Sul danno da indisponibilità dell’immobile

Cass .  sez. III, ord. 17/04/2024 n.  10.477, rel. Gianniti:

<<In ogni caso, con recente arresto nomofilattico, le Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 33645/2022), sia pure occupandosi della diversa ipotesi del danno da occupazione illegittima di immobile, hanno reso chiarimenti direttamente rilevanti anche nel presente giudizio con riferimento alla morfologia ed alla risarcibilità del danno comunque derivante da un fatto che renda impossibile, a chi ne abbia diritto, il godimento dell’immobile e di trarne guadagno.

Con precipuo riferimento alla violazione del diritto di proprietà è stato in quella sede evidenziato che l’evento lesivo può attingere la cosa oggetto del diritto ovvero direttamente il contenuto del diritto stesso.

In entrambi i casi, ai fini dell’attivazione della tutela risarcitoria, è necessario si configuri una perdita o un mancato guadagno che rappresentino conseguenza immediata e diretta dell’illecito, alla stregua dell’art. 1223 c.c.

Nel secondo caso (evento lesivo incidente sul contenuto del diritto) può configurarsi un«danno risarcibile (…) rappresentato dalla specifica possibilità di esercizio del diritto di godere che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione». È, questo, un danno emergente che si configura anche nell’ipotesi in cui si alleghi che detto godimento sarebbe stato concesso a terzi contro un corrispettivo corrispondente ai frutti civili. In questo caso, il criterio di liquidazione equitativa utilizzabile è omogeneo, attestandosi sul valore locativo di mercato, che rappresenta – per l’appunto – il controvalore convenzionalmente attribuito al godimento alla stregua della tipizzazione normativa del contratto di locazione.

Al lucro cessante afferiscono, invece, quelle perdite di occasioni di guadagno«da collegare non al contenuto del diritto previsto dall’art. 832 c.c., ma alla titolarità del diritto», espressioni«della possibilità di alienare quale caratteristica di tutti i diritti patrimoniali» (pag. 10). Si tratta, in concreto, del danno conseguente alla impossibilità di vendere l’immobile o locarlo a un canone superiore a quello di mercato, il quale necessita«di prova specifica, anche in via presuntiva» (pag. 11).

Dal punto di vista processuale, all’allegazione, da parte dell’attore, di una delle voci di danno suddette potrà contrapporsi la (specifica) contestazione del convenuto, la quale attiverà, in capo all’attore stesso, l’onere di provare il fatto costitutivo del risarcimento, se del caso mediante il ricorso alle presunzioni ovvero alle nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza. Oggetto di prova sarà, a seconda dei casi, la perdita della possibilità di godimento (diretto o indiretto), ovvero di alienazione o concessione in locazione del bene a canone maggiore di quello medio di mercato. Non potendo operare il meccanismo della non contestazione per i fatti ignoti al convenuto, la necessità di prova diretta da parte dell’attore – afferma la ricordata pronuncia delle Sezioni Unite – sarà statisticamente più frequente nell’ipotesi in cui il pregiudizio invocato assuma le forme del mancato guadagno (ove la prova potrà atteggiarsi sulla falsariga di quella del maggior danno, di cui all’art. 1591 c.c.); mentre, qualora a venire in questione sia il danno emergente, si assisterà,«a una maggiore frequenza dell’onere del convenuto di specifica contestazione della circostanza di pregiudizio allegata e ad una minore frequenza per l’attore dell’onere di provare la circostanza in discorso, data la tendenziale normalità del pregiudizio al godimento del proprietario a seguito dell’occupazione abusiva» (pag. 26).

Alla stregua di tali principi, ai quali il Collegio intende assicurare continuità, deve potersi puntualizzare che il danno diretto risarcibile da indisponibilità dell’immobile possa individuarsi nella soppressione o compressione della specifica facoltà di esercizio del diritto di goderne, che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione: sicché a tale concetto deve intanto riferirsi la soppressione o compressione della possibilità di estrinsecazione delle facoltà normalmente inerenti alla disponibilità della cosa, in relazione all’uso al quale sarebbe stata destinata anche direttamente ed immediatamente dal titolare del diritto ad essa e delle quali questo si è visto, pertanto, illegittimamente privato; con la conseguenza che il godimento diretto, la cui perdita sia suscettibile di risarcimento, va identificato nella facoltà del titolare di fruirne direttamente e di ritrarne le utilità congruenti alla destinazione del bene quali ricavabili dalla sua intrinseca struttura o da altri univoci e riconoscibili elementi.

Orbene, i suddetti principi appaiono applicabili al caso di specie, nel quale:

a) il ricorrente è per l’appunto la persona fisica proprietaria dell’immobile e, quindi lo stesso soggetto titolare del diritto al risarcimento del danno, rappresentando l’indisponibilità del bene un danno conseguenza del fatto impeditivo dell’indisponibilità dell’immobile per fatto altrui;

b) a tale riguardo, il ricorrente ha allegato: di aver contratto un mutuo per l’acquisto dell’immobile e di aver per esso chiesto l’applicazione delle agevolazioni fiscali previste per l’acquisto della prima causa; che l’immobile demolito era destinato a sua abitazione; di aver ottenuto il permesso a costruire e di averne chiesto la proroga; che anche quest’ultima era scaduta e che la nuova costruzione non è assentibile in base al nuovo PUC nelle more varato dal Comune di Poggiomarino; che, a causa dell’opposizione degli Annunziata, non riesce a ricostruire l’immobile per cui è causa ed è costretto a vivere con la sua famiglia in un immobile alla periferia di Poggiomarino, di vecchia costruzione.

In definitiva, occorre ribadire che il concetto di danno evento si distingue da quello di danno conseguenza e che soltanto quest’ultimo può essere risarcito, a condizione che lo stesso venga provato anche presuntivamente da chi formuli la richiesta risarcitoria per indisponibilità del bene per fatto altrui. La tesi del c.d. danno in re ipsa non prescinde dal predetto accertamento, ma, in termini sostanzialmente descrittivi, si limita ad affidarlo alla prova logica presuntiva sulla base del fatto che l’allegazione da parte del danneggiato di determinate caratteristiche materiali e di specifiche qualità giuridiche del bene immobile consentano di pervenire alla prova (fondata su una ragionevole certezza, la cui rispondenza logica deve essere verificata alla stregua del criterio probabilistico dell’id quod plerumque accidit) che quel tipo di immobile sarebbe stato destinato ad un impiego fruttifero, oppure anche solo che da quello sarebbe stata ritratta immediatamente e direttamente dall’avente diritto un’utilità corrispondente alle sue caratteristiche (ove, beninteso, suscettibile di valutazione economica: ciò che, peraltro, di norma appunto avviene quando si ha la disponibilità di un immobile, che offre sicuramente l’occasione di trarne giovamento anche in via diretta e immediata per il soddisfacimento di propri bisogni), ma almeno specificamente indicata (sia pure anche qui normalmente riscontrabile in caso di destinazione dell’immobile, reso indisponibile, ad abitazione del titolare persona fisica, quella integrando un bisogno essenziale della persona).

