Sulla compensabilità lucri cum damno nel rapporto tra risarcimento del danno da emotrasfusione e indennizzo ex L. 210/1992

La compensabilità opera solo per il risarcimento da invalidità permanente, non per quello da temporanea, dice Cass. sez. III, ord. 19/02/2024 n. 4.415, rel. Scoditti:

<<Il Collegio intende dare continuità all’indirizzo di questa Corte secondo cui in caso di responsabilità per contagio da virus HBV, HIV o HCV a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto, opera la “compensatio lucri cum damno” fra l’indennizzo ex l. n. 210 del 1992 e il risarcimento del danno anche laddove solo in apparenza non sussista coincidenza fra il danneggiante e il soggetto che eroga la provvidenza, allorquando possa comunque escludersi che, per effetto del diffalco, si determini un ingiustificato vantaggio per il responsabile, benché la l. n. 210 del 1992 non preveda un meccanismo di surroga e rivalsa sul danneggiante in favore di chi abbia erogato l’indennizzo. (…)

Come affermato dalla prima pronuncia che ha inaugurato l’indirizzo in discorso, “l’erogazione dell’indennizzo, originariamente gravante sul Ministero della Salute, è stata successivamente demandata alle Regioni, per effetto del D.Lgs. n. 112 del 1998, art. 114 (e dei D.P.C.M. 26 maggio 2000, D.P.C.M. 8 gennaio 2002 e D.P.C.M. 24 luglio 2003, sia pur fatta salva la persistente legittimazione passiva del Ministero nelle controversie volte al riconoscimento dell’indennizzo, ai sensi dell’art. 123 medesimo D.Lgs.: cfr. Cass., S.U. n. 12538/2011; cfr. anche Cass. n. 6336/2014 e Cass. n. 8957/2018): nella materia sussiste, pertanto, una legittimazione processuale passiva soltanto formale del Ministero, attesa l’attribuzione delle relative funzioni amministrative alle Regioni, che godono (e dispongono in via autonoma), allo scopo, di trasferimenti di risorse dal bilancio statale e che risultano, conseguentemente, i soggetti materialmente obbligati all’erogazione della prestazione indennitaria;  le Regioni, in particolare, operano nell’ambito delle funzioni di tutela pubblica della salute che sono proprie del Servizio Sanitario Nazionale, di cui costituiscono articolazioni anche le aziende sanitarie locali, alimentate in massima parte con finanziamenti che, dallo Stato, vengono trasferiti in parte qua alle singole Regioni stesse; alla pluralità dei soggetti operanti in campo sanitario (Regioni e Aziende) corrispondono la comunanza delle finalità, la convergenza delle attività e una commistione delle risorse finanziarie che consentono di individuare – sul piano sostanziale – un’unica “parte pubblica”, pur variamente articolata sul piano delle strutture e delle soggettività giuridiche, che è chiamata a rapportarsi con chi sia stato danneggiato da emotrasfusioni, provvedendo all’erogazione dell’indennizzo e all’eventuale risarcimento del danno >>.

Manandando al punto:

<<Benché aventi la stessa natura giuridica, il danno per invalidità temporanea e quello per invalidità permanente hanno presupposti di fatto diversi (Cass. n. 16788 del 2015). Devono, in particolare, formare oggetto di autonoma valutazione il pregiudizio da invalidità permanente – con decorrenza dal momento della cessazione della malattia e della relativa stabilizzazione dei postumi – e quello da invalidità temporanea – da riconoscersi come danno da inabilità temporanea totale o parziale ove il danneggiato si sia sottoposto a periodi di cure necessarie per conservare o ridurre il grado di invalidità residuato al fatto lesivo o impedirne l’aumento, inteso come privazione della capacità psico-fisica in corrispondenza di ciascun periodo e in proporzione al grado effettivo di inabilità sofferto – (Cass. n. 7126 del 2021). Più precisamente, l’invalidità temporanea perdura in relazione alla durata della patologia e viene a cessare o con la guarigione, con il pieno recupero delle capacità anatomo-funzionali dell’organismo, o, al contrario, con la morte, ovvero ancora con l’adattamento dell’organismo alle mutate e degradate condizioni di salute (cd. stabilizzazione); in tale ultimo caso, il danno biologico subito dalla vittima dev’essere liquidato alla stregua di invalidità permanente (Cass. n. 35416 del 2022).

L’indennizzo di cui all’art. 2 legge n. 210 del 1992, che è stato scomputato dall’importo liquidato dal Tribunale, è riconosciuto a “chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica”. Esso è pertanto correlato all’invalidità permanente. Il danno che è stato riconosciuto dalla sentenza del Tribunale è invece quello relativo all’invalidità temporanea. I presupposti di fatto delle due attribuzioni patrimoniali, pur accomunate dalla medesima condotta lesiva e dal medesimo evento di danno, sono diversi, posto che l’una risarcisce l’inabilità temporanea, l’altra indennizza la menomazione permanente. L’eterogeneità del presupposto di fatto impedisce di configurare l’ingiustificato arricchimento che presiede all’istituto della compensatio lucri cum damno>>.

