Determinabilità della pretesa inviata perchè valga come interruzione della prescrizione

Cass. sez. IV, lavoro, 04 Gennaio 2024, n. 279, es. Patti.:

<<Per avere efficacia interruttiva della prescrizione, ai sensi dell’art. 2943 c.c., un atto deve contenere, oltre alla chiara indicazione del soggetto obbligato, l’esplicitazione della pretesa e l’intimazione o la richiesta scritta di adempimento, idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto, nei confronti del soggetto indicato, con l’effetto sostanziale di costituirlo in mora; pertanto, non determina l’interruzione della prescrizione la riserva, contenuta in un atto di citazione, di agire per il risarcimento di danni diversi e ulteriori rispetto a quelli effettivamente lamentati, trattandosi di espressione che, per genericità ed ipoteticità, non può in alcun modo equipararsi ad una intimazione o ad una richiesta di pagamento>>. (massima ufficiale)

Massima condivisibile, pur se ovvia.

<<6.1. d’altro canto, l’effetto interruttivo della prescrizione
esige, per prodursi, che il debitore abbia conoscenza (legale,
non necessariamente effettiva) dell’atto giudiziale o
stragiudiziale del creditore. E pertanto, in ipotesi di domanda
proposta nelle forme del processo del lavoro, esso non si
produce con il deposito del ricorso presso la cancelleria del
giudice adito, ma con la sua notificazione al convenuto>>.

La riserva era contenuta infatti nel ricorso lavoro. Condivisibile Pure questo giudizio, pur se anche esso

ovvio

Interpretazione testamentaria e distinzione tra istituzione di erede (con divisione del testatore) e assegnazione di legato (in sostituzione di legittima)

Cass . sez. II, 11/01/2024  n. 1.149, rel. Pirari:

<<3.2 La censura, pur complicata dalla complessità della sua stesura e dal non necessario frazionamento delle singole argomentazioni, è fondata.

Essa impinge la sentenza impugnata in merito all’interpretazione data alla scheda testamentaria di Gi.Fr. – che, come dalla stessa riportato, aveva lasciato a ciascuno dei quattro figli la nuda proprietà di un cespite specificamente individuato e alla moglie il diritto di usufrutto su ciascuno di essi e la proprietà dei restanti suoi beni -, allorché ha qualificato i lasciti nei confronti dei figli in termini di legato in sostituzione di legittima ex art. 551 cod. civ., anziché di istituzione di erede, arguendolo dall’inciso, pure contenuto nel testamento, secondo cui, in caso di premorienza della moglie, i medesimi beni sarebbero stati devoluti in parti uguali ai figli, e fatto derivare da ciò l’infondatezza dell’azione di riduzione esercitata dalle ricorrenti, non avendo esse rinunciato ai legati ed essendo inammissibile, una volta confluiti i beni nel loro patrimonio, la resipiscenza tardiva sul punto, esercitata, in particolare, attraverso la rinuncia operata solo con la memoria ex art. 183 cod. proc. civ., depositata il 26/4/2013, oltretutto asseritamente prescritta in quanto intervenuta dopo dieci anni dall’apertura della successione del 12 ottobre 2002.

Avverso tali considerazioni, le ricorrenti sono insorte, lamentando, innanzitutto, la violazione delle norme in tema di interpretazione del contratto, quindi insistendo per la qualificazione del lascito in termini di istituzione di erede, con volontà divisoria, come arguibile anche da un atto successivo al testamento che invitava il fratello alla collazione, o, al più, di legato in conto di legittima, con conseguente ammissibilità dell’azione di riduzione senza previa rinuncia al legato, e, a cascata, l’erroneità della statuizione di tardività della rinuncia, anche in ragione dell’affermata e non comprovata, acquisizione del possesso dei beni da parte loro, ancorché contestata e contraddetta dai certificati di residenza, e della prescrizione, siccome decorrente, a loro dire, dalla conoscenza della scheda testamentaria e non dall’apertura della successione.

Orbene, andando con ordine, occorre, in primo luogo, ricordare come, secondo l’insegnamento di questa Corte, nell’interpretazione del testamento il giudice debba accertare, secondo il principio generale di ermeneutica enunciato dall’art. 1362 cod. civ., applicabile, con gli opportuni adattamenti, anche in materia testamentaria, quale sia stata l’effettiva volontà del testatore comunque espressa, badando al significato pratico e concreto delle espressioni usate, al quale deve dare prevalenza rispetto a quello meramente letterale, tenendo presente, nei casi dubbi, il complesso delle disposizioni e quegli elementi estrinseci che siano stati idonei ad influire sulla determinazione della volontà del testatore e a rivelare le ragioni, il contenuto delle disposizioni e le finalità con esse perseguite (Cass., Sez. 2, 26/2/1970, n. 469) e, dunque, considerando congiuntamente, e in modo coordinato, l’elemento letterale e quello logico dell’atto unilaterale mortis causa, e salvaguardando il rispetto del principio di conservazione del testamento (Cass., Sez. 2, 14/10/2013, n. 23278, Rv. 628013; Cass., Sez. 2, 14/01/2010, n. 468, Rv. 610814; Cass., Sez. 2, 21/02/2007, n. 4022, Rv. 595401).

Andando più nello specifico, è proprio attraverso l’utilizzo delle comuni regole ermeneutiche che va individuata la distinzione tra erede e legatario ai sensi dell’art. 588 cod. civ. e che può ravvisarsi l’istituzione di erede ex re certa allorché la volontà del testatore sia stata quella di attribuire uno o più beni determinati come quota del suo patrimonio e non già come lascito autonomo senza conferimento della qualità di erede, ossia il legato (Cass., Sez. 2, 27/10/1980, n. 5773), tenendo conto che l’assegnazione di beni determinati dà luogo ad una successione a titolo universale qualora il testatore abbia inteso chiamare l’istituito nell’universalità dei beni o in una quota del patrimonio relitto oppure ad un legato se egli abbia voluto attribuirgli singoli, individuati, beni (Cass., Sez. 2, 25/10/2013, n. 24163, Rv. 628231; Cass., Sez. 2, 1/03/2002, n. 3016, Rv. 552709).

