità personale (art. 2 Cost. ed art. 8 CEDU), poiché vengono in considerazione – al riguardo – atti non ingiuriosi o diffamatori, bensì attività informative che comunque invadono la libertà altrui. Al riguardo, si è affermato che tra il diritto all’informazione ed i diritti della persona alla reputazione ed alla riservatezza, il primo, se correlato ad un effettivo interesse pubblico all’informazione, tendenzialmente prevale sui secondi, attesa, ex art. 1 Cost., comma 2, la funzionale correlazione dell’informazione con l’esercizio della sovranità popolare, che solo in presenza di una opinione pubblica compiutamente informata può correttamente dispiegarsi, ed alla luce anche della legislazione ordinaria (in particolare il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 12) che, appunto, riconduce reputazione, identità e privacy nell’alveo delle eccezioni rispetto al generale principio di tutela dell’informazione (cfr. Cass. n. 16236 del 2010).

3.1.5. Tuttavia, non si è mancato di osservare che, nelle controversie in cui si configura una contrapposizione tra due diritti, aventi entrambi copertura costituzionale, e cioè tra valori ugualmente protetti, va applicato il cd. criterio di “gerarchia mobile”, dovendo il giudice procedere di volta in volta, ed in considerazione dello specifico thema decidendum, all’individuazione dell’interesse da privilegiare a seguito di un’equilibrata comparazione tra diritti in gioco, diretta ad evitare che la piena tutela di un interesse finisca per tradursi in una limitazione di quello contrapposto, capace di vanificarne o ridurne il valore contenutistico (cfr. Cass. n. 18279 del 2010).

3.1.6. Sul versante opposto a quello dei diritti di informare e di essere informati (art. 21 Cost. e art. 10 CEDU) in relazione a fatti e notizie di pubblico interesse, si colloca, per vero, già prima dell’avvento delle Costituzioni moderne, il diritto dei singoli al riserbo ed all’oblio per quel che concerne le vicende passate. Sotto tale profilo, la norma dell’art. 2 della nostra Costituzione crea immediatamente, con riferimento alla persona, una distanza da ogni astrazione, propria del soggetto di diritto, per la rilevanza attribuita al legame sociale, alla realtà delle “formazioni sociali” nelle quali si realizza la costruzione della personalità, in modo tale che sia garantita la “pari dignità sociale” della persona ed il suo libero sviluppo, anche in una prospettiva evolutiva. La dignità presuppone, invero, innegabilmente, il rispetto, da parte delle formazioni sociali (prima fra tutte lo Stato), della sfera personale riservata della persona, del diritto di ciascuno ad essere lasciato solo, a non essere menzionato in pubblico, ad essere dimenticato.

3.1.7. Se la nozione giuridica di personalità, implicita nell’art. 2 Cost., dà luogo, dunque, ad un concetto dinamico, è evidente che il diritto all’oblio, strettamente connesso a quello alla riservatezza ed al rispetto della propria identità personale, ma in una prospettiva evolutiva, si traduce nell’esigenza di evitare che la propria persona resti cristallizzata ed immutabile in un’identità legata ad avvenimenti o contesti del passato, che non sono più idonei a definirla in modo autentico o, quanto meno, in modo completo. Il diritto all’oblio “pensato” e definito dalla giurisprudenza come diritto a non subire gli effetti pregiudizievoli della ripubblicazione, a distanza di tempo, pur legittimamente diffusa in origine, ma non più giustificata da nuove ragioni di attualità, deve scontare oggi, sul piano applicativo, e segnatamente su quello del bilanciamento degli interessi, la possibilità di conservare in rete notizie, anche risalenti, spesso superate da eventi successivi, e perciò inattuali.

3.1.8. In tal senso, lo strumento della “deindicizzazione” – sul quale si ritornerà – è divenuto, nella prassi giurisprudenziale (oggi espressamente avallata dalla previsione del “diritto alla cancellazione”, denominato nel titolo anche “diritto all’oblio”, previsto dall’art. 17 del Regolamento UE 2016/679, non applicabile, tuttavia, ratione temporis alla fattispecie concreta, come si è già anticipato), lo strumento applicabile ogni qual volta l’interesse all’indiscriminata reperibilità della notizia mediante motore di ricerca sia recessivo rispetto all’esigenza di tutela dell’identità personale, nel senso dinamico suindicato. In tal modo, viene evitato il rischio di quella che è stata definita in dottrina la “biografia ferita”, ossia il rischio della “cristallizzazione della complessità dell’Io in un dato che lo distorce o non lo rappresenta più”.

3.1.9. Il tutto si gioca, dunque, sul tavolo del bilanciamento tra valori che si fronteggiano. Ed in tale prospettiva di “gerarchia mobile”, che vede – a seconda del contesto fattuale – prevalere ora l’una ora l’altra esigenza di tutela, si è posta, da ultimo, anche autorevole dottrina, che ha elaborato, al riguardo, una quadripartizione di tipi di casi – “una sorta di scansione per Fallgruppen” – evidenziando, del tutto opportunamente, che “la decisione di bilanciamento va presa alla luce di un solerte apprezzamento di tutte le circostanze allo stato significative”. In via di estrema sintesi, si è rilevato che può accadere, in concreto, che: a) in assenza di un interesse pubblico attuale, debba prevalere l’aspirazione del soggetto interessato al controllo dei propri dati personali; b) il conflitto coinvolga, invece, un interesse pubblico specifico ed attuale, ed allora troverà spazio l’opposta soluzione di pubblicare o ripubblicare i dati del soggetto; c) ci si trovi in presenza di un dataset documentario, inteso a raccogliere informazioni a fini di ricerca, per esigenze storiografiche, o altro, ed allora il diritto alla rimozione dei dati diventa recessivo, ma l’interessato avrà a diposizione l’opportunità di coltivare una istanza di contestualizzazione, volta all’aggiornamento del dato; d) la notizia diffusa sia inequivocabilmente falsa (fake news), ed allora – fatta salva in alternativa, ove concretamente percorribile, una possibilità di smentita – la cancellazione dall’archivio informatico potrà essere inevitabile.

3.2. Con riguardo, poi, al concreto atteggiarsi del diritto all’oblio nel contesto digitale, con specifico riguardo ai limiti del diritto individuale alla rimozione di taluni contenuti dai risultati forniti da un motore di ricerca a partire dal proprio nome, è opportuno, per il corretto inquadramento della questione, muovere dalla nota sentenza della Corte di Giustizia, Grande Sezione, del 13.5.2014- C-131/12, usualmente ricordata come “(Omissis)”.