Pertanto il pricnipio di diritto: : “nel giudizio promosso per il risarcimento dei danni conseguenti al contagio a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto, l’indennizzo previsto dall’art. 2, comma 3, della l. n. 210 del 1992, non deve essere scomputato, in applicazione del principio della “compensatio lucri cum damno”, dalle somme liquidabili a titolo risarcitorio per l’invalidità temporanea”.

Il danno biologico iure hereditatis in caso di morte non immediata va liquidato come inabilità temporanea, anzichè permanente

Cass. sez. III, ord.  21/02/2024  n. 4.658, rel. Scoditti:

<<Osserva la parte ricorrente che, ove alle lesioni colpose consegua la morte, il danno suscettibile di liquidazione è quello corrispondente all’inabilità temporanea, e non quello relativo all’invalidità permanente, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità

Il motivo è fondato.

Secondo il costante orientamento di questa Corte, la determinazione del risarcimento dovuto a titolo di danno biologico “iure hereditatis”, nel caso in cui il danneggiato sia deceduto dopo un apprezzabile lasso di tempo dall’evento lesivo [nds: dopo due anni e mezzo dalla scoperta della cirrosi epatica HCV], va parametrata alla menomazione dell’integrità psicofisica patita dallo stesso per quel determinato periodo di tempo, con commisurazione all’inabilità temporanea da adeguare alle circostanze del caso concreto, tenuto conto del fatto che, detto danno, se pure temporaneo, ha raggiunto la massima entità ed intensità, senza possibilità di recupero, atteso l’esito mortale (Cass. n. 22228 del 2014; fra le tante si vedano anche Cass. n. 15491 del 2014, n. 16592 del 2019 e n. 17577 del 2019).

Soggiace a tale conclusione la distinzione fra le due forme di invalidità: l’invalidità temporanea perdura in relazione alla durata della patologia e viene a cessare o con la guarigione, con il pieno recupero delle capacità anatomo-funzionali dell’organismo, o, al contrario, con la morte, ovvero ancora con l’adattamento dell’organismo alle mutate e degradate condizioni di salute (cd. stabilizzazione); in tale ultimo caso, il danno biologico subito dalla vittima dev’essere liquidato alla stregua di invalidità permanente (Cass. n. 35416 del 2022)>>.

Legittimo il recesso statutario ad nutum nelle soc. (non quotate) a tempo determinato

Cass. sez. I, sent. 29/01/2024 n. 2.629, rel. Nazzicone, dopo una premessa/trattatello di eccessiva lunghezza sul recesso societario, così  motiva sul punto:

<<Ragionamenti, dunque, estranei alla questione ora all’esame, in cui al creditore non si richiede nessuna previa valutazione circa l’esistenza del diritto di recesso in quanto ancorata alla “vita del socio” o ad un “progetto imprenditoriale” più o meno specifico.

Ed invero, nell’intento di favorire l’accesso della società ai finanziamenti, il legislatore ha assicurato ai potenziali investitori la possibilità di uscire dalla società stessa con facilita e senza dover temere “sorprese”.

Nel ripercorrere le fattispecie dell’art. 2437 c.c., sopra ricordate, si nota che il legislatore, accanto alle ipotesi tipiche di attribuzione della facoltà di recesso di cui al primo, secondo e quinto comma, si è preoccupato – piuttosto – di slegare il socio dai vincoli e di preservarne l’autonomia negoziale, con il prevedere ad esempio il diritto di recesso nelle società contratte a tempo indeterminato.

Una logica non diversa, nella medesima prospettiva di autonomia negoziale dei soci e della società, connota il quarto comma della disposizione.

Come il legislatore, attuando la legge delega, ha mirato più in generale ad ampliare l’autonomia statutaria, cosi specificamente in materia di recesso, accanto all’aumento delle ipotesi legali inderogabili perché caratterizzate da esigenze di ordine pubblico, ha anche previsto la novità, consistente nel fatto che lo statuto possa prendere in considerazione ulteriori cause di recesso o non prevederne altre, pur indicate dalla legge, ma considerate derogabili.

La riforma del 2003 ha, quindi, a fronte dell’aumento dell’autonomia statutaria delle società e del rafforzamento dei poteri anche degli amministratori, attribuito alle minoranze tutela risarcitoria o, nella specie, un diritto di recesso di maggiore ampiezza. Dunque, come si rileva da molti, il recesso costituisce anche uno strumento di organizzazione dei rapporti endosocietari, spettando non più soltanto in presenza di decisioni assembleari non assentite dal socio, ma potendo le società che non fanno ricorso al mercato dei capitali di rischio liberamente introdurre ulteriori cause di recesso per via statutaria, onde esso funge anche da strumento di negoziazione.

Sebbene, poi, proprio il procedimento di liquidazione previsto per legge, con il consegnare ai soci il valore tendenziale di mercato delle azioni, non escluda affatto che essi debbano accontentarsi di una perdita di valore del loro investimento e patirne un pregiudizio.