Alla luce dei suddetti principi risulta l’error in iudicando in cui, sul punto, è incorsa la Corte di merito, nella parte in cui (p. 9), pur riconoscendo la esclusiva responsabilità della Bi.Re. Costruzioni nella causazione dei danni sofferti da Annunziata e Bi.Re., ha rigettato la domanda di quest’ultimo, non essendo stato dallo stesso provato il danno sofferto e non potendo lo stesso essere liquidato ai sensi dell’art. 1226 c.c. (non trattandosi di pregiudizio impossibile o estremamente difficoltoso nel suo preciso ammontare). L’allegata indisponibilità di una soluzione abitativa è, infatti, evidente: e, solo, la liquidazione del danno conseguente andrà parametrata, se del caso -appunto – equitativamente, alla comparazione del diverso assetto derivante dalla detta indisponibilità ed imposto al titolare con quello che sarebbe conseguito dalla disponibilità invece compressa>>.

Sulla determinatezza della individuazione degli immobili nella nota di trascrizione: non è ammessa la modalità “de relato”

Cass. sez. II, ord. 26/04/2024  n. 11.213, rel. Oliva, ribadisce una regola esatta ma consolidata:

<<La Corte di Appello ha rilevato che la domanda giudiziale con la quale Fo.Wi. aveva impugnato il testamento del comune dante causa delle odierne parti, anche per lesione della quota di legittima a lei spettante, aveva ad oggetto l’intero patrimonio relitto dal de cuius, costituente l’asse ereditario, ed ha dunque escluso qualsiasi profilo di incertezza sui beni oggetto della relativa nota di trascrizione (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata).

La statuizione collide con l’insegnamento di questa Corte, secondo cui “Per stabilire se e in quali limiti un determinato atto relativo a beni immobili sia opponibile ai terzi, deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della nota di trascrizione, dovendo le indicazioni riportate nella nota stessa consentire di individuare, senza possibilità di equivoci ed incertezze, gli estremi essenziali del negozio ed i beni ai quali esso si riferisce, senza necessità di esaminare anche il contenuto del titolo che, insieme con la menzionata nota, viene depositato presso la conservatoria dei registri immobiliari” (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 4842 del 19/02/2019, Rv. 652628; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18892 del 31/08/2009, Rv. 609584; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3590 del 25/03/1993, Rv. 481562; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8066 del 27/06/1992, Rv. 477972; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10774 del 14/10/1991, Rv. 474196; nonché, in termini analoghi, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 13137 del 01/06/2006, Rv. 590715). L’unica fonte alla quale attingere per verificare la sufficienza della nota di trascrizione ai fini dell’individuazione degli immobili sui quali essa incide è dunque la nota stessa, che deve consentire con certezza l’identificazione dei detti cespiti. In tal senso, infatti, va ribadito che “Per stabilire se ed in quali limiti un determinato atto trascritto sia opponibile ai terzi, deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della nota di trascrizione, senza che a nulla rilevi l’effettivo contenuto dell’atto” (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 4726 del 19/02/2019, Rv. 652832).

Il principio è stato affermato anche in relazione alla trascrizione della domanda giudiziale, poiché “Perché la trascrizione delle domande giudiziali possa produrre gli effetti previsti dall’art. 2652 cod. civ., è necessaria una precisa correlazione tra la domanda, così come riportata nella nota di trascrizione, e la sentenza che si vuole opporre ai terzi” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6851 del 18/05/2001, Rv. 546800, conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 14710 del 29/05/2019, Rv. 654187).

L’unico temperamento a questo criterio è il caso in cui la nota presenti mere irregolarità. In questa specifica ipotesi, infatti, vige il principio secondo cui “In tema di trascrizione, ai sensi dell’art. 2665 c.c. l’omessa indicazione dei dati catastali degli immobili -e a fortiori l’indicazione di dati catastali non corretti- determina l’invalidità della relativa nota di trascrizione solo se induca incertezza sui soggetti, sui beni o sul rapporto cui essa inerisce e sempre che non sia consentito individuare, senza possibilità di equivoci, gli elementi essenziali del contratto” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 20543 del 30/07/2019, Rv. 654894; cfr. anche Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 21758 del 04/12/2012, Rv. 624441). L’accertamento della sufficienza, o meno, degli elementi contenuti nella nota di trascrizione ai fini della corretta individuazione dei beni che ne formano oggetto si risolve in un giudizio di fatto devoluto al giudice di merito, dovendosi dare continuità, sul punto, all’ulteriore principio secondo cui “In forza dell’art. 2665 c.c. non ogni omissione od inesattezza nella nota di trascrizione determina l’invalidità della trascrizione stessa, ma solo quelle che ingenerano incertezze sulle persone, sul bene e sulla natura giuridica dell’atto; e l’accertamento dell’esistenza dello stato di incertezza, soprattutto ove incentrato sulla ritenuta idoneità dell’univocità del riferimento ritraibile dal codice fiscale, costituisce giudizio di fatto insindacabile in Cassazione se immune da vizi logici e giuridici e sorretto da congrua motivazione” (Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 13543 del 30/05/2018, Rv. 648808).

A ben vedere, tuttavia, anche la disciplina dell’ipotesi eccezionale, rappresentata dalla presenza di mere irregolarità nella nota di trascrizione, non fa che confermare il criterio generale, secondo cui la nota deve comunque essere autosufficiente, e dunque contenere tutti gli elementi atti a consentire l’esatta e non equivoca individuazione dei beni sui quali essa incide. Solo nella ricorrenza di tale presupposto, infatti, può verificarsi se vi siano mere irregolarità, non suscettibili di creare incertezza sugli elementi essenziali (soggetti coinvolti, beni sui quali la trascrizione incide e tipo di atto trascritto).

Nel caso di specie, la Corte di Appello ha affermato che una nota di trascrizione, avente ad oggetto una domanda di impugnazione di un testamento per lesione dei diritti spettanti all’erede legittimo, incidesse necessariamente sull’intero patrimonio immobiliare compreso nell’asse ereditario relitto dal de cuius. Nel quale ultimo rientravano anche i beni oggetto dell’atto di alienazione oggetto della domanda.