3.2.1. Secondo questa pronuncia, l’art. 2, lett. b) e d), della direttiva 95/46/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 24 ottobre 1995, relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati, deve essere interpretato nel senso che, da un lato, l’attività di un motore di ricerca consistente nel trovare informazioni pubblicate o inserite da terzi su Internet, nell’indicizzarle in modo automatico, nel memorizzarle temporaneamente e, infine, nel metterle a disposizione degli utenti di Internet secondo un determinato ordine di preferenza, deve essere qualificata come “trattamento di dati personali”, ai sensi del citato art. 2, lett. b), qualora tali informazioni contengano dati personali, e che, dall’altro lato, il gestore di detto motore di ricerca deve essere considerato come il “responsabile” del trattamento summenzionato, ai sensi dell’art. 2, lett. d), di cui sopra.

3.2.2. Inoltre gli artt. 12, lett. b), e 14, comma 1, lett. a), della direttiva 95/46 suddetta devono essere interpretati nel senso che, al fine di rispettare i diritti previsti da tali disposizioni, e sempre che le condizioni da queste fissate siano effettivamente soddisfatte, il gestore di un motore di ricerca è obbligato a sopprimere, dall’elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, i links verso pagine web pubblicate da terzi e contenenti informazioni relative a quest’ultima anche nel caso in cui tale nome o tali informazioni non vengano previamente o simultaneamente cancellati dalle pagine web di cui trattasi, e ciò eventualmente anche quando la loro pubblicazione su tali pagine web sia di per sé lecita.

3.2.3. Si deve verificare, quindi, in particolare, se l’interessato abbia diritto a che l’informazione in questione riguardante la sua persona non venga più, allo stato attuale, collegata al suo nome da un elenco di risultati che si palesino a seguito di una ricerca effettuata a partire dal suo nome, senza per questo che la constatazione di un diritto siffatto presupponga che l’inclusione dell’informazione in questione in tale elenco arrechi un pregiudizio a detto interessato.

3.2.4. Quest’ultimo, sulla scorta dei suoi diritti fondamentali derivanti dagli art. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (cd. “Carta di Nizza“), – il primo dei quali, rubricato “Rispetto della vita privata e della vita familiare”, proclama che “Ogni individuo ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle sue comunicazioni”; il secondo, invece, recante “Protezione dei dati di carattere personale”, afferma che “1. Ogni individuo ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che lo riguardano. 2. Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni individuo ha il diritto di accedere ai dati raccolti che lo riguardano e di ottenerne la rettifica. 3. Il rispetto di tali regole è soggetto al controllo di un’autorità indipendente” – può chiedere che l’informazione in questione non venga più messa a disposizione del grande pubblico in virtù della sua inclusione in un siffatto elenco di risultati.

3.2.5. I diritti fondamentali di cui sopra prevalgono, in linea di principio, non soltanto sull’interesse economico del gestore del motore di ricerca, ma anche sull’interesse del grande pubblico ad accedere all’informazione suddetta in occasione di una ricerca concernente il nome di questa persona. Fa eccezione l’ipotesi in cui risulti, per ragioni particolari, come il ruolo ricoperto dalla stessa nella vita pubblica, che l’ingerenza nei suoi diritti fondamentali è giustificata dall’interesse preponderante del pubblico suddetto ad avere accesso, in virtù dell’inclusione summenzionata, all’informazione di cui trattasi.

3.3. Infatti, il diritto di ogni persona all’oblio, strettamente collegato, come si è già anticipato, ai diritti alla riservatezza ed all’identità personale, deve essere bilanciato con il diritto della collettività all’informazione, sicché, qualora sia pubblicato sul web un articolo di interesse generale ma lesivo dei diritti di un soggetto che non rivesta la qualità di personaggio pubblico, noto a livello nazionale, può essere disposta la deindicizzazione dell’articolo dal motore ricerca, al fine di evitare che un accesso agevolato, e protratto nel tempo, ai suoi dati personali, tramite il semplice utilizzo di parole chiave, possa lederne il diritto a non vedersi reiteratamente attribuita una biografia telematica diversa da quella reale e costituente oggetto di notizie ormai superate (cfr. anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 2893 del 2023; Cass. n. 15160 del 2021). Una tale conclusione – valevole anche anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 17 Regolamento (UE) 2016/679 – si spiega proprio perché il diritto all’oblio consiste nel non rimanere esposti senza limiti di tempo ad una rappresentazione non più attuale della propria persona con pregiudizio alla reputazione ed alla riservatezza, a causa della ripubblicazione, a distanza di un importante intervallo temporale, di una notizia relativa a fatti del passato, ma la tutela del menzionato diritto va posta in bilanciamento con l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto, espressione del diritto di manifestazione del pensiero e, quindi, di cronaca e di conservazione della notizia per finalità storico-sociale e documentaristica, sicché, nel caso di notizia pubblicata sul web, il medesimo può trovare soddisfazione anche nella sola deindicizzazione dell’articolo dai motori di ricerca (cfr. Cass. n. 9147 del 2020).

3.3.1. Anche le Sezioni Unite di questa Corte hanno avuto modo di interloquire, precisando che la menzione degli elementi identificativi delle persone protagonisti di fatti e vicende del passato è lecita solo nell’ipotesi in cui si riferisca a personaggi che destino nel momento presente l’interesse della collettività, sia per ragioni di notorietà che per il ruolo pubblico rivestito. In caso contrario, prevale il diritto degli interessati alla riservatezza rispetto ad avvenimenti del passato che li feriscano nella dignità e nell’onore e dei quali si sia ormai spenta la memoria collettiva (cfr. Cass., SU, n. 19681 del 2019)>>.

Andando al caso sub iudice:

<<3.4. Tanto premesso, la fattispecie oggi all’attenzione del Collegio, sempre più frequentemente sottoposta al vaglio giudiziale, è quella del diritto dell’interessato a richiedere al gestore di un motore di ricerca la rimozione (deindicizzazione) di taluni risultati connessi al proprio nome e concernenti articoli già legittimamente pubblicati nell’esercizio del diritto di cronaca giornalistica per l’interesse pubblico che circondavano alcune vicende che lo avevano interessato: si tratta, cioè, dell’aspirazione di una persona coinvolta in quelle vicende, una volta cessato il clamore e l’interesse pubblico per il decorso del tempo, a non vedersi consegnata al ricordo collettivo in quei termini. Rischio, questo, amplificato dalla potenza evocatrice dei motori di ricerca nell’ambiente internet che, tramite il collegamento alle sue generalità, permette con estrema facilità di rinvenire in rete, anche molti anni dopo, la traccia di quelle notizie e di quegli articoli.