Per la maggioranza, vale la considerazione che, ove fosse non conveniente operare alla fine il rimborso della partecipazione al socio recedente, la società potrà decidere lo scioglimento.

Gli interessi che si fronteggiano in materia, pertanto, sono, da un lato, l’interesse della società a mantenere il conferimento conseguito, e, dall’altro lato, l’interesse del socio ad uscire dalla compagine societaria, una volta che abbia maturato tale intenzione.

Tuttavia, se è vero che il legislatore ha “bilanciato” egli stesso tali interessi – laddove ha attribuito al socio, con norme a volte derogabili ed a volte no, la facoltà di recedere a fronte di situazioni date (assunzione di deliberazioni non condivise, vicende di potere o di abuso nel gruppo con alterazione notevole delle condizioni economiche e patrimoniali dell’investimento) – e pur vero che egli ha, poi, espressamente riconosciuto all’autonomia statutaria la possibilità di contemplare “ulteriori cause di recesso”, con il solo limite che non si tratti di società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio.

È allora ragionevole ritenere che, anche in tal caso, il “bilanciamento” degli interessi sia stato compiuto dal legislatore, proprio rimettendo alla libertà statutaria la scelta di contemplare altre vicende, ivi compreso il caso che i soci, nell’esercizio della loro autonomia negoziale privata, abbiano ritenuto conforme al proprio programma imprenditoriale consentire a ciascuno, od anche solo a taluno di essi, di uscire dalla compagine societaria, e ciò non, necessariamente, soltanto in presenza dell’assunzione di deliberazioni assembleari, ma anche, come nella specie, semplicemente per volere del socio.

Mentre nel recesso per giusta causa l’accento è posto nella permanenza del c.d. rapporto fiduciario fra i soci, il recesso ad nutum non coinvolge necessariamente il rapporto fiduciario, potendo discendere anche semplicemente da una diversa valutazione circa le prospettive e scelte imprenditoriali.

Va pur detto che, peraltro, nel recesso ad nutum resta possibile – su eccezione della controparte – un controllo generale di buona fede, non diversamente che in tutti i negozi, ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c., trattandosi di clausole generali che regolano i rapporti interprivati (sulla sussistenza del controllo giudiziale alla stregua di tale clausole, si vedano, ad es.: Cass., sez. I, 21 settembre 2023, n. 27014; Cass., sez. I, 21 febbraio 2023, n. 5396; Cass., sez. I, 22 dicembre 2020, n. 29317 e Cass., sez. I, 24 agosto 2016, n. 17291, in materia di apertura di credito in conto corrente a tempo indeterminato; Cass., sez. III, 29 settembre 2022, n. 28395, sul contratto preliminare di vendita di quote societarie; Cass., sez. III, 3 giugno 2020, n. 10549 e Cass., sez. I, 12 ottobre 2018, n. 25606, in tema di recesso da parte della società concedente nella concessione di vendita di autoveicoli; Cass., sez. II, 29 maggio 2020, n. 10324); in particolare, questa Corte ha già avuto occasione di richiamare l’applicazione della clausola generale di buona fede all’esercizio del diritto di recesso nelle società (Cass., sez. I, 12 novembre 2018, n. 28987, in tema di recesso del socio di s.r.l.)>>.

E poi:

<>Resta fermo che le scelte statutarie potranno ricercare l’equilibrio tra queste esigenze e la preservazione del capitale sociale, ad esempio prevedendo un termine di preavviso anche superiore ai centottanta giorni ed il suo possibile allungamento statutario fino ad un anno, o un termine iniziale di preclusione dell’esercizio del diritto di recesso, sulla falsariga di quanto dispone l’art. 2328, comma 2, n. 13, c.c.>>

Insomma il principioo di diritto è:

“È lecita la clausola statutaria di una società per azioni che non fa ricorso al mercato del capitale di rischio, la quale, ai sensi dell’art. 2437, comma 4, c.c., preveda, quale ulteriore causa di recesso, la facoltà dei soci di recedere dalla società ad nutum con un termine congruo di preavviso”.

Avrebbe giovato per chiarezza precisare che ciò vale per le soc. a tempo determinato (pur se implicito visto il c. 3 del 2437 cc)

Motivazione comunque troppo lunga, bastando ad es. la parte in rosso, alla luce del disposto di legge,  che non permette rettrizioni applicative in sede ermeneutica

Distanza tra costruzioni (art. 873 cc) e da pareti finestrate (art. 10 DM n° 1444/1968)

Cass. sez. II Ord. 21/03/2024 n. 7.604, rel. Grasso:

<<Invero, questa Corte ha avuto modo di chiarire che la norma dell’art. 10 del d.m. 2 aprile 1968 n. 1444, la quale prescrive che tra pareti finestrate deve essere osservata la distanza di dieci metri, ha inteso indicare una caratteristica del fabbricato, nel senso che quando questo presenta una facciata munita di finestre, il vicino non può costruire a meno di dieci metri da essa. Conseguentemente, ciascun condomino e non i soli proprietari degli appartamenti con vedute site lungo la facciata interessata, è legittimato a esperire l’Azione per fare valere il rispetto, da parte del vicino, della detta distanza, in quanto tale Azione è posta a tutela dell’intero edificio (Sez. 2, n. 1387, 05/03/1986, Rv. 444809).