L’affermazione, in sé corretta sul piano civilistico, non vale a superare il criterio della necessaria specificità ed autosufficienza della nota di trascrizione, il cui tenore letterale -che viene riportato a pag. 10 del ricorso- non contiene alcun elemento idoneo ad individuare con certezza i cespiti inclusi nell’asse ereditario. La nota, infatti, fa riferimento esclusivamente allo “… atto di citazione notificato a cura dell’Ufficiale Giudiziario S. Grimaldi addetto all’Ufficio Unico Notifiche presso il Tribunale di Bassano del Grappa in data 9.11.1990 a favore di Fo.Wi. contro 1) St.Ma. … 2) Fo.Fr. … 3) Fo.En. … 4) Fo.Gi. … 5) Fo.Gi.. Con il predetto atto di citazione Fo.Wi. ha convenuto i signori . dinanzi il Tribunale di Bassano del Grappa … per l’udienza del… per ivi sentire accertare la simulazione dell’atto di compravendita 2.11.88 rep. n. 2078 not. Fi., con conseguente dichiarazione di nullità dell’atto stesso, registrato a Bassano il 22.11.88 al n. 1452 mod. 2V e trascritto presso questa conservatoria il 23.11.88 al nn. 6975 rg e 5336 rp, nonché per sentir accertare, con successiva declarativa, l’invalidità del testamento olografo pubblicato il 20.6.89 dal not. De. con atto n. 17419 di rep., registrato in Bassano del Grappa il 3.7.89 al n. 795, mod. 1” (cfr. pag. 10 del ricorso).

La nota di trascrizione, dunque, non contiene alcun elemento idoneo ad individuare i beni immobili sui quali, in concreto, essa incide. Né si potrebbe affermare che il terzo sia onerato di verificare anche il contenuto degli atti richiamati nella nota stessa (compravendita e testamento), sia perché la nota deve, come già visto, contenere in sé i riferimenti opportuni e sufficienti ad individuare i cespiti che ne formano oggetto, sia perché, nel caso di specie, la compravendita del 2.11.88, oggetto della domanda di simulazione, aveva ad oggetto un immobile non coincidente con quello oggetto della compravendita del 24.6.94 di cui è causa, e sia perché, infine, il testamento olografo potrebbe, a sua volta, non contenere alcun riferimento identificativo dei cespiti, ben potendo il testatore disporre del suo patrimonio in favore degli eredi o legatari anche senza indicare i riferimenti catastali dei singoli cespiti che ne formano parte (cfr., sul punto, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1649 del 23/01/2017, Rv. 642475, secondo cui “Il testamento -olografo o pubblico che sia- non deve necessariamente contenere, a pena di nullità, le indicazioni catastali e di configurazione degli immobili cui si riferisce, essendo invece sufficiente, per la validità dell’atto, che tali beni siano comunque identificabili senza possibilità di confusioni, salva la necessità -non attinente, peraltro, ad un requisito di regolarità e validità del testamento- che gli eredi, in sede di denuncia di successione e di trascrizione del testamento medesimo, indichino specificamente gli immobili predetti, menzionandone dati catastali, confinazioni ed altro”; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1112 del 14/02/1980, Rv. 404596).

Ancora sulla funzione dell’assegno divorzile

Cass. sez. I, ord. 29/04/2024 n. 11.479, rel. Valentino:

<<6.1 – La censura è inammissibile perché non coglie la ratio decidendi ed offre una peculiare interpretazione della sentenza delle S.U. citata. Il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi dell’art. 5, comma 6, della L. n. 898 del 1970, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell’assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico – patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto (Cass., S.U. n. 18287/2018). Nella motivazione della sentenza si chiarisce limpidamente la funzione e i rapporti esistenti tra i vari criteri: l’arresto di Cass., n. 11504/2017 si è “(…) pur condividendo la premessa sistematica relativa alla rigida distinzione tra criterio attributivo e determinativo, ha individuato come parametro dell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante, la non autosufficienza economica dello stesso ed ha stabilito che solo all’esito del positivo accertamento di tale presupposto possano essere esaminati in funzione ampliativa del quantum i criteri determinativi dell’assegno indicati nella prima parte della norma”. La sentenza svolge la sua significativa statuizione esaltando il valore degli altri parametri in sintonia con i principi di autoresponsabilità e solidarietà, ma soltanto come elementi che incidono sulla quantificazione dell’assegno che creano vincoli ineludibili per il giudice di merito che non può considerare come parametro il pregresso tenore di vita. La Corte statuisce che: “Al fine di indicare un percorso interpretativo che tenga conto sia dell’esigenza riequilibratrice posta a base della dell’orientamento proposto dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 11490 del 1990 sia della necessità di attualizzare il diritto al riconoscimento dell’assegno di divorzio anche in relazione agli standards Europei, questa Corte ritiene di dover abbandonare la rigida distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell’assegno di divorzio, alla luce di una interpretazione dell’art. 5, c.6, più coerente con il quadro costituzionale di riferimento costituito, come già evidenziato, dagli artt. 2,3 e 29 Cost.”. “Il principio di solidarietà, posto a base del riconoscimento del diritto, impone che l’accertamento relativo all’inadeguatezza dei mezzi ed all’incapacità di procurarseli per ragioni oggettive sia saldamente ancorato alle caratteristiche ed alla ripartizione dei ruoli endofamiliari”. La norma regolatrice dell’assegno “conferisce rilievo alle scelte ed ai ruoli sulla base dei quali si è impostata la relazione coniugale e familiare. Tale rilievo ha l’esclusiva funzione di accertare se la condizione di squilibrio economico patrimoniale sia da ricondurre eziologicamente alle determinazioni comuni ed ai ruoli endofamiliari, in relazione alla durata del matrimonio e all’età del richiedente”. Elementi tutti che la Corte di merito ha elencato e valutato con chiarezza evidenziando che la scelta di dedicarsi ad un ruolo esclusivamente endofamiliare sia stata condivisa e che le attualità difficoltà del sistema economico rendevano particolarmente complesso la ricerca di un lavoro adeguato alla specificità professionale e compatibile con il ruolo di madre della controricorrente. Si può riconoscere l’assegno divorzile soltanto sulla base del criterio assistenziale; e il mero accertamento della potenziale capacità lavorativa diviene inadeguato se la parte prova, efficacemente, che allo stato le richieste di lavoro non sono state accolte>>.

Trattamento di dati biometrici da parte dell’Università col software che controlla lo svolgimento delle prove di accesso (sul software Respondus usato da Bocconi in epoca pandemica)

Cass. sez. I, ord. 13/05/2024   n. 12.967, rel. Tricomi:

<<3.1. – In sintesi, per quanto interessa nel presente caso, il trattamento dei dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica in mancanza del consenso dell’interessato è vietato ai sensi del Regolamento 2016/6790; il divieto viene meno e il trattamento è ammesso quando è necessario per motivi di interesse pubblico rilevante, in specifiche materie, tra cui rientra l’istruzione e la formazione in ambito scolastico, professionale, superiore o universitario, secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 196/2003, con la precisazione che il trattamento “deve essere proporzionato alla finalità perseguita, rispettare l’essenza del diritto alla protezione dei dati e prevedere misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato”, in linea anche con il principio di “responsabilizzazione” dettato dall’art.5, par. 2 del Regolamento 2016/679.

