Il difetto di qualità nella cosa acquistata ex art. 1497 cc non impedisce di invocare solo il rimedio della riduzione del prezzo (proprio della compravendita)

Assai interessante insegnamento in Cass. sez. II  16/02/2024, n. 4.245, rel. Caponi:

<<Dinanzi ad una domanda di tutela così specificamente congegnata nella sua complessità e nel suo ordine di priorità, l’art. 1497 c.c. si limita a ricordare che, laddove la cosa venduta non abbia le qualità essenziali per l’uso a cui è destinata (come nel caso di specie è stato accertato sulla base della c.t.u.), sono applicabili le disposizioni generali sulla risoluzione per inadempimento.

Pertanto, ciò non esclude logicamente che il compratore – se ed in quanto lo voglia in via prioritaria – abbia diritto a mantenere fermo in capo a lui (attraverso una do-manda di riduzione del prezzo) la proprietà del bene conseguita per effetto del contratto. La soluzione opposta avrebbe come conseguenza che l’ordine dei rimedi – e quindi la scala di priorità dei bisogni di tutela da soddisfare – sia dettato non già dall’attore ma dal convenuto della domanda di tutela.

Se è vero che “il processo deve dare per quanto è possibile pratica-mente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello ch’egli ha diritto di conseguire ai sensi del diritto sostanziale”, l’attore che risulti avere ragione (non il convenuto) ha diritto di delineare il “proprio quello”. Né i “sensi del diritto sostanziale” possono essere impastoiati da vincoli fatti discendere da formulazioni letterali che – come quelle degli artt. 1492 e 1497 c.c. nelle loro relazioni reciproche – rendono ossequio ad una tradizione storica da ambientare nel clima moderno; mentre le distinzioni tra vizi attinenti ai processi di produzione, ecc., da un lato, e, dall’altro lato, le qualità afferenti alla natura della cosa, così come gli esempi addotti a loro sostegno, non estendono la loro forza al di là delle parole e delle immagini che essi impiegano nel profilarsi alla no-stra attenzione. Non esistono le qualità essenziali in sé delle cose, ma si danno le qualità predicate come essenziali (o meno) in vista di un interesse verso di esse meritevole di tutela. Ne segue che la suddivisione tra i vizi (occorsi nel procedimento di produzione e/o conserva-zione), da un lato, e, dall’altro lato, la mancanza di qualità essenziali rispetto al tipo dedotto nel contratto esprime piuttosto il tentativo di elargire ex post ragioni a un retaggio storico.

La conclusione è in linea con l’orientamento prevalente della dot-trina, secondo il quale il caso di presenza di vizi e quello di mancanza di qualità sono soggetti ad una disciplina che non conosce paratie, ma snodi di collegamento, giacché il profilo di atipicità dell’azione giudizia-ria conferisce non solo alla domanda di risoluzione ma anche a quella di riduzione del prezzo il tratto di rimedio generale a tutela dell’acquirente, che quindi può domandare la riduzione del prezzo anche nelle fattispecie contemplate dall’art. 1497 c.c.>>

Questione interessante, ma non esposta in modo chiarissimo. Ok sull’ultimo passaggio, che intenderei così: in presenza di difetto di qualità, si può qualificarlo invece come “vizio” da quanti minoris e chiedere la riduzione rpezzo. Ma la modalitò specifica quale è: 1) l’acqurente lo fa azionando appunto la disciplina dei vizi? 2) oppure senza specificare alcunchè?  3) o addirittura la risoluzione da  difetto di qualità e poi modificando la domanda  in riduzione prezzo?

Se fosse sub 1, non ci sarebbe nulla di strano: ma la SC parrebbe ammettere pure 2) e 3) (si dovrebbe leggere qualche passggio cbe sta subito prima, qui omesso)

Nel caso specifico era stata avanzata l’ulrtima dom and n via principale e quella risolutioeria in via subordinata.

Adozione in casi particolari in coppia omoaffettiva: la SC conferma il rigetto della domanda acvanzata dal genitore d’intenzine rilevando il best intereset of the child

Cass.  Sez. I, Ord.  12/02/2024, n. 3.769, rel. Tricomi:

fatto:

<<Ciò nonostante, la Corte territoriale, nell’esaminare la fattispecie concreta — nell’esercizio delle valutazioni di propria competenza — ha seguito un percorso istruttorio e argomentativo esattamente in linea con il recente arresto delle Sezioni Unite, e ha confermato il rigetto della domanda di adozione speciale in ragione di un puntuale accertamento dell’insussistenza dell’interesse del minore, ben evidenziando la peculiarità del caso, senza limitarsi a prendere atto del mancato assenso all’adozione da parte di B.B.

Segnatamente, la Corte piemontese ha vagliato i rapporti intercorrenti tra le due parti in relazione al momento e alle modalità con cui era avvenuta la procreazione del piccolo C.C. ed ha accertato che A.A., che si pone come madre d’intenzione, non aveva avuto “un ruolo nella fecondazione del bambino, dato alla luce dalla B.B. che era stata fecondata grazie al liquido seminale donatole da un amico”, che non aveva chiesto l’adozione nell’immediatezza della nascita e che aveva convissuto con il nucleo familiare per soli due anni e tre mesi dalla nascita del bambino, che dalle relazioni dell’assistente sociale e della psicologa era emerso che il legame del bambino con A.A. non era forte, di tipo più amicale che genitoriale e caratterizzato dalla sporadicità e che il bambino aveva chiesto informazioni sull’identità del proprio padre inteso come una persona di sesso maschile.

La Corte di appello, quindi, ha tenuto conto proprio degli indicatori considerati significativi dalle Sezioni Unite (esistenza o meno di un progetto genitoriale comune, la cura e l’accudimento svolto per un congruo periodo in comune, etc.) e, all’esito della complessiva istruttoria, ha motivatamente disatteso la domanda di adozione speciale perché ha conclusivamente accertato che non ricorreva l’interesse del minore a tale tipo di adozione, considerata la sporadicità dei rapporti intercorrenti tra A.A. ed il bambino, la connotazione amicale degli stessi e “tenuto conto dell’esigenza del bambino di non essere esposto a situazioni potenzialmente fonte di confusione sulle figure famigliari”, senza che alcuno dei motivi proposti sia idoneo ad inficiare le conclusioni raggiunte>>.

Se il condomino si allontana prima del voto, egli diventa “assente”, per cui il termine per l’impugnazjne non decorrerà dal dì della delibera ma da quello della sua comunicaizone

Utile precisazione in Cass.  Sez. II, Ord.  15/02/2024, n. 4.191, rel. Carrato:

<<pacifico – in punto di fatto – che il delegato (B.B.) dell’odierna ricorrente, pur avendo partecipato all’assemblea condominiale in data 15 ottobre 2013, prima dell’adozione della delibera assembleare sugli specifici punti fissati all’ordine del giorno indicati con i nn. 2 e 4, oggetto dell’impugnativa, si era allontanato dal locale in cui si stava svolgendo l’assemblea, manifestando tale sua volontà e non partecipando alla conseguente votazione.

