Sulla determinazione del danno in via equitativa (artt. 1226 e 2056 cc)

Cass. sez. I, ord. 07/03/2024  n. 6.116, rel. Abete:

<<15. Questo Giudice spiega che l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 cod. civ., presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile provare il danno nel suo preciso ammontare, sicché grava sulla parte interessata l’onere di provare non solo l’ “an debeatur” del diritto al risarcimento, ove sia stato contestato o non debba ritenersi “in re ipsa”, ma anche ogni elemento di fatto utile alla quantificazione del danno e di cui possa ragionevolmente disporre nonostante la riconosciuta difficoltà, sì da consentire al giudice il concreto esercizio del potere di liquidazione in via equitativa, che ha la sola funzione di colmare le lacune insuperabili ai fini della precisa determinazione del danno stesso (cfr. Cass. 8.1.2016, n. 127; Cass. 17.10.2016, n. 20889; Cass. 22.2.2018, n. 4310; Cass. 6.12.2018, n. 31546; Cass. (ord.) 18.3.2022, n. 8941, secondo cui la liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c. consente di sopperire alle difficoltà di quantificazione del danno, al fine di assicurare l’effettività della tutela risarcitoria, ma non può assumere valenza surrogatoria della prova, incombente sulla parte, dell’esistenza dello stesso e del nesso di causalità giuridica che lo lega all’inadempimento o al fatto illecito extracontrattuale; Cass. 19.3.1980, n. 1837).

Ulteriormente questo Giudice spiega che è necessario che il giudice indichi in maniera congrua, ancorché sommaria, le ragioni del percorso logico cui è ancorata la valutazione equitativa ex art. 1226 cod. civ. (cfr. Cass. 9.8.2007, n. 17492)>>.

Niente di nuovo.

 

Sulla priorità dei disegni/modelliu UE costituita previo modello utilità

Teoricamente itnressante questione decisa da Corte di giustizia 27.02.2024, C-382/21 P, EUIPO v. Kaikai , segnalata da Marcel Pemsel su IPKat.

La lite è centrata sulla decorrenza del dies a quo per una valida priorità di una domanda di disegno/modello ex reg. 6/2006, il cui art. 41 dice: <<1. Chiunque abbia regolarmente depositato una domanda di registrazione di un disegno o modello o di un modello d’utilità in uno o per uno degli Stati che aderiscono alla convenzione di Parigi o all’accordo che istituisce l’Organizzazione mondiale del commercio, ovvero il suo avente causa, fruisce, per un periodo di sei mesi dalla data di deposito della prima domanda, di un diritto di priorità per effettuare il deposito di una domanda di registrazione di disegno o modello comunitario per il medesimo disegno o modello o per il medesimo modello di utilità.

2. È riconosciuto come fatto costitutivo del diritto di priorità qualsiasi deposito avente valore di deposito nazionale regolare a norma della legislazione dello Stato nel quale è stato effettuato o in forza di accordi bilaterali o multilaterali>>.

Il dubbio giuridico nasce dal fatto che : i) Kai kai aveva rivendicato priorità per un  previo deposito come modello di utilità (almeno così pare: arg. da § 28) e nel termine di 12 mesi, non di 6 mesi; ii) il cit. art. 41 parla di termine semestrale e solo per modelli di utilità, non per invenzioni. iii) la Conv. Unione di Parigi pone invece un termine dui 12 mesi per invenzioni e modelli di utilità,

Ebbene, la CG riformando il Trib., afferma l’applicabilità del solo art. 41 reg. UE 6/2002:  per cui la priorità richiesta era stata giustamente negata dall’EUIPO

Del resto, prosegue la CG,  la norma di Conv. Unione (art. 4) non si applica direttamente nell’ordinamento europeo, che non ne è parte: ciò nemmeno considerando che di fatto l’ha recepita con i TRIPs, i quali non hanno efficacia diretta, § 63.

