Concorso dei genitori nel mentenimento del figlio

Cass.  Sez. I, Ord. 17/04/2024 n. 10.359, rel. Reggiani, sugli artt. 337 ter c. 4 e 316 bis c.1 cc (dal tenore non identico, l’uno riferendosi al reddito e l’altro anche al patrimonio):

<<2.1. Com’è noto, ai fini della determinazione della misura del contributo al mantenimento, sia esso destinato ai figli minori di età o ai figli maggiorenni ma non ancora dipendenti economicamente, deve guardarsi al disposto dell’art. 337 ter, comma 4, c.c. che, introdotto dall’art. 55 D.Lgs. n. 154 del 2013, riproduce quanto già stabilito all’art. 155, comma 4, c.c. a seguito delle modifiche apportate dall’art. 1 l. n. 54 del 2006 (così Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 2020 del 28/01/2021 e Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 19299 del 16/09/2020).

La norma prevede, in particolare, che “Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando: 1) le attuali esigenze del figlio; 2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori; 3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore; 4) le risorse economiche di entrambi i genitori; 5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.”

Si deve, a questo proposito, considerare che l’obbligo di mantenimento dei figli ha due dimensioni.

Da una parte vi è il rapporto tra genitori e figlio e da un’altra vi è il rapporto tra genitori obbligati.

Il principio di uguaglianza che accumuna i figli di genitori coniugati ai figli di genitori separati o divorziati, come pure a quelli nati da persone non unite in matrimonio (che continuano a vivere insieme o che hanno cessato la convivenza), impone di considerare che tutti i figli hanno uguale diritto di essere mantenuti, istruiti, educati e assistiti moralmente, nel rispetto delle loro capacità delle loro inclinazioni naturali e delle loro aspirazioni (art. 315 bis, comma 1, c.c.).

È per questo che l’art. 337 ter c.c., nel disciplinare la misura del contributo al mantenimento del figlio, nel corso dei giudizi disciplinati dall’art. 337 bis c.c., pone subito, come parametri da tenere in considerazione, le attuali esigenze dei figli e il tenore di vita goduto da questi ultimi durante la convivenza con entrambi i genitori (art. 337 ter, comma 4, nn. 1 e 2, c.c.). I diritti dei figli di genitori che non vivono insieme, infatti, non possono essere diversi da quelli dei figli di genitori ancora conviventi, né i genitori possono imporre delle privazioni ai figli per il solo fatto che abbiano deciso di non vivere insieme.

Nei rapporti interni tra genitori vige, poi, il principio di proporzionalità rispetto al reddito di ciascuno.

In generale, l’art. 316 bis, comma 1, c.c. prevede che i genitori (anche quelli non sposati) devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo.

Lo stesso criterio di proporzionalità deve essere seguito dal giudice, quando, finita la comunione di vita tra i genitori (siano essi sposati oppure no) è chiamato a determinare la misura del contributo al mantenimento da porre a carico di uno di essi, dovendo considerare le risorse economiche di ciascuno (art. 337 ter, comma 4, n. 4, c.c.), valutando anche i tempi di permanenza del figlio presso l’uno o l’altro genitore e la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascuno (art. 337 ter, comma 4, nn. 3 e 5, c.c.), quali modalità di adempimento in via diretta dell’obbligo di mantenimento che, pertanto, incidono sulla necessità e sull’entità del contributo al mantenimento in termini monetari.

2.2. Non è sottratta a tale criterio la statuizione relativa alle spese straordinarie, previste in modo distinto rispetto al contributo periodico forfettario.

Come pure affermato dal questa Corte, infatti, in tema di riparto delle spese straordinarie per i figli, il concorso dei genitori, separati o divorziati, o della cui responsabilità si discuta in procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio, non deve essere necessariamente fissato in misura pari alla metà per ciascuno, secondo il principio generale vigente in materia di debito solidale, ma in misura proporzionale al reddito di ognuno di essi, tenendo conto delle risorse di entrambi e della valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 35710 del 19/11/2021).

2.3. Nel caso di specie, dunque, come censurato nel primo motivo di ricorso, la Corte d’appello risulta avere violato il principio appena enunciato, tenuto conto che, a fronte di una specifica domanda di diversificazione della misura del contributo di ciascun genitore nelle spese straordinarie relative al figlio, dopo aver dato atto delle maggiori consistenze patrimoniali e reddituali del padre del bambino, oltre che del fatto che lo stesso vive stabilmente a Mosca con la madre, lontano dal padre che risiede in Italia, non abbia poi considerato tali aspetti ai fini della individuazione delle quote per la contribuzione alle spese straordinarie come pure imposto dall’art. 337 ter, comma 4, nn. 3 e 4, c.c., prevedendo la partecipazione a tali spese in misura percentuale uguale tra i due genitori>>

E poi:

<<In effetti, come sopra evidenziato, la misura della contribuzione al mantenimento dei figli non dipende da una valutazione delle “astratte potenzialità reddituali” dei genitori obbligati, ma dalla valutazione delle effettive condizioni reddituali e patrimoniali di questi ultimi, che, ovviamente, possono essere accertati anche in via presuntiva, ma mai astratta e potenziale.

La Corte d’appello, invece, pur prendendo atto dello stato di disoccupazione della ricorrente, come sopra evidenziato, ha ritenuto che quest’ultima fosse ben inserita nel mondo della musica, essendo in contatto con noti artisti italiani, il che le poteva consentire di introdursi con facilità in quell’ambito lavorativo, sia in Italia che nel suo Paese di origine, aggiungendo che, in ogni caso, era una donna di giovane età (nata nel (Omissis)), con conoscenza delle lingue e un buon livello di istruzione, e che pertanto poteva facilmente immettersi nel circuito produttivo anche in altro campo (ad esempio quello turistico).>>

Successione dei soci nella titolarità del credito spettante alal società estinta con cancellazione dal R.I. e legititmazione processuale

Cass. sez. I, sent. 02/04/2024 n. 8.633, rel. Scotti (con le consuete pregevoli sinteticità e chiarezza di questo relatore):

<<13. Secondo il noto orientamento che risale alle sentenze delle Sezioni Unite del 12.3.2013, n. 6070 e 6072, la cancellazione volontaria dal registro delle imprese di una società, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società medesima, impedisce che essa possa ammissibilmente agire o essere convenuta in giudizio.

Se l’estinzione della società cancellata dal registro interviene in pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo del processo, disciplinato dagli art. 299 e ss. cod. proc. civ., con possibile successiva eventuale prosecuzione o riassunzione del medesimo giudizio da parte o nei confronti dei soci. Ove invece l’evento estintivo non sia stato fatto constare nei modi previsti dagli articoli appena citati o si sia verificato quando il farlo constare in quei modi non sarebbe più stato possibile, l’impugnazione della sentenza pronunciata nei riguardi della società deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla società estinta.

Qualora all’estinzione della società, conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese, non corrisponda il venir meno di ogni rapporto giuridico facente capo alla società estinta, si determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale:

(a) le obbligazioni si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, essi fossero o meno illimitatamente responsabili per i debiti sociali;

(b) si trasferiscono del pari ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese, ancorché azionate o azionabili in giudizio, né i diritti di credito ancora incerti o illiquidi la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale) il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato.

Secondo l’indirizzo giurisprudenziale prevalente i soci sono destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata, ma non definiti all’esito della liquidazione, indipendentemente dalla circostanza che essi abbiano goduto, o no, di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione.

Secondo questa giurisprudenza, formatasi in tema di contenzioso tributario, qualora l’estinzione della società di capitali, all’esito della cancellazione dal registro delle imprese, intervenga in pendenza del giudizio di cui la stessa sia parte, l’impugnazione della sentenza resa nei riguardi della società deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla società estinta in quanto il limite di responsabilità degli stessi di cui all’art. 2495 c.c. non incide sulla loro legittimazione processuale ma, al più, sull’interesse ad agire dei creditori sociali, interesse che, tuttavia, non è di per sé escluso dalla circostanza che i soci non abbiano partecipato utilmente alla ripartizione finale, potendo, ad esempio, sussistere beni e diritti che, sebbene non ricompresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, si sono trasferiti ai soci. (Sez. 5, n. 9094 del 7.4.2017; Sez. 5 , n. 15035 del 16.6.2017; Sez. 5, n. 897 del 16.1.2019; Sez.5, n. 1713 del m21.1.2018; Sez.5, n. 14446 del 5.6.2018; Sez.5, n. 23730 del 29.7.2022; Sez.5. n. 13247 del 28.4.2022; Sez. 5, n. 22692 del 26.7.2023).