3.4.1. Come opportunamente rimarcatosi in dottrina, peraltro, l’attività dei motori di ricerca si è progressivamente affrancata da schemi di mera intermediazione tecnica e neutrale elencazione delle informazioni reperite online, affiancandovi attività di organizzazione e posizionamento delle informazioni in base a vari criteri, di guida dell’utente, nella navigazione e di generazione di copie (le cache) delle pagine indicizzate, a formare un vero e proprio archivio, più o meno duraturo, dei contenuti della rete. Il gestore del motore di ricerca ha assunto, così, un ruolo sempre meno “passivo” nella erogazione del servizio. Tanto che – come si è già anticipato – l’attività del motore di ricerca consistente nel trovare informazioni pubblicate online da terzi, indicizzarle, memorizzarle temporaneamente e metterle a disposizione degli utenti secondo un ordine di preferenza deve essere qualificata come “trattamento di dati personali” del quale il gestore del search engine è il titolare; trattamento, questo, distinto e diverso da quello posto in essere dal gestore del sito sorgente sul quale il dato è stato originariamente pubblicato. L’intermediazione del motore di ricerca, inoltre, è suscettibile anche di mutare lo stesso contenuto comunicativo delle informazioni fornite all’utente, ottenendo, mediante l’aggregazione di differenti fonti in un unico elenco strutturato, un messaggio complessivo diverso rispetto a quello che sarebbe veicolato dai singoli contenuti ove separatamente consultati accedendo ai relativi siti sorgente. In particolare, come ricordato da Cass. n. 3952 del 2022, l’elenco dei risultati fornito dal motore di ricerca in corrispondenza del nome di una persona è idoneo a veicolare “una rappresentazione dell’identità che quella persona ha in internet”, offrendo una visione complessiva delle informazioni ad essa relative reperibili online e definendone un “profilo” più o meno dettagliato ma sicuramente “originale” quanto all’aggregazione delle informazioni stesse.

3.5. Orbene, nella ricerca di un rimedio idoneo a neutralizzare questi rischi, è stato osservato che ad offendere il protagonista della notizia non è la sua mera permanenza in rete, ma le modalità con le quali ciò avviene. Il diritto all’oblio, quindi, è posto in rilievo rispetto alla lesione risentita dal protagonista dell’informazione dall’accesso generalizzato ed indistinto consentito agli utenti del web ai contenuti della notizia che – presente nella pagina di un giornale in formato digitale ed inserita in un archivio giornalistico online – riemerge, in seguito alla digitazione sulla query del motore di ricerca del nominativo dell’interessato, per l’intervenuta sua indicizzazione, operazione con cui il gestore di un motore di ricerca include nel proprio data base i contenuti di un sito web che viene in tal modo acquisito e tradotto all’interno del primo.

3.5.1. Un siffatto esito interpretativo ben può essere condiviso, oltre che per l’autonoma dignità riconosciuta ad una memoria storica collettiva integrata dai fatti di cronaca di rilievo storico-sociale, anche quando declinata in formato digitale, pure in ragione di quanto, negli anni più recenti, si è venuto ad affermare dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea sui rapporti tra motori di ricerca, protagonisti del contesto digitale e della diffusione dell’informazione in siffatto ambito, loro operatività e diritto all’oblio, inteso, appunto, come imperitura esposizione delle informazioni relative al singolo agli utenti di Internet.

3.5.2. Tutto ciò ha portato a concludere che, in materia di diritto all’oblio, là dove il suo titolare lamenti la presenza sul web di una informazione che lo riguardi – appartenente al passato e che egli voglia tenere per sé a tutela della sua identità e riservatezza – e la sua riemersione senza limiti di tempo all’esito della consultazione di un motore di ricerca avviata tramite la digitazione sulla relativa query del proprio nome e cognome, la tutela del menzionato diritto va posta in bilanciamento con l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto, espressione del diritto di manifestazione del pensiero e quindi di cronaca e di conservazione della notizia per finalità storico-sociale e documentaristica, e può trovare soddisfazione, fermo il carattere lecito della prima pubblicazione, nella deindicizzazione dell’articolo sui motori di ricerca generali, o in quelli predisposti dall’editore.

3.5.3. In quest’ottica, dunque, si inquadra Cass. n. 15160 del 2021, secondo cui il diritto di ogni persona all’oblio, strettamente collegato ai diritti alla riservatezza e all’identità personale, deve essere bilanciato con il diritto della collettività all’informazione, sicché (anche prima dell’entrata in vigore dell’art. 17 del Regolamento UE 2016/679), qualora sia pubblicato sul web un articolo di interesse generale ma lesivo dei diritti di un soggetto che non rivesta la qualità di personaggio pubblico, noto a livello nazionale, può essere disposta la deindicizzazione dell’articolo dal motore ricerca, al fine di evitare che un accesso agevolato, e protratto nel tempo, ai dati personali di tale soggetto, tramite il semplice utilizzo di parole chiave, possa ledere il diritto di quest’ultimo a non vedersi reiteratamente attribuita una biografia telematica, diversa da quella reale e costituente oggetto di notizie ormai superate.

