Il miglior interesse del miore nella decisione sull’affido: diritto di essere sentito e patologia della madre

Cass. Sez. I, Ord. 08/02/2024  n. 3.576, rel. Russo R. E. A.:

Sul diritto di ascolto spettante al minore:

<<Il provvedimento di affidamento deve essere adottato facendo riferimento esclusivo all’interesse morale e materiale del minore (art. 337- ter c.c.); ciò comporta che nelle decisioni che lo concernono deve ricercarsi la soluzione ottimale in concreto, quella cioè che meglio garantisca la miglior cura della persona (Corte Cost. 102/2020; Corte Cost. 33/2021) e ne attui i diritti (del minore), scolpiti dall’art. 315-bis c.c.. L’individuazione del miglior interesse del minore (best interests nella formula in lingua inglese dell’art. 3 della Convenzione di New York del 1989) è un procedimento che rifugge da automatismi e richiede di tener conto tutte le circostanze di fatto che connotano il caso, nonché della incidenza del fattore tempo – sia in senso positivo che negativo – e dei desideri della aspirazioni e delle opinioni dello stesso minore, che, seppure privo della capacità di agire, ha diritto di essere ascoltato.

In tema di ascolto del minore, questa Corte ha più volte affermato che l’ascolto è disegnato dall’art. 315-bis c.c. non come un atto istruttorio, ma come un diritto, esercitato dal minore capace di discernimento, di esprimere liberamente la propria opinione in merito a tutte le questioni e procedure che lo riguardano, vale a dire alle questioni che hanno incidenza sulla sua vita e sulla relazione familiare.

Si tratta di un diritto personalissimo, della persona minore di età, attraverso il quale è assicurata, a prescindere dall’acquisto della capacità di agire, la libertà di autodeterminarsi, di esprimere la propria opinione e di partecipare in prima persona, e non solo tramite rappresentante, al processo; costituisce al tempo stesso primario elemento di valutazione del miglior interesse del minore (Cass. n. 6129 del 26/03/2015; Cass. n. 15365 del 22/07/2015; Cass. n. 13377 del 16/05/2023, in motivazione; Cass. n. 437 dell’8/01/2024).

Il minore non è il soggetto passivo di una tutela pensata e costruita esclusivamente dagli adulti, ma titolare di diritti suoi propri, distinti da quelli del nucleo familiare cui appartiene, e che deve essere ammesso ad esercitare personalmente, nella misura in cui lo consente la capacità di discernimento e cioè quella specifica competenza individuale, che pur non coincidendo con la piena acquisizione della attitudine a compiere validamente atti giuridici, gli consente però di rappresentare con sufficiente ragionevolezza i propri interessi, poiché egli comprende la portata delle proprie azioni e si prefigura le conseguenze delle proprie scelte (Cass. n. 32290 del 21/11/2023).

Vero è che, per espressa disposizione di legge, se l’ascolto è in contrasto con l’interesse del minore, o manifestamente superfluo, il giudice non procede all’adempimento dandone atto con provvedimento motivato (art 336 comma II c.c.). L’uso della disgiuntiva “o” rende evidente che si tratta di due ipotesi distinte, e pertanto per ascolto manifestamente superfluo deve intendersi quell’attività che pur non arrecando danno agli interessi del minore, tuttavia non vi apporta alcun (ulteriore) beneficio: ciò può avvenire, ad esempio, quando l’audizione del minore sia sollecitata su questioni irrilevanti oppure non pertinenti, oppure quando già è stato assicurato il pieno esercizio dei suoi diritti e la sua partecipazione attiva al processo attraverso tutti gli strumenti che l’ordinamento predispone a tal fine, la sua opinione sia stata chiaramente espressa e le sue istanze debitamente rappresentate. Al fine di verificare se l’ascolto sia superfluo è quindi significativa la differenza tra quei processi ove il minore non è mai stato ascoltato direttamente dal giudice e i processi ove si discuta solo della rinnovazione della sua audizione (non richiesta dal minore), perché nel primo caso la motivazione sulla omissione dell’ascolto diretto dovrà essere puntuale e non fatta per mero richiamo ai risultati della consulenza tecnica (o al c.d. ascolto indiretto), mentre nel secondo caso è sufficiente che il giudice si esprima in ordine alle esigenze sottese all’esercizio del diritto di ascolto, e segnatamente indichi se esse siano state compiutamente soddisfatte o meno, dando conto di eventuali fatti salienti nelle more verificatisi (si vedano sul punto Cass. 8 gennaio 2024, n. 437; Cass. n. 1474 del 25/01/2021; Cass. n. 23804 del 02/09/2021). La partecipazione attiva al processo non può identificarsi con l’esperimento di una consulenza tecnica d’ufficio, in particolare di una consulenza psicodiagnostica, perché in questi casi, pur se il consulente raccoglie le opinioni del minore, le utilizza per comprendere e descrivere la sua personalità, e non per consentirgli di esercitare un diritto, che è compito specifico del giudice (in arg. Cass. n. 12957 del 24/05/2018; Cass. n. 1474 del 25/01/2021). Anche la consulenza tecnica di ufficio, ove ritenuta appropriata e pertinente è uno strumento per valutare l’interesse del minore, tuttavia non può essere ritenuta equivalente all’ascolto giudiziale o sostituiva di esso; pertanto ove il minore in età di discernimento sia stato sottoposto ad una consulenza ma non ascoltato dal giudice, quest’ultimo dovrà giustificare puntualmente le ragioni dell’omesso ascolto – poiché di questo si tratta – e non limitarsi a richiamare le indagini del consulente sul punto.