Pertanto, detto delegato andava considerato propriamente “assente” all’atto dell’adozione della delibera concernente i due richiamati punti previsti all’ordine del giorno, ragion per cui il termine per impugnarla non si sarebbe potuto considerare decorrente dallo stesso giorno di assunzione della delibera, come invece erroneamente rilevato dalla Corte di appello.

Infatti, diversamente da quanto opinato dal giudice di secondo grado (oltretutto in conformità all’avviso di quello di prime cure), non avrebbe dovuto attribuirsi alcun rilievo all’avvenuta possibile percezione di quanto deliberato da parte del suddetto delegato dalla condomina A.A. che si era portato fuori dal luogo in cui si stava tenendo l’assemblea, essendosi dallo stesso volontariamente allontanato e facendo prendere atto di ciò con annotazione a verbale, non intendendo partecipare alla votazione, ragion per cui avrebbe dovuto essere considerato legittimamente come assente, senza che, in virtù di tale situazione, potesse venirsi a configurarsi – come creativamente sostenuto dalla Corte di appello – un fenomeno di “sostanziale astensione” del medesimo delegato rispetto alla intervenuta delibera assembleare (e, quindi, ritenerlo, illogicamente, presente “fittiziamente” e partecipante alla votazione, considerandolo come astenuto).

La giurisprudenza di questa Corte (cfr., ad es., Cass. n. 1208/1999) ha, anzi, stabilito che, in tema di condominio di edifici, ai fini del calcolo delle maggioranze prescritte dall’art. 1136 c.c. per l’approvazione delle delibere assembleari, non si può neanche tener conto dell’adesione espressa dal condomino che si sia allontanato prima della votazione dichiarando di accettare la decisione della maggioranza, perché solo il momento della votazione determina la fusione delle volontà dei singoli condomini formative dell’atto collegiale (precisandosi che nemmeno la eventuale conferma dell’adesione alla deliberazione, data dal condomino successivamente all’adozione della stessa, può valere, nella predetta ipotesi, come sanatoria della eventuale invalidità della delibera, dovuta al venir meno, per le predette ragioni, del richiesto ” quorum deliberativo “, potendo, se mai, tale conferma avere solo il valore di rinuncia a dedurre la invalidità, senza che sia, peraltro, preclusa agli altri condomini la possibilità di impugnazione).

Insomma, qualora un condomino ad un certo punto – nel corso della celebrazione di un’assemblea condominiale – si allontani e tale circostanza viene fatta annotare sul verbale, [NB l’interessante precisazione: è condizione necessaria?] se è incontrovertibile che l’allontanamento non incide sui “quorum costitutivi” (che devono sussistere al momento iniziale), tale circostanza incide, altrettanto indiscutibilmente, su quelli deliberativi relativamente ai singoli punti all’ordine del giorno (nonché sui diritti dei distinti condomini) rispetto ai quali il singolo o più condomini abbiano deciso di non prendere parte alla discussione e alla conseguente delibera, e, quindi, di non partecipare alla votazione, rimanendo del tutto irrilevante la possibile udibilità dall’esterno, da parte dei condomini preventivamente allontanatisi del locale di svolgimento dell’assemblea delle determinazioni che la stessa ha inteso adottare in proposito.

Di conseguenza, il termine di 30 giorni previsto dall’art. 1137, comma 2, c.c. per l’impugnazione delle delibere assembleari annullabili non può farsi coincidere come “dies a quo” – per il condomino (nel caso di specie rappresentato dal delegato) allontanatosi volontariamente dal luogo di svolgimento dell’assemblea, con relativa presa d’atto a verbale, senza partecipare quindi alla votazione – con quello del giorno di adozione della delibera stessa sui punti all’ordine del giorno rispetto alla cui discussione e deliberazione il condomino allontanatosi non ha voluto partecipare, dovendosi, a tutti gli effetti, quest’ultimo considerarsi assente (rimanendo, per quanto in precedenza evidenziato, irrilevante la possibile “udibilità” da parte di detto condomino, postosi all’esterno dei locali in cui si tiene la riunione, della delibera presa dall’assemblea sui relativi argomenti).

A tale principio di diritto dovrà uniformarsi il giudice di rinvio, per effetto del quale – nel caso di specie – la Corte di appello avrebbe dovuto far legittimamente decorrere il suddetto termine, nei confronti della condomina A.A. rimasta – a mezzo del suo delegato – “assente”, da quello successivo della ricevuta comunicazione, da parte della stessa, del verbale contenente la delibera eventualmente annullabile, ove eseguita, non potendo – in mancanza – nemmeno considerarsi iniziato a decorrere (da cui deriverebbe la tempestività, in ogni caso, dell’impugnativa effettuata dall’A.A. con la proposizione dell’atto di citazione notificato il 29 novembre 2013, restando, comunque, demandato al giudice di rinvio – se, eventualmente, si fosse provveduto a tale comunicazione – rivalutare, di conseguenza, la tempestività o meno dell’impugnativa della delibera assembleare, con riferimento all’individuazione del “dies a quo” in rapporto al momento di introduzione del giudizio e, in caso di accertato avvenuto rispetto, decidere sul merito dell’impugnativa stessa)>>.

Riproduzione televisiva dell’immagine di un minore

Cass. sez. III dep. 01/02/2024 , n. 2.978, rel. Spaziani, con un interessante obiter dictum sulla tutela del minore (indicato in rosso; infatti non è la ratio della decisione che non diversifica tra minori e maggiorenni , applicando la gisciplina consueta).

Nel caso i genitori avevano agito per inibitoria e danno contro la RAI per aver ripreso il loro figlio durante un un servizio relativo alla cattura di un latitante.

La SC fa un ripasso generale dapprima:

<<.1.a. Il diritto all’immagine è tutelato nel nostro ordinamento nel codice civile (art.10) e nella legge n. 633 del 1941 sulla protezione del diritto d’autore (artt.96 e 97), che detta il completamento della disciplina codicistica.

Dal combinato disposto della disposizione del codice civile e delle disposizioni della legge speciale, si desume la regola che pone il divieto di esporre o pubblicare l’immagine di una persona.

Il divieto non è assoluto nell’ipotesi in cui l’esposizione o la pubblicazione non rechi pregiudizio all’onore, al decoro o alla reputazione della persona ritratta, perché in questa ipotesi l’esposizione o la pubblicazione è eccezionalmente ammessa quando sussista il consenso della persona medesima (art.96 legge n. 633 del 1941) o quando ricorra una delle fattispecie tassativamente stabilite dalla legge in deroga al divieto stesso (notorietà della persona; ufficio pubblico da essa ricoperto; necessità di giustizia o di polizia; sussistenza di scopi scientifici, didattici o culturali; collegamento della riproduzione con fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico: art. 97, primo comma, l. n. 633 del 1941).

Il divieto è, invece, assoluto nella contraria ipotesi in cui l’esposizione o la pubblicazione rechi pregiudizio all’onore, al decoro o alla reputazione della persona ritratta, perché in questa ipotesi l’esigenza del rispetto dell’intimità della persona prevale sull’esigenza sociale di pubblica conoscenza della sua immagine, sicché non sono ammesse deroghe al divieto di divulgazione (art.97, secondo comma, l. n.633 del 1941).

2.1.b. Il diritto all’immagine – configurato in dottrina talora come manifestazione del più ampio diritto alla riservatezza, talaltra come autonomo diritto della personalità – ha un duplice contenuto, negativo e positivo.

