Obbligo di manutenzione del guardrail da parte della PA ex art. 2051 cc

Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 24/04/2024) 03/05/2024, n. 11.950, rel. Gianniti:

Principio di diritto:

La P.A. che, pur avendo collocato una barriera laterale di contenimento per diminuire la pericolosità di un tratto stradale, non curi di verificare che la stessa non abbia assunto nel tempo una conformazione tale da costituire un pericolo per gli utenti ed ometta di intervenire con adeguati interventi manutentivi al fine di ripristinarne le condizioni di sicurezza, viola sia le norme specifiche che le impongono di collocare barriere stradali nel rispetto di determinati standard di sicurezza, sia i principi generali in tema di responsabilità civile“.

E poi:

<< Questa Corte, con ordinanza 01/02/2018, n. 2482 (e, nello stesso senso, con ordinanze nn. 2479 e 2480 del 2018) ha avuto modo di precisare che:

“In tema di responsabilità civile per danni da cose in custodia, la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione – anche ufficiosa – dell’art. 1227, comma 1, c.c., richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost., sicché, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un’evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l’esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro”.

Tale principio di diritto – successivamente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 27724/2018; n. 20312/2019; n. 38089/2021; n. 35429/2022; nn. 14228 e 21675/2023), anche a Sezioni Unite (Cass. n. 20943/2022) – è stato poi ancor più di recente riaffermato, statuendosi (Cass. n. 11152/23) che la responsabilità ex art. 2051 c.c. ha natura oggettiva – in quanto si fonda unicamente sulla dimostrazione del nesso causale tra la cosa in custodia e il danno, non già su una presunzione di colpa del custode – e può essere esclusa:

a) dalla prova del caso fortuito (che appartiene alla categoria dei fatti giuridici), senza intermediazione di alcun elemento soggettivo, oppure

b) dalla dimostrazione della rilevanza causale, esclusiva o concorrente, alla produzione del danno delle condotte del danneggiato o di un terzo (rientranti nella categoria dei fatti umani), caratterizzate, rispettivamente, la prima dalla colpa ex art. 1227 c.c. (bastando la colpa del leso: Cass. n. 21675/2023) o, indefettibilmente, la seconda dalle oggettive imprevedibilità e imprevenibilità rispetto all’evento pregiudizievole.

In particolare, questi ultimi concetti vanno intesi, come già chiarito, non nel senso della assoluta impossibilità di prevedere l’eventualità di una condotta imprudente, negligente o imperita della vittima (che è, ovviamente, sempre possibile), ma nel senso del rilievo delle sole condotte “oggettivamente” non prevedibili secondo la normale regolarità causale, nelle condizioni date, in quanto costituenti violazione dei doveri minimi di cautela la cui osservanza è normalmente prevedibile (oltre che esigibile) da parte della generalità dei consociati e la cui violazione, di conseguenza, è da considerarsi, sul piano puramente oggettivo della regolarità causale (non quindi, con riferimento al piano soggettivo del custode), non prevedibile né prevenibile.

I principi di diritto sin qui esposti risultano, nella loro sostanza, espressamente richiamati, condivisi e fatti propri dalla corte d’appello, nella decisione impugnata.

Invero, la corte – dopo aver rilevato che non può essere condotta abnorme quella del conducente che impatta violentemente contro il guardrail, il quale è funzionalmente posto ad attutire le conseguenze degli impatti violenti; e che, come accertato dal ctu, “è più probabile che non” che l’autovettura non potesse sfondare un guardrail in buono stato di manutenzione e continuo, per cui “diverse sarebbero state le conseguenze derivanti dall’urto contro una barriera integra e in buono stato di manutenzione” – facendo buon governo dei principi affermati da questa Corte in tema di concorso di cause, da un lato, ha affermato che: “la mancanza di continuità della barriera guardrail nel tratto di strada interessato ha consentito il verificarsi del sinistro, aggravando in concreto le conseguenze dannose, ponendosi, dunque, come condizione necessaria dell’evento” e, dall’altro, ha escluso che “la causa remota, costituita dalla condotta di guida tenuta dal E.E. (velocità ed impatto contro il guardrail), fosse connotata da peculiarità tali da porsi come antecedente imprevedibile né da sola era idonea a determinare l’evento, che, non si sarebbe verificato, ove la barriera di protezione fosse stata continua e in buono stato di manutenzione”.

La piena conformità della conclusione della corte territoriale ai principi sopra ricordati, applicati in esito a ricostruzioni fattuali non sindacabili in quanto tali nella presente sede di legittimità (siccome scevre da evidenti vizi logici o giuridici), conduce alla conclusione di infondatezza delle doglianze dell’ente ricorrente  >>.

E’ abuso del processo agire per il danno da uccisione del padre dapprima e della madre poi, cagionati dalla medesima condotta?

risponde di si Cass. civ. sez. III, ord. 26 Marzo 2024 n. 8.217, est. Rossetti:

<<2. Tutte le suddette censure sono inammissibili ex art. 360 bis, n. 1, c.p.c..
Senza alcun reale sforzo per vincere le motivazioni dell’orientamento
consolidato, i ricorrenti si dilungano a sostenere di essere stati vittime di “due
fatti illeciti”, e che di conseguenza legittima fu la loro duplice iniziativa
giudiziaria.
Deve tuttavia osservarsi in senso contrario che il “fatto” illecito è stato uno
soltanto: la condotta dell’ignoto conducente il quale causò il sinistro. La
circostanza che per effetto di tale condotta abbiano perso la vita due persone
non vuol dire che siano stati commessi due illeciti, ma che la medesima
condotta ha causato a ciascuno dei congiunti delle vittime due danni.
Questi danni, per di più, sono stati patiti dalle medesime persone, e nulla
avrebbe impedito loro di domandare il risarcimento del danno non
patrimoniale patito tanto per la morte del padre, quanto per la morte della
madre.
Quello in esame rappresenta dunque un caso di scuola di abuso del processo>>.

Soluzione probabilmente esatta

Diffamazione e obbligo per il diffamante di far rimuovere il dato anche presso terzi

Cass. sez. I, ord. 05/04/2024, (ud. 01/02/2024, dep. 05/04/2024), n. 9.068, rel. Caiazzo, pone un importante regola comportamentale a carico del diffamante, che può essere impartita dal giudice:

<<In tema di responsabilità civile per diffamazione, il pregiudizio all’onore ed alla reputazione, di cui si invoca il risarcimento, non è in re ipsa, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le conseguenze di tale lesione, sicché la sussistenza di siffatto danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, anche attraverso presunzioni, assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima(Cass., n. 8861/21; n. 25420/17; n, 13153/17). [acquisito]

Nella specie, il risarcimento dei danni non patrimoniali è stato richiesto e liquidato, sulla scorta delle allegate presunzioni afferenti alla diffusione nazionale del servizio televisivo, alla rilevanza dell’offesa e alla posizione sociale dell’offeso (professore universitario). Il terzo motivo è parimenti infondato, anche se la motivazione su tale capo del provvedimento impugnato va corretta. Invero, la Corte d’appello, in riforma della sentenza di primo grado, ha statuito la condanna della ricorrente anche alla rimozione del servizio e delle notizie che lo riproducevano dal canale youtube e dai motori di ricerca, mentre in primo grado tale ordine era stato contenuto nei limiti della disponibilità della ricorrente (con rigetto dell’istanza ex art. 614-bis, c.p.c., proprio perché la misura non dipendeva solo dalla volontà della società convenuta).