3.5.4. Altrettanto dicasi circa la già menzionata Cass. n. 3952 del 2022, nella cui motivazione si legge, tra l’altro (cfr. pag. 14 e ss.), che: i) “le Sezioni Unite di questa Corte hanno ricondotto la deindicizzazione al “diritto alla cancellazione dei dati” nel quadro di una classificazione che considera il medesimo come una delle tre possibili declinazioni del diritto all’oblio: le altre due sono individuate nel diritto a non vedere nuovamente pubblicate notizie relative a vicende in passato legittimamente diffuse, quando è trascorso un certo tempo tra la prima e la seconda pubblicazione e quello, connesso all’uso di internet ed alla reperibilità delle notizie nella rete, consistente nell’esigenza di collocare la pubblicazione, avvenuta legittimamente molti anni prima, nel contesto attuale (cfr., in motivazione, Cass., SU, n. 19681 del 2019). Sia la contestualizzazione dell’informazione che la deindicizzazione trovano ragione in un dato che innegabilmente connota l’esistenza umana nell’era digitale: un dato che si riassume, secondo una felice espressione, nella “stretta della persona in una eterna memoria collettiva, per una identità che si ripropone, nel tempo, sempre uguale a sé stessa” (cfr., in motivazione, Cass. n. 9147 del 2020)”; ii) “(…) nel mondo segnato dalla presenza di internet, in cui le informazioni sono affidate ad un supporto informatico, le notizie sono sempre reperibili a distanza di anni dal verificarsi degli accadimenti che ne hanno imposto o comunque suggerito la prima diffusione e che la deindicizzazione si è venuta affermando come rimedio atto ad evitare che il nome della persona sia associato dal motore di ricerca ai fatti di cui internet continua a conservare memoria. In tal senso, la deindicizzazione asseconda il diritto della persona a non essere trovata facilmente sulla rete (si parla in proposito di right not to be found easily): lo strumento vale, cioè, ad escludere azioni di ricerca che, partendo dal nome della persona, portino a far conoscere ambiti della vita passata di questa che siano correlati a vicende che in sé – si badi – presentino ancora un interesse (e che non possono perciò essere totalmente oscurate), evitando che l’utente di internet, il quale ignori il coinvolgimento della persona nelle vicende in questione, si imbatta nelle relative notizie per ragioni casuali o in quanto animato dalla curiosità di conoscere aspetti della trascorsa vita altrui di cui la rete ha ancora memoria (una memoria facilmente accessibile, nei suoi contenuti, proprio attraverso l’attività dei motori di ricerca)”; iii) “Come ricordato dalla Corte di Lussemburgo, l’inclusione nell’elenco di risultati – che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona – di una pagina web e delle informazioni in essa contenute relative a questa persona, poiché facilita notevolmente l’accessibilità di tali informazioni a qualsiasi utente di internet che effettui una ricerca sulla persona di cui trattasi e può svolgere un ruolo decisivo per la diffusione di dette informazioni, è idonea a costituire un’ingerenza più rilevante nel diritto fondamentale al rispetto della vita privata della persona interessata che non la pubblicazione da parte dell’editore della suddetta pagina web (Corte giust. (Omissis) e (Omissis), cit., 87)”; iii) “La deindicizzazione ha, così, riguardo all’identità digitale del soggetto: e ciò in quanto l’elenco dei risultati che compare in corrispondenza del nome della persona fornisce una rappresentazione dell’identità che quella persona ha in internet. E’ stato in proposito sottolineato, sempre dalla Corte di giustizia, che “l’organizzazione e l’aggregazione delle informazioni pubblicate su internet, realizzate dai motori di ricerca allo scopo di facilitare ai loro utenti l’accesso a dette informazioni, possono avere come effetto che tali utenti, quando la loro ricerca viene effettuata a partire dal nome di una persona fisica, ottengono attraverso l’elenco di risultati una visione complessiva strutturata delle informazioni relative a questa persona reperibili su internet, che consente loro di stabilire un profilo più o meno dettagliato di quest’ultima” (Corte giust. UE, (Omissis) e (Omissis), cit., 37). L’attività del motore di ricerca si mostra, in altri termini, incidente sui diritti fondamentali alla vita privata e alla protezione dei dati personali (cfr., in particolare, Corte giust. UE, (Omissis) e (Omissis), cit., 38): e tuttavia, poiché la soppressione di links dall’elenco di risultati potrebbe avere, a seconda dell’informazione in questione, ripercussioni sul legittimo interesse degli utenti di internet potenzialmente interessati ad avere accesso a quest’ultima, occorre ricercare un giusto equilibrio tra tale interesse e i diritti fondamentali della persona di cui trattasi, derivanti dagli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Corte giust. UE, (Omissis) e (Omissis), cit., 81; il tema è affrontato anche da Corte giust. UE, Grande sezione, 24 settembre 2019, G.C. e altri, 66 e 75, ove è precisato che il gestore del motore di ricerca deve comunque verificare – alla luce dei motivi di interesse pubblico rilevante di cui all’art. 8.4, della dir. 95/46/CE o all’art. 9.2, lett. g), del reg. (UE) 2016/679, e nel rispetto delle condizioni previste da tali disposizioni – se l’inserimento del link, verso la pagina web in questione, nell’elenco visualizzato in esito a una ricerca effettuata a partire dal nome della persona interessata, sia necessario per l’esercizio del diritto alla libertà di informazione degli utenti di internet potenzialmente interessati ad avere accesso a tale pagina web attraverso siffatta ricerca, libertà protetta dall’art. 11 della Carta suddetta)”; iv) “Occorre però considerare che questa esigenza di bilanciamento tra l’interesse del singolo ad essere dimenticato e l’interesse della collettività ad essere informata – cui si correla l’interesse dei media ad informare – permea l’intera area del diritto all’oblio, di cui quello alla deindicizzazione può considerarsi espressione; va rammentato, in proposito, quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte nel campo della rievocazione storica, a mezzo della stampa, di fatti e vicende concernenti eventi del passato: rievocazione rispetto alla quale è stato affermato l’obbligo, da parte del giudice del merito, di valutare l’interesse pubblico, concreto ed attuale, alla menzione degli elementi identificativi delle persone che di quei fatti e di quelle vicende furono protagonisti (in tal senso Cass. Sez. U. 22 luglio 2019, n. 19681, cit.). Nello stesso senso, la giurisprudenza della Corte EDU è ferma, da tempo, nel postulare un giusto equilibrio tra il diritto al rispetto della vita privata di cui all’art. 8 CEDU e il diritto alla libertà d’espressione di cui al successivo art. 10, che include “la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee” e ha individuato, a tal fine, precisi criteri per la ponderazione dei diritti concorrenti: il contributo della notizia a un dibattito di interesse generale, il grado di notorietà del soggetto, l’oggetto della notizia; il comportamento precedente dell’interessato, le modalità con cui si ottiene l’informazione, la sua veridicità e il contenuto, la forma e le conseguenze della pubblicazione (si vedano, ad esempio: Corte EDU 19 ottobre 2017, Fuchsmann c. Germania, 32; Corte EDU 10 novembre 2015, Couderc et Hachette Filipacchi c. Francia, 93: sulla necessità del giusto equilibrio tra il diritto al rispetto della vita privata, da un lato, e la libertà di espressione e la libertà di informazione del pubblico, dall’altro, cfr. pure Corte EDU 28 giugno 2018, M.L. e W.W. c. Germania, 89)”.

3.5.5. Come è evidente, allora, la deindicizzazione dei contenuti presenti sul web rappresenta, il più delle volte, l’effettivo punto di equilibrio tra gli interessi in gioco. Essa integra, infatti, la soluzione che, a fronte della prospettata volontà, da parte dell’interessato, di essere dimenticato per il proprio coinvolgimento in una vicenda del passato, realizza il richiamato bilanciamento escludendo le estreme soluzioni che sono astrattamente configurabili: quella di lasciare tutto com’e’ e quella di cancellare completamente la notizia dal web, rimuovendola addirittura dal sito in cui è localizzata.

3.5.6. Va rimarcato, del resto, che attraverso la deindicizzazione l’informazione non viene eliminata dalla rete, ma può essere attinta raggiungendo il sito che la ospita (il cosiddetto sito sorgente) o attraverso altre metodologie di ricerca, come l’uso di parole-chiave diverse: ciò che viene in questione e’, infatti, per usare le parole della Corte di giustizia, il diritto dell’interessato “a che l’informazione in questione riguardante la sua persona non venga più, allo stato attuale, collegata al suo nome da un elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal suo nome” (così Corte giust. UE, (Omissis) e (Omissis), cit., 99). In altri termini, con la deindicizzazione viene in discorso la durata e la facilità di accesso ai dati, non la loro semplice conservazione su internet (Corte EDU, 25 novembre 2021, Biancardi c. Italia, 50).