Sotto il primo profilo, il diritto tutela l’interesse del titolare a che la sua immagine non venga diffusa o esposta in pubblico; la correlativa situazione giuridica soggettiva passiva posta in capo alla totalità (erga omnes) dei consociati consiste in un dovere di astensione.

Sotto il secondo profilo, il diritto tutela l’interesse del titolare ad apparire in pubblico nella misura in cui abbia interesse a farlo; la correlativa situazione giuridica soggettiva passiva posta in capo alla totalità (erga omnes) dei consociati consiste in un obbligo di pati.

Tanto il primo quanto il secondo aspetto del diritto hanno avuto, nell’elaborazione giurisprudenziale, una rilevante capacità espansiva, evolvendo verso forme di tutela più estese di quelle circoscritte dalle norme di diritto positivo dianzi ricordate.

Con riguardo al contenuto positivo del diritto, il crescente riconoscimento sociale della facoltà della persona di apparire in pubblico nella misura in cui abbia interesse a farlo, si è tradotto nel giudizio di meritevolezza di tutela (art. 1322, secondo comma, cod. civ.) dell’interesse patrimoniale del soggetto allo sfruttamento commerciale della propria immagine verso un corrispettivo, ponendo le basi, da un lato, per la diffusione del contratto atipico di sponsorizzazione (Cass. n. 9880 del 1997; Cass. n. 7083 del 2006; Cass. n.12801 del 2006; Cass. n.18218 del 2009); dall’altro lato, per il riconoscimento della risarcibilità del pregiudizio economico rappresentato dalla perdita del corrispettivo dell’utilizzazione della propria immagine a fini pubblicitari (Cass. n. 22513 del 2004; Cass. n. 1875 del 2019), così autorizzandosi la dottrina a ritenere esistente, anche nel nostro ordinamento, la figura, di derivazione americana, del right of publicity.

Con particolare riguardo al contenuto negativo del diritto – ovverosia l’aspetto che assume rilievo nella presente sede – deve osservarsi che nella giurisprudenza di questa Corte si è affermato, ed è andato consolidandosi, l’orientamento tendente ad operare una integrazione delle fonti della disciplina del diritto soggettivo in esame, individuandole, non più soltanto nella norma codicistica (art.10 cod. civ.) e nelle disposizioni della legge sul diritto d’autore (artt. 96 e 97 della legge n. 633 del 1941), ma anche nel Codice in materia di protezione dei dati personali (D.Lgs.30 giugno 2003, n.196).

In tema di informazione fornita con il servizio televisivo (e con specifico riguardo al caso di diffusione dell’immagine di persone riprese di nascosto) è stato, ad es., ripetutamente affermato che la presenza delle condizioni legittimanti l’esercizio del diritto di cronaca non implica, di per sé, la legittimità della pubblicazione o diffusione anche dell’immagine delle persone coinvolte, la cui liceità è subordinata, oltre che al rispetto delle prescrizioni contenute negli artt. 10 cod. civ., 96 e 97 della legge n. 633 del 1941, anche all’osservanza di quelle contenute nell’art. 137 del D.Lgs. n. 196 del 2003 e nell’art. 8 del codice deontologico dei giornalisti, nonché alla verifica in concreto della sussistenza di uno specifico ed autonomo interesse pubblico alla conoscenza delle fattezze dei protagonisti della vicenda narrata, nell’ottica della essenzialità di tale divulgazione ai fini della completezza e correttezza della informazione fornita (Cass. n. 15360 del 2015; Cass. n. 18006 del 2018).

Sempre in tema di attività giornalistica (con riguardo alla fattispecie di pubblicazione su quotidiano di fotografia di persona in stato di detenzione) è stato inoltre statuito che la pubblicazione è legittima se sia rispettosa, oltre che dei limiti, fissati dagli artt. 20 e 25 della legge n. 675 del 1996 (ratione temporis applicabili) e, comunque, riprodotti nell’art. 137 del D.Lgs. n. 196 del 2003, di essenzialità per illustrare il contenuto della notizia e quelli dell’esercizio del diritto di cronaca, anche delle particolari cautele imposte a tutela della persona ritratta, previste dall’art. 8 del codice deontologico dei giornalisti, che costituisce fonte normativa integrativa; si è inoltre puntualizzato che l’osservanza dei suddetti limiti va accertata con maggior rigore rispetto alla semplice pubblicazione della notizia, per la maggiore potenzialità lesiva dello strumento visivo e la maggiore idoneità ad una diffusione decontestualizzata e insuscettibile di controllo da parte della persona ritratta (Cass. n. 12834 del 2014).

2.1.c. Il consolidarsi dell’orientamento giurisprudenziale tendente ad integrare le fonti regolatrici del diritto della personalità in esame, si è tradotto nel riconoscimento di una sua maggiore estensione e di una più penetrante e satisfattiva protezione in sede giudiziaria, comportando implicazioni sul giudizio di comparazione tra l’esigenza di tutela dell’interesse della persona a non veder diffusa o esposta in pubblico la propria immagine e l’esigenza di tutela del contrario interesse sociale di pubblica conoscenza dell’immagine medesima, che giustifica la deroga al divieto di esposizione o pubblicazione nelle specifiche ipotesi tassativamente indicate dalla legge.

L’individuazione della fonte regolatrice del diritto anche nelle norme del codice della privacy, implica, infatti, che nel giudizio di bilanciamento assuma un peso maggiore l’esigenza di protezione della sfera privata della persona rispetto alla contraria esigenza di consentirne l’esposizione e la diffusione dell’immagine in quelle tassative fattispecie in cui – escluso comunque il pregiudizio all’onore, al decoro o alla reputazione – sussista un interesse generale a renderla pubblica.

2.1.d. L’esigenza di protezione della sfera privata rispetto a quella di tutela dell’interesse pubblico alla diffusione della sua immagine assume particolare preminenza nell’ipotesi in cui si tratti di persona minore d’età.[è il passaggio più importante, solo che è lasciato in bianco l’esito. Il  bilanciamento col diritto alla data protection non ha alcun criterio per la sua esecuzione , come invece per il 96-97 l. aut. e 10 cc]

Con riferimento a tale fattispecie, questa Corte ha infatti affermato che anche quando non ricorra il caso limite della lesione del decoro, della reputazione o dell’onore della persona di cui all’art. 97, secondo comma, della legge n. 633 del 1941 e si integri, al contrario, in astratto, una delle fattispecie (in particolare il collegamento con un evento di interesse pubblico o comunque svoltosi in pubblico) indicate dal primo comma della detta disposizione, può nondimeno escludersi che operi, in concreto, la deroga legale al divieto di riproduzione dell’immagine prevista dalla stessa norma, allorché alla circostanza soggettiva della minore età della persona si accompagni quella, oggettiva, della non casualità della ripresa, espressamente diretta a polarizzare l’attenzione sull’identità del minore e sulla sua riconoscibilità (Cass. 13/05/2020, n. 8880)>> [NB regola probabilmente applicabile pure ai maggiorenni, valendo la stessa ragione] .