Incontroverso che le norme tecniche d’attuazione dello strumento urbanistico di Reggio Calabria prevedono la distanza di quattordici metri, essa avrebbe dovuto essere misurata con il criterio immediatamente sopra richiamato, correttamente invocato dal A.A. con l’atto d’appello. La Corte di merito non svolto tale indagine e pertanto la sentenza deve essere cassata>>.

E poi:

<<Come costantemente affermato da questa Corte, sono esclusi dal calcolo delle distanze solo gli sporti con funzione meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria (come le mensole, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili), non anche le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi, costituite da solette aggettanti anche se scoperte, di apprezzabile profondità ed ampiezza, specie ove la normativa locale non preveda un diverso regime giuridico per le costruzioni accessorie (Cass. n. 473/2019; Cass. 19932/2017; Cass. 18282/2016; Cass. 859/2016; Cass. 1406/2013; cass. 23845/2018).

Inoltre, è noto che a nozione di costruzione è unica, ai sensi dell’art. 873 c.c., e non può subire deroghe da parte di fonti secondarie, sia pure al limitato fine del computo delle distanze legali, atteso che il rinvio a norme integrative contenuto nell’ultima parte dell’art. 873 c.c. riguarda la sola possibilità, per tali norme, di stabilire un distacco maggiore di quello codicistico (v. tra le varie cass. 23845/2018 cit.)>>.

La telecamera sulla pubblica viola la privacy solo se supera le necessità di tutela

Sull’annosa questione del bilanciamento tra diritto alla privacy dei terzi (qui di un vicino costretto a percorrere quel tratto di strada) e di difesa della proprietà in capo al prorietario, interessante è l’insegnamento di Cass. Sez. I, Ord. 19 marzo 2024 n. 7.289, rel. Tricomi (anteriore alle modifiche cod. priv. ex GDPR, però).

Vale la pena di riportare tutti i passaggi pertinenti:

<<3.3.2. – Come osservato dal Garante per il trattamento dei dati personali nel Provvedimento dell’8 aprile 2010, il trattamento dei dati personali effettuato mediante l’uso di sistemi di videosorveglianza non forma oggetto di legislazione specifica; al riguardo si applicano, pertanto, le disposizioni generali in tema di protezione dei dati personali.

La raccolta, la registrazione, la conservazione e, in generale, l’utilizzo di immagini configurano anche autonomamente considerate, forme di trattamento di dati personali (art. 4, comma 1, lett. b), del Codice). È considerato dato personale, infatti, qualunque informazione relativa a persona fisica identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione. [ovvio]  (…)

Inoltre, è necessario:

– che il trattamento dei dati attraverso sistemi di videosorveglianza sia fondato su uno dei “presupposti di liceità” che il Codice prevede espressamente per i soggetti pubblici (svolgimento di funzioni istituzionali: artt. 18-22 del Codice) e per soggetti privati ed enti pubblici economici (es. adempimento ad un obbligo di legge, provvedimento del Garante di c.d. “bilanciamento di interessi”, consenso libero ed espresso ex artt. 23-27 del Codice).

– che sia rispettato il “principio di necessità” ex art.3 del Codice, il quale comporta un obbligo di attenta configurazione di sistemi informativi e di programmi informatici per ridurre al minimo l’utilizzazione di dati personali;

– che l’attività di videosorveglianza venga effettuata nel rispetto del c.d. “principio di proporzionalità” nella scelta delle modalità di ripresa e dislocazione degli apparecchi, nonché nelle varie fasi del trattamento che deve comportare, comunque, un trattamento di dati pertinenti e non eccedenti rispetto alle finalità perseguite (art. 11, comma 1, lett. d) del Codice).

3.3.3. – Ne consegue che, a differenza di quanto sostiene il ricorrente, l’utilizzo di sistemi di video sorveglianza può determinare, in relazione al posizionamento degli apparecchi e della qualità delle immagini un trattamento di dati personali, quando, può mettere a rischio la riservatezza di soggetti portatori di una situazione giuridica soggettiva riconosciuta dall’ordinamento e deve essere effettuato nel rispetto dei principi prima ricordati.

3.3.4.- Va ulteriormente rimarcato, tuttavia, che la disciplina del Codice non trova integrale applicazione nel caso di “trattamento di dati personali effettuato da persone fisiche per fini esclusivamente personali” qualora i dati non siano comunicati sistematicamente a terzi ovvero diffusi: tanto è previsto dall’art. 5, comma 3 del Codice, che si premura di sottolineare che, anche in tale ipotesi, resta ferma l’applicazione della disposizione in tema di responsabilità civile e necessaria l’adozione di cautele a tutela della sicurezza dei dati, di cui agli artt. 15 e 31 del Codice.