3.5.7. La neutralità della deindicizzazione operata a partire dal nome dell’interessato rispetto ad altri criteri di ricerca è stata, del resto, sottolineata dalle Linee-guida sull’attuazione della sentenza della Corte di giustizia nel caso C-131/12, elaborate dal Gruppo di lavoro “Art. 29”: in dette Linee-guida viene ricordato come la citata pronuncia non ipotizzi la necessità di una cancellazione completa delle pagine dagli indici del motore di ricerca e che dette pagine dovrebbero restare accessibili attraverso ogni altra chiave di ricerca. Tale avvertenza non è difforme da quella contenuta nelle Linee-guida 5/2019 che dettano “criteri per l’esercizio del diritto all’oblio nel caso dei motori di ricerca, ai sensi del RGPD” (Reg. 2016/679), adottate il 7 luglio 2020: è ivi evidenziato che la deindicizzazione di un particolare contenuto determina la cancellazione di esso dall’elenco dei risultati di ricerca relativi all’interessato, quando la ricerca e’, in via generale, effettuata a partire dal suo nome; in conseguenza, il contenuto deve restare disponibile se vengano utilizzati altri criteri di ricerca e le richieste di deindicizzazione non comportano la cancellazione completa dei dati personali, i quali non devono essere cancellati né dal sito web di origine né dall’indice e dalla cache del fornitore del motore di ricerca (punti 8 e 9).

3.5.8. In tal senso, questa Corte ha avuto modo di ritenere che il bilanciamento tra il diritto della collettività ad essere informata ed a conservare memoria del fatto storico, con quello del titolare dei dati personali a non subire una indebita compressione della propria immagine sociale, possa essere soddisfatto assicurando la permanenza dell’articolo di stampa relativo a fatti risalenti nel tempo oggetto di cronaca giudiziaria nell’archivio informatico del quotidiano, a condizione, però, che l’articolo sia deindicizzato dai siti generalisti (cfr. Cass. n. 7559 del 2020). Similmente, si è reputato che la tutela del diritto consistente nel non rimanere esposti senza limiti di tempo a una rappresentazione non più attuale della propria persona con pregiudizio alla reputazione ed alla riservatezza, a causa della ripubblicazione sul web, a distanza di un importante intervallo temporale, di una notizia relativa a fatti del passato, possa trovare soddisfazione – nel quadro dell’indicato bilanciamento del diritto stesso con l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto, espressione del diritto di manifestazione del pensiero e quindi di cronaca e di conservazione della notizia per finalità storico-sociale e documentaristica – anche nella sola deindicizzazione dell’articolo dai motori di ricerca (cfr. Cass. n. 9147 del 2020).

3.5.9. In definitiva, quindi, il Collegio ritiene, in armonia con gli orientamenti giurisprudenziali finora illustrati, che la tutela dell’oblio dell’interessato in relazione ad articoli che lo riguardino e pubblicati, a suo tempo, legittimamente, nell’esercizio del diritto di cronaca e/o di critica e /o di satira, da una testata online, deve essere bilanciata con il diritto della collettività all’informazione e, ove non recessiva rispetto a quest’ultimo, è adeguatamente assicurata, innanzitutto, dalla deindicizzazione degli indirizzi URL relativi a tali articoli, quale rimedio atto ad evitare che il nome della persona sia associato dal motore di ricerca ai fatti di cui internet continua a conservare memoria, così assecondando il diritto della persona medesima a non essere trovata facilmente sulla rete (right not to be found easily).

3.5.10. E’ doveroso puntualizzare, peraltro, che, come già sancito da Cass. n. 2893 del 2023, all’interessato può essere riconosciuto, a certe condizioni, anche il diritto a rimedi più incisivi della deindicizzazione suddetta, ma, sul punto, non è necessario indugiare oltre attesa la richiesta originaria del P. volta ad ottenere, appunto, la sola deindicizzazione suddetta, oltre al risarcimento del lamentato danno.

4. Venendo, allora, allo scrutinio dei formulati motivi di ricorso, che può essere unitario in ragione della evidente connessione che li caratterizza, gli stessi si rivelano complessivamente inammissibili alla stregua dei principi suddetti e delle dirimenti considerazioni di cui appresso.

4.1. Giova ricordare che, come si è riferito al p. 1.2.1. dei “Fatti causa”, il tribunale capitolino, richiamati alcuni passaggi motivazionali di Cass. n. 20861 del 2021 e di Cass. n. 9147 del 2020, ha accertato (cfr. pag. 3 della sentenza oggi impugnata) che: i) “Nel caso di specie, le notizie per cui è causa risalgono al (Omissis) e il ricorso manca di censure in merito alla loro falsità o racconto inveritiero”. A supporto di tale conclusione, ha richiamato la pagina 4 del ricorso del P., recante l’affermazione “in questa sede (…) non si intende entrare nel merito della veridicità dei fatti narrati”; ii) “Non è contestato, inoltre, che P.A. abbia ricoperto e ricopra attualmente ruoli di dirigente d’azienda nel settore delle telecomunicazioni, come specificamente dedotto dalla resistente (“sia presso primarie aziende di rilievo nazionale come (Omissis) e (Omissis) sia come attuale Dirigente della (Omissis)” – vedi pag. 5 comparsa (Omissis)), né che le informazioni di cui ai link oggetto di causa si riferissero agli “studi universitari e (alla) carriera professionale svolta dal Dott. P.” (vedi pag. 5 comparsa (Omissis))”.

4.1.1. Successivamente, ha ritenuto (cfr. pag. 3-4 della medesima sentenza) che “la natura delle informazioni per cui è causa e il fatto che il ricorrente sia un noto dirigente nel settore della telecomunicazioni e che all’epoca del presente ricorso fosse un dirigente (Omissis), evidenzia la sussistenza dell’interesse della collettività alla conoscenza del suo percorso di studi e professionale, che non può ritenersi limitato ad un contesto specifico, ovvero la risalente appartenenza “allo staff dirigenziale del Dott. G.”, sussistente all’epoca delle pubblicazioni per cui è causa. Notorio, inoltre, è il fatto che attualmente P.A. ricopra un ruolo dirigenziale nel (Omissis), del quale amministratore delegato è G.L.. Per tale ragione, ingiustificata è la richiesta di deindicizzazione, tanto che nel caso di specie neppure rileverebbe il fattore tempo, persistendo l’attuale interesse pubblico alla conoscenza di queste informazioni, relativamente alle quali neppure è stata allegata la necessità di aggiornamento o la falsità. Il diritto all’oblio, infatti, non è soltanto una questione di tempo, ma sostanzialmente una questione concernente la proporzionalità con il contrapposto interesse pubblico alla conoscenza del fatto, espressione del diritto di manifestazione del pensiero e quindi di cronaca e di conservazione della notizia per finalità storico-sociale e documentaristica che non affievolisce, come nel caso di specie, nel momento in cui persista un interesse pubblico specifico ed attuale, come recentemente ribadito dalla Corte di Cassazione (Cass. 15160/21 (…))”.