Peraltro, mentre in base al primo comma dell’art. 588 c.c. l’istituzione di erede va desunta dal contenuto strettamente obiettivo dell’atto, di guisa che la volontà testamentaria, che pur sempre va ricercata, non ha il potere di determinare un’istituzione di erede che prescinda da un preciso rapporto con l’universalità di beni del testatore o con una quota di esso, con la conseguenza che, sempre che la chiamata venga in universam rem o pro quota si ha istituzione di erede quali che siano i termini, anche se impropri, usati dal testatore e anche nell’eventualità che parte dell’asse sia destinata a legati, viceversa, in base al secondo comma dello stesso articolo, accanto al criterio obiettivo dell’interpretazione desunta dal contenuto dell’atto, viene introdotto quello soggettivo dell’interpretazione ricavata dall’intenzione del testatore di assegnare beni determinati come quota del patrimonio, interpretazione cui è dato pervenire attraverso i comuni canoni della volontà testamentaria, sicché alla stregua del secondo comma dell’art. 588 cod. civ., anche l’assegnazione di determinati beni o di un complesso di beni non esclude che la disposizione sia a titolo universale, tutte le volte che risulti che il testatore abbia inteso assegnare quei beni come quota del suo patrimonio, considerandoli, cioè, nel loro rapporto con il tutto (Cass., sez. 2, 8/7/1964, n. 1800).

Il risultato di tale interpretazione non è sindacabile in sede di legittimità ove non si alleghi la violazione di un preciso canone interpretativo o il vizio della motivazione della sentenza (Cass., Sez. 2, 27/10/1980, n. 5773; Cass., Sez. 2, 21/1/1978, n. 269), risolvendosi l’indagine diretta ad accertare se ricorra l’una o l’altra ipotesi in un apprezzamento di fatto, riservato ai giudici del merito e, quindi, incensurabile in cassazione, se congruamente motivato (Cass., Sez. 2, 6/10/2017, n. 23393).

Ebbene, le ricorrenti, pur avendo lamentato la violazione dell’art. 1362 cod. civ., non hanno chiarito in quale modo e con quali considerazioni il giudice di merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati, sicché deve operare il principio secondo cui, in tema di interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sé, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (Cass., Sez. 3, 10/2/2015, n. 2465; Cass. 3, Sez., 26/5/2006, n. 10891).

Pertanto, avendo nella specie i giudici motivato adeguatamente sulle ragioni per le quali hanno ritenuto di qualificare le disposizioni testamentarie in termini di legato e non di istituzione ex re certa e non avendo, per converso, le ricorrenti chiarito i termini della lamentata violazione delle norme ermeneutiche applicabili, la censura deve ritenersi sotto questo profilo infondata.

Diversamente deve opinarsi con riguardo alla ritenuta configurabilità del legato in sostituzione di legittima, in luogo di quello in conto di legittima preteso, invece, dalle ricorrenti.

Come questa Corte ha già avuto modo di osservare, al fine della configurabilità del legato in sostituzione di legittima, occorre che dal complessivo contenuto delle disposizioni testamentarie risulti, in modo certo e univoco, la volontà del de cuius di tacitare il legittimario con l’attribuzione di determinati beni, precludendogli la possibilità di mantenere il legato e di attaccare le altre disposizioni per far valere la riserva, laddove, in difetto di tale volontà, il legato deve ritenersi “in conto” di legittima (Cass., Sez. 2, 19/11/2019, n. 30082).

A tali fini, non occorre che la scheda testamentaria usi formule sacramentali, siccome non richieste dalla norma, potendo l’intenzione del testatore di soddisfare il legittimario con l’attribuzione di beni determinati senza chiamarlo all’eredità essere desunta anche dal complessivo contenuto della scheda testamentaria attraverso un’opportuna indagine interpretativa da cui risulti tale intenzione (Cass., Sez. 2, 16/1/2014, n. 824), senza che possano essere considerati elementi estrinseci al testamento se non espressamente richiamati nell’atto stesso (Cass., Sez. 2, 9/9/2011, n. 18583).

Lo stabilire se una disposizione testamentaria a favore di un legittimario integri un legato in sostituzione oppure in conto di legittima costituisce anch’esso accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato ed immune da violazione dei canoni ermeneutici che devono presiedere all’interpretazione delle disposizioni di ultima volontà (v. Cass., Sez. 2, 26/5/1998, n. 5232; Cass., Sez. 2, 10/6/2011, n. 12854; Cass., Sez. 2, 29/7/2005, n. 16083) [no: è questione di diritto; dI fatto è solo  quella sulla ricostruzione del contenuto semantico della scheda].

Ebbene, a tali principi non si sono attenuti i giudici di merito, i quali hanno qualificato le disposizioni testamentarie paterne in termini di legato in sostituzione di legittima alla stregua dell’attribuzione ai figli della sola nuda proprietà di alcuni beni, lasciati in usufrutto alla moglie in uno con le sue restanti proprietà, e della loro devoluzione in parti uguali ai figli soltanto in caso di premorienza della moglie, ossia sulla base di elementi che si rivelano del tutto incoerenti con la qualificazione della disposizione in termini siffatti.

In ragione di quanto detto, il motivo deve, dunque, ritenersi fondato>>.

Per dare in locaizone validamente un bene non serve essere proprietaio: basta averne un sufficiente potere giuridico di disponibilità

Cass. sez. III del 03/10/2023 n. 27.910, rel. Tassone:

<<1.2 Orbene, la corte territoriale, pur invocando in motivazione l’art. 295 e non l’art. 337, comma 2, c.p.c., ha comunque esercitato un suo potere di valutazione della fattispecie ed ha ritenuto di escludere la sospensione del giudizio di appello, affermando in via dirimente che ai fini della stipula del contratto di locazione fosse sufficiente che la (Omissis) avesse la sola disponibilità del bene, a prescindere da ogni questione concernente l’asserita simulazione dell’atto di acquisto.

1.3 Con tale motivazione, congrua e scevra da vizi logico-giuridici, la corte di merito ha fatto corretta applicazione dell’orientamento di questa Suprema Corte, secondo cui il detentore non è tenuto a dimostrare di avere un diritto reale sul bene per poterlo concedere in locazione e per poter esercitare i diritti derivanti dal rapporto, essendo sufficiente che del bene stesso egli abbia la disponibilità, sulla base di un rapporto (o di un titolo) giuridico che comprenda il potere di trasferire al conduttore la detenzione o il godimento del bene stesso (Cass. civ. Sez. 3, 10 dicembre 2004 n. 23086; Cass., 11 aprile 2006 n. 8411; Cass., 27 maggio 2010 n. 12976; Cass., 22 ottobre 2014 n. 22346).