Segnatamente, l’art. 15 prevede espressamente la risarcibilità del danno, anche non patrimoniale, ai sensi dell’art.2050 c.c. per effetto del trattamento dei dati personali, compreso il caso di violazione delle disposizioni su modalità di trattamento e requisiti dei dati (art. 11 del Codice); l’art. 31 stabilisce ampi obblighi di sicurezza nel trattamento e nella custodia dei dati.

In particolare, possono rientrare nell’ambito descritto dall’art. 5, comma 3, del Codice gli strumenti di videosorveglianza idonei a identificare coloro che si accingono ad entrare in luoghi privati (videocitofoni ovvero altre apparecchiature che rilevano immagini o suoni, anche tramite registrazione), oltre a sistemi di ripresa installati nei pressi di immobili privati ed all’interno di condomini e loro pertinenze (quali posti auto e box), con la precisazione che, al fine di evitare di incorrere nel reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis c.p.), l’angolo visuale delle riprese deve essere comunque limitato ai soli spazi di esclusiva pertinenza di colui che effettuata il trattamento (ad esempio antistanti l’accesso alla propria abitazione) escludendo ogni forma di ripresa, anche senza registrazione di immagini, relativa ad aree comuni (cortili, pianerottoli, scale, garage comuni) ovvero ad ambiti antistanti l’abitazione di altri condomini, come chiarito dallo stesso Garante nel Provvedimento dell’8 aprile 2010, al par. 6.1. “Trattamento di dati personali per fini esclusivamente personali”.

3.3.5. – Di contro, nel caso di “Trattamento di dati personali per fini diversi da quelli esclusivamente personali”, anche ad opera di un privato (par.6.2. del Provvedimento dell’8 aprile 2010) il trattamento può essere effettuato solo ove sia stato espresso il consenso preventivo dell’interessato (art.23 del Codice) oppure se ricorra uno dei presupposti di liceità previsti dall’art. 24 del Codice in alternativa al consenso.

In merito, il Garante, dopo avere preso atto che nel caso di impiego di strumenti di videosorveglianza la possibilità di acquisire il consenso risulta in concreto limitata dalle caratteristiche stesse dei sistemi di rilevazione, ha ritenuto di dare attuazione all’istituto del bilanciamento di interessi (art. 24, comma 1, lett. g), del Codice) procedendo all’individuazione dei casi in cui la rilevazione delle immagini, con esclusione della diffusione, può avvenire senza consenso, qualora, con le modalità stabilite nello stesso provvedimento, sia effettuata nell’intento di perseguire un legittimo interesse del titolare o di un terzo attraverso la raccolta di mezzi di prova o perseguendo fini di tutela di persone e beni rispetto a possibili aggressioni, furti, rapine, danneggiamenti, atti di vandalismo, o finalità di prevenzione di incendi o di sicurezza del lavoro.

Segnatamente, il Garante ha distinto due ipotesi, per le quali ha escluso la necessità del consenso preventivo informato, avendo attuato il bilanciamento degli interessi ai sensi dell’art.24, comma 1, lett. g) del Codice:

– I) Videosorveglianza (con o senza registrazione delle immagini). Tali trattamenti sono ammessi in presenza di concrete situazioni che giustificano l’installazione, a protezione delle persone, della proprietà o del patrimonio aziendale. Nell’uso delle apparecchiature volte a riprendere, con o senza registrazione delle immagini, aree esterne ad edifici e immobili (perimetrali, adibite a parcheggi o a carico/scarico merci, accessi, uscite di emergenza), resta fermo che il trattamento debba essere effettuato con modalità tali da limitare l’angolo visuale all’area effettivamente da proteggere, evitando, per quanto possibile, la ripresa di luoghi circostanti e di particolari che non risultino rilevanti (vie, edifici, esercizi commerciali, istituzioni ecc.).

– II) Riprese nelle aree condominiali comuni, qualora i trattamenti siano effettuati dal condominio (anche per il tramite della relativa amministrazione).

3.3.6.- In sintesi, per quanto interessa il presente procedimento, e in relazione alla normativa applicabile ratione temporis, va affermato che:

– In tema di tutela dei dati personali trattati mediante l’impiego di sistemi di videosorveglianza, il trattamento posto in essere ad opera di un soggetto privato deve rispettare i presupposti di liceità previsti dal D.Lgs. n. 196/2003, il principio di necessità ed il principio di proporzionalità;

– La disciplina derogatoria di cui all’art .5, comma 3, del D.Lgs. n. 196/2003 è applicabile al trattamento dei dati mediante sistemi di videosorveglianza solo nel caso in cui il trattamento sia eseguito da persona fisica a fini personali e senza diffusione o comunicazione dei dati, entro un ambito operativo circoscritto, in linea di massima e in via esemplificativa, mediante strumenti di videosorveglianza idonei a identificare coloro che si accingono ad entrare in luoghi privati o sistemi di ripresa installati nei pressi di immobili privati o all’interno di condomini, il cui angolo visuale di ripresa sia comunque limitato ai soli spazi di esclusiva pertinenza di colui che effettuata il trattamento (ad esempio antistanti l’accesso alla propria abitazione) escludendo ogni forma di ripresa, anche senza registrazione di immagini, relativa ad aree comuni ad altri soggetti;