4.2. E’ palese, dunque, che, così argomentando, il giudice di merito ha proceduto al bilanciamento tra la tutela dell’oblio invocata dal P. in relazione agli articoli predetti ed il diritto della collettività all’informazione, ritenendo la prima recessiva rispetto a quest’ultimo in forza di una motivazione che, pur nella sua sinteticità, si rivela essere sicuramente in linea con il minimo costituzionale richiesto da Cass., SU, n. 8053 del 2014.

4.2.1. Il tribunale, peraltro, – diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente nella prima delle sue doglianze – ha inteso riferirsi proprio alla specifica richiesta di deindicizzazione di quegli articoli, e non, invece, a quella di cancellazione dei loro contenuti, e la sua motivazione tiene chiaramente conto pure della notorietà dell’odierno ricorrente, considerata tale, in rapporto anche all’attività da lui attualmente svolta, da giustificare la permanenza, malgrado il tempo trascorso, dell’interesse della collettività a conoscere i fatti di cui ai menzionati articoli (riguardanti la carriera professionale svolta dal Dott. P. sia presso primarie aziende di rilievo sia come Dirigente (Omissis)) relativamente ai quali neppure era stata allegata la necessità di aggiornamento o la falsità.

Ciò in considerazione dell’indubbio ruolo svolto dal P. nella vita pubblica e nel sistema industriale e delle telecomunicazioni di questo Paese.

E il fattore tempo – oggetto di doglianza nel terzo motivo -e’ stato dal tribunale correttamente contestualizzato all’interno del giudizio di necessario bilanciamento di interessi tra il diritto all’oblio del ricorrente e l’interesse della collettività a conoscere le vicende della vita professionale di uno dei top manager pubblici italiani.

4.2.2. In altri termini, reputa il Collegio che la realtà concreta – così come ricostruita dall’esame compiuto dal tribunale, in base alla sua prudente valutazione circa l’eseguito bilanciamento tra le contrapposte pretese delle parti – sia stata correttamente sussunta nei principi tutti in precedenza esposti, di cui, dunque, quel giudice ha fatto esatta applicazione, mentre, invece, ciò di cui si duole il P. e’, in realtà, proprio l’esito del predetto bilanciamento effettuato da quest’ultimo>>.

Registrazione di marchio tridimensionale: un caso da manuale di descrittività

Victoria Thüsing su IPKat ci notizia di 5th board of appel EUIPO 04 gennaio 2024, proc. R 1934/2023-5, Winch Industry GmbH, su marchio tridimendionale relativo a tende da installare sul tetto di auitovetture e costituito dalla rappresetnazione delle tende stesso:

marchio 3D chiesto in registrazione

La differenza rispetto alle tende consuiete era indicata analitricamente dall’istanze.

Giustamente il primo grado e l’appello de quo rigettano la dom,anda. Tale possibile differenza è insigmnificante (se esistente) per cui l’effetto monopoistico prodotto dalla descrittività non verrebbe evitato.

Qui la pag. web del fascicolo mentre  qui il testo diretto alla decisione.

Decorrenza della revisione dell’assegno divorzile: mai da prima della domanda di revisione

Cass. Civ., Sez. I, ord. 18 gennaio 2024 n. 1890 – Pres. Genovese, Cons. Rel. Caiazzo

<<In materia di revisione dell’assegno di mantenimento, il diritto a percepirlo di un coniuge ed il corrispondente obbligo a versarlo dell’altro, nella misura e nei modi stabiliti dalla sentenza di separazione o dal verbale di omologazione, conservano la loro efficacia, sino a quando non intervenga la modifica di tali provvedimenti, rimanendo del tutto ininfluente il momento in cui di fatto sono maturati i presupposti per la modificazione o la soppressione dell’assegno, con la conseguenza che, in mancanza di specifiche disposizioni, in base ai principi generali relativi all’autorità, intangibilità e stabilità, per quanto temporalmente limitata (“rebus sic stantibus”), del precedente giudicato impositivo del contributo di mantenimento, la decisione giurisdizionale di revisione non può avere decorrenza anticipata al momento dell’accadimento innovativo, rispetto alla data della domanda di modificazione.
In sede di revisione dell’assegno di divorzio (o delle altre condizioni economiche) il giudice può stabilire che il nuovo importo dello stesso decorra dalla data della domanda di revisione, anzichè da quella della decisione su di essa, ma resta sempre salva la facoltà del giudice, in relazione alle circostanze emergenti dall’istruttoria, di statuirne l’efficacia, in tutto o in parte, da momenti posteriori e anche dalla data della decisione>>.

(notizia e testo da Ondif; massima ivi di Valeria Cianciolo)

Si v. in termini Cass. sez. I del 26.04.2023 n. 10.974, rel. Iofrida, circa l’assegno per i figli.

Debiti tributari del de cuius e responsabilità dell’erede

Cass.  Sez. V, Sent. 16 gennaio 2024  n. 1.640, Rel. Leuzzi:

<Con riferimento alla posizione dell’erede né l’art. 36-bis D.P.R. n. 600 del 1973, né l’art. 6, co. 5, L. n. 212 del 2000, prevedono deroghe in ordine all’esposto quadro di regole, né contemplano avvertimenti specifici. Viene, piuttosto, in apice il principio generale in ragione del quale l’erede è chiamato a rispondere di tutti i debiti facenti capo al de cuius non soltanto con i beni oggetti del patrimonio dell’estinto, ma, altresì, nel caso in cui questi ultimi non siano sufficienti al loro assolvimento, con il proprio patrimonio personale. In forza degli artt. 752 e ss c.c. e per espressa previsione dell’art. 65, co. 1, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, l’erede risponde in solido col dante delle obbligazioni tributarie il cui presupposto si è verificato anteriormente alla morte di quest’ultimo>>.