In particolare, si è detto che “La possibilità di sopravvenienze attive o anche semplicemente la possibile esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio non consentono, dunque, di escludere l’interesse dell’Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti”.

14. Il limite di responsabilità dei soci ex art. 2495 c.c., comma 2, non incide sulla loro legittimazione processuale, ma, al più, sull’interesse ad agire dei creditori sociali, interesse che, tuttavia, non è di per sé escluso dalla circostanza che i soci non abbiano partecipato utilmente alla ripartizione finale, perché ben possono, ad esempio, sussistere beni e diritti che, sebbene non ricompresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, si sono trasferiti ai soci.

Se quindi dal lato passivo dei rapporti facenti capo alla società estinta questa Corte predica la non necessaria correlazione tra titolarità in capo agli ex soci di beni o diritti e la loro legittimazione processuale, tale principio deve anche valere anche con riferimento alla situazione simmetrica, ossia alla legittimazione processuale attiva in caso di trasferimento del diritto controverso, che determina, agli effetti dell’art. 111 cod. proc. civ., la prosecuzione del processo tra le parti originarie, non venendo meno la legitimatio ad causam della parte cedente.

Vale a dire: come l’assenza di beni o diritti ripartiti non incide sulla legittimazione processuale passiva dei soci, giacché non configura una condizione da cui dipende la possibilità di proseguire nei loro confronti l’azione originariamente intrapresa dal creditore sociale verso la società, così le stesse circostanze non precludono l’assunzione da parte loro della qualità di successori processuali e correlativamente, la loro legittimazione ad causam ai fini della prosecuzione del processo.

L’effettiva liquidazione e ripartizione dell’attivo e, prima ancora, ovviamente, la sua sussistenza se costituisce fondamento sostanziale e misura (nonché limite) della titolarità sostanziale del rapporto in capo a ciascuno dei successori, non può però anche ritenersi presupposto della assunzione, in capo al socio, della qualità stessa di successore e, correlativamente, della legittimazione ad causam ai fini della prosecuzione del processo ai sensi dell’art. 111 cod. proc. civ.

16. La legittimazione processuale dei soci, dunque, si pone su un piano preliminare e distinto da quello concernente la concreta titolarità sostanziale del rapporto.

Gli ex soci pertanto sono legittimati a proseguire il processo incardinato nei confronti della società estinta, a prescindere dalla titolarità effettiva del credito, trasferita per atto inter vivos ad altro soggetto, e quindi possono parteciparvi al processo quale mero sostituto processuale, sì come sono legittimati passivamente all’azione dei creditori sociali, ancorché non abbiano ricevuto beni in sede di liquidazione.

Da questa premessa discende l’irrilevanza della attribuzione del credito in sede di bilancio finale di liquidazione, cosa che in una situazione del genere di quella sopra illustrata neppur teoricamente poteva avvenire, visto che il credito era già stato trasferito a terzi in precedenza.

In altri termini, gli ex soci sono legittimati ex art.111 cod. proc. civ. a proseguire la controversia intrapresa dalla società estinta e da essa proseguita quale sostituto processuale del successore a titolo particolare nel rapporto controverso ex art.110 cod. proc. civ. e in questo caso non sono tenuti a dimostrare di essere subentrati nel credito in precedenza ceduto>>.

Dunque il principio di diritto:

“Nel caso di trasferimento a titolo particolare per atto inter vivos del diritto controverso in corso di causa, gli ex soci della società cedente estinta sono successori a titolo universale ai sensi dell’art.110 cod. proc. civ. nella posizione meramente processuale della società estinta, parte originaria legittimata ex art.111 cod.proc.civ a proseguire il giudizio, e perciò essi pure legittimati, indipendentemente dalla circostanza che essi abbiano goduto, o no, di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione.”

Riparto dell’onere della prova (e valutazione ex art. 116 cpc) nel rito lavoro in azione di danno del lavoratore verso il datore: favor estendibile a casi in cui ricorra la stessa ratio?

Cass. sez. lavoro, Ord. 15/04/2024, n. 10043 n. 10.043 rel. Riolfi, in un azione di danno del dipendente verso la Regione Calabria per epatite C contratta durante il servizio presso la ASL 2 di CAstrovillari:

Fatto processuale:

<<.3. La Corte territoriale, invero, dopo aver operato previamente la qualificazione del titolo di responsabilità invocato dal ricorrente come responsabilità ex art. 2087 c.c., ha correttamente richiamato il principio generale, reiteratamente affermato da questa Corte, per cui, non costituendo l’art. 2087 c.c. ipotesi di responsabilità oggettiva, grava comunque sul lavoratore, che tale titolo di responsabilità venga ad invocare, l’onere di allegare, sia gli indici della nocività dell’ambiente lavorativo cui è esposto – da individuarsi nei concreti fattori di rischio, circostanziati in ragione delle modalità della prestazione lavorativa -sia il nesso eziologico tra la violazione degli obblighi di prevenzione ed i danni subiti (e.g. Cass. Sez. L – Sentenza n. 28516 del 06/11/2019; Cass. Sez. L – Ordinanza n. 26495 del 19/10/2018; Cass. Sez. L -Sentenza n. 10319 del 26/04/2017 sino alle più risalenti Cass. Sez. L, Sentenza n. 4840 del 07/03/2006Cass. Sez. L, Sentenza n. 4840 del 07/03/2006).>>

Ed allora la SC:

<<4.4. Tale drastica declinazione del principio generale, pur correttamente richiamato, non ha tuttavia tenuto conto dei principi enunciati da questa Corte con riferimento alle specificità che caratterizzano l’attività istruttoria nel rito del lavoro.

Questa Corte, infatti, ha reiteratamente chiarito – anche con riferimento al giudizio d’appello – che nel rito del lavoro, l’esercizio dei poteri istruttori del giudice – che può essere utilizzato a prescindere dalla maturazione di preclusioni probatorie in capo alle parti – vede quali presupposti la ricorrenza di una semipiena probatio e l’individuazione di quegli elementi che sono stati ricondotti alla categoria della “pista probatoria”, e cioè di quelle informazioni che emergono dal complessivo materiale probatorio, anche documentale, e che costituiscono fattore che non solo vale a superare una rigida applicazione delle già richiamate preclusioni istruttorie e degli stessi limiti all’attività istruttoria, ma anche giustifica – ed anzi rende doveroso – l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio, oltre ad una valorizzazione complessiva e non parziale del materiale probatorio, sebbene anche solo indiziario (Cass. Sez. L – Ordinanza n. 26597 del 23/11/2020; Cass. Sez. L, Ordinanza n. 33393 del 17/12/2019; Cass. Sez. L – Ordinanza n. 32265 del 10/12/2019; Cass. Sez. L – Ordinanza n. 11845 del 15/05/2018; Cass. Sez. L – Ordinanza n. 28134 del 05/11/2018; Cass. Sez. L, Sentenza n. 9034 del 06/07/2000).

Tale principio, del resto, costituisce gemmazione di un principio più generale, anch’esso oggetto di reiterata enunciazione e riferito proprio alla verifica dell’effettiva sussistenza di uno scenario di assoluta mancanza di prova, quale quello evocato dalla decisione impugnata.

A mente di tale principio, nel rito del lavoro, la necessità di assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., nell’ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all’art. 111, secondo comma, Cost. e in coerenza con l’art. 6 CEDU, comporta l’attribuzione di una maggiore rilevanza allo scopo del processo -costituito dalla tendente finalizzazione ad una decisione di merito – che non solo impone di discostarsi da interpretazioni suscettibili di ledere il diritto di difesa della parte o, comunque, risultino ispirate ad un eccessivo formalismo, tale da ostacolare il raggiungimento del suddetto scopo, ma conduce a considerare del tutto residuale l’ipotesi di “assoluta mancanza di prove”.

Tale necessità si traduce in una maggiore pregnanza del dovere del giudice di pronunciare nel merito della causa sulla base del materiale probatorio ritualmente acquisito con una valutazione, non limitata all’esame isolato dei singoli elementi, ma operata in via globale nel quadro di una indagine unitaria ed organica (Cass. Sez. L, Sentenza n. 18410 del 01/08/2013; Cass. Sez. L, Sentenza n. 6753 del 04/05/2012, per risalire a Cass. Sez. U, Sentenza n. 11353 del 17/06/2004).