Da questi principi, ormai saldi nella giurisprudenza di legittimità, discende, nella sua ovvietà, la considerazione che l’ascolto non può considerarsi superfluo solo perché il giudice avrebbe già individuato la soluzione più adeguata a realizzare il suo miglior interesse; viceversa la regola impone al giudice di ascoltare il minore prima di formarsi un convincimento sull’affidamento, salvo che l’audizione non sia rifiutata dallo stesso minore, non si profili un pregiudizio concreto, da accertare in termini specifici e non astratti, ovvero risulti superflua, nei termini sopra precisati>>.

Sulla patologia giustificante la modifica della discipliona dell’affido:

<<9.1. – È opportuno qui precisare che al fine di modificare l’affidamento del minore o di adottare misure che ne comportino lo spostamento della residenza con la conseguente alterazione delle sue abitudini di vita, non è sufficiente la diagnosi di una patologia, tantomeno di una diagnosi sulla quale non vi siano solide evidenze scientifiche; il giudice è tenuto ad accertare la veridicità comportamenti pregiudizievoli per la minore, utilizzando i comuni mezzi di prova, tipici e specifici della materia, incluse le presunzioni, ed a motivare adeguatamente, senza che sia decisivo il giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della patologia diagnosticata (Cass. 17 maggio 2021 n. 13217).

Non è infatti ammissibile far discendere dalla diagnosi di una patologia, anche se scientificamente indiscussa e a maggior ragione se dubbia, una presunzione di colpevolezza o di inadeguatezza al ruolo di genitore, scissa dalla valutazione in fatto dei comportamenti. Nel processo si giudicano i fatti e i comportamenti, e pertanto è dall’osservazione e dall’analisi dei comportamenti che occorre muovere; la diagnosi, il cui rigore scientifico può e deve essere apprezzato dal giudice, peritus peritorum, può aiutare a comprendere le ragioni dei comportamenti e soprattutto a valutare se sono emendabili, ma non può da sola giustificare un giudizio – o pregiudizio – di non idoneità parentale a carico del genitore.

In termini, questa Corte ha già affermato che il giudice del merito deve verificare il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale e che non è solo attraverso la consulenza tecnica che si possono accertare i comportamenti pregiudizievoli perché il giudice ha a disposizione tutti i mezzi di prova propri del processo civile ed anche uno strumento specifico, quale è l’ascolto del minore, che però non è un mezzo di prova bensì la modalità attraverso la quale il minore esercita il suo diritto di partecipare al processo e di esprimere la sua opinione sulle scelte di vita che lo riguardano (Cass. civ. sez. I 20.3.2013 n. 7401).

9.2. – Per quanto poi attiene ai rimedi, è noto a questa Corte che in caso di diagnosi di PAS (Parental Alienation Syndrome) ovvero altre analoghe, ove s’identifica il genitore convivente come soggetto uso a manipolare il minore e a screditare la figura dell’altro (comportamenti che ben possono darsi nella realtà a prescindere da una patologia diagnosticata), taluni specialisti suggeriscono l’allontanamento del minore dal genitore “malevolo”, come peraltro ha chiesto il ricorrente. Tuttavia, deve qui chiarirsi la differenza che vi è tra il giudizio medico o psicodiagnostico, ove resa una diagnosi si prescrive una terapia per guarire quella specifica patologia esaminata, e il giudizio reso dal giudice nell’ambito di un giusto processo, come disegnato dalla nostra Costituzione. Il medico o lo psicologo, in quanto nominati ausiliari del giudice, rispondono ai quesiti loro sottoposti esaminando la vicenda sotto lo specifico profilo di loro competenza, mentre il giudice deve valutare nell’ambito del processo tutti i contrapposti interessi che vengono in rilievo e stabilire, in conformità alla legge e ai valori costituzionali sui quali la legge è fondata, un punto di equilibrio.