Per la precisione:

<<68   Ne consegue che le norme enunciate all’articolo 4 della Convenzione di Parigi sono prive di effetto diretto e, pertanto, non sono idonee a creare in capo ai singoli diritti che questi possano far valere direttamente in forza del diritto dell’Unione (v., in tal senso, sentenza del 25 ottobre 2007, Develey/UAMI, C‑238/06 P, EU:C:2007:635, punti 39 e 43).

69 Pertanto, il diritto di priorità ai fini del deposito di una domanda di disegno o modello comunitario è disciplinato dall’articolo 41 del regolamento n. 6/2002 e gli operatori economici non possono avvalersi direttamente dell’articolo 4 della Convenzione di Parigi.

70 Tuttavia, poiché l’accordo ADPIC vincola l’Unione e dunque prevale sugli atti di diritto derivato dell’Unione, questi ultimi devono essere interpretati, per quanto possibile, in conformità alle disposizioni di tale accordo (v., per analogia, sentenze del 10 settembre 1996, Commissione/Germania, C‑61/94, EU:C:1996:313, punto 52, e del 1º agosto 2022, Sea Watch, C‑14/21 e C‑15/21, EU:C:2022:604, punti 92 e 94 nonché giurisprudenza ivi citata). Il regolamento n. 6/2002 deve quindi essere interpretato, per quanto possibile, conformemente all’accordo ADPIC e, di conseguenza, alle norme enunciate dagli articoli della Convenzione di Parigi, segnatamente l’articolo 4, incorporate in tale accordo (v., per analogia, sentenze del 15 novembre 2012, Bericap Záródástechnikai, C‑180/11, EU:C:2012:717, punti 70 e 82, nonché dell’11 novembre 2020, EUIPO/John Mills, C‑809/18 P, EU:C:2020:902, punti 64 e 65).

71 Nell’interpretare l’articolo 41 del regolamento n. 6/2002 conformemente all’articolo 4 della Convenzione di Parigi, occorre altresì tener conto delle disposizioni del TCB, a norma del quale è stata depositata la domanda anteriore su cui si basa la KaiKai per rivendicare un diritto di priorità. Infatti, dal momento che tutti gli Stati membri dell’Unione sono parti del TCB, si può tener conto delle disposizioni di tale trattato ai fini dell’interpretazione di disposizioni di diritto derivato dell’Unione che rientrano nel suo ambito di applicazione (v., in tal senso, sentenza del 1º agosto 2022, Sea Watch, C‑14/21 e C‑15/21, EU:C:2022:604, punto 90 e giurisprudenza ivi citata). In tale contesto, occorre altresì rilevare che, conformemente al suo articolo 1, paragrafo 2, il TCB non pregiudica i diritti previsti dalla Convenzione di Parigi>>.

e poi:

<<Pertanto, dal chiaro tenore letterale di tale articolo 41, paragrafo 1, risulta inequivocabilmente che, ai sensi di tale disposizione, solo due categorie di domande anteriori – vale a dire, una domanda di registrazione di un disegno o modello e una domanda di registrazione di un modello di utilità – possono fondare un diritto di priorità a beneficio di una domanda di registrazione di un disegno o modello comunitario posteriore, e ciò unicamente entro un termine di sei mesi a decorrere dalla data di deposito della domanda anteriore considerata.

77 Ne risulta altresì che detto articolo 41, paragrafo 1, ha carattere esaustivo e che la circostanza che tale disposizione non fissi il termine entro il quale può essere rivendicato il diritto di priorità fondato su una domanda di registrazione di un brevetto non costituisce una lacuna di detta disposizione, bensì la conseguenza del fatto che quest’ultima non consente di fondare tale diritto su questa categoria di domande anteriori.