La Corte territoriale ha respinto il motivo d’appello con il quale era stato censurato il suddetto ordine poiché illegittimo – concretizzatosi nell’imposizione di un facere inattuabile senza la collaborazione dei terzi – in quanto l’art. 17, c.2, GDPR contempla un obbligo del titolare del trattamento che è non solo quello di cancellare i dati personali ma anche di adottare tutte le misure ragionevoli, anche tecniche – tenendo conto della tecnologia disponibile e dei costi di attuazione – per informare i titolari (che stanno trattando i dati personali) della richiesta dell’interessato di cancellare qualsiasi link, copia o riproduzione dei propri dati.

Anzitutto, va ribadito, come affermato nella sentenza impugnata, l’obbligo del titolare del trattamento dei dati personali di attivarsi per la loro cancellazione, attraverso ogni attività volta alla rimozione del servizio e delle notizie che lo riproducono dai motori di ricerca (e dal canale youtube).

Circa l’eccezione d’inapplicabilità del citato art. 17, c.2, GDPR, giova rilevare che i principi affermati dai giudici di merito trovano la loro fonte nell’ordinamento europeo, sebbene il predetto art. 17 del Regolamento 2016/679 sia entrato in vigore successivamente ai fatti di causa. Al riguardo, va innanzitutto menzionata la sentenza 13 maggio 2014 della Corte di giustizia dell’Unione Europea (in causa C-131/12 Google Spain). Si tratta di una vicenda che aveva ad oggetto il problema dell’accesso ai dati esistenti sulla rete internet alla luce dell’allora vigente direttiva 95/46/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, poi abrogata dal Regolamento 2016/679/UE; in particolare, la terza questione esaminata (punti 89 e ss.) riguardava il diritto dell’interessato a ottenere che il motore di ricerca sopprimesse determinati dati dall’elenco dei risultati reperibili sulla rete. Circa gli importanti principi enunciati, la Corte di giustizia ha premesso (punto 92) che il trattamento dei dati personali può risultare incompatibile con l’art. 12, lett. b), della direttiva non soltanto se i dati sono inesatti, ma anche se essi sono inadeguati, non pertinenti o eccessivi in rapporto alle finalità del trattamento, oppure non aggiornati o conservati per un arco di tempo superiore a quello necessario, “a meno che la loro conservazione non si imponga per motivi storici, statistici o scientifici”. La Corte ha altresì affermato che il diritto dell’interessato, derivante dagli artt. 7 e 8 della Carta, di chiedere “che l’informazione in questione non venga più messa a disposizione del grande pubblico”, mediante la sua inclusione in un elenco accessibile tramite internet, prevale – in linea di massima – sull’interesse economico del gestore del motore di ricerca e anche su quello del pubblico a reperire tale informazione in rete; a meno che non risultino ragioni particolari, “come il ruolo ricoperto da tale persona nella vita pubblica”, tali da rendere preponderante e giustificato l’interesse generale ad avere accesso a tale informazione (punto 97).

Pertanto, può affermarsi che i principi sanciti dal suddetto art. 17 abbiano recepito quelli in precedenza già applicati dalla Corte CEDU, che trovavano la loro fonte nella Convenzione CEDU, nell’ambito di un’organica disciplina della materia.

Nel caso concreto, in particolare, circa la doglianza afferente all’inesigibilità di tale obbligo con riferimento alla rimozione del servizio televisivo per cui è causa dal canale youtube e dai motori di ricerca, il collegio ritiene che l’ambito del dovere concretamente esigibile ed applicabile nei confronti della R.T.I. Spa consista nell’attivarsi e dimostrare di averlo fatto con i responsabili dei portali che hanno fatto e fanno uso del filmato divulgato in sede televisiva. [importante]

Invero, limitarsi, da parte della società ricorrente, ad eccepire l’inapplicabilità e l’inesigibilità dell’obbligo statuito dalla Corte d’appello, perché rientrante nella disponibilità di terzi, esprime una difesa che prescinde dalla necessaria attività collaborativa intesa a impedire – per quanto possibile e nei suoi obblighi di diligenza riparativa – l’illegittimo uso, da parte di terzi, dei dati personali reputati come eccedenti.

Nella specie, la ricorrente non ha allegato di aver adottato quelle cautele e svolto quelle iniziative nei confronti dei terzi operatori, finalizzate – per quanto possibile – a limitare il danno lamentato per il carattere eccedente del “girato”; ne consegue, come detto, che la statuizione della sentenza impugnata va confermata, attraverso una parziale correzione della motivazione, nel senso che va affermato il principio secondo cui, in casi siffatti grava sulla responsabile del prodotto televisivo-informativo, eccedente i limiti della critica giornalistica, la dimostrazione di aver posto in pratica ogni iniziativa volta a rendere edotti (e persuadere) i terzi che se ne siano appropriati circa l’illegittima diffusione di filmati televisivi e “girati filmici”, già negativamente valutati sul piano della offesa alla dignità delle persone coinvolte nel prodotto veicolato.

Né può obiettarsi, al riguardo, che tale attività verso i terzi costituisca una forma di risarcimento in forma specifica eccessivamente onerosa, ex art. 2058, c. 2, c.c., in quanto essa ovviamente non implica la certezza dell’adempimento richiesto ai terzi, ma presuppone la doverosa attività volta a ottenere la cessazione dell’illegittimo trattamento dei dati personali da parte dei terzi, venendo cioè in rilievo solo un’obbligazione di mezzi, non certo di risultato. Parimenti infondata è la doglianza relativa al fatto che la Corte d’appello non avrebbe potuto statuire l’obbligo della R.T.I. Spa oltre i limiti della propria disponibilità – come invece pronunciato dal Tribunale – in mancanza dell’appello incidentale da parte del Ca.Sa., in quanto la sentenza impugnata non ha condannato la ricorrente ad una prestazione diversa da quella oggetto della sentenza di primo grado – incorrendo in un’asserita pronuncia ultra petita – ma ha solo specificato le modalità dell’obbligo gravante sul titolare del trattamento dei dati personali, in piena conformità del petitum dedotto nell’atto introduttivo del giudizio.