Come già questa Corte ha avuto modo di affermare, ciò non significa, ovviamente, che sia liberamente ammessa la locazione di cosa altrui e che la mancanza di titolarità del diritto reale sul bene sia sempre e comunque irrilevante.

Significa solo che la dimostrazione della sussistenza del diritto reale non può essere pretesa dal conduttore per sottrarsi all’adempimento degli obblighi nascenti dal rapporto (così come non potrebbe essere opposta dal locatore per rendersi a sua volta inadempiente verso il conduttore).

Il diritto di proprietà del locatore assume rilievo solo quando alla controversia centrata sui rapporti meramente personali fra locatore e conduttore si sovrappongano o si aggiungano questioni che investano la titolarità del diritto reale sul bene locato: se per esempio vi sia controversia fra il locatore e il terzo che si affermi proprietario dell’immobile e si debba decidere dei conseguenti effetti sul rapporto locativo (cfr. sul tema i perspicui rilievi di Cass., 11 aprile 2006, n. 8411).

Vale a dire, solo quando si discuta degli effetti del contratto nel rapporto interno tra locatore e conduttore vale il principio sopra richiamato, nel senso che la natura personale dei diritti e degli obblighi che ne derivano preclude alle parti – ed in particolare al conduttore, la cui posizione interessa in questa sede – di opporre al locatore la mancata titolarità del diritto reale, per sottrarsi alle sue obbligazioni (Cass., 20/8/2015 n. 17030)>>.

Non è chiarito quale fosse il potere giuridico nel caso specifico, essendo solo stata dedotta la simulaizne dell’acquisto (nonchè della locazione, per vero …).

E se il potere è solo fattuale (come quello di chi sta usucapendo)?

Obbligo informativo del cliente da parte dell’avvocato

Cass sez. III del 11/12/2023 n. 34.412, rel., Moscarini:

<<Con questa affermazione la Corte del gravame ha determinato una erronea inversione dell’onere della prova esonerando il legale, su cui invece la legge pone il relativo onere, dai suoi precipui obblighi informativi; la ordinanza viola sia la norma sul riparto probatorio e quindi l’art. 2697 c.c. e anche gli artt. 1176 e 2236 c.c. perché omette di considerare che in base alla L. n. 247 del 2012, art. 13, comma 5 è il professionista ad essere tenuto (e quindi a dover provare), nel rispetto del principio di trasparenza, ad informare il cliente del livello di complessità dell’incarico fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento della conclusione del conferimento alla conclusione dell’incarico; è altresì tenuto a comunicare in forma scritta a colui che conferisce l’incarico professionale la prevedibile misura del costo della prestazione distinguendo tra oneri, spese forfettarie e compenso professionale; questi obblighi costituiscono pertanto misura della sua diligenza professionale ai sensi dell’art. 1176 e 2236 c.c.>>

Ripasso sulla differenza tra termine essenziale e clausola risolutiva espressa

Ripasso in Cass. sez. II  del 21/11/2023 n. 32.277, rel. Oliva:

<<sul punto, va data continuità al principio secondo cui “Le fattispecie previste rispettivamente dall’art. 1456 c.c. (clausola risolutiva espressa) e art. 1457 (termine essenziale per una delle parti), ancorché riguardanti entrambe la risoluzione del contratto con prestazioni corrispettive, hanno propri e differenti presupposti di fatto, tra cui il diverso atteggiarsi della volontà della parte interessata al momento dell’inadempimento dell’altra verificandosi l’effetto risolutivo nella prima, con la dichiarazione dell’intenzione di avvalersi della facoltà potestativa attribuita dalla legge e nella seconda, con lo spirare di tre giorni a partire dalla scadenza dei termini senza che essa abbia dichiarato all’altra di volere l’esecuzione” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10102 del 26/11/1994, Rv. 488847; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8881 del 03/07/2000, Rv. 538187).

Le due fattispecie, dunque, pur producendo il medesimo effetto finale, rappresentato dal venir meno del vincolo contrattuale, operano su piani distinti e con meccanismi di funzionamento diversi. Il termine essenziale, infatti, comporta la cessazione del contratto e delle obbligazioni da esso derivanti per il solo fatto del suo superamento, salvo che la parte che voglia comunque darvi esecuzione, non lo dichiari all’altra parte entro tre giorni previsto dall’art. 1457 c.c., comma 1. La clausola risolutiva espressa, invece, comporta la caducazione del vincolo negoziale, ai sensi dell’art. 1456 c.c., comma 2, soltanto qualora la parte interessata, al verificarsi dell’evento, dichiari all’altra parte di volersi avvalere della clausola. Nel primo caso, dunque, l’effetto caducatorio dell’impegno contrattuale è automatico, salvo che la parte nel cui interesse il termine è stato fissato non dichiari, entro tre giorni, di voler comunque esigere la prestazione, ancorché fuori termine; nel secondo caso, invece, l’effetto non è automatico, ma rimesso ad una manifestazione di volontà del soggetto nel cui interesse è stata prevista la clausola risolutiva.

Il comportamento delle parti è dunque diverso, nei due istituti in esame, e la loro volontà opera in modo diametralmente opposto, poiché la sua manifestazione al momento dell’inadempimento consente, nel caso del termine essenziale, la prosecuzione dell’efficacia del vincolo negoziale, mentre conduce, nel caso della clausola risolutiva espressa, al contrario risultato del venir meno della validità del detto vincolo. Di conseguenza, una volta invocata in giudizio l’applicabilità di un termine essenziale relativamente alla mancata stipulazione di un contratto definitivo entro una determinata data, non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità la configurabilità, nella medesima pattuizione, di una clausola risolutiva espressa (sul punto, cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5640 del 23/09/1983, Rv. 430588 e Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2762 del 11/07/1975, Rv. 376768).

Poiché nel caso di specie l’odierna parte ricorrente aveva dedotto, con il proprio appello incidentale, proprio la configurabilità della clausola negoziale in esame, alternativamente [nds: importante precisazione processuale],  come termine essenziale ovvero sub specie di clausola risolutiva espressa, riproponendo per intero la questione prospettata in prime cure, la Corte di Appello avrebbe dovuto esaminare ambedue i profili, non sussistendo in concreto alcun ostacolo, né di natura sostanziale, né di ordine processuale, all’esame della questione complessivamente proposta dalla difesa delle F..