78 Pertanto, da un lato, una domanda internazionale depositata a norma del TCB può fondare un diritto di priorità, in applicazione dell’articolo 41, paragrafo 1, del regolamento n. 6/2002, solo nella misura in cui la domanda internazionale in questione abbia ad oggetto un modello di utilità e, dall’altro, il termine per rivendicare tale diritto sulla base di una siffatta domanda è quello di sei mesi, espressamente fissato a detto articolo 41, paragrafo 1.>>

Decisione esatta,

La componente assistenziale e quella compensativa dell’assegno divorzile restano ben distinte per la Cassazione

Cass. Sez. I, Ord. 08/03/2024, n. 6.253, rel. Lamorgese:

Fatti provati:

<<2.2. In relazione alla censura espressa con il primo motivo, occorre rilevare che la Corte di merito ha fondato la prova presuntiva sulla relazione investigativa, il cui contenuto – confermato dal teste, anche se non da lui sottoscritta – è stato riprodotto nel provvedimento impugnato, sull’ammissione della stessa ricorrente di avere una relazione sentimentale, nonché sulla dettagliata dichiarazione della figlia della coppia, che aveva riferito di avere conoscenza della relazione di convivenza della madre con un nuovo compagno dall’anno della separazione.

L’accertamento di una stabile convivenza della donna con un altro uomo è stato, pertanto, effettuato sulla base di diversi elementi indiziari convergenti, tali da dare vita ad una valida prova per presunzioni, sicché non ricorre affatto il vizio di violazione di legge denunciato>>.

Diritto:

<<2.3. Ciò posto, secondo quanto chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte, in tema di assegno divorzile in favore dell’ex coniuge, qualora sia instaurata una stabile convivenza di fatto tra un terzo e l’ex coniuge economicamente più debole questi, se privo anche nell’attualità di mezzi adeguati e impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, conserva il diritto al riconoscimento dell’assegno di divorzio, in funzione esclusivamente compensativa; a tal fine il richiedente dovrà fornire la prova del contributo offerto alla comunione familiare, della eventuale rinuncia concordata ad occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio, dell’apporto fornito alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell’ex coniuge e l’assegno, su accordo delle parti, può anche essere temporaneo (Cass. S.U. 32198/2021; Cass. 14256/2022; cfr. pure Cass. 3645/2023).

E’ stato, dunque, precisato che la sussistenza della componente compensativa deve essere specificamente dedotta dalla parte che faccia valere il proprio diritto all’assegno, mentre la Corte d’appello ha affermato che l’odierna ricorrente non aveva provato nulla al riguardo. A fronte di detto assunto, con il secondo motivo la ricorrente, nel richiamare le deduzioni svolte nel giudizio d’appello, anche in ordine alla durata del matrimonio e alla cura delle figlie (pag. 7 e pag. 22 ricorso), in particolare rimarca il proprio contributo alla realizzazione del patrimonio familiare, consistito nell’acquisto della casa familiare, che, tuttavia, in base a quanto si legge nello stesso ricorso, è in comproprietà tra gli ex coniugi pur se abitata dall’ex marito (pag.7), e altresì consistito nell’aver ella prestato in passato attività di lavoro presso terzi (pag.23 ricorso), ossia di collaboratrice domestica, cessata per problemi di salute (cfr. pag. 2 della sentenza impugnata)>>.

Solo che l’efficacia estintiva del diritto all’assegno, asseritamente prodotta dalla convivenza more uxorio, non è disposta dalla legge.

E  nemmeno vi è ricavabile  interpretativamente, dato che certo non si può equipararla alle “nuove nozze” di cui al medesimo art. 5 l. div. co. 10.

Del resto la legge 76/2016 su unioni civili e convivenze non ha modificato tale disposizione , mentre avrebbe potuto e dovuto dato che si occupava proprio del tema de quo.