D’altra parte, la stessa ricorrente ha inteso attivarsi per richiedere la tutela delle opere televisive dall’uso improprio del diritto d’autore e di produttore, mentre avrebbe anche potuto e dovuto richiedere le prestazioni necessarie per tutelare i dati del controricorrente. In tal senso, la cooperazione del creditore potrebbe rendersi necessaria attraverso l’indicazione, alla R.T.I. Spa, dei motori di ricerca che avevano e hanno fatto uso del filmato in questione. Sul punto, viene in rilievo il principio di correttezza e buona fede il quale, già secondo la Relazione ministeriale al codice civile, “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore”, ma che deve essere inteso in senso oggettivo, in quanto enuncia un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 della Costituzione che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge, sicché dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere, anche di per sé, un danno risarcibile (Cass., SU, n. 28056/08; Cass., n. 22819/10; n. 9200/21; n. 16743/21)>>.

Nella separzione tra coniugi, la intollerabilità della prosecuzione di convincenza può riguardare anche uno solo dei coniugi

Cass. sez. I, ord. 24/04/2024 n. 11.032, rel. Reggiani:

<< In via generale, questa Corte ha affermato che la pronuncia di addebito della separazione non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri posti dall’art. 143 c.c. a carico dei coniugi, essendo, invece, necessario accertare che tale violazione, lungi dall’essere intervenuta quando era già maturata una situazione in cui la convivenza non era più tollerabile, abbia assunto efficacia causale nel determinare la situazione di intollerabilità (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 18074 del 20/08/2014).    [ovvio]

L’indagine sull’intollerabilità della convivenza deve, peraltro, essere svolta sulla base della valutazione globale e sulla comparazione dei comportamenti di entrambi i coniugi, non potendo la condotta dell’uno essere giudicata senza un raffronto con quella dell’altro, consentendo solo tale comparazione di riscontrare se e quale incidenza esse abbiano riservato, nel loro reciproco interferire, nel verificarsi della crisi matrimoniale (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 14162 del 14/11/2001).

L’anteriorità della crisi della coppia rispetto alla violazione di tali obblighi, quale causa di esclusione del nesso causale, integra comunque un’eccezione in senso lato, ed è pertanto rilevabile d’ufficio, purché siano allegati dalla parte a ciò interessata i fatti che ne suffragano l’esistenza e i menzionati fatti risultino provati dal materiale probatorio comunque acquisito al processo (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 20866 del 21/07/2021).

Con specifico riferimento alla violazione dell’obbligo di coabitazione, questa Corte ha ritenuto che il volontario abbandono del domicilio familiare da parte di uno dei coniugi contiene di per di per sé tutti i requisiti per configurare l’addebito della separazione personale, tenuto conto che obiettivamente a seguito di tale condotta la convivenza non è più possibile, fermo restando che l’addebito deve essere escluso, ove risulti che esso sia stato determinato dal comportamento dell’altro coniuge o sia intervenuto in un momento in cui la prosecuzione della convivenza era già divenuta intollerabile e che, anzi, l’allontanamento del coniuge costituisca una conseguenza di tale intollerabilità (Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 648 del 15/01/2020). [ovvio, come sopra]

A prescindere da qualsivoglia elemento di addebito, in applicazione dell’art. 151 c.c., la separazione dei coniugi deve comunque trovare causa e giustificazione in una situazione di intollerabilità della convivenza, intesa come fatto psicologico squisitamente individuale, riferibile alla formazione culturale, alla sensibilità e al contesto interno della vita dei coniugi, purché oggettivamente apprezzabile e giuridicamente controllabile. A tal fine non è necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere da una condizione di disaffezione al matrimonio di una sola delle parti, che renda incompatibile la convivenza e che sia verificabile in base ai fatti obiettivi emersi in giudizio (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 8713 del 29/04/2015; Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 16698 del 05/08/2020). [il passaggio più interessante]

Ovviamente, l’apprezzamento circa la responsabilità di uno o di entrambi i coniugi, nel determinarsi della intollerabilità della convivenza, è un accertamento in fatto riservato al giudice di merito e non può essere censurato in sede di legittimità in presenza di una motivazione che non sia viziata (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 18074 del 20/08/2014). [no: non e’ fatto ma diritto, come emerge anche dalle parole della SC, laddove parla di “appprezzamento di responsabilità”]

(…)  Il giudice del gravame ha, in sintesi, ritenuto provata una condizione di disaffezione, quantomeno da parte della donna, già prima dell’allontanamento di quest’ultima dalla casa coniugale, dato che la donna aveva già prima comunicato al marito la volontà di separarsi per il tramite di un legale e poi aveva lasciato la casa coniugale, aggiungendo che il marito, sottoscrivendo la scrittura di separazione, risulta avere condiviso la decisione di separarsi, regolando convenzionalmente le conseguenze della separazione, compresa l’attribuzione di un assegno in favore della moglie, peraltro senza rappresentare negli atti di causa una condizione di vita matrimoniale in cui la comunione di vita fosse, invece, esistente.

Si tratta di un accertamento in fatto, operato dal giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità che, in virtù di quanto sopra evidenziato, non può essere considerato frutto di extrapetizione.

Lo stesso Si.Gi., nel ricorso per cassazione, ha riportato per esteso le allegazioni della moglie, contenute nella memoria di costituzione per l’udienza presidenziale in Tribunale, ove, nel richiedere l’addebito della separazione al marito, aveva allegato atteggiamenti violenti, tradimenti e comportamenti denigratori dell’uomo nei suoi confronti, oltre che condotte contrarie al dovere di assistenza morale durante la grave malattia della donna, fino alla decisione di quest’ultima di allontanarsi della casa coniugale, dietro suggerimento dei familiari, per timore di reazioni aggressive del marito, che ormai si era reso conto della volontà della moglie di separarsi (p. 14 del ricorso per cassazione).

Si tratta di condotte precedenti all’allontanamento della donna dalla casa coniugale, da quest’ultima avvertite, e dedotte, come causa di una pregressa intollerabilità della convivenza.

Il medesimo ricorrente ha, inoltre, evidenziato che, in appello, la moglie aveva dato rilievo alla missiva inviata dal suo legale, con cui aveva chiesto la separazione, e alla scrittura di separazione sottoscritta da entrambi i coniugi il 10/12/2016, per affermare che in tale occasione i coniugi erano assolutamente consci della crisi coniugale e d’accordo sulla necessità di addivenire ad una soluzione condivisa, entrambi consapevoli che il matrimonio era “finito” (p. 16 del ricorso per cassazione).

Anche tali allegazioni costituiscono argomenti che la donna ha posto a supporto della intollerabilità della convivenza precedente all’allontanamento della donna.

Il giudice di merito, valutando in fatto le risultanze di causa, ha ritenuto provata la obiettiva intollerabilità della convivenza, avvertita dalla donna prima dell’allontanamento da casa, e non contrastata dal marito, anche se non ha accertato i fatti che la stessa ha posto come causa della menzionata condizione di disaffezione.