Poi va ai fatti di causa, col consueto rigetto del ricorso perchè censurante una valutaizone di fatto e non di diritto:

<< 2.1.e. Nella vicenda in esame, il Tribunale ha debitamente tenuto conto delle fonti regolatrici del diritto e dei limiti del divieto di pubblicazione dell’immagine della persona e ha debitamente svolto l’accertamento di merito alla luce degli illustrati principi di diritto.

Il giudice del merito, infatti, ha accertato, per un verso, la sussistenza di una delle tassative ipotesi in cui la pubblicazione dell’immagine della persona è consentita dalla legge a prescindere dal suo consenso, in quanto giustificata dal suo collegamento con un evento – l’arresto di un latitante nell’ambito del contesto sociale in cui si era nascosto – connotato dall’interesse pubblico all’informazione e, per di più, svoltosi in luogo pubblico; per altro verso, l’insussistenza delle circostanze obiettive che avrebbero escluso la liceità della pubblicazione dell’immagine di una persona minore di età, la quale era stata ripresa nell’ambito di un servizio di cronaca televisiva in modo del tutto casuale, all’interno di una massa indistinta di persone, senza alcun intento di renderla identificabile o riconoscibile da parte di chi avesse veduto il filmato.

Nell’obiettare a tale motivato accertamento l’opposto rilievo che, al contrario, la pubblicazione dell’immagine sarebbe stata compiuta in pregiudizio all’onore, alla reputazione e al decoro della persona minorenne e con l’intento di polarizzare l’attenzione sulla sua identità e riconoscibilità, il motivo di ricorso in esame, ad onta della formale intestazione, non denuncia un error in iudicando ma tende a suscitare dalla Corte di legittimità un nuovo giudizio di merito in contrapposizione a quello motivatamente formulato dal Tribunale nel rispetto dei principi di diritto applicabili alla fattispecie.

Pertanto, anche il secondo motivo di ricorso deve essere dichiarato inammissibile>>.

Si v. ora, oltre alla nota redazionale, quella successiva firmata da Palmieri in Foro it., 2024/2, 404 ss (l’a. rileva la novità del bilanciamento esteso alla data protection, ma non ne rileva la difficoltà data dall’assenza di un criterio dirimente).

Sfasatura temporale tra la negligenza del sindaco di SRL e il suo diritto al compenso: è legittimo sollevare eccezione di inadempimento da parte della società?

Cass. Sez. I, Ord. 15/02/2024, n. 4.168, rel. Crolla, esamina l’interessante caso in oggetto.

In breve se l’inadempimento attiene ad esercizi precedenti quello di cui il sindco chiede il compenso (il presupposto è ovviamente che sia stato medio rinnovato nell’incarico), può essergli sollevata exceptio inadimplenti non est adimplendum (nella modalità di rigetto della domanda di ammissione al passivo fallimentare)? Risponde di sì  la SC.

<<2.1 Secondo quanto affermato da questa Corte “in tema di società di capitali, l’adempimento dei doveri di controllo, gravanti sui sindaci per l’intera durata del loro ufficio, può essere valutato non solo in modo globale e unitario ma anche per periodi distinti e separati, come si desume dalla disciplina generale, contenuta nell’art. 1458, comma 1, c.c., riferita a tutti i contratti ad esecuzione continuata, pertanto, poiché l’art. 2402 c.c. prevede una retribuzione annuale in favore dei sindaci, è in base a questa unità di misura che l’inadempimento degli obblighi di controllo deve essere confrontato con il diritto al compenso” (Cass. 6027/2021).

2.2 Ciò in quanto il testo della norma dell’art. 2402 c.c. risulta univoco nell’indicare che quella spettante ai sindaci è, propriamente, una “retribuzione annuale”, secondo quanto è coerente, del resto, con la durata che connota, come scansione dell’attività di impresa, l'”esercizio sociale” (così, sulla base di questa constatazione, la giurisprudenza di questa Corte ritiene che il credito del sindaco goda del privilegio ex art. 2751-bis c.c. non già in relazione agli ultimi due mandati, ma unicamente per le due ultime annualità del più recente incarico: cfr. Cass., 4 dicembre 1972, n. 3496; Cass., 9 aprile 2019, n. 15828, che appunto discorrono di “distinti crediti annuali”). Ne segue, allora, che è con questa unità di misura (della singola annualità) che l’inadempimento degli obblighi di controllo deve venire a confrontarsi in relazione al riconoscimento del diritto al compenso del sindaco.

2.3 Nel caso in esame il Tribunale fiorentino ha accertato che la nomina avvenuta il 27 luglio 2018 del nuovo Collegio sindacale, che confermava quale componente la A.A., aveva riguardato gli esercizi relativi agli anni 2018, 2019 e 2020, con la conseguenza che la responsabilità dell’opponente, a fronte del rinnovo della nomina, concerneva tutte le vicende societarie occorse nell’anno solare 2018 e quindi vi rientravano anche i profili di carente vigilanza sui fatti inerenti all’operazione di fusione conclusasi il 15 marzo 2018.

2.4 L’impugnato decreto ha, inoltre, soggiunto che le conseguenze pregiudizievoli scaturite dalla suddetta operazione straordinaria di fusione, correlate alle gravose passività accumulate dalla società incorporanda, la cui effettiva situazione economico-patrimoniale i sindaci avrebbero dovuto disvelare e denunciare con una più accorta e diligente condotta professionale, si sono palesate solo in sede di elaborazione del bilancio relativo all’anno 2018, e dunque nel corso dell’anno 2019.

2.5 La consapevolezza, grazie all’avvertimento del danno-conseguenza, della presenza dell’inadempimento a monte e della correlata responsabilità dell’organo societario ha indotto il Tribunale a riconoscere il carattere sinallagmatico dell’eccezione di inadempimento anche sull’unità temporale dell’annualità 2019.

2.6 Tali conclusioni vanno condivise, in quanto proprio il precedente giurisprudenziale sopra richiamato, nell’affermare che l’inadempimento di un componente del collegio sindacale “può essere apprezzato non solo in modo globale e unitario ma anche per periodi distinti e separati”, fa salva la possibilità che l’eccezione di inadempimento si ponga in rapporto di corrispettività con le richieste di compensi avanzate dal professionista per l’attività riferite al periodo, da considerarsi unitariamente, comprensivo dell’annualità nel corso del quale si è realizzata la condotta antigiuridica del professionista e della successiva annualità in cui si sono palesate le conseguenze dannose>>.

Come si nota , però, nel caso specifico la risposta positiva si è basata sul fatto che la sfasatura temporale non era totale , essendoci invece una sovrapposizione parziale di tre mesi.

Eventi di questo tipo non sono semplicissimi da governare. Sorgono dei dubbi:

1) se la sovrapposizione fosse stata solo di pochissimi giorni, sarebbe cambiato qualcosa?

2) l’incarico rinnovato ogni tre annni è un incarico unico oppure son tanti incarichi quante le delibere di incarico?

3) se la sfasatura fosse stata assoluta (ad es. fusione negligentemente non ostacolata nel 2017 e rinnovo nel 2018), sarebbe cambiato qualcosa?

Sub 2, direi che ogni delibera dà luogo ad un nuovo incarico.