L’accettazione di eredità è irrevocabile

Cass. sez. III, sent. 16/01/2024 n. 1.735, rel. Fanticini:

<<13. In difetto di un accertamento giudiziale (tantomeno come res iudicata) sulla mancata acquisizione della qualità di erede (tesi che, invece, sostengono infondatamente i ricorrenti), la perdita del diritto di accettare l’eredità (al pari della rinuncia espressa alla medesima) deve reputarsi priva di effetti se intervenuta dopo l’acquisto della qualità di erede; in proposito, si richiama la puntuale statuizione di Cass., Sez. 6-2, Ordinanza n. 15663 del 23/07/2020, Rv. 658738-01: “L’atto di accettazione dell’eredità, in applicazione del principio semel heres semper heres, è irrevocabile e comporta in maniera definitiva l’acquisto della qualità di erede, la quale permane, non solo qualora l’accettante intenda revocare l’atto di accettazione in precedenza posto in essere, ma anche nell’ipotesi in cui questi compia un successivo atto di rinuncia all’eredità.”>>.

REgola risaputa, nulla di nuovo.

Che poi prosegue.

14. Non sussiste, dunque, alcuna preclusione alla domanda di accertamento dell’accettazione tacita dell’eredità da parte di Cl.Bo. (in un momento antecedente alla tacita rinuncia derivante dallo spirare del termine ex art 481 cod. proc. civ.) e, di conseguenza, dell’acquisizione al patrimonio della stessa Bo. dei beni oggetto di pignoramento>>.

Interpretazione del brevetto

Cass. sez. I, ord. 10/05/2023 n. 12.499, rel. Nazzicone:

Premessa processuale:

<<3.1. – Occorre premettere che l’interpretazione del brevetto per invenzione industriale, a qualunque effetto sia resa, si risolve in un accertamento di fatto circa la determinazione della portata dell’invenzione e la volontà del soggetto che domanda il brevetto in ordine al contenuto del diritto di esclusiva, il quale è rimesso al giudice del merito e non è soggetto a controllo da parte della Corte di cassazione in via diretta e primaria, ma solo mediatamente, attraverso la verifica della correttezza logica e giuridica delle ragioni poste a fondamento del convincimento espresso dal giudice>>.

Poi il profilo sostanziale:

<<3.3.2. – I criteri interpretativi del brevetto, dalla ricorrente invocati, prevedono che alla domanda di concessione di brevetto per invenzione industriale debbano unirsi la descrizione, le rivendicazioni e i disegni necessari alla sua intelligenza, dovendo l’invenzione essere descritta in modo sufficientemente chiaro e completo perché ogni persona esperta del ramo possa attuarla (art. 51, commi 1 e 2), e che la descrizione e i disegni servano ad interpretare le rivendicazioni (art. 52, comma 2); essi aggiungono, altresì, che occorre garantire, nel contempo, un’equa protezione al titolare ed una ragionevole sicurezza giuridica ai terzi (art. 52, comma 3).

Dunque, la descrizione ed i disegni assolvono alla funzione di interpretare le rivendicazioni, il che deve avvenire secondo una regola di contemperamento, ossia in modo da garantire, nel contempo, un’equa protezione al titolare dell’invenzione e una ragionevole sicurezza giuridica ai terzi (cfr. Cass. 4 gennaio 2022, n. 120).

Questa Corte ha già avuto occasione di chiarire che la rivendicazione va interpretata alla luce del dato tecnico risultante dalla descrizione (Cass. 4 settembre 2017, n. 20716, non massimata; Cass. 28 luglio 2016, n. 15705; Cass. 8 febbraio 1999, n. 1072) e, dunque, anche dai disegni, espressamente richiamati dall’art. 52, comma 2, cod. propr. ind. (Cass. n. 20716 del 2017, cit.).

Ne’ tali criteri impediscono naturalmente che tale valutazione sia compiuta da soggetto diverso dal tecnico del ramo, secondo i canoni ermeneutici della lettera della rivendicazione, dei dati tecnici descritti e dei disegni allegati.

Come prevede la legge, nell’interpretazione del brevetto si deve fare, invero, riferimento alle cognizioni ed al linguaggio di un tecnico esperto del ramo; ma ciò non implica che solo questi sia in grado di comprendere le descrizioni, né, in particolare, che solo un sarto sia idoneo a comprendere le descrizioni di tagli e cuciture, salva la prova di situazioni eccezionali, nella specie neppure prospettate.