– Il trattamento di dati personali mediante sistemi di videosorveglianza (con o senza registrazione delle immagini) per fini diversi da quelli esclusivamente personali ad opera di un privato, nel caso in cui sia effettuato in presenza di concrete situazioni che giustificano l’installazione, a protezione delle persone, della proprietà o del patrimonio aziendale (principio di necessità), non richiede quale presupposto di liceità il consenso informato dell’interessato, in quanto ricorre il presupposto di liceità alternativo ex art. 24, comma 1, lett. g) del D.Lgs. n. 196/2003, costituito dal provvedimento di bilanciamento degli interessi adottato dal Garante in data 8 aprile 2010 (par.6.2.2.1.); resta fermo, in osservanza del principio di proporzionalità, che l’utilizzo delle apparecchiature volte a riprendere aree esterne ad edifici e immobili (perimetrali, adibite a parcheggi o a carico/scarico merci, accessi, uscite di emergenza), deve essere effettuato con modalità tali da limitare l’angolo visuale all’area effettivamente da proteggere, evitando, per quanto possibile, la ripresa di luoghi circostanti, in uso a terzi o su cui terzi vantino diritti e di particolari che non risultino rilevanti (vie, edifici, esercizi commerciali, istituzioni ecc.)>>.

Si v. ora, dopo il GDPR, le linee guida europee dell’EDPB 29.01.2020 e l’infografica 2022 del ns. Garante:

Anche le “entità di gestione indipendente”, e non solo gli “organismi di gestione collettiva”, possono operare in Italia: importante pronuncia della Corte dui Giustizia sul copyright europeo e in particolare sulla direttiva 2014/26

La corte di giustizia UE 21.03.2024, C-10/22, LEA c. Jamendo SA, scrive una pag. importante della gestione collettiva dei diritti di autore europei, applicando la dir. 2014/26.

Non solo gli OGC ma anche le EGI (v. le sette differenze elencate ai §§ 87-95) devono potere operare parimenti nel trerritorio naizonale come intermediari nello sfruttamento dei dirittti: quindi l’art 180 l. aut. è illegittimo (rectius: incompatibile col diritto UE).

La discrminazione è vietata dalla regola di libera prestazione dei servizi posta non tanto dalle direttive 2000/31 e 2006/31 (che eccettuano il copyright), quanto direttamente dall’art. 56 TFUE, rispetto al quale la radicale esclusione delle EGI manca della proporzinalità.

<< 96  Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve ritenere che il trattamento differenziato, operato dalla normativa nazionale di cui trattasi, delle entità di gestione indipendenti rispetto agli organismi di gestione collettiva risponda all’intento di conseguire l’obiettivo di protezione del diritto d’autore in modo coerente e sistematico, dal momento che la direttiva 2014/26 assoggetta le entità di gestione indipendenti ad obblighi meno rigorosi rispetto a quelli degli organismi di gestione collettiva per quanto riguarda, in particolare, l’accesso all’attività di gestione dei diritti d’autore e dei diritti connessi, la concessione delle licenze, le modalità di governance nonché il quadro di sorveglianza cui sono soggette. In dette circostanze, tale trattamento differenziato può essere considerato idoneo a garantire il conseguimento di detto obiettivo.

97 Tuttavia, per quanto concerne, sotto un secondo profilo, la questione se la restrizione consistente nell’escludere le entità di gestione indipendenti dall’attività di intermediazione dei diritti d’autore non vada oltre quanto è necessario per garantire il conseguimento dell’obiettivo di interesse generale connesso alla protezione del diritto d’autore, occorre rilevare che una misura meno lesiva della libera prestazione di servizi potrebbe consistere, segnatamente, nel subordinare la prestazione di servizi di intermediazione dei diritti d’autore nello Stato membro interessato a obblighi normativi specifici che sarebbero giustificati riguardo all’obiettivo di protezione del diritto d’autore.

98 Pertanto, occorre constatare che la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale, nella misura in cui preclude, in modo assoluto, a qualsiasi entità di gestione indipendente, a prescindere dagli obblighi normativi cui essa è soggetta in forza del diritto nazionale dello Stato membro in cui è stabilita, di esercitare una libertà fondamentale garantita dal Trattato FUE, risulta andare oltre quanto è necessario per proteggere il diritto d’autore>>.