Per questa ragione nessuna diagnosi e nessuna terapia, anche se scientificamente fondate, possono essere recepite acriticamente dal giudice, ma devono essere inserite nel contesto della dinamica processuale, in cui viene in rilievo la posizione di tutte le persone aventi diritto alla tutela della relazione familiare. E, in particolare, deve tenersi in conto che il minore ha diritto non solo a che sia preservata la propria relazione con il genitore non convivente – bo meglio con entrambi i genitori, tranne che non siano gravemente e irrimediabilmente inadeguati – ma ha anche diritto al rispetto della propria sfera di autodeterminazione, in misura crescente ma mano che matura l’età del discernimento, e a che non si adottino indebitamente misure coercitive, quale l’allontanamento forzato dal genitore con cui vive, specie ove si possa ricorrere ad altre misure che promuovano la collaborazione tra tutte le parti interessate, poiché l’art. 8 Convenzione Edu non autorizza i genitori a far adottare misure pregiudizievoli per la salute e lo sviluppo del minore (in arg. v. Corte Edu, 02/211/2010, Piazzi c. Italia; 17/13/2013 Santilli c. Italia; 17.11.2015, B. c. Italia; Grande Camera 01/09/2019 Strand Lobben e altri contro Norvegia; 01/04/2021, A.I. contro Italia).

Nell’ambito di questa pluralità di interessi che connotano la relazione familiare, che è una relazione unica tra entrambi i genitori e la prole e non due singole e diverse relazioni (tra il padre e il figlio e la madre e il figlio), il giudice deve individuare la soluzione più adeguata a realizzare il miglior interesse del minore, tenendo conto anche della emendabilità di eventuali comportamenti pregiudizievoli tenuti dai genitori e senza muovere dall’idea che l’interesse del minore sia sempre e comunque superiore rispetto agli altri interessi e diritti fondamentali che vengono in gioco (Corte Cost. 33/2021).

Pertanto, è da rivedere funditus il giudizio sull’affidamento del minore perché la Corte di merito, oltre agli errori processuali di cui si è detto, non ha dato spazio processuale alle opinioni del minore, ha disatteso i principi di diritto sopra enunciati e non ha tenuto in conto che il giudice di primo grado aveva investito i servizi sociali di un mandato di supporto alla genitorialità i cui risultati avrebbero dovuto essere attentamente monitorati. Ugualmente, la Corte avrebbe dovuto verificare se l’evolversi della situazione rispetto al giudizio di primo grado evidenziasse una conflittualità tale tra i genitori da profilare il conflitto di interessi e se fosse necessaria la nomina di un curatore al minore e tale giudizio dovrà essere reso, alla attualità, dal giudice del giudizio di rinvio.

Di conseguenza, è da rivedere anche la decisione sul mantenimento, in quanto strettamente legata al regime di affidamento e dei tempi di permanenza presso l’uno o l’altro genitore, con l’avvertenza che i tempi di permanenza devono essere valutati solo se effettivi, e in quanto tali comportino uno sforzo economico più o meno incisivo da parte del genitore che tiene presso di sé il minore, e non semplicemente previsti dal provvedimento ma di fatto non attuati>>.

Brevettabilità delle AI-assisted inventions

Le invenzioni solo “AI assisted” (cioè non totalmente generate da AI)  e quindi con seriio contributo umano sono brevbettabuili se quest’ultimo è significativo.

L’ufficio brevettuale usa ha appena diffuso stimolanti  guidelines (DEPARTMENT OF COMMERCE Patent and Trademark Office [Docket No. PTO–P–2023–0043]
Inventorship Guidance for AI-Assisted Inventions) (v. qui la pag. web e qui il pdf).

Ne danno notizia varie fonti tra cui Anna Maria Stein in IPKat.

L’ufficio si riferisce al precedente  Pannu v. Iolab Corp., 155 F.3d 1344, 1351 (Fed.
Cir. 1998) e diuce che la significance contribution ricorre quando ciascun coinventore: << (1) contribute in some significant manner to the conception or reduction to practice of the invention, 32 (2) make a contribution to the claimed invention that is not insignificant in quality, when that contribution is measured against the dimension of the full invention, and (3) do more than merely explain to the real inventors well-known concepts and/or the current state of the art’’ (Pannu factors)>>.

Regole applicabili anche alle AI assisted inventions: <<Although the Pannu factors are generally applied to two or more people who create an invention (i.e., joint inventors), it follows that a single person who uses an AI system to create
an invention is also required to make a significant contribution to the invention, according to the Pannu factors, to be considered a proper inventor>>.

Ed ecco alllora i suggerimenti dell’ufficio:

<< 1. A natural person’s use of an AIsystem in creating an AI-assisted invention does not negate the person’scontributions as an inventor.  The natural person can be listed as theinventor or joint inventor if the natural person contributes significantly to theAI-assisted invention.

2. Merely recognizing a problem orhaving a general goal or research plan topursue does not rise to the level ofconception.  A natural person whoonly presents a problem to an AI systemmay not be a proper inventor or jointinventor of an invention identified fromthe output of the AI system. However,a significant contribution could beshown by the way the person constructsthe prompt in view of a specificproblem to elicit a particular solutionfrom the AI system.

