Cassazione civile sez. II, ord. 03/05/2024, (ud. 08/03/2024, dep. 03/05/2024), n.11906, rel. Caponi, offre un interessante ripasso sull’oggetto tramite la sempre ottima penna del prof. Caponi.
<<3.2. …. Per gli immobili destinati a lunga durata, l’art. 1669 c.c. imputa all’appaltatore una responsabilità complessivamente più grave, soprattutto sotto il profilo della durata, che si atteggia come speciale rispetto alla responsabilità per i vizi ex artt. 1667-1668 c.c. A sua volta, nell’ambito dell’appalto, la disciplina degli artt. 1667-1668 c.c. riveste carattere eccezionale rispetto alle regole generali della responsabilità nei contratti. Coerente con questo quadro normativo è appunto la conclusione enunciata da Cass. 28233/2017 (tra le altre). In caso di immobili destinati a lunga durata, ove sia fatta valere la responsabilità ex art. 1669 c.c. , l’irrilevanza della circostanza che l’opera appaltata sia stata ultimata o meno, è una conseguenza logica della neutralizzazione (indotta da quel quadro normativo) delle regole generali sulla risoluzione del contratto per inadempimento (artt. 1453 ss. c.c.).
Tuttavia, l’art. 1669 c.c. contempla pur sempre il “compimento” fra gli elementi della propria fattispecie. Pertanto, dalla combinazione tra la cornice normativa della responsabilità in materia di appalto privato e il coerente orientamento della giurisprudenza di legittimità discende che la parola “compimento” debba poter riferirsi anche a casi in cui l’opera appaltata non sia stata ultimata. Ciò non è una contraddizione in termini, ma proprio una conferma del carattere speciale dell’art. 1669 c.c. , innanzitutto rispetto agli artt. 1667-1668 c.c. , come ci si avvia ad argomentare.
In caso di rovina, pericolo di rovina, gravi difetti, l’art. 1669 c.c. offre una (maggiore) tutela al committente. Siffatta maggiore tutela è da contemperare però con l’interesse imprenditoriale dell’appaltatore ad individuare con la maggiore certezza possibile il momento in cui il rapporto decennale di responsabilità si esaurisce. Ciò comporta innanzitutto l’esigenza di fissare in modo certo il dies a quo di decorrenza del termine, neutralizzando l’impatto negativo del maggiore fattore di incertezza: l’eventuale diatriba tra le parti sul contenuto dell’obbligazione assunta dall’appaltatore in base al contratto di appalto (esemplare sotto tale profilo è l’attuale caso di specie).
Il legislatore ha conseguito l’obiettivo delineando ex art. 1669 co. 1 c.c. una nozione di “compimento” autonoma rispetto all’oggetto dell’obbligazione che ha fonte nel contratto di appalto. Tale nozione rinviene, cioè, i propri tratti distintivi entro il campo tracciato dalla struttura e dalla funzione dell’art. 1669 c.c. Sul piano della struttura della fattispecie, saliente è l’assenza di qualsivoglia complemento di specificazione: “nel corso di dieci anni dal compimento”, senz’altro. Ciò suggerisce immediatamente all’interprete una lettura disciplinata e rigorosa, diretta a controllare (del resto inevitabili) precomprensioni, come quella di assumere che il significato della successiva parola (“opera”) coincida automaticamente (sempre e comunque) con l'”opera” di cui parla l’art. 1655 c.c. Le due parole possono – ma non debbono necessariamente (per tutto quanto si è argomentato nel corso di questo paragrafo) – significare la stessa cosa (la stessa opera).
3.3. – Proprio nel suo essere priva di complemento di specificazione, la parola “compimento” esibisce nondimeno – per così dire – una qualità di “intenzionalità”, nel senso letterale del tendere ad altro da sé: essa chiede all’interprete di ascriverle quella specificazione di cui è priva. Infatti, la domanda: “compimento di che?” rimane ineludibile e trova risposta attraverso la proiezione delle istanze di regolazione scaturenti di volta in volta dalla concreta controversia da decidere, pur nel contesto della direttiva che l’art. 1669 c.c. offre all’interprete in prospettiva generale. Si tratterà quindi di concretizzare il significato del compimento di quei lavori o di quell’opera di cui si allega la rovina totale o parziale ovvero il manifestarsi con evidenza di un pericolo di rovina o di un grave difetto, indipendentemente dalla circostanza che tali lavori o tale opera coincidano (o meno) con l’obbligazione oggetto del contratto di appalto.
Esemplare è il caso di specie: le lesioni sulle travi di fondazione e lo sfaldamento del cemento si sono “presentate evidenti” (nel senso di cui all’art. 1669 c.c.) nel 2022, mentre i lavori di cui si allega il grave difetto che le ha causate (la costruzione dei pilastri e di solai) si sono “compiuti” (sempre nel senso di cui all’art. 1669 c.c.) nel 1988. Entrambi tali fatti, che costituiscono gli elementi rilevanti per l’accertamento del la sussistenza del rapporto di responsabilità ex art. 1669 c.c. in capo all’appaltatore, sono incontestati nella loro collocazione temporale tra le parti. L’arco di tempo tra i due supera non di poco il decennio. Viceversa, le parti controvertono sull’individuazione dell’opera assunta dall’appaltatore ad oggetto della propria obbligazione ex art. 1655 c.c. , ma ciò è propriamente irrilevante. L’irrilevanza si accredita alla luce del concreto atteggiarsi del caso di specie, non già in linea generale. Ciò è frutto appunto della (relativa) autonomia (da concretizzare di volta in volta) dell’opera, dei lavori, dalla cui rovina o dal cui grave difetto sorge la responsabilità ex art. 1669 c.c. , rispetto all’opera oggetto dell’obbligazione dell’appaltatore ex art. 1655 c.c. In altre costellazioni potrà ben accadere (e forse potrà essere anche l’evenienza più frequente) che, per l’effetto dell’art. 1669 c.c. , si tratti esattamente del compimento della stessa opera oggetto del contratto di appalto.