3.2. – Il Tribunale ha affermato che Respondus, descritto come un software che “cattura le immagini video e lo schermo dello studente identificando e contrassegnando con un flag i momenti in cui sono rilevati comportamenti insoliti e/o sospetti mediante registrazione video e istantanee scattate a intervalli casuali per tenere traccia di comportamenti anomali… Al termine della prova, il sistema elabora il video, inserendo segnali di allerta in merito a possibili indici di comportamenti scorretti … affinché il docente … possa poi valutare se effettivamente sia stata commessa un’azione non consentita nel corso della prova” (fol.12), realizza la mera acquisizione di una foto (o una registrazione video) e non configura un trattamento di dati biometrici.

In questa sequenza, secondo il Tribunale, non vi sarebbe trattamento dei dati biometrici tesi a identificare in modo univoco una persona fisica, posto che lo studente esaminato dal software non sarebbe identificato attraverso i suoi dati biometrici raccolti e trattati dal sistema Respondus, ma dal docente chiamato a vagliare il video finale.

3.3. – La conclusione è in contrasto con le norme in materia di trattamento dei dati personali e l’errore che segna la ricostruzione del Tribunale riguarda la sussunzione della fattispecie concreta nella fattispecie astratta di trattamento di dati personali, genus nel quale rientrano i dati biometrici.

3.4. – Come si evince dalla descrizione del funzionamento del software Respondus (prima ricordata e desunta dalla sentenza impugnata), questo non si limita a registrare a video la prova di esame, ma nel corso della ripresa cattura immagini della persona fisica che svolge la prova di esame e seleziona, mediante la realizzazione di video, lo scatto di istantanee ad intervalli casuali e i momenti in cui rileva comportamenti insoliti. Proprio in ragione della contestuale selezione del materiale raccolto in merito a comportamenti anomali, al termine della prova, lo stesso software realizza un video in cui confluiscono gli elementi anomali (contrassegnati da flag) che possono attenere alla conferma o meno della corrispondenza fisica della persona esaminata con lo studente (già identificato dall’Università come da sottoporre alla prova) e a ulteriori anomalie registrate; video che viene sottoposto al docente, per la sua valutazione finale in ordine alla regolarità della prova sostenuta dalla persona.

Risulta da ciò palese che le riprese video e foto realizzate da Respondus non hanno solo la funzione di documentare la prova di esame, ma si connotano per la contestuale elaborazione e selezione del materiale, di momento in momento raccolto, selezione che converge nella individuazione ed alla segnalazione di comportamenti anomali, attraverso la produzione del video finale.

Il Tribunale ha mancato di considerare che questa complessiva attività integra un autonomo e articolato trattamento dei dati biometrici acquisiti ed elaborati dallo stesso software, e attiene anche alla conferma dell’identità della persona fisica esaminata, come previsto dall’art.4, n.14 del Regolamento, giacché l’esito di detta elaborazione risulta sottoposto solo ex post al docente per la sua valutazione in ordine alla regolarità della prova.

Come ricordato dallo stesso Tribunale, il ciclo di vita dei dati biometrici è costituito dalla sequenza in quattro fasi – secondo la Descrizione accreditata dal Garante per la protezione dei dati personali, Linee Guida in materia di riconoscimento biometrico e firma grafometrica, 12 novembre 2014 – che vede:

a) Una prima fase, con un rilevamento tramite sensori specializzati (ad es. scanner per il rilevamento dell’impronta digitale) o dispositivi di uso generale (ad es. videocamera) di caratteristiche biometriche (ad es. viso dell’individuo);

b) Una seconda fase: a seguito del rilevamento si acquisisce un campione biometrico (ad es. immagine del viso);

c) Una terza fase: dal campione biometrico vengono estratti tratti (ad es. specifici punti del viso) idonei a costituire il modello biometrico che sarà conservato in una banca dati;

d) Una quarta fase, cd. del confronto (o di match): il modello biometrico viene confrontato con le effettive caratteristiche dell’individuo ed il confronto in parola consente la identificazione univoca della persona fisica.

La decisione impugnata non risulta avere tenuto conto, rettamente, di tali indicazioni, perché ha trascurato di considerare che, nel procedimento attuato mediante l’utilizzo del software Respondus, per come descritto dalla stesso Tribunale, la quarta fase di confronto appare svolgersi nel corso di tutta la ripresa, sulla scorta della elaborazione informatica dei dati di volta in volta acquisiti ed elaborati mediante la creazione di flag relativi ai comportamenti anomali, che possono riguardare anche la conferma della corrispondenza identitaria della persona ripresa in video con quella dello studente da esaminare, proprio perché già identificato dall’Università, e che il controllo conclusivo della prova di esame, affidato al docente persona fisica non esclude (ne è incompatibile con) il trattamento automatizzato dei dati biometrici, ove già attuato mediante l’impiego del software, e non lo sottrae alla disciplina dettata dall’art.9 del Regolamento 2016/679.

3.5. – Il motivo, che è dunque fondato, va accolto e il Tribunale, in sede di rinvio, dovrà procedere al riesame, attenendosi al seguente principio di diritto:

“In tema di trattamento dei dati personali, ai sensi dell’art. 9 del Reg (UE) 2016/679, ricorre un trattamento di dati biometrici, come definiti dall’art. 4, n.14 del Regolamento 2016/679, quando i dati personali sono ottenuti mediante un trattamento tecnico automatizzato specifico, realizzato con un software che, sulla base di riprese e analisi delle caratteristiche fisiche, fisiologiche o comportamentali di una persona fisica, le elabora, evidenziando comportamenti o elementi anomali, e che perviene a un esito conclusivo, costituito da una elaborato video/foto che consente (o che conferma) l’identificazione univoca della persona fisica, restando irrilevante la circostanza che l’esito finale del trattamento sia successivamente sottoposto alla verifica finale di una persona fisica“>>.

REsponsabilità del Comune ex art. 2051 cc per dissuasori di sosta negligentemente posati a terra

Cass. sez. III, ord. 24/04/2024 n. 11.140., rel. Guizzi:

Fatto:

<<1. Ar.Si. e No.Al., in qualità di genitori esercenti la responsabilità genitoriale sul figlio Fr.An. (ancora minorenne al momento della proposizione della presente impugnazione), ricorrono, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 581/21, del 10 maggio 2021, della Corte d’appello di Lecce, che – nel respingerne il gravame esperito avverso la sentenza n. 359/18, del 29 gennaio 2018, del Tribunale di Lecce – ha confermato il rigetto della domanda risarcitoria dagli stessi proposta nei confronti del Comune di Melendugno, in relazione al sinistro occorso al loro figlio il 16 agosto 2013, esito motivato in ragione del difetto di legittimazione passiva del convenuto, per mancata prova che i dissuasori di sosta, che provocarono l’incidente, fossero di proprietà del Comune ovvero sotto il controllo oppure la custodia dello stesso.