Del resto, l’interpretazione del brevetto va compiuta secondo il nucleo di principi di razionalità ermeneutica, utilizzabili nell’ambito delle interpretazioni anche di atti diversi dal negozio giuridico, alla cui stregua occorre tenere in considerazione il tenore letterale delle parole tecniche usate nelle rivendicazioni ed il significato logico delle stesse, secondo il senso complessivo del contenuto del brevetto, riportato nelle rivendicazioni e nella descrizione, nonché alla luce del criterio esposto del contemperamento tra protezione al titolare e sicurezza giuridica per i terzi. Ne deriva un’evidente contiguità tra le regole speciali e quelle generali di corretta interpretazione degli atti.

3.3.3. – Nella specie, la Corte d’appello non ha esorbitato da tali criteri, come lamentato dalla ricorrente, ma ha, da un lato, affidato le valutazioni ad un tecnico ingegnere, adeguatamente giustificando tale scelta, e, dall’altro lato, proceduto all’interpretazione delle rivendicazioni anche alla luce dei disegni.

Pertanto, la Corte territoriale non ha affatto violato il metodo indicato dalla legge, atteso che questa consente l’ausilio interpretativo delle prime (le rivendicazioni) per mezzo delle seconde (descrizione e disegni), né impone al giudice, ogni volta che sia coinvolto un brevetto nell’ambito merceologico dell’abbigliamento, di consultare un esperto di sartoria, spettando poi sempre al giudice del merito apprezzare le concrete capacità del consulente da lui nominato>>.

Il diritto verso la banca ai documenti ex 119.4 TUB è esercitabile pure in corso di causa e pure dal fideiussore

Cass.  Sez. I, Ord. 14/02/2024, n. 4064, rel. Valentino:

<<Il potere del correntista di chiedere alla banca di fornire la documentazione relativa al rapporto di conto corrente tra gli stessi intervenuto può essere esercitato, ai sensi dell’art. 119, comma 4, TUB (D.Lgs. n. 385 del 1993), anche in corso di causa ed attraverso qualunque mezzo si mostri idoneo allo scopo (Cass., n. 11554/2017). Il titolare di un rapporto di conto corrente ha sempre diritto di ottenere dalla banca il rendiconto, ai sensi dell’art. 119 del D.Lgs. n. 385 del 1993, anche in sede giudiziaria, fornendo la sola prova dell’esistenza del rapporto contrattuale, non potendosi ritenere corretta una diversa soluzione sul fondamento del disposto di cui all’art. 210 c.p.c., perché non può convertirsi un istituto di protezione del cliente in uno strumento di penalizzazione del medesimo, trasformando la sua richiesta di documentazione da libera facoltà ad onere vincolante. Lo stesso diritto spetta, inoltre, al fideiussore il quale, in ragione dell’accessorietà del rapporto di fideiussione rispetto al contratto di conto corrente, può definirsi, in senso lato, un cliente della banca, non diversamente dal correntista debitore principale (Cass., n. 24181/2020)>>.

Importanti precisazioni sull’obbligazione dei comproprietari per i lavori condominiali eseguiti

Utile messa a punto da parte di Cass. sez. III, ord. 06/12/2023  n. 34.220, rel. Tatangelo, che la condensa nel seg. principio di diritto:

<<l’onere di preventiva escussione dei condomini “morosi” gravante, ai sensi dell’art. 63, comma 2, disp. att. c.c., sul creditore solo parzialmente soddisfatto e munito di titolo esecutivo, non ha ad oggetto la sola somma corrispondente alla quota millesimale del condomino moroso sull’importo residuo dell’obbligazione di cui al titolo esecutivo, ma l’intero importo della suddetta “morosità”, cioè l’intera originaria quota dell’obbligazione condominiale imputabile al singolo condomino, detratto quanto eventualmente già pagato al creditore dall’amministratore, in nome e per conto di detto condomino, in virtù dei versamenti dallo stesso effettuati nelle casse condominiali, secondo l’imputazione comunicata ai sensi dell’art. 63, comma 1, disp. att. c.c., e/o quanto versato direttamente dal singolo condomino al terzo”;