In altre parole, la Corte di merito ha fatto proprie solo in parte le allegazioni della donna, che aveva dedotto la pregressa intollerabilità della convivenza per fatto imputabile al marito, ritenendo provata, per le ragioni in fatto sopra indicate, semplicemente la ritenuta impossibilità di vivere ancora insieme, percepita dalla moglie e non contrastata dal marito.

(…) Il terzo motivo è infondato.

4.1. Come già evidenziato, la condizione di intollerabilità della convivenza può essere intesa anche in senso soggettivo, non essendo necessario che sussista una situazione di conflitto riconducibile alla volontà di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco di una sola delle parti, che sia verificabile in base a fatti obiettivi (così Cass., Sez. 1, Sentenza n. 8713 del 29/04/2015; v. anche v. ancora Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 16698 del 05/08/2020).

In tale ottica, questa Corte ha di recente ritenuto dimostrata tale preesistente intollerabilità della convivenza dalla presentazione stessa del ricorso per separazione e dal successivo comportamento processuale, con particolare riferimento alle risultanze negative del tentativo di conciliazione, dovendosi ritenere venuto meno, al ricorrere di tali evenienze, quel principio del consenso che caratterizza ogni vicenda del rapporto coniugale (v. ancora Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 16698 del 05/08/2020; Cass., Sez. 1, Sentenza n. 8713 del 29/04/2015).

Non si tratta di un’interpretazione che abroga la previsione normativa del dovere di coabitazione, perché, comunque, l’allontanamento presuppone l’accertamento di una condizione anche personale, non necessariamente condivisa tra i coniugi, che risulti comunque da dati obiettivi e, ovviamente, non sia la conseguenza della violazione di un altro obbligo matrimoniale da parte di chi compia tale scelta.  [ok]

La coabitazione, infatti, non è convivenza, perché quest’ultima si connota per una condivisione di vita che non è richiesta nella prima.

La coabitazione, ove la convivenza sia divenuta intollerabile anche per una sola persona della coppia, perde di significato coniugale, per il declino dei diritti e doveri reciproci che connotano il rapporto matrimoniale, e non può essere imposta come mero artificio esteriore.

4.3. Nel caso di specie la Corte d’appello ha dato applicazione ai principi enunciati, dando rilievo alla missiva inviata dal legale della moglie prima dell’allontanamento della casa coniugale, in cui quest’ultima ha manifestato la volontà di separarsi, la quale costituisce una obiettiva e inequivoca rappresentazione dell’impossibilità per la donna di continuare a vivere con il marito, seguita, dopo pochi mesi dall’allontanamento, dalla sottoscrizione da parte di entrambi i coniugi di un accordo che regolava le condizioni di separazione e prevedeva un assegno di mantenimento in favore della donna, cui si è aggiunta anche la constatazione, da parte del giudice di appello, che non una parola si leggeva negli atti difensivi del marito su eventuali condizioni della vita matrimoniale che avrebbero potuto rendere imprevedibile la scelta della donna (v. supra e p. 7 e ss. della sentenza impugnata)>>.

Sul “carattere individuale” dei disegni e modelli

Ripasso sul carattere individuale dei modelli (art. 6 reg. EU 6 del 2002) offerto da Trib. UE T-654/22 del 10.04.2024, da segnalzione di Marcel Pemsel in IpKat, M&T 1997, a.s. c.  EUIPO.

Design sub iudice:

 

Anteriorità asseritamente provante l’assenza di car. individ.:

Dopo due rigetti amministrativi, l’istante ottiene vittoria giudiziale: chi la dura la vince (stavolta).

<< 25 It should be noted that Regulation No 6/2002 does not define the concept of the ‘informed user’. According to the case-law, the concept of ‘informed user’ must be understood as lying somewhere between that of the ‘average consumer’, applicable in trade mark matters, who need not have any specific knowledge and who, as a rule, makes no direct comparison between the trade marks at issue, and the ‘sectoral expert’, who is an expert with detailed technical expertise. Thus, the concept of the informed user may be understood as referring, not to a user of average attention, but to a particularly observant one, either because of his or her personal experience or his or her extensive knowledge of the sector in question (judgment of 20 October 2011, PepsiCo v Grupo Promer Mon Graphic, C‑281/10 P, EU:C:2011:679, paragraph 53).

26 As regards the informed user’s level of attention, it should be noted that, although the informed user is not the well-informed and reasonably observant and circumspect average consumer who normally perceives a design as a whole and does not proceed to analyse its various details, he or she is also not an expert or sectoral expert capable of observing in detail the minimal differences that may exist between the designs at issue. Thus, the qualifier ‘informed’ suggests that, without being a designer or a technical expert, the user knows the various designs which exist in the sector concerned, possesses a certain degree of knowledge with regard to the features which those designs normally include, and, as a result of his or her interest in the products concerned, shows a relatively high degree of attention when he or she uses them (see, to that effect, judgment of 20 October 2011, PepsiCo v Grupo Promer Mon Graphic, C‑281/10 P, EU:C:2011:679, paragraph 59 and the case-law cited).

27 In the present case, as regards the applicant’s argument that it is not only the end user himself or herself who may be regarded as an informed user, but also the handle salesperson, it should be noted that, according to the case-law referred to in paragraphs 25 and 26 above, the concept of ‘informed user’ does not refer to a professional quality linked to the product concerned. Furthermore, the informed user is neither an expert nor a specialist, such as a sectoral expert. The applicant’s argument therefore cannot succeed. (…)

34 According to the case-law, the degree of freedom of the designer of a design is determined by, inter alia, the constraints of the features imposed by the technical function of the product or an element thereof, or by statutory requirements applicable to the product to which the design is applied. Those constraints result in a standardisation of certain features, which will thus be common to the designs applied to the product concerned (see judgment of 29 October 2015, Roca Sanitario v OHIM – Villeroy & Boch (Single control handle faucet), T‑334/14, not published, EU:T:2015:817, paragraph 35 and the case-law cited).

35 In the present case, the Board of Appeal’s assessment, set out in paragraph 31 above, is consistent with the case-law of the Court according to which the degree of freedom of the designer of a door handle with a grip is high, on account of the fact that that handle can be made in a significant variety of shapes, colours and materials (judgment of 5 July 2017, Gamet v EUIPO – ‘Metal-Bud II’ Robert Gubała (Door handle), T‑306/16, not published, EU:T:2017:466, paragraphs 45 to 47).