(notizia e link al testo da Ondif)

Integralità del risarcimento del danno patrimoniale alla capacità lavorativa (a seguito di sinistro stradale)

Cass. sez. III  del 16/01/2024   n. 1.607, rel. Vincenti:

<<5.1. Giova premettere che il principio (essenziale nel sistema della responsabilità civile) di integralità del risarcimento, enucleabile dall’art. 1223 c.c. e applicabile in ambito extracontrattuale mediante il rinvio contenuto nell’art. 2056 c.c., impone di ristorare la parte danneggiata da tutte le conseguenze pregiudizievoli ad essa derivanti dall’illecito, indipendentemente dal fatto che tali conseguenze si siano verificate immediatamente ovvero spiegheranno la loro forza lesiva, con certezza (processuale), in futuro.

Nell’ambito del risarcimento del danno da perdita di capacita lavorativa subita dal danneggiato-lavoratore in conseguenza degli effetti negativi prodotti dall’illecito, questa Corte ha affermato che, la dove il danneggiato dimostri di avere perduto un preesistente rapporto di lavoro a tempo indeterminato di cui era titolare, a causa delle lesioni conseguenti ad un illecito, il danno patrimoniale da lucro cessante, inteso come perdita dei redditi futuri, va liquidato tenendo conto di tutte le retribuzioni (nonché di tutti i relativi accessori e probabili incrementi, anche pensionistici) che egli avrebbe potuto ragionevolmente conseguire in base a quello specifico rapporto di lavoro, in misura integrale e non in base alla sola percentuale di perdita della capacita lavorativa specifica accertata come conseguente alle lesioni permanenti riportate, salvo che il responsabile alleghi e dimostri che egli abbia di fatto reperito una nuova occupazione retribuita, ovvero che avrebbe potuto farlo e non lo abbia fatto per sua colpa, nel qual caso il danno potrà essere liquidato esclusivamente nella differenza tra le retribuzioni perdute e quelle di fatto conseguite o conseguibili in virtù della nuova occupazione (Cass. n. 28071/2020; Cass. n. 14241/2023).

5.2. Le situazioni prese in considerazione dal principio di diritto sopra richiamato sono due e ineriscono, in particolare, sia al caso in cui a causa delle conseguenze dell’illecito il danneggiato abbia perduto l’attività lavorativa esercitata, sia al diverso caso in cui il danneggiato, impossibilitato a svolgere la precedente attività lavorativa, abbia comunque trovato impiego aliunde.

In entrambi i casi, tuttavia, il principio di integralità del risarcimento e affermato dalla Corte con la medesima forza.

Nel primo caso, il danneggiato ha diritto alla integralità della retribuzione che avrebbe potuto ragionevolmente percepire se avesse proseguito nella sua attività lavorativa.

Nel secondo, il danneggiato ha diritto alla (eventuale) differenza tra le retribuzioni spettanti alla luce della attività lavorativa perduta (a causa dell’illecito) e quella corrisposta in ragione della nuova attività lavorativa; reimpiego che il danneggiato e stato costretto a cercare per effetto della perdita della precedente attività.

5.3. Tali considerazioni non possono che essere estese, per identità di ratio, anche al caso oggetto del presente giudizio, ove l’attore ha subito una riduzione del trattamento retributivo in conseguenza del demansionamento disposto da Trenitalia S.p.A. per effetto della accertata incapacità a svolgere le funzioni di macchinista a causa delle lesioni subite dall’illecito.

Gli effetti del demansionamento, cioè l’adeguamento in peius del trattamento retributivo rientrano tra le conseguenze “dirette” dell’illecito, benché future (ma certe), e che, come tali, devono essere valutate ai fini della quantificazione del risarcimento del danno ai sensi degli artt. 1223 e 2056, c.c.

In assenza delle conseguenze lesive riportate a causa dell’incidente stradale cagionato dall’illecita condotta altrui, infatti, il Ci.Ra. avrebbe con certezza proseguito nella sua attività lavorativa di macchinista e continuato a percepire la maggiore retribuzione corrispondente alla qualifica professionale per la quale era stato assunto.

Se, dunque, il risarcimento in sede civile svolge una funzione tendenzialmente [tendenzialmente ?] compensativa – riportando il patrimonio del danneggiato nella medesima curva di indifferenza in cui si sarebbe trovato in assenza delle conseguenze derivanti dall’illecito – non si può non riconoscere, nel caso di specie, il diritto del Ci.Ra. alla differenza sussistente tra la retribuzione percepita quando ricopriva l’incarico di macchinista e la retribuzione percipienda in qualità di funzionario amministrativo.

5.4. Ciò posto, affinché il principio di integralità del risarcimento possa dirsi effettivo, non si può non precisare come l’ampiezza della retribuzione media (dell’attività lavorativa precedentemente svolta) e che costituisce la base di calcolo per la determinazione del danno futuro da perdita – nel nostro caso, “riduzione” – della capacita lavorativa, deve essere tale da comprendere non solo la componente fissa della retribuzione, ma anche tutti i relativi accessori e i probabili aumenti retributivi (cfr. la citata Cass. n. 28071/2020).

La determinazione del danno futuro, infatti, essendo un danno, si accertato in giudizio, ma che spiegherà i propri effetti lesivi in un secondo momento, non può che essere effettuata in via prognostica.

Attraverso un giudizio ex ante, dunque, il giudice del merito deve riportarsi mentalmente nelle circostanze concrete in cui versava il Ci.Ra. prima dell’illecito per poter arrivare alla conclusione che, in assenza di esso, avrebbe continuato a percepire la retribuzione corrispondente non solo agli “elementi retributivi fissi”, ma anche alle “componenti accessorie” (cosi denominate dalla sentenza impugnata a p. 10)  [parrebbe ovvio …] .

5.5. Ha, dunque, errato la Corte territoriale la dove ha affermato che la parte di retribuzione avente ad oggetto le componenti accessorie non avrebbe potuto costituire oggetto di liquidazione del danno futuro; e ciò, “proprio perché sono dirette a compensare tale maggiore penosità del lavoro esse presuppongono la prestazione effettiva del lavoro straordinario notturno, festivo o di altro genere, comunque correlato a speciali attività connesse alla funzione rivestita” (p. 12 sentenza di appello).

La Corte territoriale ha, infatti, genericamente ricondotto l’intera categoria delle “componenti accessorie” della retribuzione al diverso ambito delle prestazioni che sono solo occasionalmente ed eccezionalmente prestate dal lavoratore in occasione di turni di lavoro straordinari o effettuati durante i giorni di riposo; soltanto in quest’ultimo caso, la dove vengano in rilievo prestazioni il cui espletamento e condizionato dal discrezionale potere direttivo del datore di lavoro, la retribuzione non può costituire oggetto, da parte del lavoratore, di alcuna pretesa essendo la stessa condizionata all’effettivo svolgimento di quella prestazione (Cass. n. 20801/2006).