“la quota del debito condominiale gravante sul singolo condomino contro il quale il creditore abbia agito in via esecutiva in base all’art. 63 disp. att. c.p.c., in caso di contestazioni espresse in sede di opposizione all’esecuzione – e fermo restando che spetta al condomino intimato l’onere di allegare e provare che detta quota sia diversa da quella indicata dal creditore – va determinata: a) in base alla delibera condominiale di riparto della spesa; b) se una delibera manchi o sia venuta meno, all’esito di una valutazione sommaria del giudice dell’opposizione all’esecuzione, ai soli fini dell’azione esecutiva in corso, tenendo conto delle indicazioni dell’amministratore, degli elementi certi disponibili ed eventualmente, in mancanza, facendo ricorso alla tabella millesimale generale; in tali casi restano tuttavia salve le eventuali successive appropriate azioni di rivalsa interna tra condomini”. >>

La sostituzione testamentaria deve essere esplicita , non essendo ravvisabile nella disposizione per cui l’erede istituito a sua volta avrà “l’obbligo morale” di devolvere i beni ai pretesi eredi in subordine (con un ripassino sulla interpretazione testamentaria)

Cass. sez. II sent. 01/03/2024 n. 5.487, rel. Giannaccari:
Premessa sull’interpretazione del testamento:

<<Secondo l’insegnamento di questa Corte, nell’interpretazione del testamento il giudice deve accertare, secondo il principio generale di ermeneutica enunciato dall’art.1362 c.c., applicabile, con gli opportuni adattamenti, anche in materia testamentaria, quale sia stata l’effettiva volontà del testatore comunque espressa, considerando congiuntamente, e in modo coordinato, l’elemento letterale e quello logico dell’atto unilaterale mortis causa, salvaguardando il rispetto del principio di conservazione del testamento (Cass. 14.10.2013, n.23278). Soltanto qualora dal testo dell’atto non emerga con certezza l’effettiva intenzione del de cuius e la portata della disposizione, l’interprete può, in via sussidiaria, ricorrere alla valutazione di elementi estrinseci al testamento, seppure sempre riferibili al testatore, quali ad esempio la sua cultura, la mentalità, il suo ambiente di vita, le sue condizioni fisiche (Cass. Civ., Sez. II, 24.4.2018, n.10075).

Si è quindi precisato che (così Cass. 20204/2005) qualora dall’indagine di fatto riservata al giudice di merito risulti già chiara, in base al contenuto dell’atto, la volontà del testatore, non è consentito – alla stregua del primario criterio ermeneutico della letteralità – il ricorso ad elementi tratti “aliunde” ed estranei alla scheda testamentaria>>.

La disposizione istitutiva:

Io sottoscritta, Br.Gi. – nata il (Omissis) a L (P) e residente a V, Corso (Omissis) – nelle mie piene facoltà mentali, nomino mio erede universale mio marito Ma.Ma.. Impongo al mio erede l’obbligo morale di riscrivere testamento con il quale, come da reciproci accordi, tutto il patrimonio venga assegnato, dopo la sua morte, nel modo seguente…[addirittura con determinazione delle risopettive quote, dice la SC!].

Ebbene, la SC non ravvisa in questa disposizione contenente un obbligo morale di “riscrivere il testamento” (perchè poi RIscrivere?) una sostituzione ex art. 688 cc:

<< La Corte d’appello ha ritenuto che l’istituzione di erede riguardasse solo il coniuge, con interpretazione plausibile, che ha tenuto conto, in primo luogo del dato letterale, mancando nell’atto una previsione espressa di devoluzione dell’eredità ai cognati.

La de cuius non aveva espressamente istituito eredi i cognati, in forza del meccanismo della sostituzione ex art.688 c.c., ma aveva fatto riferimento all’obbligo morale del marito di “riscrivere il testamento”, nel rispetto dei “reciproci accordi”.