36 Contrary to what the applicant claims, the length of the pivoting lever of a door handle with a grip does not appreciably limit the designer’s freedom either in relation to the particular shape of that lever or in relation to the other elements of the appearance of such a handle, as shown by the examples of door handles illustrated in paragraph 25 of the contested decision. (…)

55 Furthermore, as regards the elements which are, for their part, relevant to the comparison of the overall impressions produced by the designs at issue, it should be noted that, when the informed user uses a door handle with a grip in accordance with its normal use, he or she clasps its gripping area with the hand, which corresponds, in the present case, to the grip, in order to exert downward pressure so that the latch of the door slides and allows the door to be opened, which can then be pushed or pulled. Where the informed user approaches the door handle in order to use it normally, that user sees it from above. Accordingly, the most visible elements of the handle are those corresponding to the outward-facing parts of the handle, namely the front, side and top parts of the handle. As the Board of Appeal acknowledged in paragraphs 33 and 35 of the contested decision, the differences at the back, namely the curvature of the edges and the shape of the neck, will also be visible to the informed user and will not be overlooked by him or her. Moreover, as the applicant points out, the rounded curvature of the edges of the contested design is accompanied by a thinner and smoother appearance which the informed user will easily notice.

56 Furthermore, the rounded and thinner shapes of the edges of the contested design constitute differences from the earlier design which will be perceived by the informed user as influencing the manipulation of the handle and are, therefore, important elements in relation to the overall impression produced by the contested design, in accordance with the considerations set out in paragraphs 49 and 50 above. Those aspects have an impact on the ease of use of the handle, since they correspond to the parts of it which come into direct contact with the hand of the informed user.

57 Consequently, in accordance with the considerations set out in paragraph 49 above, the attention of the informed user is focused on all the elements set out in paragraphs 55 and 56 above.

58 In the light of the information provided in paragraphs 55 and 56 above and the high level of attention of the informed user in the present case (see paragraph 22 above), it must be held that, contrary to what the Board of Appeal found in paragraph 35 of the contested decision, the differences in the angles of the grip and the neck are neither marginal nor minor variations of one and the same design. A more rounded shape generally results in a softening of the lines of the neck and grip, which has a significant effect both on the overall appearance and on the ease of use of the door handle. It is therefore an element which attracts the informed user’s attention.

59 It follows from the foregoing that, although the designer’s freedom is high (see paragraph 35 above), those differences are sufficiently significant to produce a different overall impression of the designs at issue, contrary to the Board of Appeal’s analysis.

60 In the light of those considerations, the Board of Appeal erred in finding that the designs at issue produced the same overall impression on the informed user and that the contested design therefore lacked individual character within the meaning of Article 6(1)(b) of Regulation No 6/2002>>.

Responsabilità dell’appaltatore ex art. 1669 cc e decorrenza del termine decennale

Cassazione civile sez. II, ord. 03/05/2024, (ud. 08/03/2024, dep. 03/05/2024), n.11906, rel. Caponi, offre un interessante ripasso sull’oggetto tramite la sempre ottima penna del prof.  Caponi.

<<3.2. …. Per gli immobili destinati a lunga durata, l’art. 1669 c.c. imputa all’appaltatore una responsabilità complessivamente più grave, soprattutto sotto il profilo della durata, che si atteggia come speciale rispetto alla responsabilità per i vizi ex artt. 1667-1668 c.c. A sua volta, nell’ambito dell’appalto, la disciplina degli artt. 1667-1668 c.c. riveste carattere eccezionale rispetto alle regole generali della responsabilità nei contratti. Coerente con questo quadro normativo è appunto la conclusione enunciata da Cass. 28233/2017 (tra le altre). In caso di immobili destinati a lunga durata, ove sia fatta valere la responsabilità ex art. 1669 c.c. , l’irrilevanza della circostanza che l’opera appaltata sia stata ultimata o meno, è una conseguenza logica della neutralizzazione (indotta da quel quadro normativo) delle regole generali sulla risoluzione del contratto per inadempimento (artt. 1453 ss. c.c.).

Tuttavia, l’art. 1669 c.c. contempla pur sempre il “compimento” fra gli elementi della propria fattispecie. Pertanto, dalla combinazione tra la cornice normativa della responsabilità in materia di appalto privato e il coerente orientamento della giurisprudenza di legittimità discende che la parola “compimento” debba poter riferirsi anche a casi in cui l’opera appaltata non sia stata ultimata. Ciò non è una contraddizione in termini, ma proprio una conferma del carattere speciale dell’art. 1669 c.c. , innanzitutto rispetto agli artt. 1667-1668 c.c. , come ci si avvia ad argomentare.

In caso di rovina, pericolo di rovina, gravi difetti, l’art. 1669 c.c. offre una (maggiore) tutela al committente. Siffatta maggiore tutela è da contemperare però con l’interesse imprenditoriale dell’appaltatore ad individuare con la maggiore certezza possibile il momento in cui il rapporto decennale di responsabilità si esaurisce. Ciò comporta innanzitutto l’esigenza di fissare in modo certo il dies a quo di decorrenza del termine, neutralizzando l’impatto negativo del maggiore fattore di incertezza: l’eventuale diatriba tra le parti sul contenuto dell’obbligazione assunta dall’appaltatore in base al contratto di appalto (esemplare sotto tale profilo è l’attuale caso di specie).

Il legislatore ha conseguito l’obiettivo delineando ex art. 1669 co. 1 c.c. una nozione di “compimento” autonoma rispetto all’oggetto dell’obbligazione che ha fonte nel contratto di appalto. Tale nozione rinviene, cioè, i propri tratti distintivi entro il campo tracciato dalla struttura e dalla funzione dell’art. 1669 c.c. Sul piano della struttura della fattispecie, saliente è l’assenza di qualsivoglia complemento di specificazione: “nel corso di dieci anni dal compimento”, senz’altro. Ciò suggerisce immediatamente all’interprete una lettura disciplinata e rigorosa, diretta a controllare (del resto inevitabili) precomprensioni, come quella di assumere che il significato della successiva parola (“opera”) coincida automaticamente (sempre e comunque) con l'”opera” di cui parla l’art. 1655 c.c. Le due parole possono – ma non debbono necessariamente (per tutto quanto si è argomentato nel corso di questo paragrafo) – significare la stessa cosa (la stessa opera).

3.3. – Proprio nel suo essere priva di complemento di specificazione, la parola “compimento” esibisce nondimeno – per così dire – una qualità di “intenzionalità”, nel senso letterale del tendere ad altro da sé: essa chiede all’interprete di ascriverle quella specificazione di cui è priva. Infatti, la domanda: “compimento di che?” rimane ineludibile e trova risposta attraverso la proiezione delle istanze di regolazione scaturenti di volta in volta dalla concreta controversia da decidere, pur nel contesto della direttiva che l’art. 1669 c.c. offre all’interprete in prospettiva generale. Si tratterà quindi di concretizzare il significato del compimento di quei lavori o di quell’opera di cui si allega la rovina totale o parziale ovvero il manifestarsi con evidenza di un pericolo di rovina o di un grave difetto, indipendentemente dalla circostanza che tali lavori o tale opera coincidano (o meno) con l’obbligazione oggetto del contratto di appalto.