Locazione dissimulata da comodato accertabile sia verso il locatore che il terzo acquirente

Cass. sez. III, ord. 04/12/2023 n. 33.727, rel. Sestini:

<<il ricorrente assume che, quando venga stipulato un contratto di comodato dissimulante un contratto di locazione, deve trovare applicazione la norma dell’art. 1599 c.c., comma 1 e il requisito della data certa del contratto di locazione (dissimulato) deve essere accertato e valutato in relazione al contratto simulato di comodato (scritto e registrato); sostiene altresì che, ai sensi dell’art. 1417 c.c., comma 3, è sempre ammissibile la prova per testi (e, quindi, anche quella presuntiva) quando si intenda far valere la illiceità del contratto dissimulato (nel caso di specie, perché in violazione del canone legale);

orbene, l’assunto che il contratto di comodato dissimulasse una locazione con canone difforme da quanto consentito dalla legislazione sui patti in deroga deve intendersi certamente come volto ad evidenziare un profilo di illiceità per contrasto con normativa imperativa della locazione dissimulata e, dunque, la prova testimoniale era ammissibile (al pari di quella presuntiva);

il rilievo di cui al punto 11 della motivazione, circa il non essersi dedotto in iure che il canone era eccedente il dovuto non è condivisibile, in quanto si riferisce ad una questione che è logicamente successiva alla prova del contratto locativo e della sua opponibilità agli acquirenti;

peraltro, fissando la legge una durata del contratto locativo e le modalità di rinnovazione, la deduzione della simulazione del contratto di comodato e della dissimulazione di un contratto locativo evidenzia comunque un profilo di illiceità del comodato quale contratto dissimulato, la cui prova sarebbe contraddittorio vincolare alla regola dettata per la forma stessa della stipula del contratto di locazione: la contraddizione è resa evidente dal fatto che pretendere la forma del contratto dissimulato per la stipula di quello simulato e sottrarre la prova di quest’ultimo alla regola normale dettata per la prova della simulazione servirebbe a “coprire” l’illiceità;

deve dunque ritenersi che, se il contratto effettivo è quello di locazione (benché “mascherato” come comodato), non c’e’ ragione per non applicare dell’art. 1599 c.c. il comma 1 e che, quando è dedotta l’illiceità del contratto dissimulato di locazione per violazione di norme imperative, deve essere consentito alla parte conduttrice di provare la simulazione (nei confronti sia della originaria parte locatrice, che degli aventi causa) con prove testimoniali e per presunzioni;

nello specifico, è la stessa Corte di Appello che, pur affermando (al punto 9) che le limitazioni alla prova testimoniale e a quella presuntiva non operano quando si tratti di far valere l’illiceità del contratto dissimulato e pur richiamando (al punto 10) Cass. n. 11017/2005 -che dichiara ammissibili dette prove quando siano dirette a far valere l’illiceità dell’accordo simulatorio-, afferma contraddittoriamente che la prova della simulazione avrebbe potuto essere fornita soltanto mediante controdichiarazione (sull’ammissibilità della p.t. e delle presunzioni, fra tante, anche Cass. n. 1288/2001, Cass. n. 11611/2010 e Cass. n. 9672/2020);>>

Nel recesso per giusta causa da rapporto finanziamento la giusta causa va espressa a pena di nullità

Cass. sez. 1 n. 5415 del 29.02.2024, rel. Vanentino, circa (parrebbe) l’aRT. 1845 CC:

<<La Corte d’appello ha ritenuto che il recesso per giusta causa dagli
affidamenti possa essere intimato dalla banca anche senza
indicazione alcuna della causa che lo sorregge.

Il che non è esatto, ad avviso del Collegio, perché la giusta causa è coessenziale alla fattispecie negoziale di cui trattasi, che proprio per la presenza di
essa si differenzia dalla fattispecie del recesso ad nutum; onde non
potrebbe dirsi perfezionata una manifestazione di volontà di
recedere (non già ad nutum, bensì) “per giusta causa”, che non
indichi tale causa.

Del resto, come esattamente osserva il Procuratore generale, la necessità di detta indicazione nell’atto di recesso si connette direttamente al rispetto dei principi di correttezza e buona fede e all’esigenza che la controparte, cui il recesso è rivolto,
sia posta in condizione di difendersi e di contestarlo efficacemente in
giudizio>

Il precetto parrebbe esatto, anche se necessiterebbe forse di miglior motivazione. La mera necessità di difensiva infatti parrebbe insufficiente, in quanto toccherebbe pur sempre al receduto l’onere di provare l’esistenza di giusta causa. Ma forse la buona fede è esattamente invocata, in quanto rende fin da subito chiara la ragione al destinatario: non essendoci ragione per tenerlo momentaneamente all’oscuro dei motivi di una scelta, che potrebbe essere per lui  foriero di conseguenze assai pesanti.

Concorrenza sleale verso Amazon per recensioni fasulle e prezzolate

Provvedimento cautelare interessante, anche non del tutto condivisibile, quello emesso da Trib. Milano sez. impr., ord., 21 marzo 2024, giudice Dal Moro (menzionato in molti siti; testo preso da Foro Italiano-News), Amazon EU sarl+1 c. DP.

La cautela inibitoria si basa su slealtà concorrenziale (art. 2598 n. 3 cc), data dalla falsità delle recensioni fatte apparire sul marketplace di Amazon in attuazione di apposito business (l’anonimato del quale e del suo sito è facilmente superabile con qualche rapida ricerca in rete e probabilmente pure dalla pubblicazione ordinata dal giudice sui siti Altroconsumo e Codacons)

In breve il soggetto pagava chi andava poi a disporre (o aveva in precedenza disposto) recensioni false su questo o quel venditore.