2. Riferiscono, in punto di fatto, gli odierni ricorrenti di aver adito l’autorità giudiziaria, lamentando che il figlio(Omissis), all’uscita da un ristorante sito nella via Rinascimento del Comune di Melendugno, appoggiava il piede destro su di una catena di ferro che collegava tra loro due dissuasori di sosta, collocati sulla sede viaria. La pressione esercitata sulla catena dal peso, ancorché esiguo, del bimbo, determinava il ribaltamento di uno dei due dissuasori (che si rivelavano non ancorati al suolo), finito sull’avampiede destro del minore, procurandogli gravi lesioni personali>>.

Diritto:

<<8.1.1. Nello scrutinarlo, occorre muovere dal principio – che risulta consolidato nella giurisprudenza di questa Corte – secondo cui la responsabilità da cose in custodia (sui cui presupposti e sulla cui articolazione può qui bastare un rinvio alla motivazione di Cass. Sez. 3, ord. 28 novembre 2023, n. 33074, ove compiuti riferimenti) è ravvisabile anche in relazione ai beni demaniali (tra le più recenti, Cass. Sez. 3, sent. 22 settembre 2023, n. 27137, non massimata), e quindi pure alle strade pubbliche, di talché “agli enti pubblici proprietari di strade aperte al pubblico transito è in linea generale applicabile l’art. 2051 cod. civ., in riferimento alle situazioni di pericolo immanentemente connesse alla struttura o alle pertinenze della strada, indipendentemente dalla sua estensione” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent.29 luglio 2016, n. 15761, Rv. 641162-01; nello stesso senso, tra le molte, già Cass. Sez. 3, sent.29 marzo 2007, n. 7763, Rv. 596965-01, nonché, successivamente, Cass. Sez. 3, ord.1° febbraio 2018, n. 2481, Rv. 647935-01). È stato, inoltre, precisato, sempre con riferimento alla custodia di strade pubbliche, che “la responsabilità ex art. 2051 cod. civ. postula la sussistenza di un rapporto di custodia della cosa e una relazione di fatto tra un soggetto e la cosa stessa, tale da consentire il potere di controllarla, di eliminare le situazioni di pericolo che siano insorte e di escludere i terzi dal contatto con la cosa”, sussistendo – in questo, e in ogni altro caso in cui la suddetta norma risulti applicabile – “un’ipotesi di responsabilità oggettiva, il cui unico presupposto è l’esistenza di un rapporto di custodia”, essendo “del tutto irrilevante”, per contro, “accertare se il custode sia stato o meno diligente nell’esercizio della vigilanza sulla cosa” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. n. 2481 del 2018, cit.). Di conseguenza, “il danneggiato ha il solo onere di provare l’esistenza di un valido nesso causale tra la cosa ed il danno, mentre il custode ha l’onere di provare che il danno non è stato causato dalla cosa, ma dal caso fortuito, ivi compreso il fatto dello stesso danneggiato o del terzo” (cfr., nuovamente in motivazione, Cass. Sez. 3, ord.n. 2481 del 2018, cit.).

D’altra parte, non irrilevante – sempre nella medesima prospettiva della responsabilità ex art. 2051 cod. civ. degli enti proprietari delle strade – è la circostanza che essi, ai sensi dell’art. 14, comma 1, cod. strada, debbono provvedere, tra l’altro, “alla manutenzione, gestione e pulizia delle strade, delle loro pertinenze e arredo, nonché delle attrezzature, impianti e servizi”, altresì “precisandosi (comma 3) che per le strade in concessione i poteri e i compiti dell’ente proprietario della strada previsti dal codice della strada sono esercitati dal concessionario, salvo che sia diversamente stabilito” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent.9 giugno 2016, n. 11802, Rv. 640205-01)>>.

Applicati al caso di specie:

<<8.1.2. Orbene, alla stregua di tali principi, ha errato la sentenza impugnata, nel rigettare la domanda risarcitoria sul presupposto che i dissuasori, presenti sul tratto di strada pubblica difronte al ristorante, fossero “posizionati agli angoli di un rettangolo delimitato da strisce bianche, che evidenziano una zona di suolo pubblico riservata allo stesso esercizio commerciale”, ritenendo, per ciò solo, che da tanto dovesse “desumersi che è stato quest’ultimo ad installare i dissuasori”, così, pertanto, escludendo che “il Comune avesse alcuna responsabilità sugli stessi”.

Al contrario, la semplice presenza dei dissuasori sul suolo pubblico – fatto non contestato dal Comune – legittimava, alla stregua dei principi sopra richiamati, la pretesa risarcitoria ex art. 2051 cod. civ. fatta valere nei suoi confronti.

Era, dunque, a carico del convenuto – come correttamente osservano i ricorrenti – la dimostrazione o del titolo amministrativo in forza del quale terzi, non solo fruivano dell’area in questione, ma erano stati abilitati all’installazione dei dissuasori e per di più in modo tale da escludere qualunque signoria di fatto sui medesimi da parte del custode della strada pubblica, ovvero che tali manufatti, in assenza di un titolo siffatto, fossero stati posti in un arco temporale così ravvicinato da non consentire il potere di controllo da parte dell’Ente proprietario dell’area demaniale. Sussistendo, infatti, la seconda delle evenienze testé delineate, avrebbe potuto trovare applicazione il principio secondo cui la pubblica amministrazione “è liberata dalla responsabilità civile ex art. 2051 cod. civ., con riferimento ai beni demaniali, ove dimostri che l’evento è stato determinato da cause estrinseche ed estemporanee create da terzi, non conoscibili né eliminabili con immediatezza, neppure con la più diligente attività di manutenzione, ovvero che l’evento stesso ha esplicato la sua potenzialità offensiva prima che fosse ragionevolmente esigibile l’intervento riparatore dell’ente custode” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord.11 marzo 2021, n. 6826, Rv. 660907-01; analogamente, Cass. Sez. 3, ord.9 marzo 2020, n. 6651, Rv. 657165-01; Cass. Sez. 3, ord.18 giugno 2019, n. 16295, Rv. 654350-01; Cass. Sez. 6-3, ord.19 marzo 2018, n. 6703, Rv. 648489-01)>>.