Tuttavia, il giudice di appello avrebbe dovuto tenere conto della specifica “natura” delle mansioni proprie della figura professionale del macchinista e in forza di questa premessa individuare tutte le “componenti accessorie del salario” che – come anche qualificate dalla CTU espletata nel corso di giudizio (cfr. p. 10 della sentenza di appello) – erano “competenze strettamente collegate alla mansione svolta dal ricorrente (…) erogate per i mesi in cui vi e stata prestazione lavorativa (…)”.

In altri termini, la Corte territoriale, al fine di pervenire al risarcimento integrale del danno patito dal Ci.Ra., avrebbe dovuto tenere conto delle specifiche mansioni di inquadramento professionale del macchinista e scindere le componenti accessorie della retribuzione (fissa) correlate a prestazioni soltanto occasionali e derogatorie rispetto all’ordinario svolgimento di quelle mansioni dalle componenti accessorie della retribuzione (fissa) che, invece, essendo intimamente connaturate a quella particolare prestazione lavorativa, non sono da essa scorporabili>>.

No copyright su contratti non originali perchè scopiazzati da altri

Sull’oggetto v. il  decisum dell’appello USA del 2° circuito n° 23-1527 & 23-2566 de. 12.01.2024, UIRC c- . William Blair .

Ce ne dà notizia e link al testo Eric Goldman.

Non ci son novità. Il contratto in sè è registrabile presso l’ufficio e quindi può essere tutelato col copyright.

Nel caso però manca creatività: in parte perchè copiato, in altra parte perchè banale (“After excising the copied language, what remains is a mixture of fragmented phrases, facts, and language dictated solely by functional considerations. Fragmented phrases and facts are not copyrightable. Harper & Row, Publishers, Inc. v. Nation Enters., 471 U.S. 539, 547 (1985) (facts); Alberto-Culver Co. v. Andrea Dumon, Inc., 466 F.2d 705, 711 (7th Cir. 1972) (short phrases and expressions). Language dictated solely by function is not copyrightable either. Publ’ns Int’l, Ltd. v. Meredith Corp., 88 F.3d 473, 480, 481 (7th Cir. 1996)“).

Sul testamento del cieco

Cass. sez. II del 15/01/2024  n. 1.431, rel. Picaro:

<<La sentenza impugnata alle pagine 13 e 14, dopo avere escluso che il testamento olografo sia stato vergato con la mano della testatrice condotta da terzi, come era stato ipotizzato da De.At., ha invece ritenuto plausibile, sulla base del fatto che all’atto della redazione Ce.Ma. era ormai non vedente e che il testamento olografo presenti due “centrature”, una della data e delle disposizioni di ultima volontà, aventi un margine sinistro abbastanza uniforme, ed una della firma, e che invece il margine destro non sia uniforme, che la testatrice, come ipotizzato dal CTU, sia stata aiutata al momento di vergare il testo del testamento olografo nel posizionare la mano all’inizio delle righe. La sentenza ha poi evidenziato che tale mero aiuto di posizionamento non ha inciso sull’autografia, e spiega come mai siano state riscontrate piccole incongruenze nel testo dell’olografo rispetto alle scritture di comparazione (puntini, trattini, l’uso di lettere minuscole per nomi propri tranne che nella firma, i trattini delle t mancanti), che non vi sarebbero state se la mano della testatrice fosse stata condotta nello scrivere da parte di un terzo. La sentenza ha poi evidenziato che ogni altra questione relativa alla consapevolezza della testatrice circa l’atto che stava compiendo ed il suo contenuto non attenevano alla falsità della scrittura, ma semmai alla capacità di intendere e di volere di Ce.Ma..

Il semplice posizionamento della mano del testatore, che aiuti il non vedente a dare una forma ordinata alle sue disposizioni di ultima volontà e non comporti coartazione del gesto di scrittura del testatore stesso attraverso il sostegno della mano, o addirittura attraverso il suo direzionamento in fase di scrittura, lasciando quindi intatta la gestualità grafica del testatore, non è di per sé prova del difetto di autografia della redazione e sottoscrizione del testamento olografo, e quindi della sua nullità ex art. 606 cod. civ., a meno che non si dimostri che l’assistenza nella redazione del documento non faccia parte di un più ampio disegno di coartazione della capacità di intendere e di volere, che può sfociare eventualmente nell’annullamento, per cui il motivo è infondato.

In proposito si deve ricordare che mentre il testamento pubblico del non vedente, non contemplato dalla L. 16.2.1913 n. 89, che si riferisce invece alle particolari formalità richieste per il testamento pubblico del sordo, del muto e del sordomuto (vedi in tal senso Cass. 4.12.2001 n. 15326; Cass. 7.4.2000 n.4344), in base all’art. 603 cod. civ. richiede normalmente la presenza solo di due testimoni, ma secondo l’ultimo comma addirittura di quattro testimoni solo quando il non vedente sia anche muto, sordo, o sordomuto, il testamento olografo del non vedente è regolato dalla L. 3.2.1975 n. 18, che stabilisce:

a) all’art. 1, che la persona affetta da cecità congenita e contratta successivamente per qualsiasi causa, e a tutti gli effetti giuridici pienamente capace di agire purché non sia inabilitata, o interdetta;

b) all’art. 2, che la firma apposta su qualsiasi atto, senza alcuna assistenza, dalla persona affetta da cecità e vincolante ai fini delle obbligazioni e delle responsabilità connesse e che è vietato per il non vedente il testamento segreto;

c) all’art. 3, che per espressa richiesta della persona non vedente e ammessa ad assistere la medesima nel compimento degli atti, o a partecipare alla loro redazione, nei limiti indicati dall’interessato, altra persona cui egli accordi la necessaria fiducia e che la persona che presta assistenza nel compimento dell’atto, o partecipa alla redazione dell’atto, deve apporre su di esso la propria firma premettendo ad essa le parole “il testimone” o “il partecipante alla redazione dell’atto”;

d) all’art. 4, che se il non vedente non può sottoscrivere l’atto, si richiede la sottoscrizione di due persone designate ai sensi dell’art. 3.

Nel caso di specie non è stata allegata ed invocata la violazione delle formalità richieste per il testamento olografo del non vedente dalla L. 18/1975, ma dalla stessa si desume che il non vedente ha la piena capacità di agire purché non sia stato interdetto, o inabilitato, e che particolari cautele sono previste per le ipotesi in cui il non vedente non sia in grado di sottoscrivere l’atto, ipotesi che non ricorre nel caso in esame, in cui la CTU grafologica espletata ha pienamente confermato l’autenticità sia del testo, che della sottoscrizione di Ce.Ma., che del resto ha progressivamente perso la vista solo negli ultimi anni della sua vita, conservando, malgrado l’età avanzata, la capacità di scrittura comprensibile anche se qualitativamente scaduta per il tremore e la perdita della vista>>.