L’illiceità è sicura. Altrettanto non è la qualificazione come concorrenza sleale, mancando il rapporto di concorrenza.

Il Trib. opina in senso opposto: <<In secondo luogo, pare altrettanto indubitabile che l’attività economica svolta nella specie (offerta del servizio di recensione) concorra con quella medesima svolta da Amazon sul medesimo mercato, posto che quest’ultimo, come affermato anche in sede di legittimità, è identificato dalla “comunanza di clientela” da intendersi come “insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti (beni o servizi n.d.r.) che sono in grado di soddisfare quel bisogno”, e che, quindi, l’attività in concreto svolta deve identificarsi anche alla luce dell'”esito di mercato fisiologico e prevedibile”, e comprenda, perciò, servizi “affini e succedanei rispetto a quelli offerti dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale”.
Il “mercato dell’offerta in vendita” su cui opera Amazon si articola anche in un segmento specifico identificato nel servizio accessorio e funzionale delle recensioni dei prodotti venduti, il quale viene svolto anche dal sig. P., con strumenti che lo rendono illecito non solo perché mira a falsare la genuinità del riscontro del consumatore/ acquirente, ma anche perché si avvale in maniera subdola dello strumento che Amazon stessa utilizza per rendere detto servizio, alterandone la veridicità e l’affidabilità con conseguente grave danno all’immagine e alla reputazione della ricorrente. >>

La concorenzialità invece manca: Amazon trae ricavi dalla percentuale sui ricavi conseguiti dal venditore, non dalle recensioni, che sono solo strumentali a creare affidabilità verso il marketplace.

Nemmeno il periculum in mora pare esistere.

Dice invece di si il Trib.: <<Il Tribunale ritiene che sussista, altresì, il periculum in mora presupposto dell’emissione del richiesto provvedimento cautelare. Infatti, in assenza di un provvedimento urgente, appare fondato il timore che nell’attesa di una decisione di merito la prosecuzione di siffatta condotta illecita possa concorrere a causare pregiudizi difficilmente riparabili se non irreparabili in termini di credibilità della piattaforma di vendita on line ricorrente, considerando anche che risulta che il business illecito del P. si rivolga in modo prevalente a detta piattaforma e che stia, altresì, intensificandosi con particolare riferimento proprio alla medesima (cfr. doc. 18 e doc. 19, contenenti “screenshot” del sito (omissis), rispettivamente, alla sezione “bestsellers” in cui vengono pubblicizzati cinque pacchetti di recensioni false tre dei quali riferibili allo store Amazon, e alla sezione “nuovi arrivi” in cui vengono pubblicizzati pacchetti di recensioni false esclusivamente riferibili allo store Amazon)>>.

Che per qualche mese in più di opertività vernga irreparabilmente lesa la credibilità di Amazon, non è molto credibile. Si tenga infatti conto da un lato che una larga parte delle recensioni in rete è  di assai dubbia veridicità  e, dall’altro, che si tratta di fatto notorio (basta una rapida googlata di articoli in proposito).

L’irreparabilità poi andrebbe comunque argomentata un pò meglio.

Liquidazione del danno in via equitativa

Cass. sez. I, ord.  07/03/2024 n. 6.116, rel. Abete:

<<15. Questo Giudice spiega che l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 cod. civ., presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile provare il danno nel suo preciso ammontare, sicché grava sulla parte interessata l’onere di provare non solo l’ “an debeatur” del diritto al risarcimento, ove sia stato contestato o non debba ritenersi “in re ipsa”, ma anche ogni elemento di fatto utile alla quantificazione del danno e di cui possa ragionevolmente disporre nonostante la riconosciuta difficoltà, sì da consentire al giudice il concreto esercizio del potere di liquidazione in via equitativa, che ha la sola funzione di colmare le lacune insuperabili ai fini della precisa determinazione del danno stesso (cfr. Cass. 8.1.2016, n. 127; Cass. 17.10.2016, n. 20889; Cass. 22.2.2018, n. 4310; Cass. 6.12.2018, n. 31546; Cass. (ord.) 18.3.2022, n. 8941, secondo cui la liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c. consente di sopperire alle difficoltà di quantificazione del danno, al fine di assicurare l’effettività della tutela risarcitoria, ma non può assumere valenza surrogatoria della prova, incombente sulla parte, dell’esistenza dello stesso e del nesso di causalità giuridica che lo lega all’inadempimento o al fatto illecito extracontrattuale; Cass. 19.3.1980, n. 1837).

Ulteriormente questo Giudice spiega che è necessario che il giudice indichi in maniera congrua, ancorché sommaria, le ragioni del percorso logico cui è ancorata la valutazione equitativa ex art. 1226 cod. civ. (cfr. Cass. 9.8.2007, n. 17492)>>.