Ma da ciò, circa sub 3) , non ne segue necessariamente  un dovere di pagare il compenso per il nuovo incarico in presenza di danni cagionati nel precedente. Solo che non si potrà adoperare l’exceptio, bensì la -più ardua, per la stima del danno- via della compensazione tra crediti (al compenso vs. risarcitorio).

Ammessa dalle Sezioni Unite la servitù prediale di parcheggio

Condivisibile il raiognamento di Cass. sez. un.  13/02/2024 n. 3.925, rel. Orilia:

<<La realitas, che distingue il ius in re aliena dal diritto personale di godimento, implica dunque l’esistenza di un legame strumentale ed oggettivo, diretto ed immediato, tra il peso imposto al fondo servente ed il godimento del fondo dominante, nella sua concreta destinazione e conformazione, al fine di incrementarne l’utilizzazione, sì che l’incremento di utilizzazione deve poter essere conseguito da chiunque sia proprietario del fondo dominante e non essere legato ad una attività personale del soggetto. In questa prospettiva, il carattere della realità non può essere escluso per il parcheggio dell’auto sul fondo altrui quando tale facoltà sia costruita come vantaggio a favore del fondo, per la sua migliore utilizzazione: è il caso del fondo a destinazione abitativa, il cui utilizzo è innegabilmente incrementato dalla possibilità, per chi sia proprietario, di parcheggiare l’auto nelle vicinanze dell’abitazione.

Quanto detto non è peraltro ancora sufficiente a individuare la servitù di parcheggio distinguendola dal diritto personale di godimento, poiché occorre guardare anche al fondo servente, il cui utilizzo non può mai risultare del tutto inibito.

Posto, infatti, che la servitù consiste nella conformazione del diritto di proprietà in modo divergente dallo statuto legale, essa non è compatibile con lo svuotamento delle facoltà del proprietario del fondo servente, al quale deve residuare la possibilità di utilizzare il fondo, pur con le restrizioni e limitazioni che discendono dal vantaggio concesso al fondo dominante. [punto teoricamente -ma probabilmente non praticamente –  interessante]

Detto in altre parole, l’asservimento del fondo servente deve essere tale da non esaurire ogni risorsa ovvero ogni utilità che il fondo servente può dare e il proprietario deve poter continuare a fare ogni e qualsiasi uso del fondo che non confligga con l’utilitas concessa. Diversamente si è fuori dallo schema tipico della servitù.

La questione si pone quindi non già in termini di configurabilità in astratto della servitù di parcheggio, ma di previsione, in concreto, di un vantaggio a favore di un fondo cui corrisponda una limitazione a carico di un altro fondo, come rimodulazione dello statuto proprietario, a carattere tendenzialmente perpetuo. È evidente, allora, che la verifica se ci si trovi in presenza di servitù di parcheggio o di diritto personale impone l’esame del titolo e della situazione in concreto sottoposta al giudizio, al fine di stabilire se sussistano i requisiti del ius in re aliena, e specificamente: l’altruità della cosa, l’assolutezza, l’immediatezza (non necessità dell’altrui collaborazione, ai sensi dell’art. 1064 cod. civ.), l’inerenza al fondo servente (diritto opponibile a tutti coloro che vantino diritti sul fondo servente potenzialmente in conflitto con la servitù), l’inerenza al fondo dominante (l’utilizzo del parcheggio deve essere, nel contempo, godimento della proprietà del fondo dominante, secondo la sua destinazione), la specificità dell’utilità riservata, la localizzazione intesa quale individuazione del luogo di esercizio della servitù>>.

Poi:

<<4.5 La tesi favorevole alla costituzione della servitù, oltre ad essere in linea con il sistema, esalta in definitiva il fondamentale principio dell’autonomia negoziale (art. 1322 cc) che, si badi bene, non sfocia in una libertà illimitata, dovendosi sempre confrontare con il limite della meritevolezza di tutela degli elementi dell’accordo.

Del resto, come già rilevato anche da queste Sezioni Unite (cfr. Sentenza n. 8434 del 2020 in una vicenda condominiale sulla concessione di un lastrico solare in godimento ad un terzo per l’installazione di impianti tecnologici), non vi è ragione per negare alle parti la possibilità di scegliere, nell’esercizio dell’autonomia privata riconosciuta dall’articolo 1322 c.c., se perseguire risultati socio-economici analoghi, anche se non identici, mediante contratti ad effetti reali o mediante contratti ad effetti obbligatori; come si verifica, ad esempio, in relazione all’attribuzione del diritto di raccogliere i frutti dal fondo altrui (che può essere conseguita attraverso un contratto costitutivo del diritto di usufrutto o attraverso un contratto attributivo di un diritto personale di godimento, lato sensu riconducibile al modello del contratto di affitto) o in relazione all’attribuzione del diritto di attraversare il fondo altrui (che può essere conseguita attraverso un contratto costitutivo di una servitù di passaggio o attraverso un contratto attributivo di un diritto personale di passaggio, cfr. Cass. 2651/2010, Cass. 3091/2014).

Il principio di tipicità legale necessaria dei diritti reali si traduce nella regola secondo cui i privati non possono creare figure di diritti reali al di fuori di quelle prevista dalla legge e – secondo il recente orientamento espresso dalle sezioni unite con la sentenza n. 28972 del 17/12/2020 con la quale è stato affermato che proprio per effetto della operatività del principio appena richiamato è da ritenere preclusa la pattuizione avente ad oggetto l’attribuzione del c.d. “diritto reale di uso esclusivo” di una porzione condominiale – tale caratterizzazione è supportata anche dagli argomenti secondo i quali: l’art.1322 cc colloca nel comparto contrattuale il principio dell’autonomia; l’ordinamento mostra di guardare sotto ogni aspetto con sfavore a limitazioni particolarmente incisive del diritto di proprietà; l’art. 2643 c.c. contiene un’elencazione tassativa dei diritti reali soggetti a trascrizione.

Tornando al tema specifico della servitù di parcheggio e riprendendo il passaggio motivazionale di Cass. sentenza 6 luglio 2017, n. 16698 cit., la tesi favorevole alla costituzione della servitù di parcheggio valorizza il concetto di tipicità strutturale, ma non contenutistico della servitù. [giusto: del resto l’ampiezza dei concetto di “peso” e di “utilità” ex art. 1027 cc è inequivoca]

Sulla base di tali considerazioni, dunque, l’autonomia contrattuale è libera di prevedere una utilitas – destinata a vantaggio non già di una o più persone, ma di un fondo – che si traduca nel diritto di parcheggio di autovetture secondo lo schema appunto della servitù prediale e quindi nell’osservanza di tutti i requisiti del ius in re aliena, quali l’altruità della cosa, l’assolutezza, l’immediatezza (non necessità dell’altrui collaborazione, ai sensi dell’art. 1064 cod. civ.), l’inerenza al fondo servente (diritto opponibile a tutti coloro che vantino diritti sul fondo servente potenzialmente in conflitto con la servitù), l’inerenza al fondo dominante (l’utilizzo del parcheggio deve essere, nel contempo, godimento della proprietà del fondo dominante, secondo la sua destinazione), la specificità dell’utilità riservata, la localizzazione intesa quale individuazione del luogo di esercizio della servitù affinché non si incorra nella indeterminatezza dell’oggetto e nello svuotamento di fatto del diritto di proprietà.