3. Reducing an invention to practicealone is not a significant contributionthat rises to the level of inventorship. Therefore, a natural person who merelyrecognizes and appreciates the output ofan AI system as an invention,particularly when the properties andutility of the output are apparent tothose of ordinary skill, is not necessarily an inventor.  However, a person whotakes the output of an AI system andmakes a significant contribution to theoutput to create an invention may be a proper inventor. Alternatively, incertain situations, a person whoconducts a successful experiment usingthe AI system’s output coulddemonstrate that the person provided asignificant contribution to the inventioneven if that person is unable to establish conception until the invention has been reduced to practice.

4. A natural person who develops an essential building block from which theclaimed invention is derived may beconsidered to have provided asignificant contribution to theconception of the claimed inventioneven though the person was not presentfor or a participant in each activity thatled to the conception of the claim ed invention.  In some situations, thenatural person(s) who designs, builds,or trains an AI system in view of aspecific problem to elicit a particular solution could be an inventor, where thedesigning, building, or training of the AIsystem is a significant contribution tothe invention created with the AIsystem.

5. Maintaining ‘‘intellectual domination’’ over an AI system does not, on its own, make a person an inventor of any inventions createdthrough the use of the AI system. Therefore, a person simply owning or overseeing an AI system that is used in the creation of an invention, without providing a significant contribution to the conception of the invention, does not make that person an inventor.>>

Concorso di colpa del paziente se rifiuta un iutnerevento terapueutico assai probabilmente utuile

Fugace cenno ad un tema importante in Cass. sez. III, ord. del 11/12/2023 n. 34.395, rel. Porreca:

<<la censura è sotto questo profilo ancora una volta aspecifica a mente dell’art. 366 c.p.c., n. 6, il paziente (art. 32 Cost., comma 2) ha il diritto di rifiutare il trattamento medico (al di là del fatto che se ne ipotizzi o meno l’esecuzione ad opera dello stesso medico già intervenuto) ma se il rifiuto è ingiustificato, perché correlato ad attività gravosa o tale da determinare notevoli rischi o rilevanti sacrifici (cfr. Cass., 05/10/2018, n. 24522) [passaggio non cbhiarissimo…., nds], se ne potranno e dovranno trarre le conseguenze a mente del discusso concorso colposo del creditore dell’obbligazione risarcitoria (art. 1227 c.c., comma 2), sicché deve emergere che l’affermato completamento clinico rifiutato avrebbe, più probabilmente che non, portato alla guarigione o ad apprezzabili miglioramenti, senza rischi significativi ovvero estranei a quelli del percorso terapeutico inizialmente, in tesi, compiutamente consentito>>;

La violazione degli obblighi contrattuali donativi non costituisce quell’ingiuria grave (art. 801 cc) che giustifica la revoca della donazione

Cass. sez. II, sent. del 12/02/2024), n.3.811, rel. Giannaccari

<<L’ingiuria grave richiesta dall’art. 801 c.c. quale presupposto necessario per la revocabilità di una donazione per ingratitudine, pur mutuando dal diritto penale la sua natura di offesa all’onore ed al decoro della persona, si caratterizza per la manifestazione esteriore del comportamento del donatario, che deve dimostrare un durevole sentimento di disistima delle qualità morali del donante e mancare rispetto alla dignità del donante (Cassazione civile, sez. 2, 24/06/2008, n. 17188; Cassazione civile, sez. 2, 31/10/2016, n. 22013) L’ingiuria deve, pertanto, essere espressione di radicata e profonda avversione o di perversa animosità verso il donante.

Il comportamento del donante va valutato non solo sotto il profilo oggettivo, ma anche nella sua potenzialità offensiva del patrimonio morale del donante, perché espressamente rivolta a ledere la sua sfera morale, tale da essere contraria a quel senso di riconoscenza che, secondo la coscienza comune, dovrebbero improntare l’atteggiamento del donatario.

Si tratta, evidentemente di una formula aperta ai mutamenti dei costumi sociali, il cui discrimine è segnato dalla ripugnanza che detto comportamento suscita nella coscienza sociale.

Nel caso di specie, la Corte d’appello di Venezia ha ritenuto integrati i requisiti della revoca per ingratitudine dal mero inadempimento della donataria dell’obbligo di somministrazione degli alimenti al donante, dalla violazione dell’obbligo di prestargli assistenza nell’abitazione trasferita con l’atto di donazione e nell’accensione di un mutuo per far fronte alle proprie esigenze e non a quelle del fratello.

Si tratta di comportamenti che, da soli, non esprimono profonda e radicata avversione verso il donante, né un sentimento di disistima delle sue qualità morali, presupposti necessari per la revoca della donazione per ingratitudine.

Anche l’accensione del mutuo doveva essere supportata da un sentimento di avversione verso il donante e caratterizzata da un danno effettivo del suo patrimonio.