Alla luce di tali principi, quindi, pur restando immutate le regole generali di distribuzione degli oneri probatori, la presenza di elementi idonei a costituire “piste probatorie” determina il potere-dovere del giudice di procedere – anche tramite i poteri ufficiosi che gli sono attribuiti dalla legge – sia agli opportuni approfondimenti sia ad una valutazione complessiva del quadro probatorio – sia quello iniziale sia quello risultante dagli approfondimenti medesimi – la quale può sfociare in un giudizio conclusivo di totale carenza probatoria solo qualora, all’esito di un vaglio complessivo dell’insieme degli elementi disponibili, risulti l’assoluta inconsistenza del contributo probatorio di questi ultimi.

4.5. Si deve, a questo punto, rilevare che nella decisione impugnata la Corte d’appello risulta aver radicalmente trascurato – omettendone persino la menzione in parte motiva – una circostanza di cui pure essa stessa aveva dato atto nella propria diffusa ricostruzione dei fatti di causa, e cioè la precedente attivazione della procedura per il riconoscimento al ricorrente della causa di servizio proprio in relazione all’incidente cui viene attribuita la fonte del contagio accidentale, procedura nell’ambito della quale era stato espresso giudizio favorevole sia dalla Commissione medica sia dal Comitato di verifica>>.

Diritto del nonno a frequentare il nipote ma solo se nell’interesse di questi

Cass.  Sez. I, Ord. 16/04/2024, rel. Caiazzo, n. 10.250, sull’art. 317 bis cc

<Invero, il diritto degli ascendenti a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni è funzionale all’interesse di questi ultimi e presuppone una relazione positiva, gratificante e soddisfacente per ciascuno di essi, pertanto il giudice non può disporre il mantenimento di tali rapporti dopo aver riscontrato semplicemente l’assenza di alcun pregiudizio per i minori, dovendo invece accertare il preciso vantaggio a loro derivante dalla partecipazione degli ascendenti al progetto educativo e formativo che li riguarda, senza imporre alcuna frequentazione contro la volontà espressa dei nipoti che abbiano compiuto i dodici anni o che comunque risultino capaci di discernimento, individuando piuttosto strumenti di modulazione delle relazioni, in grado di favorire la necessaria spontaneità dei rapporti (Cass., n. 2881/23; n. 15238/18). [non da poco: non basta l’assenza di danno, servendo la  presenza stimata di benefici per il minore]

Nella specie, la Corte territoriale ha posto a sostegno della decisione sia la c.t.u., espletata nel giudizio divorzile, che le relazioni della dott.ssa Ravrenna, psicologa incaricata dal padre della minore, poi da quest’ultimo revocata, recependo in sostanza i rilievi di tali professionisti a tenore dei quali la decisione di consentire il riavvicinamento della minore alla nonna (i cui rapporti erano sospesi fin dall’accordo di divorzio) era subordinata a una previa valutazione delle condizioni psicologiche della stessa minore e al superamento della conflittualità familiare nella quale la ricorrente era risultata profondamente coinvolta (come peraltro confermato in motivazione con riferimento ai riferiti incontri tra nonna e figli, in violazione delle prescrizioni dettata dal giudice), tentativo questo che non era riuscito con una recrudescenza della predetta conflittualità.

Pertanto, la Corte d’appello ha ritenuto ancora insussistenti i presupposti per la ripresa della relazione in questione, essendo evidente l’inopportunità di una introduzione nel conflitto in atto della figura della nonna, anche considerando la fragilità mostrata dalla minore, priva di una effettiva “mentalizzazione” di quella figura. Inoltre, è stata evidenziata la correttezza delle preoccupazioni espresse dagli operatori (c.t.u. e psicoterapeuta) circa il coinvolgimento della nonna nelle conflittuali relazioni familiari e sulla necessità di osservare opportune cautele di natura psicologica prima di una possibile ripresa delle relazioni della stessa con la minore>.

Poi sul diritto del minore di partecipare al processo:

<<In generale i minori, nei procedimenti giudiziari che li riguardano, non possono essere considerati parti formali del giudizio, perché la legittimazione processuale non risulta attribuita loro da alcuna disposizione di legge; essi sono, tuttavia, parti sostanziali, in quanto portatori di interessi comunque diversi, quando non contrapposti, rispetto ai loro genitori. La tutela del minore, in questi giudizi, si realizza mediante la previsione dell’ascolto, e costituisce pertanto violazione del principio del contraddittorio e dei diritti del minore il suo mancato espletamento, quando non sia sorretto da un’espressa motivazione sull’assenza di discernimento, tale da giustificarne l’omissione (Cass., n. 16410/20, che ha dettato il principio in un giudizio nel quale i nonni del minore, che domandavano di essere ammessi ad incontrarlo, avevano contestato la nullità della sentenza a causa della mancata nomina di un difensore del minore – critica respinta – e della mancata audizione di quest’ultimo, censura che è stata invece accolta, con rinvio della causa al giudice dell’appello).

Nel caso concreto, dagli atti non emerge che il minore sia stato sentito in ordine alla questione della frequentazione con la nonna ricorrente, né è stata fornita una motivazione giustificatrice del mancato ascolto. Sul punto, è stato ritenuto che l’art. 315-bis cod. civ., introdotto dalla legge 10 dicembre 2012 , n. 219, [oggi v. pure l’art. 473 bis.4 cpc] prevede il diritto del minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore, ove capace di discernimento, di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano, e quindi anche in quelle relative all’affidamento ai genitori, salvo che l’ascolto possa essere in contrasto con il suo “superiore interesse”.

Al riguardo, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, in tema di ascolto del minore infradodicenne, nelle procedure giudiziarie che lo riguardino, l’audizione è adempimento necessario, a meno che l’ascolto sia ritenuto in contrasto con gli interessi superiori del minore medesimo (in ragione dell’età o del grado di maturità o per altre circostanze), come va specificamente enunciato dal giudice, in tal caso restando non necessaria la motivazione espressa sulla preventiva valutazione del discernimento del minore (Cass., n. 24626/23; n. 1474/21; n. 9691/22).

Nella specie, dalla sentenza impugnata si evince la fragilità della minore la quale non aveva “mentalizzato” la figura della nonna paterna, come rilevato dal c.t.u.; inoltre, come detto, i vari operatori avevano evidenziato l’inopportunità del coinvolgimento della nonna nelle conflittuali relazioni familiari e la necessità di osservare opportune cautele di natura psicologica prima di una possibile ripresa delle relazioni della stessa con la nipote.

Se ne deve dunque dedurre che l’omesso ascolto della minore sia stato adeguatamente giustificato dalla Corte territoriale, non rispondendo la relativa audizione all’interesse della stessa. Infatti, nel decreto impugnato è stato rilevato che la nonna era stata messa ampiamente in contatto con la nipote, liberamente e al di fuori di ogni cautela, ciò attraverso contatti telefonici e poi, durante le vacanza estive del 2022, grazie alla compiacenza dello stesso padre.

Invero, in tema di ascolto del minore maltrattato, il giudice deve sempre operare un bilanciamento tra l’esigenza di ricostruzione del volere e del sentimento del minore, quale principio fondamentale applicabile anche nel procedimento relativo alla decadenza dalla responsabilità genitoriale, e quella della tutela del minore maltrattato, come persona fragile, nel caso in cui l’ascolto possa costituire pericolo di vittimizzazione secondaria per gli ulteriori traumi che il fanciullo che li abbia già vissuti possa essere costretto a rivivere (Cass., n. 23247/23).

Nel caso concreto, è dunque evidente come il mancato ascolto della minore fosse stato ritenuto necessario nel suo interesse, nell’ambito del percorso terapeutico volto a tutelare Gaia Claudia riguardo alle conflittuali relazioni familiari>>.

Il marchio denominativo PABLO ESCOBAR è non registrabil eper contrarietòà all’ordine poujbblucio

Trib. UE 17 April 2024 , T-25/23, Escobar inc c EUIPO, sull’art. 7.1.f reg. 2017/1001 applicato al marchio costituito dal nome del noto boss della droga:

<<17   As the Board of Appeal correctly pointed out in paragraphs 21 to 23 of the contested decision, the relevant public cannot be limited, for the purposes of the examination of the ground for refusal provided for in Article 7(1)(f) of Regulation 2017/1001, solely to the public to which the goods and services in respect of which registration is sought are directly addressed. Consideration must be given to the fact that the sign caught by that ground for refusal will shock not only the public to which the goods and services designated by the sign are addressed, but also other persons who, without being concerned by those goods and services, will encounter that sign incidentally in their day-to-day lives (see judgment of 15 March 2018, La Mafia Franchises v EUIPO – Italy (La Mafia SE SIENTA A LA MESA), T‑1/17, EU:T:2018:146, paragraph 27 and the case-law cited).