Ne’, per altro verso, si configura alcun profilo di incompatibilità tra i due diversi istituti, dovendosi ribadire, al riguardo, che “La previsione di un termine essenziale in un contratto ad effetti obbligatori non è incompatibile con l’inserimento nel medesimo contratto di una clausola risolutiva espressa, né la scadenza del termine essenziale paralizza per contraddizione gli effetti della clausola, con la conseguenza che il creditore può tanto avvalersi di detta clausola, ai fini della dichiarazione della risoluzione di diritto del contratto, quanto rinunciare all’effetto risolutivo ed esigere l’adempimento” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5766 del 22/11/1985, Rv. 442951). Una volta escluso, quindi, che una determinata pattuizione contenga l’indicazione di un termine essenziale, nulla osta acché la stessa sia configurabile sub specie di clausola risolutiva espressa. [nds: utile pro memoria, pur se ovvia]

Ne’ rileva il fatto che l’evento dedotto nella clausola si risolva in una semplice scadenza temporale, poiché in tal caso il giudice di merito è chiamato a valutare se il dato cronologico assuma rilievo decisivo in sé, e dunque rivesta natura essenziale per la conclusione dell’accordo, ovvero se esso rilevi, piuttosto, in relazione ad una finalità pratica sottesa all’affare, ed adeguatamente esplicitata dai paciscenti.

Da tutto quanto precede discende che, in presenza della deduzione, da parte di uno dei contraenti, della configurabilità di una determinata clausola negoziale sub specie di termine essenziale o di clausola risolutiva espressa, l’indagine del giudice di merito non può limitarsi alla semplice esclusione del requisito dell’essenzialità del termine, ma deve estendersi anche alla seconda ipotesi interpretativa. Il riconoscimento della natura non essenziale del termine, infatti, non consente di escludere a priori la possibilità che esso possa valere quale evento dedotto in una clausola risolutiva espressa. Anzi, proprio l’assenza del requisito dell’essenzialità del dato cronologico indicato dalle parti “apre”, per così dire, la possibilità che esso possa valere non come determinazione del tempo necessario dell’adempimento, ma come momento entro il quale si debba verificare un evento condizionante l’efficacia del contratto, come ad esempio, nel caso del contratto preliminare, l’adempimento dell’obbligo di stipulare il rogito definitivo.

Ulteriore riprova della peculiarità della clausola risolutiva espressa va individuata nel fatto che essa “… attribuisce al contraente il diritto potestativo di ottenere la risoluzione del contratto per l’inadempimento di controparte senza doverne provare l’importanza e la risoluzione del contratto per il verificarsi del fatto considerato, come in genere la risoluzione per inadempimento, non può dunque essere pronunciata d’ufficio, ma solo se la parte nel cui interesse la clausola è stata inserita nel contratto dichiari di volersene avvalere. Differentemente, la risoluzione consensuale, o la sopravvenuta impossibilità della prestazione, che determinano automaticamente il venir meno del contratto, rappresentando fatti oggettivamente estintivi dei diritti nascenti da esso, possono essere accertati d’ufficio dal giudice” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10935 del 11/07/2003, Rv. 564990; nello stesso senso, cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 16993 del 01/08/2007, Rv. 600281; nonché Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10201 del 20/06/2012, Rv. 623126, secondo la quale “La risoluzione consensuale del contratto non costituisce oggetto di eccezione in senso proprio, essendo lo scioglimento per mutuo consenso un fatto oggettivamente estintivo dei diritti nascenti dal negozio bilaterale, desumibile dalla volontà in tal senso manifestata, anche tacitamente, dalle parti, che può essere accertato d’ufficio dal giudice pure in sede di legittimità, ove non vi sia necessità di effettuare indagini di fatto”; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6125 del 17/03/2014, Rv. 630517 e Cass. Sez. L, Sentenza n. 23586 del 28/09/2018, Rv. 650542). In altri termini, mentre la verificazione di un qualsiasi evento idoneo ad incidere sul sinallagma fissato dalle parti (come la scadenza del termine essenziale, ove previsto, o la risoluzione per mutuo dissenso, o l’impossibilità sopravvenuta della prestazione dedotta in contratto), può costituire oggetto di esame anche ufficioso da parte del giudice, ed implica una disamina complessiva del comportamento dei paciscenti, al fine di ricostruire la loro effettiva volontà negoziale e di apprezzare l’incidenza dell’evento di cui sopra sul complessivo regolamento di interessi previsto nel contratto, la clausola risolutiva espressa, al contrario, attribuisce sic et simpliciter ad una delle parti, al verificarsi dell’evento in essa dedotto, il diritto potestativo di procurare la cessazione degli effetti del rapporto negoziale, a prescindere da qualsiasi indagine in relazione all’importanza dell’inadempimento o dell’incidenza del fatto storico verificatosi, o non verificatosi, sull’equilibrio sinallagmatico, sempre che sussista inadempimento alla stregua del criterio della buona fede nell’esecuzione del contratto (su detto principio, cfr. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 8282 del 23/03/2023, Rv. 667427 e Cass. Sez. 1, Sentenza n. 23868 del 23/11/2015, Rv. 637690). Proprio in ragione di tale suo peculiare meccanismo di funzionamento, l’art. 1456 c.c., comma 2, prevede la necessità della manifestazione della volontà di avvalersene della parte nel cui interesse essa è posta.

Poiché nel caso di specie l’indagine sulla possibilità di configurare, nella pattuizione in esame, una clausola risolutiva espressa è mancata del tutto, non riscontrandosene traccia nella decisione impugnata, le censure sollevate con il secondo e terzo motivo di ricorso meritano di essere accolte.

Il giudice del rinvio dovrà procedere ad un nuovo apprezzamento della fattispecie concreta, al fine di verificare se, una volta escluso che la clausola negoziale in esame contenga la fissazione di un termine essenziale, sia possibile, o meno, ipotizzare la coesistenza, nell’ambito del medesimo regolamento negoziale, tra la previsione di un termine, evidentemente di natura non essenziale, e di una clausola risolutiva espressa, con riferimento ad un unico dato cronologico>>.

La convivenza stabile fa cessare l’assegno di mantenimento da separazione

Cass.  Sez. I, Ord. 12/12/2023, n. 34.728, rel. Russo:

<<La Corte d’appello di Lecce ha fatto discendere la revoca dell’assegno di mantenimento direttamente dalla circostanza che si è accertato che in talune notti, nell’estate del 2019, il predetto C.C. ha pernottato nell’abitazione della ricorrente, ritenendo accertata la “relazione affettiva” tra i due e senza altro aggiungere se non un poco chiaro riferimento al difetto di “allegazioni specifiche in merito alla occasionalità di essa”.