La Corte d’Appello, per ritenere integrati i requisiti di cui all’art. 801 c.c., avrebbe dovuto indagare e valutare se detti comportamenti fossero asseritamente ingiuriosi, alla luce dell’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità.

Il ricorso deve, pertanto, essere accolto>>.

DA quel che si capisce circa i fatti storici, la SC ha ben deciso ma anche senza difficoltà: stupisce invece quanto fatto dalla corte di appello.

Sull’autonomia (e sulla revocabilità) della dispensa da imputazione ex se, inserita nella donazione, rispetto alla donazione stessa

Cass. sez. I del 06/02/2024, n. 3.352, rel. Cavallino:

<<4.1. Si deve considerare che la donazione in conto disponibile e con dispensa dall’imputazione è attribuzione che si aggiunge a quanto spetta al beneficiario a titolo di legittima, per cui l’intento del donante ereditando è quello di conferire al donatario un vantaggio ulteriore, che si concreta nell’esenzione dall’imputazione; con la dispensa dall’imputazione, disciplinata dall’art. 564 co. 2 cod. civ., il legittimario trattiene la donazione e in più ha diritto a ottenere la sua quota di legittima intera e non decurtata dalla donazione. Come evidenziato da Cass. Sez. 2 26-11-1971 n. 3457 Rv. 355068-01 la dispensa dall’imputazione ex se crea a favore del beneficiario una posizione di indiscutibile vantaggio, consentendogli di limitare o, addirittura, di escludere l’efficacia delle liberalità disposte in favore di altri legittimari e di conservare le proprie. Secondo la corretta riflessione della dottrina, la dispensa dall’imputazione comporta l’espansione della legittima, in quanto ha l’effetto di accrescere la quota riservata al legittimario, attribuendo allo stesso il diritto di trattenere la donazione ricevuta e nel contempo di conseguire l’intera quota di legittima. Quindi se, anziché dire che la donazione in conto disponibile con dispensa dall’imputazione grava sulla disponibile, si dice che tale donazione si incorpora nella quota di legittima aumentandone il valore, meglio si spiega come tale disposizione si sottragga all’azione di riduzione.

Tale disposizione con la quale il donante regolamenta la donazione in conto disponibile e con dispensa dall’imputazione, anche se contenuta nell’atto di donazione, è per definizione destinata a produrre effetti dopo la morte del disponente e ha specifica funzione mortis causa, quale atto di ultima volontà, palesemente distinta dalla donazione, negozio tipicamente inter vivos. Per queste ragioni, si deve condividere e dare continuità a quanto già statuito da Cass. Sez. 2 29-10-2015 n.22097 Rv. 636879-01 laddove, richiamando l’insegnamento sulla questione della dottrina prevalente, ha dichiarato che la dispensa dall’imputazione costituisce un negozio autonomo rispetto alla donazione, traendo da tale considerazione la conseguenza che la dispensa relativa all’imputazione di una donazione possa essere indifferentemente effettuata nello stesso atto di donazione o in un successivo testamento o in un successivo atto tra vivi. Non ostano a tale conclusione i precedenti di Cass. Sez. 2 1-10-2003 n. 14590 Rv. 567254-01, Cass. Sez. 2 7-5-1984 n. 2752 Rv. 434793-01 e Cass. Sez. 2 27-7-1961 n. 1845 Rv. 882772, in quanto ai fini della presente decisione è sufficiente osservare che la definizione data in quei precedenti alla dispensa dalla collazione quale clausola accessoria al contratto, come tale non eliminabile ex post per volontà di uno solo dei contraenti, non si attaglia alla dispensa dall’imputazione, destinata a produrre effetti dopo la morte del donante attribuendo al donatario divenuto erede il vantaggio ulteriore riferito all’attribuzione della sua intera quota di legittima, in aggiunta alla donazione già ricevuta.

Non può essere condiviso l’ulteriore rilievo svolto da parte della dottrina, secondo la quale la dispensa dall’imputazione contenuta nell’atto di donazione costituisce negozio a causa di morte a struttura inter vivos e quindi irrevocabile da parte del solo disponente: in senso contrario risulta convincente e deve essere recepito quanto pure osservato in dottrina, in ordine al fatto che la natura e la funzione del negozio non si modificano con riferimento all’atto che lo contiene. Anche nel caso in cui sia contenuta nella donazione, la dispensa dall’imputazione mantiene la sua autonomia rispetto alla donazione e incide solo dopo la morte del de cuius nell’assetto successorio-patrimoniale dei coeredi; la morte non è solo l’occasione degli effetti della dispensa ma è il suo presupposto esclusivo e determinante, così da non potere essere la dispensa concepita in modo avulso dall’eventualità di successione futura a favore di più coeredi.