18 In addition, in order to apply that ground for refusal, it is necessary to take account not only of the circumstances common to all Member States of the European Union but also the particular circumstances of individual Member States which are likely to influence the perception of the relevant public within those States (see judgment of 15 March 2018, La Mafia SE SIENTA A LA MESA, T‑1/17, EU:T:2018:146, paragraph 29 and the case-law cited).

19 In paragraph 24 of the contested decision, the Board of Appeal found that the goods and services covered by the mark applied for were aimed at a professional public and at the general public, whose level of attention would vary from low, in respect of everyday consumer goods, to high, in respect of very sophisticated goods or services. However, as stated in paragraphs 28 to 34 of the contested decision, it chose to assess, in the present case, the existence of the ground for refusal referred to in Article 7(1)(f) of Regulation 2017/1001 in relation to the Spanish public, on the ground that that was the public most familiar with the Colombian national called Pablo Escobar, born on 1 December 1949 and presumed to be a drug lord and narco-terrorist who founded and was the sole leader of the Medellín cartel (Colombia), on account of the privileged links, in particular historical links, between Spain and Colombia.

20 Those assessments, which, moreover, are not disputed by the parties, appear to be well founded and may be upheld, with the result that, in the present case, it is necessary to focus on the relevant Spanish public in order to assess, for the purposes of examining the present plea, the existence of the absolute ground for refusal referred to in Article 7(1)(f) of Regulation 2017/1001.

21 In paragraphs 46 to 54 of the contested decision, the Board of Appeal found that at least a non-negligible part of the relevant Spanish public would associate the mark applied for with Pablo Escobar, perceived as a symbol of a drug lord and a narco-terrorist.

22 In paragraphs 55 to 69 of the contested decision, it found that the mark applied for, understood in the manner referred to in paragraph 21 above, would be perceived as being contrary to public policy and to accepted principles of morality by the non-negligible part of the relevant Spanish public which would associate it with the crimes committed by the Medellín cartel or directly attributed to Pablo Escobar, which were unacceptable in modern democratic societies, as they were absolutely contrary to the recognised ethical and moral principles, not only in Spain but also in all EU Member States, and constituted one of the most serious threats to the fundamental interests of society and the maintenance of social peace and order. The mark applied for contradicts, for a non-negligible part of the general public exposed to it, the indivisible and universal values on which the European Union is founded, namely human dignity, freedom, equality and solidarity, and the principles of democracy and the rule of law, as proclaimed in the Charter, and the right to life and physical integrity. Furthermore, for the many consumers of the goods and services at issue who, in particular in Spain, share those values, the mark applied for could be perceived as being highly offensive or shocking, as an apology of crime and a trivialisation of the suffering caused to thousands of people killed or injured by the Medellín cartel, of which Pablo Escobar was the presumed leader. That suffering is not erased by the actions in favour of the poor or the role of ‘Robin Hood’ which the applicant or many Colombians attribute to Pablo Escobar in Colombia, or by the fact that he has become an icon of popular culture in Spain.

23 Lastly, in paragraphs 70 to 78 of the contested decision, the Board of Appeal rejected the applicant’s arguments alleging that signs identical with, or similar to, the mark applied for had already been applied for or registered, as trade marks, by national offices or by EUIPO, observing that, in some of those decisions, the signs at issue had been refused registration on the ground that they were contrary to public policy and to accepted principles of morality, and that, in any event and according to the case-law, the Board of Appeal was not bound by those decisions and had to rule solely on the basis of Regulation 2017/1001.

24 However, the applicant complains that the Board of Appeal did not examine, in the contested decision, whether the majority of that public would perceive the mark applied for as being immoral. It should be borne in mind that, according to the case-law, the assessment of the existence of a ground for refusal under Article 7(1)(f) of Regulation 2017/1001 cannot be based either on the perception of the majority of the relevant public taken into account or on that of the parts of that public that does not find anything shocking or that may be very easily offended, but must be based on the standard of a reasonable person with average sensitivity and tolerance thresholds (see, to that effect, judgment of 15 March 2018, La Mafia SE SIENTA A LA MESA, T‑1/17, EU:T:2018:146, paragraph 26 and the case-law cited; see also, to that effect, judgment of 27 February 2020, Constantin Film Produktion v EUIPO, C‑240/18 P, EU:C:2020:118, paragraph 42).

25 In the contested decision, the Board of Appeal correctly referred, in the light of the case-law cited in paragraph 24 above, to the perception of the persons who, within the relevant Spanish public taken into account, could be regarded as reasonable and having average sensitivity and tolerance thresholds and who, as such, shared the indivisible and universal values on which the European Union is founded.

26 Accordingly, the applicant is not justified in claiming that the Board of Appeal misinterpreted or misapplied or applied Article 7(1)(f) of Regulation 2017/1001 too liberally, by not referring, in that regard, to the perception of the majority of the persons making up the relevant Spanish public taken into account.

27 Furthermore, in the contested decision, the Board of Appeal was justified in finding that the persons referred to in paragraph 25 above would associate the name of Pablo Escobar with drug trafficking and narco-terrorism and with the crimes and suffering resulting therefrom, rather than with his possible good deeds in favour of the poor in Colombia, and would therefore perceive the mark applied for, corresponding to that name, as running counter to the fundamental values and moral standards prevailing within Spanish society.

28 The fact, evidenced by the documents produced in the file by the applicant, that the names of Bonnie and Clyde, Al Capone or Che Guevara have already been registered as EU trade marks, which have subsequently either expired or been cancelled, is not such as to call into question the assessments by which the Board of Appeal correctly interpreted and applied, in the present case, Article 7(1)(f) of Regulation 2017/1001, as interpreted by the case-law, by referring to the specific perception of the name Pablo Escobar by the persons referred to in paragraph 25 above.

29 In that regard, it should be noted that, according to the case-law, the decisions concerning the registration of a sign as an EU trade mark which EUIPO is led to take under Regulation 2017/1001 are adopted in the exercise of circumscribed powers and are not a matter of discretion. Accordingly, the legality of those decisions of the Boards of Appeal must be assessed solely on the basis of that regulation, as interpreted by the Courts of the European Union, and not on the basis of a previous decision-making practice (see, to that effect, judgment of 26 April 2007, Alcon v OHIM, C‑412/05 P, EU:C:2007:252, paragraph 65)>>. –> Il precedente non è vincolante: il giudice (l’Ufficio EUIPO) è soggetto solo alla legge

Satira legittima o diffamazione?

Cass. sez. III, ord. 14/03/2024  n. 6.960, rel. Ambrosi:

premessa generale:

<<2.1. In via generale, vale rammentare che questa Corte ha già più volte avuto modo di affermare che la satira, quale specie del più ampio genere del diritto di critica, rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 21 Cost. che tutela la libertà della manifestazione del pensiero nella comunicazione ma che allo stesso tempo non può consistere in un esercizio indiscriminato, che può entrare in conflitto con alcuni valori fondamentali della persona, quali la reputazione, l’onore, il decoro, l’immagine etc., definiti dalla Corte Costituzionale “patrimonio irretrattabile di ogni essere umano” (Corte Cost. 24/01/1994 n. 13).

Il diritto di satira ha un fondamento complesso individuabile nella sua natura di creazione dello spirito, nella sua dimensione relazionale ossia di messaggio sociale, nella sua funzione di controllo esercitato con l’ironia ed il sarcasmo nei confronti dei poteri di qualunque natura.

Comunque si esprima e, cioè, in forma scritta, orale, figurata, la satira costituisce una critica corrosiva e spesso impietosa basata su una rappresentazione che enfatizza e deforma la realtà per provocare il riso; ne è espressione anche la caricatura e, cioè, la consapevole ed accentuata alterazione dei tratti somatici, morali e comportamentali di una persona realizzata con lo scritto, la narrazione, la rappresentazione scenica. In altri termini, la satira è espressione artistica nella misura in cui opera una rappresentazione simbolica quale metafora caricaturale.