3.4. – L’argomentazione svolta nei nn. 3.2. e 3.3. è un’implicazione logica tratta da Cass. 28233/2017, cui si dà continuità, aggiungendo che l’esigenza di certezza che presiede alla determinazione del dies a quo di decorrenza del termine decennale (ove una maggiore certezza si coniuga con un accorciamento della distanza tra il parametro e l’oggetto della valutazione) incontra conferme di realizzazione attraverso altri strumenti (irrilevanti nel caso di specie), come l’insensibilità a cause di sospensione o di interruzione del termine, cosicché il decennio ex art. 1669 c.c. si staglia nella sua qualità di “termine di sbarramento finale”.
3.5. – A questo punto aperta è la strada diretta a cogliere l’errore in cui è incorsa la Corte di appello laddove (p. 8), dal rilievo che il fatto generatore della responsabilità del costruttore risiede nella “gittata del calcestruzzo palesemente privo di qualità idonea a sopportare le ordinarie tensioni e pressioni”, ha tratto la conseguenza che “il termine decennale non risulti compiuto, avuto altresì riguardo alla notoria ed ordinaria data di consolidamento della struttura in conglomerato cementizio”.
Al contrario di quanto ritiene la Corte territoriale (e il controricorrente), tale soluzione non trova sostegno nella giurisprudenza di questa Corte. La Corte di appello invoca l’orientamento secondo il quale: “Ai fini della proponibilità dell’azione risarcitoria prevista dall’art. 1669 c.c. in caso di rovina o di gravi difetti di cose immobili destinate a durare nel tempo, il termine di dieci anni dal compimento dell’opera previsto da tale norma attiene alle condizioni di fatto che danno luogo a responsabilità del costruttore”. Tale è, in effetti, la parte rilevante della massima di Cass. 5920/1993 (citata dalla Corte territoriale e ripresa dal controricorrente) che ha trovato ripetute conferme nella giurisprudenza di legittimità fino alla recente Cass. 13707/2023.
A fondamento della propria conclusione, la Corte di appello ne ha tratto: se il termine di dieci anni dal compimento dell’opera previsto dall’art. 1669 c.c. attiene alle “condizioni di fatto che danno luogo a responsabilità del costruttore” (così la massima estratta da Cass. 5920/1993, ma identica è quella da Cass. 13707/2023), nel caso di specie la condizione di fatto generatrice della responsabilità sarebbe la “gittata del calcestruzzo palesemente privo di qualità idonea a sopportare le ordinarie tensioni e pressioni”. Tale condizione si è quindi verificata ben entro il decennio (anzi, già al momento della stessa costruzione), sebbene essa abbia impiegato molto tempo per manifestare il suo impatto lesivo, in considerazione della “notoria ed ordinaria data di consolidamento della struttura in conglomerato cementizio”.
L’argomento è (apparentemente) disarmante. Cosicché (in un certo senso) disarmante ha da essere anche la risposta. L’ordinamento giuridico italiano rinviene le proprie fonti nel diritto, per come esso è scritto nella Costituzione, nei codici e nelle leggi e per come esso è di conseguenza interpretato dalla giurisprudenza, ma l’interpretazione giurisprudenziale trova espressione esclusiva nel testo integrale delle sentenze, e non già nel testo delle massime, che non a caso (anche quando sono “ufficiali”) sono estratte da un ufficio cui sono addetti magistrati che in quella qualità esercitano una funzione amministrativa, non giurisdizionale. Alle massime vanno riconosciute funzioni di documentazione e di euristica: esse sono uno strumento di ricerca e di selezione delle sentenze rilevanti per la trattazione e la decisione del caso.
Ne segue che la massima in questione, certamente rilevante, rinvia al testo della sentenza e il significato di questa, a sua volta, è da cogliere alla luce della sua funzione interpretativa dell’art. 1669 c.c. , ove si dispone esplicitamente che, nel “corso di dieci anni dal compimento”, il grave difetto deve presentarsi come “evidente”. Non a caso, nel testo della sentenza che costituisce una delle espressioni più recenti di questo indirizzo (Cass. 13707/2023, cit. , p. 5 s.) si può leggere: “entro tale termine decennale devono verificarsi le condizioni di fatto che manifestano con evidenza il pericolo o il grave difetto della costruzione” (corsivo nostro, n.d.r.). Pertanto, la (parte di) massima giurisprudenziale di cui si discute è da leggere in questi termini: ai fini della proponibilità dell’azione risarcitoria prevista dall’art. 1669 c.c. , in caso di rovina o di gravi difetti di cose immobili destinate a durare nel tempo, il termine di dieci anni dal compimento dell’opera previsto da tale norma attiene alle condizioni di fatto che rendono evidente la responsabilità del costruttore ovvero, in modo ancora migliore: che rendono evidente il pericolo di rovina o i gravi difetti (scontando il tacito presupposto che la rovina totale o parziale sia di per sé evidente). Nel caso di specie, il grave difetto si è “presentato evidente” a distanza di quasi quindici anni dal “compimento”>>.
Solo che non convince la distinzione tra compimento e ultimazione. E’ vero che “compimento” letteralmente è diverso da “completamento”, ma il senso nell’art. 1669 pare il medesimo.