Esemplare è il caso di specie: le lesioni sulle travi di fondazione e lo sfaldamento del cemento si sono “presentate evidenti” (nel senso di cui all’art. 1669 c.c.) nel 2022, mentre i lavori di cui si allega il grave difetto che le ha causate (la costruzione dei pilastri e di solai) si sono “compiuti” (sempre nel senso di cui all’art. 1669 c.c.) nel 1988. Entrambi tali fatti, che costituiscono gli elementi rilevanti per l’accertamento del la sussistenza del rapporto di responsabilità ex art. 1669 c.c. in capo all’appaltatore, sono incontestati nella loro collocazione temporale tra le parti. L’arco di tempo tra i due supera non di poco il decennio. Viceversa, le parti controvertono sull’individuazione dell’opera assunta dall’appaltatore ad oggetto della propria obbligazione ex art. 1655 c.c. , ma ciò è propriamente irrilevante. L’irrilevanza si accredita alla luce del concreto atteggiarsi del caso di specie, non già in linea generale. Ciò è frutto appunto della (relativa) autonomia (da concretizzare di volta in volta) dell’opera, dei lavori, dalla cui rovina o dal cui grave difetto sorge la responsabilità ex art. 1669 c.c. , rispetto all’opera oggetto dell’obbligazione dell’appaltatore ex art. 1655 c.c. In altre costellazioni potrà ben accadere (e forse potrà essere anche l’evenienza più frequente) che, per l’effetto dell’art. 1669 c.c. , si tratti esattamente del compimento della stessa opera oggetto del contratto di appalto.

3.4. – L’argomentazione svolta nei nn. 3.2. e 3.3. è un’implicazione logica tratta da Cass. 28233/2017, cui si dà continuità, aggiungendo che l’esigenza di certezza che presiede alla determinazione del dies a quo di decorrenza del termine decennale (ove una maggiore certezza si coniuga con un accorciamento della distanza tra il parametro e l’oggetto della valutazione) incontra conferme di realizzazione attraverso altri strumenti (irrilevanti nel caso di specie), come l’insensibilità a cause di sospensione o di interruzione del termine, cosicché il decennio ex art. 1669 c.c. si staglia nella sua qualità di “termine di sbarramento finale”.

3.5. – A questo punto aperta è la strada diretta a cogliere l’errore in cui è incorsa la Corte di appello laddove (p. 8), dal rilievo che il fatto generatore della responsabilità del costruttore risiede nella “gittata del calcestruzzo palesemente privo di qualità idonea a sopportare le ordinarie tensioni e pressioni”, ha tratto la conseguenza che “il termine decennale non risulti compiuto, avuto altresì riguardo alla notoria ed ordinaria data di consolidamento della struttura in conglomerato cementizio”.

Al contrario di quanto ritiene la Corte territoriale (e il controricorrente), tale soluzione non trova sostegno nella giurisprudenza di questa Corte. La Corte di appello invoca l’orientamento secondo il quale: “Ai fini della proponibilità dell’azione risarcitoria prevista dall’art. 1669 c.c. in caso di rovina o di gravi difetti di cose immobili destinate a durare nel tempo, il termine di dieci anni dal compimento dell’opera previsto da tale norma attiene alle condizioni di fatto che danno luogo a responsabilità del costruttore”. Tale è, in effetti, la parte rilevante della massima di Cass. 5920/1993 (citata dalla Corte territoriale e ripresa dal controricorrente) che ha trovato ripetute conferme nella giurisprudenza di legittimità fino alla recente Cass. 13707/2023.

A fondamento della propria conclusione, la Corte di appello ne ha tratto: se il termine di dieci anni dal compimento dell’opera previsto dall’art. 1669 c.c. attiene alle “condizioni di fatto che danno luogo a responsabilità del costruttore” (così la massima estratta da Cass. 5920/1993, ma identica è quella da Cass. 13707/2023), nel caso di specie la condizione di fatto generatrice della responsabilità sarebbe la “gittata del calcestruzzo palesemente privo di qualità idonea a sopportare le ordinarie tensioni e pressioni”. Tale condizione si è quindi verificata ben entro il decennio (anzi, già al momento della stessa costruzione), sebbene essa abbia impiegato molto tempo per manifestare il suo impatto lesivo, in considerazione della “notoria ed ordinaria data di consolidamento della struttura in conglomerato cementizio”.

L’argomento è (apparentemente) disarmante. Cosicché (in un certo senso) disarmante ha da essere anche la risposta. L’ordinamento giuridico italiano rinviene le proprie fonti nel diritto, per come esso è scritto nella Costituzione, nei codici e nelle leggi e per come esso è di conseguenza interpretato dalla giurisprudenza, ma l’interpretazione giurisprudenziale trova espressione esclusiva nel testo integrale delle sentenze, e non già nel testo delle massime, che non a caso (anche quando sono “ufficiali”) sono estratte da un ufficio cui sono addetti magistrati che in quella qualità esercitano una funzione amministrativa, non giurisdizionale. Alle massime vanno riconosciute funzioni di documentazione e di euristica: esse sono uno strumento di ricerca e di selezione delle sentenze rilevanti per la trattazione e la decisione del caso.

Ne segue che la massima in questione, certamente rilevante, rinvia al testo della sentenza e il significato di questa, a sua volta, è da cogliere alla luce della sua funzione interpretativa dell’art. 1669 c.c. , ove si dispone esplicitamente che, nel “corso di dieci anni dal compimento”, il grave difetto deve presentarsi come “evidente”. Non a caso, nel testo della sentenza che costituisce una delle espressioni più recenti di questo indirizzo (Cass. 13707/2023, cit. , p. 5 s.) si può leggere: “entro tale termine decennale devono verificarsi le condizioni di fatto che manifestano con evidenza il pericolo o il grave difetto della costruzione” (corsivo nostro, n.d.r.). Pertanto, la (parte di) massima giurisprudenziale di cui si discute è da leggere in questi termini: ai fini della proponibilità dell’azione risarcitoria prevista dall’art. 1669 c.c. , in caso di rovina o di gravi difetti di cose immobili destinate a durare nel tempo, il termine di dieci anni dal compimento dell’opera previsto da tale norma attiene alle condizioni di fatto che rendono evidente la responsabilità del costruttore ovvero, in modo ancora migliore: che rendono evidente il pericolo di rovina o i gravi difetti (scontando il tacito presupposto che la rovina totale o parziale sia di per sé evidente). Nel caso di specie, il grave difetto si è “presentato evidente” a distanza di quasi quindici anni dal “compimento”>>.

Solo che non convince la distinzione tra compimento e ultimazione. E’ vero che “compimento” letteralmente è diverso da “completamento”, ma il senso nell’art. 1669 pare il medesimo.