Può al riguardo richiamarsi quanto autorevole dottrina ha osservato in tema di satira e parodia e cioè che esse offrono all’interprete “un altrove” ove il paradosso e la provocazione mutano il disincanto e la severità del diritto di critica e di cronaca, in riso o in burla.

Diversamente dalla cronaca, infatti, la satira è sottratta all’obbligo di riferire fatti veri, in quanto essa assume i connotati dell’inverosimiglianza e dell’iperbole per destare il riso e sferzare il costume ed esprime mediante il paradosso e la metafora surreale un giudizio ironico su di un fatto, pur rimanendo assoggettata al limite della continenza e della funzionalità delle espressioni o delle immagini rispetto allo scopo di denuncia sociale o politica perseguito.

Sul piano della continenza, il linguaggio essenzialmente simbolico e frequentemente paradossale della satira – in particolare di quella esercitata in forma grafica – è svincolato da forme convenzionali, per cui è inapplicabile il metro della correttezza dell’espressione.

In tale perimetro concettuale, è stato affermato da questa Corte che la satira, al pari di ogni altra manifestazione del pensiero, non può infrangere il rispetto dei valori fondamentali della persona.

Nello specifico, in ambito penale, non è stata riconosciuta la scriminante di cui all’art. 51 c.p. per le attribuzioni di condotte illecite o moralmente disonorevoli, gli accostamenti volgari o ripugnanti, la deformazione dell’immagine in modo da suscitare disprezzo o dileggio (Cass. pen. sez. 5, 2/12/1999 n. 2128, V.; Cass. pen. Sez. 5, 23/05/2013 n. 37706, R.; Cass. Sez. 5 15/11/2022 n. 9953, P.) e più nello specifico, è stata esclusa la scriminante nella satira che, trasmodando da un attacco all’immagine pubblica del personaggio, si risolva in un insulto o in un’aggressione gratuite alla persona in quanto tale (Cass. pen., Sez. 5, 11/5/2006 n. 23712, G. e altro) o nella rappresentazione caricaturale e ridicolizzante di alcuni magistrati posta in essere allo scopo di denigrare l’attività professionale da loro svolta attraverso l’allusione a condotte lesive del dovere funzionale di imparzialità (Cass. pen., Sez. 5, 4/6/2001, n. 36348, F.; Cass. Sez. 5, 27/10/2010 n. 3356, M. e altro).

In ambito civile, nello stesso solco, è stato affermato come nella formulazione del giudizio critico e tanto più in quello satirico, possono essere utilizzate espressioni di qualsiasi tipo, anche lesive della reputazione altrui, purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione o comportamento preso di mira e non si risolvano in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato (Cass. Sez. 1, 20/03/2018 n.6919; Cass. Sez. 6-3, 17/09/2013, n. 21235; Cass. Sez. 3, 28/11/2008, n. 28411; Cass. Sez. 3, 08/11/2007 n. 23314; Cass. Sez. 3, 29/05/1996 n. 4993); ad esempio, nessuna scriminante può ammettersi allorché la satira diventa forma pura di dileggio, disprezzo, distruzione della dignità della persona (Cass. Sez. 24 marzo 2015, n. 5851), ovvero quando comporta l’impiego di espressioni gratuite, volgari, umilianti o dileggianti, non necessarie all’esercizio del diritto (Cass. Sez. 3, 11/09/2014 n. 19178), comportanti accostamenti volgari o ripugnanti o tali da comportare la deformazione dell’immagine pubblica del soggetto bersaglio e da suscitare il disprezzo della persona o il ludibrio della sua immagine pubblica (Cass. Sez. 3, 17/09/2013 n. 21235);

viceversa, è stato ravvisato il legittimo esercizio del diritto di satira posto, in essere attraverso l’impiego di un detto popolare avente ad oggetto una facezia di carattere scatologico, se contestualizzata e riconosciuta sorretta da un intento di esasperazione grottesca ed iperbolica dell’impraticabilità di un ipotizzato paragone od accostamento della condotta tenuta dalla persona attinta dalla satira, o da essa pubblicamente ammessa o riconosciuta, rispetto ad altra vicenda storica (Cass. Sez. 3, 07/04/2016 n. 6787).

2.2. Sul piano della funzionalità delle espressioni o delle immagini rispetto allo scopo satirico perseguito, va tenuto conto di un ulteriore presupposto necessario alla espressione satirica, e cioè della rilevanza dell’interesse del pubblico all’esposizione del fatto in tale peculiare forma ovvero della dimensione pubblica della vicenda o della notorietà del personaggio preso di mira volto solo ed esclusivamente al fine di suscitare il riso nel lettore.

La sussistenza di tale presupposto è ritenuta necessaria sia dalla giurisprudenza interna, come veduto, sia da quella sovranazionale.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, difatti, con riferimento ad una vignetta satirica dal forte carattere politico, ha riaffermato l’inviolabilità del principio di non discriminazione, così come sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea all’articolo 21, paragrafo 1, (CGUE Grande Sezione, 3/09/2014 Causa C – 201/13, JohanDeckmyn e Vrijheidsfonds VZW c. Helena Vandersteen et al.).

Nella stessa prospettiva, la Corte dei diritti dell’uomo ha affermato che la protezione offerta dall’art. 10 della Carta, a tutela della libertà di espressione, non può prevalere di fronte ad uno spettacolo comico dalla forte connotazione antisemita (Corte EDU n. 25239/13, del 20/10/2015, M’bala M’bala c. France, in ordine allo spettacolo negazionista del comico Dieudonnè).

La lente utilizzata nei richiamati arresti europei mette a fuoco la necessità di escludere dall’ontologia delle espressioni satiriche, quelle che non rivolgono i propri strali verso i potenti, ma che infieriscono su categorie deboli, oggetto di discriminazione, razzismo, sessismo etc., non suscitando il sorriso amaro che la satira dovrebbe provocare, bensì semplice dileggio o disprezzo.

In tale contesto, efficacemente, gli odierni ricorrenti hanno richiamato un arresto della Corte EDU che ha ritenuto come nei periodi elettorali sia necessario garantire una libertà ancora più ampia, che include satira e parodia, nel caso di discorsi politici e di questioni di interesse per la collettività inseriti in un contesto generale di polemica in ordine al sostegno economico e politico ad alcuni candidati piuttosto che ad altri (Corte EDU 22/11/2016, Grebneva e Alisimchik vs Russia; nella specie, nell’immagine rappresentata si faceva un parallelismo tra il volto di un candidato, procuratore della regione di Primorskiy, e un corpo di donna avvolta in una banconota, sottolineandone l’evidente carattere provocatorio, che non era certo equiparabile a un attacco gratuito, tanto più che non si richiamava alcun aspetto della vita privata del raffigurato)>>.

Nel caso specifico, con cassazione e rinvio:

<<In particolare, la Corte romana, sebbene abbia assunto a monte del proprio convincimento il principio in diritto che, secondo la giurisprudenza di questa Corte fornisce le coordinate dell’esercizio legittimo della satira, richiamando in particolare la massima ricavata dalla ordinanza n. 6919/2018, a mente della quale, “La satira costituisce una modalità corrosiva e spesso impietosa del diritto di critica, sicché, diversamente dalla cronaca, è sottratta all’obbligo di riferire fatti veri, in quanto esprime mediante il paradosso e la metafora surreale un giudizio ironico su di un fatto, pur soggetta al limite della continenza e della funzionalità delle espressioni o delle immagini rispetto allo scopo di denuncia sociale o politica perseguito. Conseguentemente, nella formulazione del giudizio critico, possono essere utilizzate espressioni di qualsiasi tipo, anche lesive della reputazione altrui, purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall’opinione o comportamento preso di mira e non si risolvano in un’aggressione gratuita e distruttiva dell’onore e della reputazione del soggetto interessato”; immediatamente dopo, alla stregua di tale massima, ha affermato “non vi è dubbio che la fotografia del Collegio giudicante al momento della lettura del dispositivo della sentenza nel procedimento penale contro @5Be@, con la didascalia dal titolo “Giustizia da fiction su @6Ca@”, sotto la quale i tre componenti del collegio della Corte di Appello ivi ritratti (tra cui l’odierna appellata) vengono testualmente definiti: “un gruppo di attori milanesi durante le prove estive di @7Ze@” abbia carattere diffamatorio” (pag. 2 della sentenza impugnata), evidenziando che “il destinatario della rappresentazione satirica era un Collegio giudicante all’atto della lettura del dispositivo di una sentenza che, condivisa o meno che fosse, non legittimava il Se.Mi. a ledere l’onore dei componenti del collegio, con una immagine caricaturale già di per sé sgradevole e del tutto gratuita, ma a svilire l’esercizio della funzione giurisdizionale da questi svolta. Definire i componenti del collegio un gruppo di attori di un programma comico equivale sostanzialmente a rimarcare l’assoluta inaffidabilità degli stessi, non veri magistrati che emettono una sentenza sgradita, ma semplici attori, per di più di un programma comico (…)”. La Corte territoriale ha altresì aggiunto che “l’affermazione pure contenuta nell’articolo che “il principio sancito dalla Costituzione per cui la legge è uguale per tutti è una delle più celebri battute di spirito della storia”, vale a rimarcare non solo l’inaffidabilità soggettiva dei magistrati, ma a negarne l’onestà intellettuale ed il difetto di imparzialità che è una delle più gravi accuse che possa essere rivolta ad un magistrato, essendo indipendenza, imparzialità ed equilibrio i fondamenti della funzione” (pagg. 2 e 3 della sentenza impugnata), concludendo, infine, nel rilevare che “il collegamento a @6Ca@ e alla trasmissione @7Ze@ per i rapporti dell’emittente con l’imputato @5Be@ valgono sotto altro profilo a rimarcare la parzialità del Collegio, un collegio di attori di un programma dell’imputato” (pag. 3 della sentenza impugnata).