Nell’interpretare la volontà della testatrice, la Corte di merito si è soffermata sull’appropriatezza del lessico nella parte in cui distingue l’istituzione di erede del coniuge dal suo obbligo morale di beneficiare i cognati nell’esercizio delle sue ultime volontà, ovvero nel “riscrivere il testamento”.

Del resto, la volontà del testatore, che deve guidare l’interprete nell’interpretazione del testamento, non può confliggere con le disposizioni di legge in materia di sostituzione ordinaria, che richiede una doppia istituzione di eredità in modo espresso, mentre, nel caso in esame, la testatrice non ha sostituito i cognati all’erede ma ha disposto che l’erede doveva riscrivere il testamento secondo accordi pregressi accordi intercorsi tra di loro.

La sostituzione deve essere oggetto di un‘esplicita disposizione del testatore, il quale provvede ad una designazione in subordine per il caso in cui l’istituito non possa acquistare l’eredità o il legato; in tale ipotesi, è lo stesso testatore ad indicare il criterio di soluzione per il caso in cui il designato alla successione non possa o non voglia succedere, prevalendo sia sulla rappresentazione che sull’accrescimento.

Il caso di specie non è riconducibile all’ipotesi in cui il testatore nomini un erede in via primaria ed un altro erede in via subordinata, realizzando la chiamata in sostituzione una chiamata originaria ed autonoma, che dipende dalla prima designazione solo in termini alternativi, nel senso che essa ha effetto se la prima designazione non si realizza>>.

Soluzione corretta ma non la motivazione. Che la sostituizione debba essere esplicita non risulta dalla legge e nemmeno dalla sua ratio: deve piuttosto essere inequivoca, anche se magari implicita.     E nel caso una disposizione in subordine non esisteva per nulla.

Determinazione dell’assegno di mantenimento dei figli da separazione o divorzio: irrilevanti le liberalità ai figli da parte dell’obbligato

Cass. sez. I, ord. 07/03/2024  n. 6.111, rel. Valentino:

<<L’assegno dovuto al coniuge separato o divorziato, per il mantenimento dei figli ad esso affidati, non può subire riduzioni o detrazioni in relazione ad altre elargizioni del coniuge obbligato in favore dei figli medesimi, ove queste risultino effettuate per spirito di liberalità per soddisfare esigenze ulteriori rispetto a quelle poste a base del predetto assegno, sicché restino ricollegabili ad un titolo diverso (Cass., n. 12212/1990). Nella specie, la Corte ha correttamente accertato che si trattava di un mutuo contratto a favore della figlia a scopo di liberalità, vivendo la medesima con il padre.

Inoltre, in assenza di un nuovo matrimonio, il diritto all’assegno di divorzio, in linea di principio, di per sè permane, nella misura stabilita dalla sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, anche se il suo titolare instauri una convivenza “more uxorio” con altra persona, salvo che sussistano i presupposti per la revisione dell’assegno, secondo il principio generale posto dall’art. 9, comma 1, l. 1° dicembre 1970, n. 898, come sostituito dall’art. 13 l. 6 marzo 1987, n. 74: e cioè che sia data la prova, da parte dell’ex coniuge onerato, che tale convivenza ha determinato un mutamento “in melius” – pur se non assistito da garanzie giuridiche di stabilità, ma di fatto adeguatamente consolidato e protraendesi nel tempo – delle condizioni economiche dell’avente diritto, a seguito di un contributo al suo mantenimento da parte del convivente, o quanto meno di risparmi di spesa derivatigli dalla convivenza. La relativa prova, pertanto, non può essere limitata a quella della mera instaurazione e del permanere di una convivenza “mora uxorio” dell’avente diritto con altra persona, essendo detta convivenza di per sè neutra ai fini del miglioramento delle condizioni economiche del titolare, potendo essere instaurata con persona priva di redditi e patrimonio, e dovendo l’incidenza economica di detta convivenza essere valutata in relazione al complesso delle circostanze che la caratterizzano (Cass., n. 1557/2004; Cass., n. 21080/2004; cfr., da ultimo, Cass. S.U. 32198/2021)>>.