Pertanto si deve concludere che, anche nel caso in cui sia contenuta nella donazione, la dispensa dall’imputazione mantiene la sua natura di atto unilaterale di ultima volontà sempre revocabile in forza del principio posto dall’art. 671 cod. civ., senza assumere struttura bilaterale così da potere essere sciolta solo per mutuo consenso. Del resto, se si ritenesse diversamente che l’accettazione della donazione da parte del donatario abbia a oggetto anche la dispensa dall’imputazione, così da rendere la dispensa irrevocabile unilateralmente da parte del donante, ci si dovrebbe porre la questione del configurarsi di un patto successorio istitutivo; ciò in quanto l’accordo tra il donante-futuro dante causa e il donatario-futuro erede, comprendendo anche la dispensa dall’imputazione così resa irrevocabile, sarebbe accordo avente a oggetto anche la futura successione con riguardo all’assetto delle attribuzioni di legittima e disponibile, in violazione del divieto posto dall’art. 458 cod. civ.>>

La perdita di chance è situazione giuridica diversa dal danno alla salute per mancata guarigione

Cass. Sez. III, Ord. 31/01/2024, n. 2.892, rel. Rubino:

<<Il ricorrente critica la sentenza impugnata là dove ha affermato di non poter prendere in esame la richiesta di risarcimento del danno per perdita di chance, formulata soltanto in appello in via subordinata dall’appellato a fronte di una affermazione, contenuta nella CTU, secondo la quale mancava la prova del nesso causale tra l’operato dei medici e i postumi permanenti, mentre esso sarebbe stato in ipotesi configurabile in relazione a una perdita di possibilità di guarigione.

Sostiene altresì il ricorrente quello che rileva, ai fini della risarcibilità, è la descrizione ed allegazione dei fatti in cui si è concretizzato il danno e non la sua qualificazione giuridica, e sostiene di aver indicato tutti i fatti idonei al risarcimento del danno quanto meno sotto il profilo della perdita di chance, e cioè il comportamento negligente della struttura privata e che il giudice d’appello, sulla base di quei fatti, avrebbe dovuto risarcire il danno che riteneva si fosse effettivamente verificato, che comunque era un danno non patrimoniale ampiamente riconducibile alla domanda formulata. Aggiunge il ricorrente che la domanda risarcitoria era stata accolta pienamente in primo grado per cui egli non aveva alcun onere, in appello, di riformulare eventuali domande subordinate, come ritenuto erroneamente dai giudici d’appello, perché l’appellato vittorioso non ha l’onere di proporre appello incidentale per far valere le cause petendi non esaminate dal giudice di primo grado né quella di riproporre le ragioni pretermesse, essendo sufficiente che ad esse la parte non rinunci. Quindi, sostiene che sul capo del danno non patrimoniale riconosciuto con la sentenza di primo grado si è formato ormai il giudicato interno perché non è stato oggetto di autonoma impugnazione da parte dell’appellante principale né da quello incidentale, quanto meno in riferimento alla perdita di chance.

10. – Il motivo è infondato.

Il ricorrente sostiene che la perdita di chance non è una nozione autonoma, distinta dal danno non patrimoniale per lesione del diritto alla salute e che quindi essa non necessita, ai fini della sua considerazione, di un’autonoma domanda. Sostiene di aver chiesto il risarcimento del danno biologico subito a tutto tondo, in tutte le sue sfaccettature e quindi di aver chiesto anche, ove si ritenesse che solo questo era dovuto, il risarcimento del danno da perdita di chance.

E tuttavia, l’affermazione è errata perché non coglie l’autonomia concettuale del danno da perdita di chance rispetto al danno biologico da lesione del diritto alla salute, più volte affermata da questa Corte.

Deve, in proposito, essere riaffermato il principio di diritto secondo cui il risarcimento del danno da perdita di chance non coincide con il risarcimento del danno biologico, né costituisce una semplice parte di esso, perché non ha ad oggetto né la limitazione funzionale dovuta all’errato intervento medico – a cui consegue un danno permanente alla salute – né la perdita del risultato sperato di una guarigione, ma consiste, per converso, nella perdita della possibilità di realizzare quel risultato – possibilità che, nella specie, si sarebbe potuto astrattamente ipotizzare lesa dalla negligente, passiva o superficiale condotta dei sanitari della prima struttura privata.

In tema di lesione del diritto alla salute da responsabilità sanitaria, questa Corte ha infatti puntualizzato che la “chance” non è una mera aspettativa di fatto, bensì la concreta ed effettiva possibilità di conseguire un determinato risultato o un certo bene, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, onde la sua perdita configura un danno concreto ed attuale; ne consegue che la domanda risarcitoria del danno per la perdita di “chance” è, per l’oggetto, ontologicamente diversa dalla pretesa di risarcimento del pregiudizio derivante dal mancato raggiungimento del risultato sperato, il quale si sostanzia nell’impossibilità di realizzarlo, caratterizzata da incertezza (non causale, ma) eventistica (in questo senso Cass. n. 25886 del 2022, che in applicazione del principio ha confermato la pronuncia di merito che aveva ritenuto nuova e, dunque, inammissibile la domanda risarcitoria per perdita di “chance” avanzata per la prima volta in appello; v. anche Cass. nn. 24050 e 26851 del 2023)>>.