2.4. Ebbene, nella specie, è del tutto mancato l’esame del contesto in cui si inseriva la fotografia e la didascalia pubblicate all’interno dell’inserto in oggetto.

Difatti, è mancato l’esame dell’elemento necessario all’esposizione del fatto in tale peculiare forma satirica (attraverso il paradosso e la metafora surreale), costituito dalla dimensione pubblica della vicenda, dalla notorietà del personaggio preso di mira e dalla rilevanza dell’interesse manifestato dal pubblico.

Invero, la rappresentazione provocatoria in esame e la direzione paradossale ed iperbolica della satira utilizzata nel verso della leale inverosimiglianza e dell’accostamento sarcastico e sferzante, offerte al lettore, senza proporre alcuna funzione informativa (accostamento dell’immagine del collegio giudicante ad un gruppo di attori di un noto programma riferibile al palinsesto televisivo del personaggio politico in argomento sia con riferimento alla burlesca, dissacrante, parodia dell’affermazione secondo cui la legge è eguale per tutti), non possono essere considerate in modo avulso dal contesto socio – culturale in cui erano calate, in considerazione delle numerose reazioni dell’opinione pubblica e dell’accesa polemica sviluppatesi con riguardo alla peculiare vicenda giudiziaria penale (di particolare scabrosità), protrattasi per diversi anni, ascritta all’ex Presidente del Consiglio dei ministri, notissimo uomo politico, imprenditore televisivo e industriale, all’indomani della sua assoluzione in appello.

In altri termini, è mancato l’esame del contesto di sincera non veridicità finalizzata alla critica e alla dissacrazione di un personaggio politico di alto rilievo, all’indirizzo del quale, in definitiva, l’intero inserto fotografico in oggetto (contenente, tra le altre, la fotografia del Collegio giudicante d’appello), intendeva provocare l’amaro riso del lettore>>.

Mi pare troppo indulgente verso l’editore e troppo poco verso il giudice diffamato: egli non è personaggio pubblico e l’ordinata vita collettiva riceve solo danno, senza un utile, dall’incremento di sfiducia verso la magistratura derivatone.

Marchio di posizione confermato insufficientemente distintivo e quindi nullo dal Board of Appeal EUIPO

Anna Maria Stein su IPKat ci notizia della decisione 2nd board of Appeal EUIPO Cnitts KX ltd 19.02.2024, caso R 514/2023-2 .

Si trattava di marchio di posizione costituito da poligono a sei lati collocato in quattro punti di un occhiale:

(dal post di Anna Maria Stein)

il segno contestato:

40 The contested mark is not a mere figurative mark, but a position mark and has to be assessed as such. A trade mark may be devoid of distinctive character as a figurative mark but when applied for on a specific position or positions it may obtain a distinctive character. Thus, the position of the trade mark is relevant for the overall assessment.
However, it is to be stressed that the mark as such is also relevant for the overall
comparison.

41 The representation of the contested mark shows the position of four six-sided irregular black polygons (hereinafter ‘polygons’) each with a straight upper and lower edge and with the vertical sides formed by two parallel lines of equal length that converge inwards in a slightly concave fashion, each at the same angle. Two of these polygons are placed in a vertical direction on the front of the frames one on the left and one on the right, and two are placed horizontally on the outside part of the left and right temples. It is to be stressed that the shape of the glasses that are shown by means of dotted lines do not form part of the subject matter of the registration in accordance with Article 3(3)(d) EUTMIR

Giudizio:

49   As to the position mark showing four polygons instead of one, there is nothing about these polygons and as affixed on the goods that is unusual or memorable that might enable the relevant public to perceive the sign immediately as distinctive.
50 As correctly pointed out by the applicant, it is irrelevant whether the sign serves other functions in addition to that of an indication of origin, e.g. an aesthetic (decorative) function. However, the Board considers that the contested mark at hand does not serve (inherently) as an indication of origin. The position sign for which protection is sought on that, it is stressed, particular place of the frame and temples will be perceived by the relevant public (even to the extent it has a high level of attention) and in relation to all contested goods solely as a decoratively finished mechanism or rivet (a rivet as such has a dual purpose by having a functional and decorative purpose) that connects to or covers
the hinge that attaches the end piece or the front of the glasses to the arms (temples). (….)

54 Furthermore, as to the size of the elements of the four polygons and as affixed on the eyewear, the applicant itself admits that these elements are small but argues that this not relevant. It is true, that the size does not automatically disqualify any trade mark that is to be placed on eyewear frames from protection. Furthermore, the Board does not consider the small size of the four polygons at issue as a decisive factor. However, as an accessory remark, bearing in mind that it is unlikely that most of the consumers will analyse the mark in detail, the smaller the polygons at issue, the more difficult it may be for the
public to distinguish them from other plane figures. This finding of the public’s
perception is not changed by the applicant’s argument that the size is small due to the limited space for featuring a trade mark on eyewear frames.

Segue poi un ineressante aqnalisi del sondaggio demoscopico (mirante a provare che  il segno sarebbe diustintivo presso i consumatiori tedeschi), § 59 ss

Ripasso sulla donazione modale e sulla natura liberale dell’erogaszione al terzo beneficiario del modus

Cass. sez. trib., ord. 04/04/2024 n. 8.875, rel. Crivelli:

<<Il modus costituisce un elemento accidentale del contratto di donazione (come anche del testamento), disciplinato per quanto riguarda tale contratto dall’art. 793 cod. civ., caratterizzato dal fatto di non condizionarne (a differenza della condizione) l’efficacia e, pur essendo costituito da un obbligo avente ad oggetto una prestazione di carattere economico-patrimoniale, il relativo valore non può sopravanzare quello dell’oggetto della donazione stessa. Dunque, il modus può consistere sia nell’erogazione di una parte del bene donato (e persino di tutto) per un determinato scopo, sia nel compimento di un’azione od omissione in favore del donante stesso o di un terzo, sempre col limite surriferito.

Dunque è indiscutibile che con esso il donatario diventi soggetto passivo di un’obbligazione, sempre nel limite cui si è detto, rientrando l’onere tra le fonti tipiche delle obbligazioni ai sensi dell’art. 1173 cod. civ., ed essendo quindi suscettibile di adempimento forzato, ma ciò non ha alcun rapporto con la posizione del beneficiario.

Con tale strumento infatti può ben essere realizzato un contratto a favore del terzo, con applicazione della relativa disciplina, e lo stesso può avere benissimo la consistenza di donazione indiretta, ove l’istituzione dell’onere sia determinato da spirito di liberalità da parte del disponente, cioè nella specie della donante.

Così come ove la causa dell’attribuzione sia di diversa natura (ad esempio l’adempimento di un’obbligazione gravante sul disponente e di cui sia creditore il beneficiario del modus) potrà ritenersi la natura non liberale della disposizione medesima.