Si tratta quindi di una motivazione al di sotto del c.d. minimo costituzionale, che non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio (si veda Cass. n. 13248 del 30/06/2020) in quanto non spiega le ragioni per le quali si è ritenuto che dagli elementi di fatto accertati si potesse desumere non già una semplice relazione affettiva, ma la convivenza, o comunque una relazione di tipo familiare, tale da comportare l’assistenza morale e materiale tra le parti.

Questa Corte ha invero affermato che in presenza di una convivenza stabile si deve presumere che le risorse economiche vengano messe in comune, salvo la prova contraria data dall’interessato (Cass.16982/2018). E però, perchè possa legittimamente farsi ricorso a detta presunzione, occorre preventivamente accertare che si tratti di una relazione non solo “affettiva” ma di un rapporto stabile e continuativo, ispirato al modello solidale che connota il matrimonio, che non necessariamente deve sfociare in una stabile coabitazione, purchè sia rigorosamente provata la sussistenza di un nuovo progetto di vita dello stesso beneficiario con il nuovo partner, dal quale discendano inevitabilmente reciproche contribuzioni economiche, gravando il relativo l’onere probatorio sulla parte che neghi il diritto all’assegno (Cass. n. 3645 del 07/02/2023).

Questa Corte ha inoltre affermato, in tema di divorzio, che, ove sia richiesta la revoca dell’assegno in favore dell’ex coniuge a causa dell’instaurazione da parte di quest’ultimo di una convivenza “more uxorio”, il giudice deve procedere al relativo accertamento tenendo conto, quale elemento indiziario, dell’eventuale coabitazione con l’altra persona, in ogni caso valutando non atomisticamente ma nel loro complesso l’insieme dei fatti secondari noti, acquisiti al processo nei modi ammessi dalla legge, e gli eventuali ulteriori argomenti di prova, rilevanti per il giudizio inferenziale in ordine alla sussistenza della detta convivenza, intesa quale legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale i conviventi si siano spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale (Cass. n. 14151 del 04/05/2022).

6.1.- Questo orientamento, pienamente condivisibile, va qui ribadito, con le opportune precisazioni in ordine alle ragioni per le quali la convivenza può comportare la perdita dell’assegno di separazione.

In tema di assegno divorzile, infatti, è principio consolidato che qualora sia instaurata una stabile convivenza tra un terzo e l’ex coniuge, viene meno la componente assistenziale all’assegno divorzile, e se ne perde il correlativo diritto, ma non viene meno la componente compensativa, qualora l’interessato alleghi e dimostri non solo di essere privo anche nell’attualità di mezzi adeguati e impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, ma anche, nel caso concreto, il comprovato emergere di un contributo dato alle fortune familiari e al patrimonio dell’altro coniuge (Cass. sez. un. 32198 del 05/11/2021; Cass. n. 14256 del 05/05/2022). Di conseguenza qualora sia stato il coniuge divorziato ad intraprendere una nuova relazione familiare di fatto, non necessariamente ciò comporta il venire meno dell’assegno di divorzio, perchè, anche rimodulato nel quantum, il diritto può essere mantenuto.

Assegno di divorzio ed assegno di mantenimento sono però diversi quanto a natura presupposti e funzioni; e segnatamente, l’assegno di mantenimento che il coniuge privo di mezzi può ottenere in sede di separazione è privo della componente compensativa, consistendo nel diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario mantenimento, in mancanza di adeguati redditi propri (art. 156 c.c.).

Nel quadro normativo del codice civile la separazione dei coniugi ha funzione conservativa, pur se la legge sul divorzio le ha affiancato anche una funzione dissolutiva, tanto che questa Corte ha affermato che in tema di crisi familiare, in ragione dell’unica causa della crisi, nell’ambito del procedimento di cui all’art. 473-bis c.p.c., comma 1 è ammissibile il ricorso dei coniugi proposto anche con domanda congiunta e cumulata di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio. Secondo l’id quod prelumque accidit, si osserva che la crisi separativa conduce, sia pure attraverso la disciplina di una graduazione e assottigliamento delle posizioni soggettive (diritti e doveri) dei coniugi, dal fatto separativo e con altissima probabilità all’esito divorzile successivo (Cass. n. 28727 del 16/10/2023).

La funzione conservativa della separazione, ad oggi, si invera prevalentemente nel riconoscimento del diritto del coniuge economicamente debole a mantenere lo stesso tenore di vita. In fase di separazione infatti alcuni doveri matrimoniali vengono meno (ad esempio l’obbligo di coabitazione) oppure si attenuano (ad esempio l’obbligo di fedeltà), ma è essenzialmente conservata la solidarietà economica, espressione del principio costituzionale di parità dei coniugi, che si esprime nel dovere di assistenza, in ragione della quale il coniuge cui non sia addebitabile la separazione ha diritto a mantenere lo stesso tenore di vita matrimoniale e quindi a ricevere un assegno di mantenimento dal coniuge economicamente più forte.

In termini, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che la separazione personale, a differenza dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, presuppone la permanenza del vincolo coniugale, sicchè i “redditi adeguati” cui va rapportato, ai sensi dell’art. 156 c.c., l’assegno di mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell’addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea, dalla quale deriva solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione, e che ha una consistenza ben diversa dalla solidarietà post-coniugale, presupposto dell’assegno di divorzio (Cass. n. 12196 del 16/05/2017; conf. Cass. n. 16809 del 24/06/2019; Cass. n. 4327 del 10/02/2022).

Il diritto all’assegno di mantenimento è quindi fondato sulla persistenza del dovere di assistenza materiale; il principio di parità richiede che tale sostegno sia reciproco, senza graduazioni o differenze, ma anche solidale, il che significa che chi ha maggiori risorse economiche deve condividerle con chi ne ha di meno. In ogni caso, il coniuge economicamente debole deve essere consapevole che la separazione è una condizione di possibile, anzi probabile, breve durata e che nella maggior parte dei casi non prelude a una riconciliazione bensì allo scioglimento del vincolo, in seguito al quale l’assegno di divorzio è riconosciuto -se riconosciuto- sulla base di diversi presupposti e prescindendo dal rapporto con il tenore di vita (Cass. civ. sez. un. 18287/2018).