L’importanza del poter azionare un marchio di rinomanza, invece che ordinario

Marcel Pemsel su IPKat segnala Cancellation Division EUIPO n. C 57137 del 25 aprile 2024, Luis Vuitton c. Yang, come esempio dell’utilità pratica dell’optare per l’azione basata sulla rinomanza nei casi in cui è dubbio ricorrano i requisiti per quella sulla tutela ordinaria.

Non si può che convenirne. Ma quanto ha speso LV nei decenni per il suo marketing?

Marcbio depositato da Yang:

Abnteriuorità azionata da LV:

Ebbene, la domanda di annullamento è accolta sulla base della rinomanza.,

<<Therefore, taking into account and weighing up all the relevant factors of the present case, it must be concluded that, when encountering the contested mark, the relevant consumers will be likely to associate it with the earlier sign, that is to say, establish a mental ‘link’ between the signs. However, although a ‘link’ between the signs is a necessary condition for further assessing whether detriment or unfair advantage are likely, the existence of such a link is not sufficient, in itself, for a finding that there may be one of the forms of damage referred to in Article 8(5) EUTMR (26/09/2012, T‑301/09, CITIGATE / CITICORP et al., EU:T:2012:473, § 96)>>.

Poi sull’unfair advantgege: The Cancellation Division agrees with the applicant’s arguments. The contested sign will, through its similarity with the earlier reputed trade mark, attract more consumers to the EUTM proprietor’s goods and will therefore benefit from the reputation of the earlier trade mark. A substantial number of consumers may decide to turn to the EUTM proprietor’s goods due to the mental association with the applicant’s reputed mark, thus misappropriating its powers of attraction and advertising value. This may stimulate the sales of the EUTM proprietor’s goods to an extent that they may be disproportionately high in comparison with the size of the EUTM proprietor’s own promotional investment. It may lead to the unacceptable situation where the EUTM proprietor is allowed to take a ‘free-ride’ on the investment of the applicant in promoting and building up goodwill for the EUTM proprietor’s sign. This would give the EUTM proprietor a competitive advantage since its goods would benefit from the extra attractiveness they would gain from the association with the applicant’s earlier mark. The applicant’s leather goods are known for their traditional manufacturing methods, handcrafted from the highest quality raw materials. The earlier mark is identified with the image of luxury, glamour, exclusivity and quality of the products, and those characteristics can easily be transferred to the contested goods.

Manca del resto la due cause (difesa ai limiti della responsabilità aggravata, civilprocessualmente):

The EUTM proprietor claimed to have due cause for using the contested mark because (1) a search of trade mark registers with effect in the EU did not reveal any trade marks identical or similar to the contested sign; and (2) the name of the famous Italian Piazza Vittorio is the inspiration for the name ‘VITTORIO’. The applicant wanted to dedicate her brand to Italianism, to Rome and to the place where she lives with her family.

These EUTM proprietor arguments do not amount to ‘due cause’ within the meaning of Article 8(5) EUTMR. Due cause under Article 8(5) EUTMR means that, notwithstanding the detriment caused to, or unfair advantage taken of, the distinctive character or reputation of the earlier trade mark, registration and use by the EUTM proprietor of the mark for the contested goods may be justified if the EUTM proprietor cannot be reasonably required to abstain from using the contested mark, or if the EUTM proprietor has a specific right to use the mark for such goods that takes precedence over the earlier trade mark. In particular, the condition of due cause is not fulfilled merely by the fact that a search of trade mark registers having effect in the EU has not revealed any trade marks identical or similar to the contested sign. Nor can the fact that ‘VITTORIO’ coincides with the name of a square in Turin justify its use as part of the sign, which would take unfair advantage of the reputation built up through the efforts of the proprietor of the earlier mark.

Ci sono anche ragine considerazione in fatto suilla provba dell’uso di cu iè onerata LV ed art. 64 c.23 -3 EUTMR

la sopravvenuta stabile convivenza è causa di revisione dell’assegno divorzile

Cass. sez. I, ord. 30/04/2024 n. 11.627, rel. Meloni, sull’art. 8 legge divorzio:

<<Nel caso in esame la Corte d’appello ha ampiamente motivato in ordine al presunto giudicato: ” ritiene la Corte che il provvedimento impugnato debba essere confermato posto che si rilevano circostanze sopravvenute e provate dalla controparte tali da alterare l’equilibrio raggiunto e accertato in precedenza dal medesimo Tribunale nell’ambito del processo di divorzio, la cui sentenza è stata impugnata e poi confermata dalla Corte di Appello e, successivamente, anche dalla Suprema Corte di Cassazione, ma, a differenza di quanto sostenuto dalla reclamante, non ha delibato l’aspetto della consolidata convivenza con il Bu.Fr., che costituisce dunque l’elemento nuovo che ha legittimato la revoca dell’assegno divorzile ivi riconosciuto in suo favore: nella sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio si era fatto invece riferimento ad una precedente relazione della Gi.An., che però era da poco cessata e si fa cenno in sede di appello all’inizio di una nuova convivenza, che all’epoca dunque non era consolidata. Ed invero, la produzione dei documenti significativi della stabilità della convivenza in sede in primo grado è avvenuta in occasione dell’udienza di trattazione e comunque di questi ha preso atto il legale della reclamante che a verbale ha dichiarato di non contestarli dovendo rilevarsi che ben poteva interloquire sul punto chiedendo un termine per note sicché la produzione non può ritenersi irrituale alla luce della libertà delle forme di cui ai procedimenti di volontaria giurisdizione. In buona sostanza un elemento nuovo c’è che giustificherebbe la modifica delle condizioni di divorzio e cioè la stabile convivenza della reclamante con il Bu.Fr., che dura da moltissimi anni, tanto che gli accertamenti prodotti sono stati fatti da un’agenzia investigativa nel corso di 12 anni, ed è significativo che egli stesso abbia ricevuto la notifica del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado qualificandosi come persona di famiglia convivente, mentre a nulla rileva a questi fini che questi mantenga la residenza anagrafica in altro Comune. Da un lato, quindi, abbiamo una relazione di convivenza stabile, un nuovo progetto famigliare che dura da anni e che non può essere messo in discussione e deve ritenersi elemento nuovo rispetto alla sentenza di divorzio.”. Sulla base di tali sovrani accertamenti di merito, non è né illogico né irrazionale concludere – come ha fatto la Corte territoriale – che, nel caso, era venuta del tutto meno la componente relativa alla funzione assistenziale dell’assegno divorzile.

Con riguardo alla componente compensativa, la Corte ha così motivato:” come ha osservato il Tribunale di Pescara, la ricorrente non ha fornito elementi, già in occasione della causa di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di aver contribuito alla comunione familiare, così come nella memoria difensiva, dovendosi ritenere all’uopo certamente non sufficiente il dato del mancato svolgimento di attività lavorativa, avendo in proposito la Suprema Corte evidenziato (Cass. n. 21228/2019, richiamata dalle Sezioni Unite sopra citate) che il giudice di merito non potrà nemmeno presumere, puramente e semplicemente, che il non aver uno dei due coniugi svolto alcuna attività lavorativa sia da ascrivere ad una scelta comune dei coniugi e neppure che il non aver svolto attività lavorativa abbia di per sé sicuramente giovato al successo professionale dell’altro coniuge”.