In particolare, nello schema della donazione modale a favore di un terzo determinato caratterizzato da spirito liberale, il donante realizza l’arricchimento patrimoniale del beneficiario (arg. ex art. 769 cod. civ.) attraverso l’intermediazione materiale del donatario, che agisce come sua longa manus (alla stregua di un mero ausiliario) per eseguire l’attribuzione o la prestazione costituente l’oggetto dell’onere.

Che poi il beneficiario del modus, nell’ipotesi più sopra indicata, possa essere considerato indiretto donatario, lo chiarisce la stessa legislazione tributaria, laddove l’art. 58, comma 1, del D.Lgs. 31 ottobre 1990 n. 346 prevede che “Gli oneri di cui è gravata la donazione, che hanno per oggetto prestazioni a soggetti terzi determinati individualmente, si considerano donazioni a favore dei beneficiari”.

Non è dunque vero che la donazione presuppone sia solo il donante a “erogare” il bene al donatario, perché appunto è proprio della donazione indiretta che invece il beneficio sia ricevuto attraverso il terzo (o perché questi versa una somma al beneficiario, o perché questi riceve denaro dovuto dal beneficiario allo stesso, come nell’esempio classico della donazione indiretta immobiliare).

Si può anzi dire che la donazione modale avente un destinatario determinato costituisca una doppia donazione, una eseguita a favore del donatario e l’altra eseguita a favore del beneficiario dell’onere (Cass. 24 dicembre 2020, n. 29506; Cass.17 giugno 2022, n. 19561).

Che nella specie si sia inteso proprio disporre una donazione indiretta della moglie a vantaggio del marito discende dalle stesse parole usate dalla CTR, laddove la stessa chiarisce come l’intento della Pi.Lu. era quello di “riequilibrare i rapporti economici familiari, in modo da beneficiare non solo il figlio, ma anche altri membri della famiglia”.

Ora l’intento “riequilibratore” è costituito proprio dall’animo liberale, visto che la farmacia, come incontestato, non era della famiglia, ma della donante>>.

Sul concetto di sfruttamento commerciale e di uso “indebito” del nome e/o dell’immagine altrui (art. 7 segg. c.c.)

Cass. sez. I, ord. 08/04/2024  n. 9.289, rel. Catallozzi sul non semplice problema della possibilità di riconoscere il diritto di informare a chi lo fa solo per promuovere le vendite (che tocca temi di vertice come quello dei diritti fondamentali agli enti commerciali).

<<- giova rammentare che l’art. 7 cod. civ. riconosce il diritto della persona, alla quale si contesti il diritto all’uso del proprio nome o che possa risentire pregiudizio dall’uso che altri indebitamente ne faccia, di chiedere giudizialmente la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni;

– il successivo art. 8 estende, poi, la legittimazione ad agire per la tutela del nome anche a chi, pur non portandolo, abbia un interesse fondato su ragioni familiari degne d’essere protette;

– la tutela apprestata dalle richiamate disposizioni non si risolve solo nella facoltà di reazione avverso condotte usurpative del nome, in ossequio a una concezione di stampo proprietario, ma si estende sino a comprendere ogni possibile utilizzazione del nome altrui che sia tale da arrecare al suo titolare un pregiudizio ingiustificato, in quanto preordinata ad assicurare l’effettivo rispetto dell’interesse della persona, fisica o giuridica, a preservare la propria identità personale “di essere rappresentato, nella vita di relazione, con la sua identità, così come questa nella realtà sociale, generale o particolare, è conosciuta o poteva essere conosciuta con l’applicazione dei criteri della normale diligenza e della buona fede soggettiva” (così, Cass. 22 giugno 1985, n. 3769);

– l’art. 7 cod. civ. può essere invocato anche per reagire a indebite utilizzazioni a fini commerciali del proprio nome – così gli artt. 10 cod. civ. e 96-98 L. n. 633 del 1941 con riferimento a indebite utilizzazioni per le medesime finalità della propria immagine -, in particolare laddove associato nella comunicazione promozionale a prodotti posti in vendita, in relazione al pregiudizio derivante sia dall’annacquamento del nome (o dallo svilimento dell’immagine), sia dalla perdita delle relative facoltà di sfruttamento economico (cfr. Cass. 11 agosto 2009, n. 18218; nonché, con riferimento alla lesione del diritto al conseguimento di un corrispettivo per la prestazione del consenso all’utilizzazione del proprio ritratto, Cass. 2 maggio 1991, n. 4785; Cass. 11 novembre 1979, n. 5790);

– affinché l’utilizzo del nome altrui possa ritenersi illecito è necessario che lo stesso risulti “indebito”, ossia non costituisca l’esercizio di un diritto o una facoltà o l’assolvimento di un obbligo ovvero non rappresenti la manifestazione di un interesse giuridicamente apprezzabile;

– ai fini dell’individuazione del perimetro degli usi indebiti del nome altrui e, al contrario, di quelli leciti, può venire in soccorso la menzionata disciplina relativa al diritto d’autore, secondo cui non è consentita la divulgazione del ritratto di una persona senza il consenso di questa a meno che la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico ricoperto dalla persona, dalla necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o da fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico e sempre che la divulgazione non rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione o anche al decoro della persona ritrattata;

– da ciò è stato fatto discendere, condivisibilmente, che la divulgazione dell’immagine senza il consenso dell’interessato è illecita quando sia rivolta a fini puramente commerciali, pubblicitari o, comunque, di lucro e non risponda a finalità informative o alle altre finalità indicate nell’art. 97 L. n. 633 del 1941 (cfr. Cass. 19 febbraio 2021, n. 4477; Cass. 29 gennaio 2016, n. 1748);>>

Ok, ma fin qui tutto semplice.

Poi viene la parte difficile.

<<- deve, tuttavia, osservarsi che sovente, come nel caso in esame, le esimenti finalità informative, didattiche o culturali coesistono con finalità di lucro, in relazione al fatto che tali finalità vengono soddisfatte mediante l’esercizio di un’attività imprenditoriale con finalità lucrativa;

– in proposito, è stato recentemente evidenziato che “non si possono pertanto equiparare alle finalità commerciali (per cui sarebbe sempre necessario il consenso) l’uso propagandistico della fotografia del personaggio famoso per indurre all’acquisto di altri prodotti o l’applicazione dell’immagine sul prodotto stesso, alla vendita di un prodotto informativo (latamente didattico-culturale) in cui viene inserita la fotografia a fini di documentazione e integrazione delle informazioni fornite agli acquirenti” (così, Cass. 16 giugno 2022, n. 19515);

– in realtà, con riferimento all’utilizzo del nome o dell’immagine altrui nello svolgimento di un’attività di impresa, il pertinente quadro normativo è articolato, venendo in rilievo il diritto al rispetto del proprio nome e della propria identità personale (artt. 2 e 22 Cost. e 8CEDU), la libertà d’impresa di cui godono gli operatori economici (artt. 41 Cost. e 16 Carta di Nizza) e l’interesse degli individui a essere informati (artt. 2 e 21 Cost., 10 CEDU e 11Carta di Nizza);

– ciò impone all’interprete di operare un bilanciamento tra i diversi interessi in conflitto, ossia tra quelli sottesi al diritto esclusivo sul proprio nome (e ritratto) e quelli sottesi a una sua libera utilizzazione (cfr., in tema, Cass. 1° febbraio 2024, n. 2978);

non sembra condivisibile, dunque, la tesi secondo cui la sussistenza di uno scopo commerciale o pubblicitario valga di regola ad escludere qualsiasi fine informativo e, conseguentemente, la legittimità dell’utilizzo dell’immagine altrui;

– in tali situazioni predicare l’irrilevanza delle finalità informative e culturali in chiave scriminante dell’illiceità della riproduzione non autorizzata dell’immagine significherebbe pervenire alla inaccettabile conclusione, in quanto contraria allo spirito del legislatore, di una sostanziale compressione del diritto di informazione, che verrebbe riservato solo ad iniziative prive di scopo di lucro e, dunque, a iniziative poste in essere da enti pubblici o da soggetti privati che intendano dare vita ad attività benefiche;

– piuttosto, nei casi di confine in cui si riscontra una combinazione fra uso informativo e uso commerciale in senso lato deve condursi un’attenta ponderazione degli interessi in gioco, lasciando aperta la possibilità che l’interesse informativo prevalga su quello pubblicitario determinando la liceità dell’uso; [solo che manca il parametro per eseguire la ponderazione ,….!!]>>