Tuttavia, finchè perdura lo stato di separazione resta attiva la solidarietà matrimoniale, che si concreta nel dovere di assistenza tra coniugi, sebbene diversamente attuato che in costanza di convivenza, e cioè con una prestazione patrimoniale periodica, perchè i coniugi non vivono più insieme; ed è attivo anche – di conseguenza – il legame con il modello matrimoniale concretamente vissuto dai coniugi e cioè il pregresso tenore di vita. Ciò non significa che detto legame non possa essere spezzato per effetto di una scelta volontaria, ed in tal senso la giurisprudenza di questa Corte, la quale ha affermato che durante la separazione personale, la formazione di un nuovo aggregato familiare di fatto ad opera del coniuge beneficiario dell’assegno di mantenimento, operando una rottura tra il preesistente tenore e modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale ed il nuovo assetto fattuale, fa venire definitivamente meno il diritto alla contribuzione periodica (Cass. n. 32871 del 19/12/2018).

7.- Il Collegio ritiene di aderire a tutt’oggi a questo orientamento, considerando che l’assegno di mantenimento è fondato – come sopra si diceva – sulla persistenza di uno dei doveri matrimoniali e non ha – a differenza dell’assegno di divorzio – componenti compensative.

Nel nostro ordinamento il modello di relazione familiare tra due adulti, sia essa fondata sul matrimonio, che sulla unione civile, che su un rapporto di fatto, è un modello monogamico: non è consentito contrarre matrimonio o unione civile se si è già vincolati da analogo legame, e neppure stipulare validi patti di convivenza se si è legati da altro vincolo matrimoniale o da altra convivenza regolata da patto (L. n. 76 del 2016, comma 57, art. 1, che prevede in tal caso la nullità insanabile del patto).

L’ordinamento non tollera la concorrenza di due vincoli solidali fondati sullo stesso tipo di relazione, e pertanto il coniuge separato non può al tempo stesso beneficiare dell’assistenza materiale del dell’altro coniuge e della assistenza materiale del (nuovo) convivente.

Quanto sopra esposto rende evidente l’errore della Corte d’appello di Lecce che non ha accertato, iuxta alligata et probata, e a fronte della contestazione della ricorrente sull’assenza di prova di una convivenza stabile, le caratteristiche del legame tra l’odierna ricorrente l’uomo di cui si parla nella relazione investigativa, e non ha spiegato le ragioni per cui, in relazione a quanto accertato, ha ritenuto di revocare l’assegno di mantenimento.

Di conseguenza, in accoglimento del quarto motivo di ricorso, respinti gli altri, la sentenza in esame deve essere cassata con rinvio alla Corte d’appello di Lecce in diversa composizione per un nuovo esame attenendosi ai seguenti principi di diritto:

7.1.- “In tema di crisi familiare, se durante lo stato di separazione il coniuge avente diritto all’assegno di mantenimento instaura un rapporto di fatto con un nuovo partner, che si traduce in una stabile e continuativa convivenza, ovvero, in difetto di coabitazione, in un comune progetto di vita connotato dalla spontanea adozione dello stesso modello solidale che connota il matrimonio, caratterizzato da assistenza morale e materiale tra i due partner, viene meno l’obbligo di assistenza materiale da parte del coniuge separato e quindi il diritto all’assegno.

La prova dell’esistenza di un tale legame deve essere data dal coniuge gravato dall’obbligo di corrispondere assegno.

Dalla prova della stabilità e continuità della convivenza può presumersi, salvo prova contraria, che le risorse economiche siano state messe in comune; ma nel caso in cui difetti la coabitazione, la prova dovrà essere rigorosa, dovendosi dimostrare che, stante il comune progetto di vita, i partner si prestano assistenza morale e materiale”   >>.

Prendo atto. Solo che la stabilità data dal matrimonio non è equiparabile a quella data dalla convivenza, nemmeno dopo la legge 76/2016: per cui la seconda non giustifica il venir meno dell’assegno di mantenimento, come invece avviene per il primo.

L’ordinanza contiene poi utili precisazioni processuali sull’art. 710 cpc e in prticolare sulla distinzione tra domanda nuova in appello e fatto sopravvenuto dedotto in via di eccezione

Rapporti Oxfam gennaio 2024 sulla disuguaglianza

Appena uscito il rapporto in oggetto per l’Italia, scritto da Mikhail Maslennikov,
Policy Advisor di Oxfam Italia (scaricabile qui ).

Il cap. 2 contiene le osservazioni sul ns paese,

Pure il cap. 1 sul trend mondiale è interssante (sulla concentrazione in corso, soprattutto).

Risporto :

<<I proprietari miliardari esercitano il controllo per assicurare che il potere societario sia in costante crescita, sovente attraverso una più forte concentrazione di mercato, assicurandosi posizioni monopolistiche, consentite dai governi. L’accresciuto potere economico delle grandi società è a sua volta orientato alla massimizzazione degli utili per gli azionisti senza un giusto riconoscimento al contributo di altri soggetti o gruppi coinvolti nella creazione di valore.
Viviamo in un’era di immenso potere monopolistico che consente alle grandi corpo-
ration di controllare i mercati, stabilire le regole del gioco e godere di rendite di posizione senza timore di perdere il giro d’affari. Ciò ha molteplici impatti sulle nostre vite: determina le retribuzioni che percepiamo, il cibo che possiamo permetterci e i farmaci a cui possiamo accedere. Lungi dall’essere casuale, questo potere è stato di fatto concesso dai nostri governi che hanno permesso alle più grandi corporation al mondo di diventare sempre più grandi e di fare sempre più profitti. Apple ha un valore di mercato di 3.000 miliardi di dollari: a titolo esemplificativo, questa cifra è superiore all’intero PIL della Francia, la settima economia più grande del mondo.  I cinque colossi globali più grandi al mondo per capitalizzazione hanno un valore di mercato complessivo superiore al PIL di tutte le economie di Africa, America Latina e Caraibi messe insieme.
L’accresciuta concentrazione di mercato si osserva in qualsiasi settore dell’econo-
mia. A livello globale, nel corso di appena due decenni, tra il 1995 e il 2015, 60
aziende farmaceutiche si sono fuse in 10 colossi del “Big Pharma”.45 Due multinazionali controllano oggi più del 40% del mercato globale delle sementi (25 anni fa erano 10). Le “Big Tech” dominano i mercati: tre quarti dei ricavi globali dalla pubblicità online fluiscono a Meta, Alphabet e Amazon47 e oltre il 90% delle ricerche online viene effettuato tramite Google.