Differenza difficilmente coglibile: andava meglio argomentata.

L’attitudine al lavoro ha rilevanza nella determinazine dell’assegno di mantenimento da separazione

Cass. Sez. I, Sent., 23 gennaio 2024, n. 2.264, rel. Caiazzo:

<< In tema di separazione personale dei coniugi, l’attitudine al lavoro proficuo dei medesimi, quale potenziale capacita di guadagno, costituisce elemento valutabile ai fini della determinazione
della misura dell’assegno di mantenimento da parte del giudice, dovendosi verificare la effettiva
possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore
individuale ed ambientale, senza limitare l’accertamento al solo mancato svolgimento di una attività
lavorativa e con esclusione di mere valutazioni astratte e ipotetiche (Cass., n. 24049/21). Nella specie,
la Corte territoriale ha accolto parzialmente l’appello incidentale del B.B., ritenendo persistente il
diritto della ricorrente principale all’assegno di mantenimento, ma riducendone l’importo, in
considerazione di circostanze da bilanciare: lo stato di disoccupazione e l’impossibilita di procurarsi
un’occupazione lavorativa per la donna; la capacita patrimoniale dimostrata dal marito, che svolgeva
una consolidata attività imprenditoriale>>

(segnalazione e testo offerto da Ondif)

Sull’abuso di maggioranza

Cass. sez. 1 ord. 29.01.2024 n. 2660, rel. Catallozzi:

<<l’abuso della regola di maggioranza è causa di annullamento delle
deliberazioni assembleari allorquando la delibera non trovi alcuna
giustificazione nell’interesse della società – per essere il voto ispirato
al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse
personale antitetico a quello sociale – oppure sia il risultato di una
intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari diretta a
provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti
patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli (così, Cass. 12
dicembre 2005, n. 27387);
– è stato chiarito che ricorre tale ultima situazione quando il voto
determinante del socio (o dei soci) di maggioranza è stato espresso
allo scopo di ledere interessi degli altri soci oppure risulta in concreto
preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza
in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di
buona fede nell’esecuzione del contratto (cfr. Cass. 20 gennaio 2011,
n. 1361; Cass. 11 giugno 2003, n. 9353; Cass. 26 ottobre 1995, n.
11151)
– orbene, la Corte di appello ha escluso la ricorrente del dedotto vizio
in ragione del fatto che l’interesse perseguito dalla maggioranza con
tale delibera non si poneva in contrasto con quello sociale, avuto
riguardo, in particolare, alla circostanza che con essa era stato possibile
realizzare l’uscita dalla compagine sociale di Sergio Ferrando e, in tal
modo, porre fine a una situazione di disarmonie interne e di stallo, oltre
a eliminare «la non limpida chiarezza » della originaria previsione
statutaria concernente la clausola di mero gradimento e di prelazione;
– ha omesso, tuttavia, di verificare se la delibera in contestazione sia
stata approvata al fine pregiudicare gli interessi degli odierni ricorrenti,
soci di minoranza, non facendo corretta applicazione del richiamato
principio di diritto;
– la sentenza impugnata va, pertanto, cassata con riferimento ai motivi
accolti e rinviata, anche per le spese, alla Corte di appello di Firenze,
in diversa composizione>>

Ancora sulla determinazione dell’assegno divorzile

Cass. Sez. I, Sent. 19/12/2023, n. 35.434, rel. Ioffrida:

<<Sul tema della pariordinazione dei criteri di cui alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, si sofferma poi Cass. 17 febbraio 2021, n. 4215, a mente della quale, posto che l’assegno divorzile svolge una funzione sia assistenziale che perequativa e compensativa, il giudice:   a) attribuisce e quantifica l’assegno alla stregua dei parametri pari ordinati di cui all’art. 5, 6 comma, prima parte, tenuto conto dei canoni enucleati dalle Sezioni Unite del 2018, prescindendo dal tenore di vita godibile durante il matrimonio;   b) procede pertanto ad una complessiva ponderazione “dell’intera storia familiare”, in relazione al contesto specifico e, in particolare, atteso che l’assegno deve assicurare all’ex coniuge richiedente – anche sotto il profilo della prognosi futura – un livello reddituale adeguato allo specifico contributo dallo stesso fornito alla realizzazione della vita familiare e alla creazione del patrimonio comune e/o personale dell’altro coniuge, accerta previamente non solo se sussista uno squilibrio economico tra le parti, ma anche se esso sia riconducibile alle scelte comuni di conduzione della vita familiare, alla definizione dei ruoli all’interno della coppia e al sacrificio delle aspettative di lavoro di uno dei due e verifica, infine, se siffatto contributo sia stato già in tutto o in parte altrimenti compensato, fermo che, nel patrimonio del coniuge richiedente, l’assegno non devono computarsi anche gli importi dell’assegno di separazione, percepiti dal medesimo in unica soluzione, in forza di azione esecutiva svolta con successo, in ragione dell’inadempimento dell’altro coniuge.