E’ utile riportare l’applicazione delle regole ai fatti di causa (nel caso si trattava di uso del nome per tre modelli di scarpe da donna Ferragamo:

<<- orbene, con riferimento al caso in esame è opportuno distinguere la fattispecie della “Ballerina Au.” da quelle del “Sandalo Gondoletta” e della “Ballerina Idra”;

– quanto alla prima ipotesi, secondo quanto accertato dalla Corte di appello, l’utilizzo del nome Au. da parte della Fe.Sa. Spa era stato oggetto di pattuizione tra tale società e la He.Au. Children’s Fund (la fondazione benefica creata nel 1994 dai figli di He.Au.);

– per l’esattezza, con il contratto concluso nel 2000, in occasione della mostra organizzata in Giappone, era stato pattuito che la Fe.Sa. Spa avrebbe potuto continuare a vendere, anche dopo la scadenza della licenza d’uso a fini pubblicitari del nome e del ritratto di He.Au., i prodotti oggetto del contratto, tra cui la ballerina chiamata “Au.”, con il loro nome commerciale;

– quanto alle altre due calzature, sempre secondo quanto accertato dalla Corte territoriale, il nome He.Au. compariva nella descrizione del prodotto sul sito Internet della Fe.Sa. Spa (più precisamente, con riferimento al sandalo “Gondoletta” si leggeva che “il modello venne indossato da He.Au.”; mentre con riferimento alla ballerina “Ira”, che “il modello originale fu creato da Fe.Sa. nel 1959. È uno dei numerosi modelli inventati da Fe.Sa. per l’attrice He.Au.”), nonostante il suo utilizzo non fosse coperto da alcun accordo tra le parti;

– tuttavia, la sentenza impugnata ha ritenuto che l’uso del nome He.Au. da parte della controricorrente abbia avuto una funzione essenzialmente informativa, correlata all’esigenza di indicare “la prestigiosa origine della calzatura” e il contesto nel quale era stata realizzata;

– pertanto, pur non negando la “connotazione latamente commerciale” della divulgazione di tali informazioni, ha ritenuto, nella sostanza, prevalente la predetta funzione descrittiva;

– ha, dunque, correttamente operato il giudizio di bilanciamento tra le concorrenti funzioni informative e commerciali e concluso per la prevalenza delle prime all’esito di una valutazione di merito che, investendo un accertamento riservato al giudice di merito, non è sindacabile in questa sede sotto il paradigma della violazione o falsa applicazione della legge;>>

 

(Super)Società di fatto tra soci oppure holding di fatto?

Cass. sez. I, ord. 02/01/2024 n. 74, rel. Fidanzia:

<<3. Il primo e il secondo motivo, da esaminarsi unitariamente in relazione alla stretta connessione delle questioni trattate, sono fondati. Va preliminarmente osservato che, secondo l’orientamento consolidato di questa Corte (vedi Cass. n. 10507/2016, n. 7903/2020, n. 4784/2023), l’art. 147, comma 5, l.fall. – che trova applicazione non solo quando, dopo la dichiarazione di fallimento di un imprenditore individuale, risulti che l’impresa è, in realtà, riferibile ad una società di fatto tra il fallito e uno o più soci occulti, ma, in virtù di sua interpretazione estensiva, anche laddove il socio già fallito sia una società, anche di capitali, che partecipi, con altre società o persone fisiche, ad una società di persone (cd. supersocietà di fatto), non assoggettata ad altrui direzione e coordinamento -postula la rigorosa dimostrazione del comune intento sociale perseguito, che dev’essere tendenzialmente conforme, e non contrario, all’interesse dei soci. E’ stato quindi sovente ritenuto che la circostanza che le singole società perseguano, invece, l’interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo, anche solo di fatto, costituisca, piuttosto, una prova contraria all’esistenza della supersocietà di fatto, essendo, semmai, indice dell’esistenza di una holding di fatto (che può anche essere una società di fatto: Cass. n. 23344 del 2010; Cass. n. 3724 del 2003).

Va, tuttavia, osservato che il fatto che vi possa essere l’abuso di una società da parte di una o più persone (fisiche e giuridiche) che ne hanno il controllo (anche solo di fatto) nell’interesse proprio delle stesse, non esclude, comunque, la possibile sussistenza tra le stesse persone e la società così abusata (cioè piegata ai fini d’interesse dei suoi soci o soggetti che di fatto la governano) di un rapporto societario di fatto, almeno tutte le volte in cui alla iniziale affectio tra tali persone e la società, sia subentrato, in forza di una modifica ed evoluzione in concreto degli originari accordi o per effetto di essi (art. 2497-septies c.c.), l’esercizio di un abuso su quest’ultima, e cioè la violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale della stessa, da parte di chi, tra gli originari partecipi di un rapporto societario di fatto con la società abusata, era, per una ragione o per l’altra, in condizione di farlo (cfr. gli artt. 2497-sexies e 2359 c.c.).

Non è, peraltro, incompatibile con la sussistenza del rapporto societario non formalizzato tra persone fisiche e una o più società di capitali (e la sua prosecuzione tra le stesse fino al recesso di fatto di una delle stesse o alla sua esclusione in conseguenza del suo fallimento ovvero alla cessazione in fatto dell’attività d’impresa comune), il fatto che queste ultime, sin dall’inizio oppure in seguito, siano state, in concreto, programmaticamente volte a farsi carico dei debiti conseguenti all’attività comune in misura superiore rispetto agli utili ad esse riservati o comunque ricevuti (e le persone fisiche, simmetricamente, ad assumere debiti in misura inferiore rispetto ai vantaggi patrimoniali ricevuti).

Se è pur vero che la partecipazione agli utili ed alle perdite, in relazione al conferimento eseguito, costituisce duplice elemento essenziale ed inscindibile della partecipazione sociale, differenziando il socio dal semplice associato, resta, nondimeno, fermo il principio per cui “l’esclusione dalle perdite o dagli utili, in quanto qualificante lo status del socio nei suoi obblighi e nei suoi diritti verso la società e la sua posizione nella compagine sociale, secondo la previsione dell’art. 2265 c.c., viene integrata quando il singolo socio venga per patto statutario escluso in toto dall’una o dall’altra situazione o da entrambe”; “quando, per contro, sussista una regolamentazione” (che può essere assunta anche in via tacita e nella stessa forma modificata nel corso della società) “della partecipazione al rischio ed agli utili in misura non coerente al capitale conferito, ci si troverebbe in presenza di espressione di autonomia statutaria nella regolamentazione della partecipazione al rischio, non rientrante nella previsione della nullità in esame” (in questi precisi termini, Cass. n. 8927 del 1994; Cass. n. 642 del 2000). Esulano, pertanto, dal divieto tanto le pattuizioni intercorse tra i soci (anche di fatto) di una società di persone che regolano la partecipazione degli stessi al rischio e agli utili in misura difforme dall’entità della partecipazione del singolo socio, quanto gli accordi che si esprimano in una misura di partecipazione difforme da quella inerente ai poteri amministrativi o che condizionino in alternativa la partecipazione o la non partecipazione agli utili o alle perdite al verificarsi di determinati eventi giuridicamente rilevanti.

La Corte d’Appello non si è attenuta agli esposti principi, atteso che, astenendosi dall’esame della situazione concreta sottoposta alla sua attenzione – non essendo certo sufficiente, ai fini di ricostruzione del rapporto e della organizzazione economica fra i soggetti, il generico riferimento, in alcun modo circostanziato, ai “dati fattuali indicati dalla curatela” -ha escluso la sussistenza di una società di fatto sulla base della superficiale lettura della massima di questa Corte, che richiede, in linea di principio e però sulla base di un criterio di osservazione empirica, la conformità del comune intento sociale perseguito dalla supersocietà di fatto all’interesse dei soci; la Corte d’Appello non ha minimamente indagato se l’eventuale abuso fosse stato programmato sin dall’origine, da quando i soggetti della invocata (dalla curatela) supersocietà di fatto avevano iniziato ad interagire o fosse stato solo il frutto della violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale da parte di chi, tra gli originari partecipi di un rapporto societario di fatto con la società abusata, era, per una ragione o per l’altra, in condizione di farlo. Così operando, il giudice di secondo grado ha omesso un approfondito esame dei requisiti richiesti dall’art. 2247 cod. civ. e per come intesi in giurisprudenza per poter accertare l’esistenza di una supersocietà di fatto>>.