I monopoli incrementano il potere delle grandi società e dei loro proprietari a detrimento di chiunque altro. Anche il Fondo Monetario Internazionale concorda sul fatto che il potere monopolistico stia crescendo e contribuendo ad alimentare le disuguaglianze. I monopoli determinano un trasferimento economico dal lavoro al capitale, redistribuendo “il reddito disponibile dei molti in plusvalenze, dividendi e retribuzioni del management per i pochi”.50 Creando scarsità di offerta per aumentare i prezzi e spingere verso l’alto i profitti, i monopoli redistribuiscono reddito e ricchezza in modo regressivo: dai lavoratori e consumatori al top management e ai titolari dell’impresa.
I margini medi per le mega-società sono aumentati vertiginosamente negli ultimi decenni  e il potere monopolistico ha consentito a grandi aziende in molti settori ad alta concentrazione di mercato di coordinarsi implicitamente per aumentare i prezzi e determinare un incremento dei propri margini a partire dal 2021, 52 in particolar modo nei settori energetico, alimentare e farmaceutico.53
La finanza privata e i gestori patrimoniali – che agiscono in gran parte per conto di clienti facoltosi – svolgono un ruolo enorme nel favorire la concentrazione di potere economico nelle mani di pochi. 54 Le società di private equity, forti dei 5.800 miliardi di dollari di liquidità degli investitori dal 2009, hanno utilizzato l’accesso privilegiato ai mercati per agire come una forza monopolizzante in tutti i settori.55, 56 A loro si aggiungono i grandi fondi di investimento, noti come “Big Three” – BlackRock, State Street e Vanguard – un altro propulsore di potere monopolistico57: complessivamente  gestiscono asset finanziari per 20.000 miliardi di dollari, più di un quinto di tutti i titoli gestiti da fondi di investimento su scala planetaria.
La finanziarizzazione delle imprese, che assegna ai mercati finanziari un ruolo sempre più rilevante nell’economia, ha esacerbato l’attenzione sui profitti a breve termine rispetto a qualsiasi obiettivo di lungo termine.59 Ha indebolito gli investimenti produttivi, agendo invece nell’interesse del capitale e riorientando un numero sempre più grande di imprese non finanziarie verso strumenti e attività improduttive>>

E’ uscito pure quello a livello mondiale (INEQUALITY INC. How corporate power
divides our world and the need for a new era of public actionc – Davos 2024)., ove son sviluppate in maggior dettaglio le analisi sui trend mondiali. V. la pag. Oxfam.org ove i downloads del testo completo oppure delll’executive sum,mary.-

Del full text v. spt. cap. 2 “A new era of monopoly power” e cap. 3 “How corporate power fuels inequality”

Confondibilità tra marchi: l’appartenenza al genus animali “che volano” (farfalla v. uccelli) non basta per ravvisarla

Si considerino i seguenti segni  per prodotti identici (borse, abbigliamento etc.)

sopra il segno chiesto in registrazione
qui sopra l’anteriorità opposta

Anna Maria Stein su IPKat segnala la decisione EUIPO Div. di Opposizione OPPOSIZIONE N. B 3 179 053, Cris Conf spa v. Passaggio Obbligato spa, del 11.01.2024.

L’ufficio esclusde la confondibilità ordinaria, soprattuto per  l’assenza di vicinanza concettuale: << A livello concettuale, i segni sono dissimili poiché saanno associati a significati diversi veicolati dagli uccellini e dalla farfalla rispettivamente. Di fatto, la semplice appartenenza alla specie animale non è in alcun modo sufficiente a evocare una similitudine concettuale. Infatti, per giurisprudenza ormai consolidata, il mero fatto che due simboli possano essere raggruppati sotto un termine generico comune non li rende in alcun modo simili dal punto di vista concettuale. Ad esempio, il Tribunale ha ritenuto che, sebbene una mela e una pera possano avere caratteristiche comuni, trattandosi in entrambi i casi di frutti strettamente correlati tra loro in termini biologici e simili in quanto a dimensioni, colore, consistenza, tali caratteristiche comuni incidono in maniera davvero limitata sull’impressione complessiva. Di conseguenza, il Tribunale ha concluso che tali elementi sono insufficienti a controbilanciare le evidenti differenze concettuali esistenti tra i marchi, constatazione questa che li ha resi concettualmente dissimili (31/01/2019, T-215/17, PEAR (fig.) / APPLE BITE (fig.) et al., EU:T:2019:45, § 77-79)>>.

Giudizio dubbio: i) intanto si tratta non solo di animali ma di animali che volano; ii) poi la dimensione probabilmente ridotta rende difficile cogliere subito la differenza , o almeno di coglierla in maniera tale da far pensare a due aziende in concorrenza invece che a varianti di un’unica idea creativa nella scelta dei segni distintivi aziendali.

Nè c’è distintività accresciuta (sempre nella confondibilitò ordianria, non da rinomanza) : <<Infatti, il carattere distintivo accresciuto richiede il riconoscimento del marchio da parte del pubblico di riferimento e, nell’effettuare tale valutazione, occorre tenere conto, in particolare, delle caratteristiche intrinseche del marchio, compreso il fatto che esso contiene o meno un elemento descrittivo dei prodotti o dei servizi per i quali è stato registrato; la quota di mercato detenuta dal marchio; l’intensità, l’estensione geografica e la durata dell’uso di tale marchio, l’entità degli investimenti effettuati dall’impresa per promuovere il marchio; la proporzione del pubblico di riferimento che, grazie al marchio, identifica i prodotti o i servizi come provenienti da una determinata impresa; e dichiarazioni di camere di commercio e d’industria o di altre associazioni professionali (22/06/1999, C-342/97, Lloyd Schuhfabrik, EU:C:1999:323, § 23).

Inoltre, le prove dell’acquisizione di un carattere distintivo accresciuto in seguito all’uso devono riguardare sia (i) l’area geografica di riferimento sia (ii) i prodotti e/o servizi pertinenti. La natura, i fattori, le prove e la valutazione del carattere distintivo accresciuto sono gli stessi della notorietà, anche se la soglia per la constatazione di un carattere distintivo accresciuto può essere inferiore.