Sotto quest’ultimo profilo, come già affermato da questa Corte (v. Sez. U. n. 28972 /2020 cit.), la servitù può sì essere modellata in funzione delle più svariate utilizzazioni, pur riguardate dall’angolo visuale dell’obbiettivo rapporto di servizio tra i fondi e non dell’utilità del proprietario del fondo dominante, ma non può mai tradursi in un diritto di godimento generale del fondo servente, il che determinerebbe lo svuotamento della proprietà di esso, ancora una volta, nel suo nucleo fondamentale; insomma, la costituzione della servitù, concretandosi in un rapporto di assoggettamento tra due fondi, importa una restrizione delle facoltà di godimento del fondo servente, ma tale restrizione, se pur commisurata al contenuto ed al tipo della servitù, non può, tuttavia, risolversi nella totale elisione delle facoltà di godimento del fondo servente.

Ciò posto, non vi è dubbio che lo stabilire se un contratto debba qualificarsi come contratto ad effetti reali o come contratto ad effetti obbligatori attiene all’ermeneusi negoziale, la cui soluzione compete al giudice di merito (cfr. tra le tante, SSUU Sentenza n. 8434 del 2020 cit.)>>.

Principio di diritto:

“In tema di servitù, lo schema previsto dall’art. 1027 c.c. non preclude la costituzione, mediante convenzione, di servitù avente ad oggetto il parcheggio di un veicolo sul fondo altrui purché, in base all’esame del titolo e ad una verifica in concreto della situazione di fatto, tale facoltà risulti essere stata attribuita come vantaggio in favore di altro fondo per la sua migliore utilizzazione e sempre che sussistano i requisiti del diritto reale e in particolare la localizzazione”;

Nota alla sentenza con bozza di clausola di Alessandro Torrioni in Federnotizie.

Le limitazioni alla capacità di agire disposte nel decreto di nomina dell’amministratore di sostegno

Cass. Civ., Sez. I, ord. 12 febbraio 2024 n. 3.751, rel. Russo R.E.A.:

<<Il provvedimento di apertura dell’amministrazione di sostegno, nella parte in cui estende al beneficiario limitazioni previste per l’interdetto e l’inabilitato, deve essere sorretto da una specifica motivazione che giustifichi la ragione per la quale si sia limitata la sfera di autodeterminazione del soggetto e della misura di tali limitazioni.
Il provvedimento non rispondente a tali principi deve essere cassato, laddove pur dando atto che la persona è stata ritenuta capace di gestire il proprio patrimonio personale, anche per gli atti di straordinaria amministrazione, non spiega per quale ragione si esclude la capacità di gestire le partecipazioni societarie che fanno parte pur sempre del patrimonio personale del soggetto e di esercitare il diritto di voto in assemblea; né la Corte distrettuale si sofferma sulla possibile adozione di strumenti alternativi, compatibili con la volontà espressa da un beneficiario, che viene però ritenuto sufficientemente lucido e consapevole per adottare ogni altra decisione riguardante il proprio patrimonio, e ciononostante totalmente escluso dalla gestione dei suoi interessi nella società>>.

(massima di Valeria Cianciolo in Ondif)

Dalla motivazione:

<<Questa Corte ha più volte affermato che in tema di amministrazione di sostegno, le caratteristiche dell’istituto impongono, in linea con le indicazioni provenienti dall’art. 12 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, che l’accertamento della ricorrenza dei presupposti di legge sia compiuto in maniera specifica e focalizzata rispetto alle condizioni di menomazione del beneficiario ed anche rispetto all’incidenza di tali condizioni sulla capacità del medesimo di provvedere ai propri interessi, perimetrando i poteri gestori dell’amministratore in termini direttamente proporzionati ad entrambi i menzionati elementi, di guisa che la misura risulti specifica e funzionale agli obiettivi individuali di tutela, altrimenti implicando un’ingiustificata limitazione della capacità di agire della persona. In tale quadro, le dichiarazioni del beneficiario e la sua eventuale opposizione, soprattutto laddove la disabilità si palesi solo di tipo fisico, devono essere opportunamente considerate, così come il ricorso a possibili strumenti alternativi dallo stesso proposti, ove prospettati con sufficiente specificità e concretezza (Cass. n. 10483 del 31/03/2022; Cass. n. 32542 del 04/11/2022; Cass. n. 21887 del 11/07/2022).

Si deve inoltre osservare che l’art. 410 c.c. — nella parte in cui impone all’amministratore di sostegno di informare il beneficiario circa gli atti da compiere e, in caso di dissenso, anche il giudice tutelare — dimostra come, in ogni caso, l’opinione del beneficiario debba essere tenuta in considerazione, pur se ne venga limitata la capacità. Limitare la capacità nella minor misura possibile significa pertanto non soltanto selezionare specificamente gli atti che il beneficiario non può compiere o non può compiere da solo, ma altresì preservare, anche con riferimento a questi atti, il diritto del beneficiario di esprimere la propria opinione e di partecipare, nella misura in cui lo consenta la sua condizione, alla formazione delle decisioni che lo riguardano.

5.- Da ciò discende che il provvedimento di apertura dell’amministrazione di sostegno, nella parte in cui estende al beneficiario limitazioni previste per l’interdetto e l’inabilitato, deve essere sorretto da una specifica motivazione che giustifichi la ragione per la quale si sia limitata la sfera di autodeterminazione del soggetto e della misura di tali limitazioni; e le decisioni che non rispettano i desiderata del beneficiario devono fondarsi non solo sulla rigorosa valutazione che egli non sia capace di adeguatamente gestire i propri interessi e di assumere decisioni adeguatamente protettive, ma anche sulla valutazione della possibilità di ricorrere a strumenti alternativi di supporto e non limitativi della capacità, in modo da proteggere gli interessi della persona senza mortificarla, preservandone la dignità; in questi termini se ne apprezza la compatibilità con il sistema costituzionale (v. Corte Cost 114/2019)>>.

Onere della prova del coniunge richiedente l’assegno di mantenimento circa l’impossibilità di trovare lavoro

Cass. Civ., Sez. I, ord. 18 gennaio 2024 n. 1894, rel. Meloni:

<In materia di separazione dei coniugi, grava sul richiedente l’assegno di mantenimento, ove risulti accertata in fatto la sua capacità di lavorare, l’onere della dimostrazione di essersi inutilmente attivato e proposto sul mercato per reperire un’occupazione retribuita confacente alle proprie attitudini professionali, poiché il riconoscimento dell’assegno a causa della mancanza di adeguati redditi propri, previsto dall’art. 156 c.c., pur essendo espressione del dovere solidaristico di assistenza materiale, non può estendersi fino a comprendere ciò che, secondo il canone dell’ordinaria diligenza, l’istante sia in grado di procurarsi da solo. Ne consegue che il giudice, chiamato a verificare la debenza e la misura dell’assegno, deve valutare tutte le circostanze allegate dalle parti e rilevanti a tal fine, quale è la sussistenza di una malattia oncologica in capo al richiedente, idonea a comprometterne la capacità lavorativa>>.

Importante a fini pratici la disciplina dell’onere della prova.