I motivi proposti nel presente ricorso, pertanto, non sono idonei a censurare tali passaggi argomentativi che costituiscono accertamenti di merito non rivalutabili in questa sede>>.

Distranza tra costruzioni, distanza dal confione e principio di prevenzione: sugli artt. 873, 875 e 877 cc (in ogni caso: non c’è atto emulativo)

Cass. sez. II, ord. 09/05/2024 n. 12.702, rel. Oliva:

<<La Corte di Appello ha accertato che tra i manufatti realizzati dalle parti residua una intercapedine della larghezza di 20 cm. (cfr. pag. 11 della sentenza impugnata) e ciò è sufficiente per escludere l’applicabilità dell’art. 877 c.c., non configurandosi una ipotesi di costruzione in aderenza. Di conseguenza, la norma da applicare è quella prevista dall’art. 873 c.c., che prescrive la distanza minima di tre metri tra le costruzioni, ove non derogata dalle normative regolamentari locali e salvo il principio della prevenzione stabilito dall’art. 875 c.c.

La Corte di seconda istanza ha altresì accertato che la costruzione box dei Be.An. – Ne.Pi. era stata realizzata 19 anni prima di quella del De.St. ad una distanza “… tra i dieci e i venti centimetri dal confine” (cfr. pagg. 11 e 12 della sentenza impugnata). L’art. 7.2 delle N.T.A del Comune di B (trascritto a pag. 11 del ricorso) prevede che si possano elevare sul confine tra due fondi “… pareti non finestrate di locali accessori, pertinenze ed impianti tecnologici (box e simili) a condizione che abbiano altezza del punto più alto della copertura non superiore a m. 3,00. Questi stessi locali accessori possono essere posti a distanza dal confine non inferiore da m. 3,00”.

Il box edificato dai prevenienti Ne.Pi. – Be.An., dunque, si trova ad una distanza dal confine minore della metà di quella stabilita dal regolamento locale, e poiché quest’ultimo non prevede un distacco assoluto dal confine, opera il criterio della prevenzione. Va, sul punto, data continuità al principio affermato da questa Corte, secondo cui “Il principio della prevenzione si applica anche nell’ipotesi in cui il regolamento edilizio locale preveda una distanza tra fabbricati maggiore di quella ex art. 873 c.c. e tuttavia non imponga una distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che la portata integrativa della disposizione regolamentare si estende all’intero impianto codicistico, inclusivo del meccanismo della prevenzione, sicché il preveniente conserva la facoltà di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le costruzioni e il prevenuto la facoltà di costruire in appoggio o in aderenza ai sensi degli artt. 874,875 e 877 c.c.” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 10318 del 19/05/2016, Rv. 639677; conf. Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 14705 del 29/05/2019, Rv. 654186).

In applicazione del principio sopra richiamato, il De.St. (secondo costruttore) aveva la scelta tra edificare il suo manufatto rispettando la distanza dalla costruzione dei prevenienti oppure avanzare nel rispetto dell’art. 875, ma non lo ha fatto. Il De.St. infatti ha eretto il suo box con modalità tali da creare una intercapedine di 20 cm. dal fabbricato della Be.An., con conseguente violazione della norma di cui all’art. 875 c.c., la cui finalità ultima è proprio quella di evitare la creazione di intercapedini dannose tra gli edifici>>.

La SC rigetta pure la difesa di atto emulativo, cìil quale assai difficilmente è ravvisabile nella costruzione a distanza illegale:

<<La Corte di Appello ha esaminato il primo motivo di gravame, con il quale sia la Be.An. che il Ne.Pi. (il quale aveva spiegato appello incidentale adesivo rispetto all’impugnazione principale, perfettamente coincidente con quest’ultima: cfr. pag. 9 della sentenza impugnata) avevano sollevato la questione della natura emulativa dell’edificazione posta in essere dal De.St. , e lo ha disatteso, affermando che “Non può esservi una volontà emulativa né nella scelta di costruire un’autorimessa (locale accessorio di un’abitazione) né nella sua ubicazione, a ridosso di analoghi locali della confinante proprietà: in tal modo eventuali disturbi (rumori delle autovetture, gas di scarico) risultano confinati, per entrambe le proprietà, in aree ristrette e contigue. Ben maggiore disturbo arrecherebbe, ad es., un box costruito a ridosso di un’abitazione” (cfr. pag. 13 della sentenza). Il passaggio appena richiamato esprime in modo adeguato le ragioni del rigetto del motivo di appello proposto, onde non vi è né violazione dell’art. 112 c.p.c., né vizio della motivazione, in quanto quest’ultima non è viziata da apparenza, né appare manifestamente illogica, ed è idonea ad integrare il cd. minimo costituzionale e a dar atto dell’iter logico-argomentativo seguito dal giudice di merito per pervenire alla sua decisione (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830, nonché, in motivazione, Cass. Sez. U, Ordinanza n. 2767 del 30/01/2023, Rv. 666639).

Peraltro va ribadito il principio per cui “Poiché gli atti emulativi, vietati dall’art 833 c.c., sono caratterizzati, oltre che dall’elemento oggettivo del danno e della molestia altrui, anche dall’animus nocendi, consistente nell’esclusivo scopo di nuocere o molestare i terzi senza proprio reale vantaggio, non è riconducibile nella previsione della citata disposizione né l’attività edificatoria posta in essere dal proprietario in violazione delle norme pubblicistiche disciplinanti lo ius aedificandi, in quanto comunque preordinata al conseguimento di un diretto concreto vantaggio, né il mantenimento dell’opera iniziata e non ultimata perché in contrasto con dette norme, il quale (salva l’ipotesi dell’inosservanza delle distanze legali e di un provvedimento amministrativo di riduzione in pristino) rientra sempre nel legittimo esercizio dei poteri del proprietario, sia in relazione a possibili diverse utilizzazioni del manufatto incompiuto, sia con riferimento ad una eventuale abrogazione delle norme limitative, sia con riguardo agli oneri cui l’interessato dovrebbe altrimenti soggiacere per ridurre in pristino lo stato dei luoghi” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3010 del 08/05/1981, Rv. 413559; cfr. anche, in termini, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4708 del 05/11/1977, Rv. 388304).