Quanto al contenuto delle prove, maggiori sono le indicazioni che esse forniscono circa i vari fattori dai quali si può dedurre l’elevato carattere distintivo, tanto più rilevante e determinante. In particolare, le prove che, nel complesso, forniscono scarsi dati e informazioni quantitativi o nessuna, non saranno idonee a fornire indicazioni su fattori vitali quali la conoscenza dei marchi, la quota di mercato e l’intensità dell’uso e, di conseguenza, non saranno sufficienti per affermare l’esistenza di un carattere distintivo accresciuto>>.

Giudicando in base alle stesse prove (sempre profilo interessante per i pratici), è poi rigettata pure la domanda basata sulla rinmmanza.

Uso o innovazione individuale della cosa comune? La trasformazione del tetto in terrazza privata

Cass. civ., Sez. II, Sent., (data ud. 14/11/2023) 10/01/2024, n. 917, rel. Fortunato:

Premessa sulla distinzione tra uso della cosa comune e innovazikone ex art. 1120:

<<Le innovazioni di cui all’art. 1120 c.c. si distinguono dalle modificazioni disciplinate dall’art. 1102 c.c., sia dal punto di vista oggettivo, che da quello soggettivo: sotto il profilo oggettivo, le prime consistono in opere di trasformazione, che incidono sull’essenza della cosa comune, alterandone l’originaria funzione e destinazione, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà riconosciute al condomino, con i limiti indicati nello stesso art. 1102 c.c., per ottenere la migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa; per quanto concerne l’aspetto soggettivo, nelle innovazioni rileva l’interesse collettivo di una maggioranza qualificata, espresso con una deliberazione dell’assemblea, elemento che invece difetta nelle modificazioni, che non si confrontano con un interesse generale, ma con quello del singolo condomino, essendo volte al suo solo perseguimento (Cass. 2126/2021; Cass. 20712/2017; Cass. 18052/2012; Cass. n. 20712; Cass. 240/1997).

Costituisce innovazione ex art. 1120 c.c., non qualsiasi modificazione della cosa comune, ma solo quella che alteri l’entità materiale del bene, operandone la trasformazione, o ne modifichi la destinazione, ove il bene assuma, a seguito delle opere eseguite, una diversa consistenza materiale o sia utilizzato per fini diversi da quelli originari.

Qualora la modificazione della cosa comune risponda allo scopo di un uso del bene più intenso e proficuo, si versa nell’ambito dell’art. 1102 c.c., che, sebbene dettato in materia di comunione ordinaria, è applicabile in materia di condominio degli edifici per effetto del richiamo contenuto nell’art. 1139 c.c.>>

Ne segue: <<per tali ragioni la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che il condomino, proprietario del piano sottostante al tetto comune dell’edificio, può trasformarlo in terrazza di proprio uso esclusivo, sempre che un tale intervento dia luogo a modifiche non significative della consistenza del bene in rapporto alla sua estensione e sia attuato con tecniche costruttive tali da non affievolire la funzione di copertura e protezione delle sottostanti strutture svolta dal tetto preesistente, quali la coibentazione termica e la protezione del piano di calpestio mediante idonei materiali (Cass. 14107/2012; Cass. 2126/2021).

L’art. 1102 c.c. consente a ciascun proprietario di far un uso più inteso della cosa comune a condizione che non sia alterata la funzione del bene e non impedito il pari uso: l’alterazione della funzione del bene deve essere effettiva e non può consistere in una semplice modificazione materiale; il pari uso non va inteso non deve consistere nel medesimo uso che possa invece farne il singolo che si trovi in un rapporto particolare e diverso con la cosa, ma di uso anche inteso ma che possa essere effettivo, occorrendo individuare, in concreto, i sacrifici alle facoltà di godimento che tale modifica apporti, senza dar rilievo ad una astratta possibilità di uso alternativo o un suo ipotetico depotenziamento (Cass. 14107/2012; Cass. 857/2019; Cass. 13503/2019; Cass. 41490/2021; Cass. 19939/2022; Cass. 2971/2023).

Le opere di cui si discute non costituivano – quindi – innovazioni suscettibili di autorizzazione ai sensi dell’art. 1120 c.c.: la norma riguarda non le opere intraprese dal singolo per realizzare un miglior uso della cosa comune ai sensi dell’art. 1102 c.c., ma quelle volute dall’assemblea condominiale con la maggioranza prescritta>>.

Occhio però al limite: <<Occorre tuttavia considerare che l’art. 1120, comma 2 c.c. [rectius: comma 4] , nel vietare le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico – è astrattamente applicabile anche agli interventi effettuati con le finalità di cui all’art. 1102 c.c. (Cass. 11455/2015; Cass. 18350/2013; Cass. 14607/12), dovendosi accertare, oltre alla compatibilità dell’intervento con i limiti derivanti dall’art. 1102 c.c., il rispetto dell’ultimo comma dell’art. 1120 c.c., alla luce del necessario coordinamento normativo che deve farsi tra l’art. 1102, l’art. 1120 e, ove si tratti di interventi sulle pari esclusive, con l’art. 1122 c.c. (Cass. 11455/2015).

Competerà al giudice del rinvio riesaminare i fatti di causa e valutare la sussistenza delle violazioni, conformandosi agli enunciati principi di diritto.>>

Sul framing (oscuramento) pubblicitario di siti web altrui

Prof. Lemley su mastodon ci notjzia dell’appello del 9 circuito, Best CArpet v. Google , 11.02.2024 , No. 22-15899 .

Vedi anche la riproduzione delle pagine internet offerta da Eric Goldman, qui riprodotte

senza framing e (a dx) con framing minimo in basso

 

con il framing espanso

 

IN breve Google oscura i siti altrui dapprima con un piccolo annuncio in basso e poi, se l’utente lo clicca, in grande oscurando buona parte dello schermo.

Il danneggiato aziona la trespass to chattels (tra la nostra azione possessoria di manutenzione e la negatoria proprietaria  ex art. 949 cc).

Ma il 9 circuito rigetta perchè l’oggetto dell’azione di google non è costituito da “chattels” (per l’immaterialità dunque). Rigetta anche la causa petendi basata su copyright-

Caso interessante. Come sarebbe regolato da noi (a parte l’illecito aquiliano, in mancanza di contratto)? Forse da concorrenza sleale estendendo (non poco) il concetto di “rapporto di concorrenza”, altrimenti assente?