Annullabilità del testamento per incapacità del de cuius

Cass. sez. II, ord. 06/03/2024 n. 5.993, rel. Criscuolo:

<<3. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 591 co. 2, n. 3, c.c. e del principio di diritto espresso da Cass. n. 9081/2010 e Cass. n. 27351/2014. La Corte d’Appello è giunta a confermare l’annullamento del testamento sul presupposto che fosse sufficiente che la capacità di intendere del testatore alla data dell’atto fosse esclusa o grandemente scemata (come riferito dalla CTU espletata in primo grado), ritenendo quindi equivalente la riduzione, ancorché grave, della capacità alla sua esclusione.

Con specifico riferimento alla deduzione del vizio di incapacità del testatore ex art. 591 c.c., l’elaborazione di questa Corte – anche nei precedenti richiamati con la censura in esame – ha, nel corso degli anni, precisato che, in tema di annullamento del testamento, l’incapacità naturale del testatore postula l’esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del de cuius, bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti o della capacità di autodeterminarsi; peraltro, poiché lo stato di capacità costituisce la regola e quello di incapacità l’eccezione, spetta a chi impugni il testamento dimostrare la dedotta incapacità, salvo che il testatore non risulti affetto da incapacità totale e permanente, nel qual caso grava, invece, su chi voglia avvalersene provarne la corrispondente redazione in un momento di lucido intervallo (Cass. n. 3934/2018).

In senso conforme, e sempre nella giurisprudenza più recente, si sottolinea come sia stato ribadito che, nel caso di infermità tipica, permanente ed abituale, l’incapacità del testatore si presume e l’onere della prova che il testamento sia stato redatto in un momento di lucido intervallo spetta a chi ne afferma la validità; qualora, invece, detta infermità sia intermittente o ricorrente, poiché si alternano periodi di capacità e di incapacità, non sussiste tale presunzione e, quindi, la prova dell’incapacità deve essere data da chi impugna il testamento (Cass. n. 25053/2018). È stato, poi, puntualizzato che il giudice del merito può trarre la prova dalle sue condizioni mentali, anteriori o posteriori, sulla base di una presunzione; posto che la relativa prova può essere fornita con qualsiasi mezzo, una volta dimostrata una condizione di permanente e stabile demenza nel periodo immediatamente susseguente alla redazione del testamento, spetta a chi afferma la validità del testamento la prova della sua compilazione in un momento di lucido intervallo (Cass. n. 26873/2019; Cass. n. 27351/2014; Cass. n. 9508/2005).

Va, poi, ricordato che la giurisprudenza di questa Corte, sia pure nella vigenza della vecchia e meno rigorosa formulazione dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., aveva affermato che l’apprezzamento del giudice del merito circa l’incapacità d’intendere e di volere, prevista dall’art 591, n. 3, cod. civ., al fine di dedurre l’incapacità di disporre per testamento, costituisce indagine di fatto e valutazione di merito, non censurabile in sede di legittimità, se fondata su congrua motivazione, immune da vizi logici ed errori di diritto (Cass. n. 162/1981; Cass. n. 1851/1980; Cass. n. 3205/1971).

Peraltro, ai fini del giudizio in ordine alla sussistenza o meno della capacità di intendere e di volere del de cuius al momento della redazione del testamento, il giudice del merito non può ignorare il contenuto dell’atto di ultima volontà e gli elementi di valutazione da esso desumibili, in relazione alla serietà, normalità e coerenza delle relative disposizioni, nonché ai sentimenti e ai fini che risultano averle ispirate. Nell’ambito di tale valutazione, il dato clinico, comunque necessario, costituisce uno degli elementi su cui il giudice deve basare la propria decisione, non potendosi mai prescindere dalla considerazione della specifica condotta dell’individuo e della logicità della motivazione dell’atto testamentario (Cass. n. 8690/2019; Cass. n. 230/2011; Cass. n. 5620/1995)>>.