(massima di Valeria Cianciolo, in Ondif)

In caso di cancellazione della società conduttrice, l’azione di risoluzione contrattuale può essere rivolta ai soci che succedono ex art. 2495 cc

Così Cass. sez. III, ord. 06/11/2023 n. 30.832, rel. Condello.

Questa la massima di Giustizia Civile in DeJure.

<<In tema di locazione, in caso di estinzione della società conduttrice conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, l’azione di risoluzione del contratto e restituzione del bene locato è esperibile nei confronti dei soci, in quanto, ai sensi dell’art. 2495 c.c., a seguito dell’estinzione i soci succedono in tutti i rapporti obbligatori aventi natura patrimoniale, e, quindi, anche nel contratto di locazione stipulato dalla società estinta dal quale deriva un fascio di obbligazioni che comprende, non solo quella di corrispondere i canoni pattuiti, ma anche quella di restituire l’immobile alla cessazione del rapporto>>.

Ma è meglio andare alla motivazione, dicendo nulla la massima sul punto di interesse:

<<4.2. La questione che si prospetta con la censura in esame è quello di stabilire entro che limiti operi il fenomeno successorio sui generis che consegue alla cancellazione della società dal registro delle imprese.

Ritiene il Collegio che l’art. 2495 c.c., come interpretato dalle Sezioni Unite [sentenza n. 6070 del 12 marzo 2013, NDS] , non abbia una portata limitata alle obbligazioni pecuniarie, ma debba trovare applicazione con riguardo a tutti i rapporti obbligatori aventi natura patrimoniale.

Le Sezioni Unite, con la nota sentenza del 2013, nel riferirsi genericamente alle “obbligazioni”, tanto attive quanto passive, hanno lasciato intendere che nel fenomeno successorio debba farsi rientrare qualsiasi obbligazione e che la dizione “creditori sociali non soddisfatti”, contenuta nell’art. 2495 c.c., comma 2 non possa che ricomprendere qualsiasi pretesa derivante da rapporti pendenti già facenti capo alla società, e, quindi, anche quelle che traggono origine da contratti di cui la società era parte, non diversamente da quanto accade a seguito della morte della persona fisica.

Ciò porta a ritenere l’applicabilità dell’art. 2495 c.c. anche al contratto di locazione ad uso diverso da quello abitativo, dal momento che da esso deriva un fascio di obbligazioni, che comprende non solo quella di corrispondere i canoni pattuiti, ma anche quella di restituire l’immobile alla cessazione del rapporto.

Varrà rilevare, sul punto, che nel caso di decesso di persona fisica, che rivesta la qualità di conduttore nell’ambito di un contratto di locazione ad uso diverso da quello abitativo, contro gli eredi è sicuramente azionabile il diritto, vantato dal locatore, al pagamento dei relativi canoni ed alla riconsegna del bene immobile alla scadenza del contratto, dato che gli eredi subentrano nella stessa posizione del de cuius e ne assumono i relativi obblighi.

Allo stesso modo nell’ipotesi in cui a rivestire la qualità di conduttore sia una società che successivamente viene cancellata dal registro delle imprese, le obbligazioni originariamente da essa assunte non possono che essere trasferite ai soci della medesima società, nei cui confronti i creditori possono agire, ai sensi dell’art. 2495 c.c., qualora esse attengano a rapporti ancora pendenti e non ancora definiti al momento della cancellazione, proprio perché le obbligazioni derivanti dal contratto non ancora adempiute si atteggiano alla stregua di crediti non soddisfatti.

Ciò significa che si trasferiscono ai soci anche i rapporti diversi dai debiti pecuniari. Precisamente in base al fenomeno di tipo successorio che consegue alla cancellazione, sono trasferiti ai soci le obbligazioni ancora inadempiute ed i beni o i diritti non compresi nel bilancio finale di liquidazione, con esclusione, invece, delle mere pretese, ancorché azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi necessitanti dell’accertamento giudiziale non concluso (Cass. Sez. U, n. 29108 del 18/12/2020; Cass., sez. 1, n. 19302 del 19/07/2018; Cass., sez. 1, 15/11/2016, n. 23269).

Come questa Corte ha avuto modo di chiarire, seppure con riferimento alla diversa fattispecie dell’obbligo di concludere il contratto definitivo ex art. 2932 c.c., assunto da una società promittente alienante successivamente estinta per intervenuta cancellazione dal registro delle imprese (Cass., sez. 2, 2023, n. 15762), “dall’estinzione della società, derivante dalla sua volontaria cancellazione dal registro delle imprese, non discende l’estinzione degli obblighi di facere ancora insoddisfatti che ad essa facevano capo, poiché diversamente si riconoscerebbe al debitore di disporre unilateralmente del diritto altrui, con conseguente ingiustificato sacrificio dei creditori. Invece, all’esito dell’estinzione della società tali debiti insoddisfatti si trasferiscono in capo ai suoi soci. Per l’effetto, gli ex soci sono sempre destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società estinta, ma non definiti al termine della liquidazione, fermo restando il loro diritto di opporre il limite di responsabilità ex art. 2495 c.c. per i debiti pecuniari”; cosicché “i soci della società estinta possono essere convenuti in giudizio (oppure il giudizio già pendente nei confronti della società può continuare verso i soci), qualora la causa abbia ad oggetto obbligazioni della società diverse da quelle riguardanti somme di denaro (vedi, con riferimento alle azioni revocatorie ordinarie, Cass., sez. 3, Ordinanza n. 6598 del 06/03/2023; Sez. 3, n. 5816 del 27/02/2023; Sez. 3, Sentenza n. 21105 del 19/10/2016)>>.

Abuso di maggioranza nella rimozione di clausola di prelazione in SRL

Cass. Sez. I, Ord. 14/02/2024, n. 4.034, rel. Perrino, in una impugnazione di delibera abolitiva di una clausola di prelazione statutaria  “interna” cioè solo tra soci (srl con tre soci):

<<4.- Col quarto motivo di ricorso si lamenta la violazione o falsa applicazione, per omesso esame di fatti decisivi, rilevanti in base agli artt. 2479, comma 2, n. 4, 2479-ter, 1175, 1375 e 2697 c.c., perché idonei a dimostrare l’intento di emarginare definitivamente dalla compagine sociale il socio di minoranza, senza consentirgli di aumentare la consistenza della propria partecipazione al capitale sociale con l’acquisto di una percentuale della quota della socia venditrice. In sostanza, col motivo il ricorrente evidenzia che la motivazione della corte d’appello è al di sotto del minimo costituzionale, perché la corte territoriale non mostra di aver percepito le conseguenze scaturenti dalla delibera di abolizione della prelazione interna.

Il motivo, oltre che ammissibile, in quanto basato su fatti pacifici nel loro accadimento della rilevanza dei quali si assume la pretermissione, è fondato, alla luce dei principi fissati da questa Corte nel delineare la fisionomia dell’abuso di maggioranza, ancorati alla regola della buona fede oggettiva, quale canone di valutazione della condotta dei soci in assemblea, esecutiva del contratto di società.