4.3. In definitiva, occorre un rigoroso accertamento del fatto che lo squilibrio, presente al momento del divorzio, fra la situazione reddituale e patrimoniale delle parti è l’effetto del sacrificio da parte del coniuge più debole a favore delle esigenze familiari, il che giustifica il riconoscimento di un assegno “perequativo”, cioè di un assegno tendente a colmare tale squilibrio reddituale e a dare ristoro, in funzione riequilibratrice, al contributo dato dall’ex coniuge all’organizzazione della vita familiare, senza che per ciò solo si introduca il parametro, in passato utilizzato e ormai superato, del tenore di vita endoconiugale, mentre in assenza della prova di questo nesso causale, l’assegno può essere solo eventualmente giustificato da una esigenza strettamente assistenziale, la quale tuttavia consente il riconoscimento dell’assegno solo se il coniuge più debole non ha i mezzi sufficienti per un’esistenza dignitosa o non può procurarseli per ragioni oggettive. L’assegno divorzile, infatti, deve essere anche adeguato sia a compensare il coniuge economicamente più debole del sacrificio sopportato per avere rinunciato, in particolare, a realistiche occasioni professionali-reddituali – che il coniuge richiedente l’assegno ha l’onere di dimostrare nel giudizio – al fine di contribuire ai bisogni della famiglia, sia ad assicurare, in funzione perequativa, sempre previo accertamento probatorio dei fatti posti a base della disparità economico-patrimoniale conseguente allo scioglimento del vincolo, un livello reddituale adeguato al contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e, conseguentemente, alla formazione del patrimonio familiare e personale dell’altro coniuge, rimanendo, in tal caso, assorbito l’eventuale profilo prettamente assistenziale.

Sciolto il vincolo coniugale, in linea di principio ciascun ex coniuge deve provvedere al proprio mantenimento, ma tale principio è derogato, in base alla disciplina sull’assegno divorzile, oltre che nell’ipotesi di non autosufficienza di uno degli ex coniugi, anche nel caso in cui il matrimonio sia stato causa di uno spostamento patrimoniale dall’uno all’altro coniuge, “ex post” divenuto ingiustificato, spostamento patrimoniale che in tal caso deve essere corretto attraverso l’attribuzione di un assegno, in funzione compensativo-perequativa>>.

Si noti bene: son due ipotesi autonome, non cumulate.

Le spese condominiali amministrative, concernenti non tutti ma solo determinati condomini, legittimamente sono poste a carico solo di questi ultimi

Cass. Sez. II, Ord. 16/01/2024, n. 1.704, rel. Mondini:

<<2.4. La Corte, con la sentenza n.12573 del 2019 dopo aver cassato la sentenza favorevole agli odierni ricorrente in quanto la stessa si era limitata a stabilire che le spese in contestazione dovevano essere ripartite secondo la legge con implicito riferimento al solo primo comma dell’art. 1223 c.c., aveva imposto al giudice del rinvio di svolgere accertamenti finalizzati a verificare se le attività i cui costi erano stati addebitati agli odierni ricorrenti fossero attività destinate a servire tutti i condomini o solo i ricorrenti cosicché, in questo secondo caso, i costi potessero essere posti a carico dei soli ricorrenti, in applicazione del secondo comma dell’art. 1123 c.c. Secondo i ricorrenti, il Tribunale non avrebbe adempiuto a quanto demandatogli dalla Corte perché avrebbe “accomunato in un unico calderone” tutti gli addebiti laddove invece, per adempiere, avrebbe dovuto esprimersi su ogni singolo addebito in relazione ad ogni singola missiva, tanto più che non tutte le missive erano state inviate da o a i ricorrenti.

In realtà il Tribunale ha preso in esame ciascuna missiva separatamente. Ne ha esaminato il contenuto. Ha individuato l’attività svolta dall’amministratore. Ha dato conto, anche attraverso il riferimento alle allegazioni delle parti, delle ragioni per cui le attività emergenti da ciascuna missiva dovevano essere ricondotte a richieste o all’iniziativa dei ricorrenti. Ha dato altresì conto in modo puntuale di mittenti e destinatari con la precisazione, ove diversi dall’amministratore e dagli odierni ricorrenti, del rapporto con l’uno o gli altri. Trattavasi -ha specificato il Tribunale- del legale dell’amministratore in relazione a richieste del legale dei ricorrenti e di un geometra che, richiesto direttamente dai ricorrenti di modificare un determinato preventivo, aveva effettuato la prestazione e si era poi rivolto all’amministratore il quale era stato conseguentemente costretto ad esaminare il documento inviatogli e a dare riscontro al geometra>>.