Inoltre, la sentenza impugnata è coerente con l’ulteriore principio, che pure merita di essere ribadito, secondo cui “La sussistenza di un atto di emulazione postula il concorso di un elemento oggettivo, consistente nell’assenza di utilità per il proprietario e di un elemento soggettivo, costituito dall’animus nocendi, ossia l’intenzione di nuocere o di recare molestia ad altri. Pertanto, si è al di fuori dell’ambito dell’art. 833 cod. civ. quando ricorra un apprezzabile vantaggio del proprietario da cui l’atto sia stato compiuto” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3558 del 25/03/1995, Rv. 491409)>>.

Data-scraping ancora ammesso : Bright Data presso la Northern District of California Court riesce a far rigettare pure la domanda di Twitter/X

Kieran McCarthy nel blog di Eric Goldman segnala l’importante sentenza del tribunale North. Dist. of California, X v. Bright Data, 9 maggio 2024,   No. C 23-03698 WHA.

Fatti:

<<Defendant Bright Data Ltd. is a data-scraping company (Amd. Compl. ¶ 6). According
to Bright Data, “[i]ts suite of technologies and services help Fortune 500 companies, academic
institutions, and small businesses retrieve and synthesize vast amounts of public information”
(Br. 3). There are three types of products that Bright Data offers: (1) datasets built from data
that Bright Data scrapes itself, (2) scraping tools that enable their purchasers to scrape data
themselves, and (3) proxy network services that enable their purchasers to scrape data through
proxy servers, using those servers’ IP addresses (Amd. Compl. ¶¶ 50–51, 55–58, 63–64; Br. 4).
In this lawsuit, X Corp. alleges that Bright Data scrapes data from X and sells data
scraped from X, using elaborate technical measures to evade X Corp.’s anti-scraping
technology, while facilitating its customers in and inducing them to scrape data from X —
all in violation of the Terms to which Bright Data and its customers are bound (Amd. Compl.
¶¶ 1–2). How so? X Corp. contends that Bright Data and its customers are bound as X users.
Specifically, X Corp. contends that Bright Data is bound (1) by a “browser-wrap” or “browse-
wrap” contract, having used X Corp. services in the act of scraping data from X, impliedly
agreeing to the Terms in the process; and (2) by a “click-wrap” or “click-through” contract,
having registered an account (@bright_data) to promote Bright Data products, expressly
agreeing to the Terms as early as February 2016 (Amd. Compl. ¶¶ 39–41; see also Amd.
Compl. ¶ 44). Meanwhile, Bright Data customers are conceivably likewise bound by browser-
wrap and click-wrap contracts, having used X Corp. services in the act of scraping data from
X and, in some instances, having registered accounts (see Amd. Compl. ¶¶ 22, 55, 63)>>.

Due gruppi di censure sono azionati: 1) improperly accessed its systems (p. 8 ss)  , e 2) improperly scraped and sold its data, and assisted others in improperly scraping its data , p. 18 ss

Quanto ad 1  e alle quattro azioni ivi inserite, possono interessarci le ultime due (sub C e sub D), relative a “Tortious interference with contract” e alla violazione delle Terms of service di X: queste ultime infatti verosimlmente saranno uguali o simili alle nostre (sarebbe interessante accertarlo).

Quanto a 2, è degna di nota  la specificazione della corte circa la “stranezza” per cui X non pretende l’acquisto del diritto pieno sui dati caricati dagli utenti sulla sua piattaforma, ma solo facoltà di uso: per non perdere i safe harbours. Ma al tempo stesso vuole poterne guidare l’uso.

<<But X Corp. disclaims ownership of X users’ content and does not acquire a
right to exclude others from reproducing, adapting, distributing, and displaying it under the non-exclusive license>>

Poi: <<One might ask why X Corp. does not just acquire ownership of X users’ content or grant itself an exclusive license under the Terms. That would jeopardize X Corp.’s safe harbors from civil liability for publishing third-party content. Under Section 230(c)(1) of the Communications Decency Act, social media companies are generally immune from claims based on the publication of information “provided by another information content provider.”
47 U.S.C. § 230(c)(1). Meanwhile, under Section 512(a) of the Digital Millenium Copyright Act (“DMCA”), social media companies can avoid liability for copyright infringement when they “act only as ‘conduits’ for the transmission of information.” Columbia Pictures Indus., Inc. v. Fung, 710 F.3d 1020, 1041 (9th Cir. 2013); 17 U.S.C. § 512(a). X Corp. wants it both ways: to keep its safe harbors yet exercise a copyright owner’s right to exclude, wresting fees from those who wish to extract and copy X users’ content>>

Però i claims , basati su legge statale, sul divieto di scraping and selling of data inficiano il copyright act federale: quindi la prima legge deve cedere di fronte alla seconda (la corte individua tre modi con cui l’Act federale viene inficiato: qui però non interessanti, attenendo alle peculiarità dell’ordinamento multilivello statunitense ).

La corte ritiene che prevalga la legge federale.

Bright Data aveva in gennaio u.s. ottenuto il rigetto anche della domanda avanzata da Meta nel medesimo ufficio (ma diverso giudice): v. mio post 4 marzo 2024.

V.ne un commento di Jeremy Goldman qui. cjhe posta unb altro link alla sentenza.

Deferimento alla CG di complessa questione inerente al rapporto tra marchio e posteriore DOP-IGP sul segno vitivinicolo SALAPARUTA

Cass. sez 1 del 8 maggio 2024 n. 12.-563, rel. Iofrida, deferisce alla Corte di Gustizia due questioni interpretative sul tema in oggetto.

Le norme di riferimento sono oggi state abrogate. Ma la seconda questione , non di diritto transitorio (la prima , si), può dare spunti utili pure oggi.

Eccola:

«Ove si affermi, in base alla risposta al primo quesito, la necessaria
applicazione, alla situazione di fatto oggetto del presente giudizio, del Reg. n. 1493/1999, dica la Corte di Giustizia se la disciplina di cui all’Allegato “F” del Reg. 1493/1999, dettata per regolare il conflitto tra un marchio registrato per un vino o un mosto di uve che sia identico a denominazioni d’origine o indicazioni geografiche protette di un vino, esaurisca tutte le ipotesi di coesistenza tra i diversi segni e di proteggibilità delle denominazioni per vini ovvero residui comunque un’ipotesi di invalidità o non proteggibilità delle DOP o IGP posteriori, nel caso in cui l’indicazione geografica possa ingannare il pubblico circa la vera identità del vino a causa della reputazione di un marchio anteriore, in forza del principio generale di non decettività dei segni distintivi»

L’ordinanza esamina analiticamente  la disciplina delle denominazioni dei prodotti agricoli (non vini e vini: i due settori hanno discipline autonome, pur se simili). Disciplina complessa per l’intersecarsi di provvedimenti legislativi e amministrativi e per le frequenti modifiche.

(notizia di Jocelyn Bosse in IPKat)