Secondo questa Corte sussiste abuso di maggioranza, che si riverbera sull’annullabilità della delibera con la quale esso si è espresso, qualora il voto non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società, perché volto a perseguire un interesse personale antitetico a quello sociale, oppure se sia il risultato di un’intenzionale attività fraudolenta dei soci di maggioranza diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli (Cass. n. 27387/05; n. 15942/07; n. 15950/07; n. 23823/07; n. 20625/20; sez. un., n. 2767/23). [nb: la SC individua due casi tipici di abuso]

4.1.- Il ricorrente sostiene dunque che l’eliminazione della clausola di prelazione interna abbia determinato la lesione del proprio corrispondente diritto, che gli era stato conferito dallo statuto, e che questa lesione, rilevante di per sé, non sarebbe stato affatto valutata dal giudice d’appello.

È, invece, tramontata la prospettazione del perseguimento dell’interesse contrastante con quello sociale, posto che il ricorrente non ha aggredito le statuizioni contenute nella sentenza impugnata con le quali si è esclusa la fondatezza di questo profilo, in base, per un verso, all’approvazione unanime della delibera che ha procurato a Star Traders la provvista usata per acquistare parte della quota della socia B.B., e, per altro verso, all’irrilevanza della qualità di società estera della socia divenuta di maggioranza.

5.- Questione decisiva sta nello stabilire se l’attore, sul quale grava il relativo onere, abbia fornito, o non, la prova dell’abuso; e giova sottolineare che di regola abuso ed eccesso di potere non sono suscettibili di prova diretta, ma di una valutazione di tipo indiziario, presuntivo, nel rispetto dei canoni di gravità, precisione e concordanza (cfr., al riguardo, Cass. n. 26387/05).

A questa domanda la corte d’appello ha dato risposta negativa, perché, ha considerato, quel socio era già di minoranza e tale sarebbe rimasto anche se la clausola non fosse stata soppressa.

Questa statuizione è tautologica e inconferente, in quanto effettivamente non esamina la rilevanza del vulnus provocato dalla delibera alle prerogative del socio all’interno dell’organizzazione sociale.

5.1.- Si suole riconoscere alla clausola di prelazione rilevanza organizzativa, ossia funzione specificamente sociale, perché essa incide sul rapporto tra l’elemento capitalistico e quello personale della società, nel senso che accresce il peso del secondo elemento rispetto al primo nella misura che i soci ritengano di volta in volta più adatta alle esigenze dell’ente (Cass. n. 12370/14; n. 24559/15). È inevitabile, tuttavia, che la modifica delle regole organizzative alteri le posizioni organizzative dei soci o anche soltanto le posizioni dei soci nell’organizzazione; in particolare, la soppressione o la modifica di una clausola di prelazione inesorabilmente si riverbera sul deterioramento delle prerogative dei soci.

Il che è ancora più evidente nel caso in cui la clausola sia modificata nel senso di escluderne soltanto gli effetti all’interno della compagine societaria, ossia nel senso di escludere che uno dei soci possa valersene in relazione alle vendite delle quote degli altri soci: un tale ridimensionamento della portata della clausola è idonea a intaccare l’equilibrio dei rapporti interni alla compagine sociale, in quanto elide la parità di chances di ciascun socio, presidiata dalla clausola di prelazione interna, di acquistare la quota di un altro socio, o anche solo parte di essa, e, quindi, di rafforzare la propria posizione all’interno della società.

6.- Dunque, a fronte di un tale deterioramento, quel che rileva è verificare se, nel caso in esame, i soci di maggioranza, con l’adozione della delibera di abolizione della prelazione interna, abbiano agito in modo strumentale per recare un danno ingiustificato al socio di minoranza, eventualmente col proprio particolare e altrettanto ingiustificato vantaggio, in violazione del canone di buona fede oggettiva posto dall’art. 1375 c.c., per il quale ciascun socio ha l’obbligo di consentire che gli altri salvaguardino i propri interessi sociali, ossia le utilità protette dalle prerogative organizzative loro spettanti, se ciò non sia di apprezzabile detrimento per i propri interessi negoziali.

6.1.- Come si è persuasivamente sottolineato in dottrina, qualora si contrappongano, da parte dei soci di maggioranza e di quelli di minoranza, interessi entrambi negoziali, o anche entrambi non negoziali, si dovrà lasciar operare la regola della maggioranza, posto che l’adesione al contratto sociale prestata all’inizio da ciascun socio comporta la disponibilità ad assoggettarsi alle regole del funzionamento dell’assemblea per consentire alla società di assumere tutte le decisioni che l’assemblea reputi idonee al conseguimento del suo scopo.

Proprio in ragione del fatto che il socio deve accettare le limitazioni dei propri diritti in quanto collegate e funzionali, nello spirito stesso del principio di maggioranza, al miglior perseguimento dell’interesse comune riassunto nell’interesse della società, solo quest’obiettivo legittima in radice il sacrificio di quei diritti; di modo che, al cospetto di decisioni limitative o soppressive, tanto più rilevante diventa la verifica della sussistenza di una corrispondenza della decisione di maggioranza al suo scopo “naturale” e proprio.

7.- Ma se a contrapporsi siano interessi negoziali e interessi non negoziali, perché volti a pregiudicare o ad escludere il singolo o una minoranza, il principio di maggioranza non riesce efficacemente ad operare. In tal caso, nel collegamento tra il principio di maggioranza e il suo atto di esercizio, esce alterata la funzione obiettiva dell’atto rispetto al potere che lo prevede.

7.1.– Come conseguenza di tale eventuale abuso, l’ordinamento pone una regola generale, nel senso di rifiutare la tutela ai poteri, diritti e interessi, esercitati in violazione delle corrette regole di esercizio, posti in essere con comportamenti contrari alla buona fede oggettiva. E nella formula della mancanza di tutela sta la finalità di impedire che possano essere conseguiti o conservati i vantaggi ottenuti -e i diritti connessi- attraverso atti di per sé strutturalmente idonei, ma esercitati in modo da alterarne la funzione, violando la normativa di correttezza, che è regola cui l’ordinamento fa espresso richiamo nella disciplina dei rapporti di autonomia privata (in termini, Cass. n. 26541/21).

8.- Nel caso in esame, come ha osservato la Procura generale, l’eliminazione della prelazione interna è avvenuta a ridosso della vendita di parte della quota di una delle socie all’altra socia, posto che la clausola di prelazione interna è stata soppressa con delibera dell’assemblea straordinaria del 28 marzo 2014 e la cessione di quota da B.B. a Star Traders è avvenuta appena diciotto giorni dopo, ossia il 15 aprile 2014.

Un conto è essere socio di minoranza insieme con altri soci, ciascuno di minoranza, il che impone ai soci il raggiungimento di un accordo; altro conto è restare l’unico socio di minoranza, mentre altro socio diviene di maggioranza e quindi in grado di determinare le sorti della società. La Corte d’appello è dunque chiamata a valutare e a spiegare se la successione cronologica degli eventi sia stata volta a impedire al ricorrente l’esercizio del diritto di prelazione e, in particolare, se sia stata volta a impedirgli d’interferire con la vendita delle quote all’altro socio.>>

RAgionamento condivisibile: solo che è difficile ravvisare abuso solo perchè anzichè vendere a seguito di offerta in prelazione gli altri soci hanno prima cancellato la clausola prelatizia. Il contratto sociale prevede appunto che le clausole siano modificabili senza spiegazione.