Mutui al tasso Euribor e contratti a valle di intese vietate perchè restrittive della concorrenza

Cass. sez. 3 sent. 12.007 del 3 maggio 2024, rel. Tatangelo, pone i seguenti principi di diritto (ex art. 363 cpc) (testo  da ilcaso.it):

«i contratti di mutuo contenenti clausole che, al fine di determinare la misura di un tasso d’interesse, fanno riferimento all’Euribor, stipulati da parti estranee ad eventuali intese o pratiche illecite restrittive della concorrenza dirette alla manipolazione dei tassi sulla scorta dei quali viene determinato il predetto indice, non possono, in mancanza della prova della conoscenza di tali intese e/o pratiche da parte di almeno uno dei contraenti (anche a prescindere dalla consapevolezza della loro illiceità) e dell’intento di conformare oggettivamente il regolamento contrattuale al risultato delle medesime intese o pratiche, considerarsi contratti stipulati in “applicazione” delle suddette pratiche o intese; pertanto, va esclusa la sussistenza della nullità delle specifiche clausole di tali contratti contenenti il riferimento all’Euribor, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 287 del 1990 e/o dell’art. 101 TFUE»; [prova sull’elemento soggettivo? da dare con dati fattuali]
«le clausole dei contratti di mutuo che, al fine di determinare la misura di un tasso d’interesse, fanno riferimento all’Euribor, possono ritenersi viziate da parziale nullità (originaria o sopravvenuta), per l’impossibilità anche solo temporanea di determinazione del loro oggetto, laddove sia provato che la determinazione dell’Euribor sia stata oggetto, per un certo periodo, di intese o pratiche illecite restrittive della concorrenza poste in essere da terzi e volte a manipolare detto indice; a tal fine è necessario che sia fornita la prova che quel parametro, almeno per un determinato periodo, sia stato oggettivamente, effettivamente e significativamente alterato in concreto, rispetto al meccanismo ordinario di determinazione presupposto dal contratto, in virtù delle condotte illecite dei terzi, al punto da non potere svolgere la funzione obbiettiva ad esso assegnata, nel regolamento contrattuale dei rispettivi interessi delle parti, di efficace determinazione dell’oggetto della clausola sul tasso di interesse»;
«in tale ultimo caso (ferme, ricorrendone tutti i presupposti, le eventuali azioni risarcitorie nei confronti dei responsabili del danno, da parte del contraente in concreto danneggiato), le conseguenze della parziale nullità della clausola che richiama l’Euribor per impossibilità di determinazione del suo oggetto (limitatamente al periodo in cui sia accertata l’alterazione concreta di quel parametro) e, prima fra quelle, la possibilità di una sua sostituzione in via normativa, laddove non sia possibile ricostruirne il valore “genuino”, cioè depurato dell’abusiva alterazione, andranno valutate secondo i principi generali dell’ordinamento»

La corte del Delaware in una ponderosa sentenza sul purpose della company (McRitchie v. Zuckerberg, et al.)

La court of chancery , giudice Leister, C.A. No. 2022-0890-JTL , 30 aprile 2024, (qui la pag. web della corte con lelenco  perlomeno ad oggi e qui link diretto al testo dell’opinion) ragiona sull’altgenrativca single-firm model (or firm-specific model) vs. Modern Modern Portfolio Theory diversification.

Segnalata dal prof.  Bainbridge.

Curiosa causa petendi: gli attori allegano la negligenza xcostituita dall’aver Zuck Sandbert etc. condotto Meta etc. con riguardo all’itneresse della società medesima e non deglio azionisti che hanno portafoglio diversidicati: i quali preferirebbero che Meta internalizzasse le esternalità prodotte per valorizzare al meglio i loro portafogli.

Forse mi sfugge qualcosa, ma ha dell’incredibile che si impegni una corte e che questa risponda con una setnenza di 101 opagg. su un punto che dovrebbe essere pacifico: gli amministgratori devono occuparsi di far rendere gli investimenti nella loro societò, non in eventuali altre in cui alcuni soci avessero per caso investito per diversificare (nemmeno nella modalità light di evitare loro dannosità facendosene carico in proprio).   Così facendo, al contrario, si renderebbero inadempienti al loro incarico.

Trattandosi di contratto, infatti, chi lo gestisce deve far fruttare quel contratto, non altri.

A parte il ns art. 2247 cc, la logica lo impone. Sarebbe invece giuridicamente illogico onerare gli amministratori di far fruttare investimenti in altri contratti sociali: a meno che i patti sociali questo dicano e che lo dicano in modo sufficientemente determinato.

Sintesi iniziale offerta dalla Corte:

<<Under the standard Delaware formulation, directors owe fiduciary duties to the corporation and its stockholders. Implicitly, the “stockholders” are the stockholders of the specific corporation that the directors serve, i.e., “its” stockholders.
The standard Delaware formulation thus contemplates a single-firm model (or firm-specific model) in which directors of a corporation owe duties to the stockholders as investors in that corporation. That point is so basic that no Delaware decisions have felt the need to say it. Fish don’t talk about water.
The plaintiff takes a different view. Capitalizing on the word “stockholders,” the plaintiff observes that stockholders are investors. The plaintiff then argues that under Modern Portfolio Theory, prudent investors diversify. Therefore, says the plaintiff, the law must operate on the assumption that a corporation’s stockholders are diversified. The plaintiff concludes that owing fiduciary duties to the corporation and its stockholders must mean owing duties that run to the corporation and its stockholders as diversified equity investors>>.

Affidamento in prova ai servizi sociali e limitazione della potestà genitoriale

Cass. sez. I, ord. 30/04/2024 n. 11.624, rel. Parise:

<<4.1. Secondo l’orientamento più recente di questa Corte, al quale il Collegio intende dare continuità (cfr. da ultimo Cass. 32290/2023), l’affidamento ai servizi sociali, oggi specificamente disciplinato dall’art. 5-bis della legge 4 maggio 1983 n. 184 (norma inserita dall’art. 28, comma 1, lett. d, del d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, con effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023) costituisce una species del più ampio genus dell’affidamento a terzi, ma presenta alcune peculiarità, in ragione della natura e delle funzioni dei servizi sociali ed anche delle ragioni che determinano il giudice della famiglia a scegliere un soggetto pubblico, avente compiti istituzionali suoi propri, prefissati per legge, e non una persona fisica individuata in ambito familiare. Qualora sia disposto l’affidamento del minore ai servizi sociali occorre distinguere, anche nel regime previgente all’entrata in vigore dell’art. 5-bis della legge 184/1983 (che trova la sua base normativa negli artt. 25 e 26 r.d.l. 1404/1934, conv. nella l. 835/1935, e succ. modif.), l’affidamento con compiti di vigilanza, supporto ed assistenza senza limitazione di responsabilità genitoriale (c.d. mandato di vigilanza e di supporto) dall’affidamento conseguente a un provvedimento limitativo della responsabilità genitoriale. Nel primo caso, si tratta del conferimento da parte del giudice di un mandato con l’individuazione di compiti specifici per assicurare la funzione di supporto ed assistenza ai genitori ed ai figli e per vigliare sulla corretta attuazione dell’interesse del minore. Questa tipologia di “affidamento” ai servizi, da definire come mandato di vigilanza e supporto, non incidendo per sottrazione sulla responsabilità genitoriale, non richiede, nella fase processuale che precede la sua adozione, la nomina di un curatore speciale, salvo che il giudice non ravvisi comunque, in concreto, un conflitto di interessi, e non esclude che i servizi possano attuare anche altri interventi di sostegno rientranti nei loro compiti istituzionali; richiede, tuttavia, che il provvedimento del giudice sia sufficientemente dettagliato sui compiti demandati – con esclusione di poteri decisori- e che siano definiti i tempi della loro attuazione, che devono essere il più rapidi possibili. Nel secondo caso, il provvedimento di affidamento consegue ad un provvedimento limitativo (anche provvisorio) della responsabilità genitoriale. Esso costituisce un’ingerenza nella vita privata e familiare (similmente all’affidamento familiare, sul punto v. Cass. 16569/2021) e, pertanto, deve essere giustificato dalla necessità di non potersi provvedere diversamente all’attuazione degli interessi morali e materiali del minore, non avendo sortito effetto i programmi di supporto e sostegno già svolti in favore della genitorialità; l’adozione di questo provvedimento presuppone la sua discussione nel contraddittorio, esteso anche al minore, i cui interessi devono essere imparzialmente rappresentati da un curatore speciale; i contenuti del provvedimento devono essere conformati al di proporzionalità tra la misura adottata e l’obiettivo perseguito e il giudice deve esercitare un’adeguata vigilanza sull’operato dei servizi. Pertanto si richiede, anche nel regime previgente alla entrata in vigore dell’art. 5-bis l. 184/1983, che i compiti dei servizi siano specificamente descritti nel provvedimento, in relazione a quelli che sono i doveri e i poteri sottratti dall’ambito della responsabilità genitoriale e distinti dai compiti che sono eventualmente demandati al soggetto collocatario se questi è persona diversa da i genitori; i servizi non possono svolgere funzioni e compiti propri della responsabilità genitoriale se non specificamente individuati nel provvedimento limitativo; deve essere necessariamente nominato, nella fase processuale che precede la sua adozione, un curatore speciale del minore, i cui compiti vanno pure precisati>>.

Applicazione al caso in esame:

<<4.2 Nel caso di specie la Corte distrettuale ha riscontrato in entrambi i genitori “carenze e capacità genitoriali limitate e in parte compromesse, nel caso del padre a causa di atteggiamenti violenti e note caratteriali”, mentre nei confronti della madre è stato espresso un giudizio di “fragilità per una sua certa immaturità e la sua conseguente difficoltà a gestire in maniera equilibrata la difficile situazione familiare”, determinata dall’aspra conflittualità con il marito e dalla conseguente incomunicabilità tra i genitori. La Corte di merito ha, pertanto, confermato la statuizione del Tribunale, che aveva disposto l’affidamento dei minori ai Servizi Sociali, e detto provvedimento ha connotazioni certamente limitative, quantomeno, della responsabilità genitoriale del padre, al quale sono consentiti incontri con i figli solo con modalità protette e rigidamente regolamentate, benché, invero, non risultino specificamente descritti nella sentenza impugnata i compiti dei Servizi.

L’adozione di questo provvedimento di affidamento limitativo, tuttavia, non è avvenuta all’esito di una discussione in un contraddittorio complesso esteso anche ai minori, i cui interessi fossero adeguatamente rappresentati da un curatore speciale processuale.

L’emersione nel corso del giudizio di comportamenti dei genitori pregiudizievoli degli interessi dei figli, costituiti dall’elevato livello di conflittualità tra loro esistente e dal conseguente profondo coinvolgimento dei bambini nel dissidio, poneva in capo ai giudici distrettuali il dovere di provvedere a tale nomina, in ragione del sopravvenuto conflitto di interessi con i genitori, non più idonei a rappresentare i minori. L’inottemperanza a questo dovere, il difetto di interlocuzione che ne è derivato e il difetto di rappresentanza dei minori hanno determinato, in applicazione dei principi in precedenza richiamati, la nullità della decisione impugnata in relazione alle statuizioni che riguardano la regolamentazione dei rapporti genitoriali e di ogni aspetto agli stessi connesso, sicché si impone la cassazione della sentenza, limitatamente a dette statuizioni, con rinvio alla Corte di merito>>

Licenza di marchio quando il licenziante è una comunione (anzichè una titolarità singolare): il caso Acanfora/Legea torna in Cassazione dopo la pausa alla Corte di Giustizia

Acanfora/Legea è il leading case sul tema in oggetto.

Dopo la sosta europea , torna in Italia presso il giudice remittente e viene deciso da  Cass. sez. I, sent. 19/04/2024  n. 10.637, rel. Terrusi, che, applicando l’interpretazione della CGUE, cassa con rinvio alla corte di appello napoletana.

<<XI. – Sennonché la sottostante questione di diritto va risolta in senso esattamente opposto, in base alla considerazione – di matrice dottrinale ma in certo qual senso già presente in giurisprudenza – per cui la concessione di licenze esclusive a terzi è un atto dispositivo del marchio, poiché, alterando la destinazione della cosa e impedendo agli altri partecipanti alla comunione di farne uso, incrina l’esclusività del diritto che è tipica della privativa.

Invero, se disposta a maggioranza, la concessione di licenze esclusive sul marchio è lesiva dei diritti di esclusiva dei dissenzienti.

La concessione in licenza implica infatti uno sfruttamento indiretto del bene immateriale. E lo sfruttamento indiretto è idoneo a vulnerare l’esclusiva che i titolari dissenzienti avrebbero diritto a mantenere integra.

Ne segue che quale che sia la durata della concessione (infra o ultranovennale o a tempo indeterminato) e la modalità (gratuita o meno) dell’attribuzione a terzi del diritto di utilizzazione in via esclusiva del marchio, quell’attribuzione, proprio perché esclusiva, implica un atto di disposizione giuridica suscettibile di un medesimo unico trattamento.

Poiché ogni decisione inerente allo sfruttamento del diritto comune di proprietà industriale è astrattamente idonea a pregiudicare l’interesse di ciascuno dei contitolari a preservare l’integrità del proprio diritto, la regola che viene in rilievo è quella posta dall’art. 1108, primo e terzo comma, cod. civ. per il modello degli atti pregiudizievoli; quegli atti che – come per es. l’alienazione o la costituzione di diritti reali, o anche la locazione ultranovennale -segnando il limite di compromissione del diritto “di alcuno dei partecipanti”, richiedono l’unanimità dei consensi.

Considerando poi che nella concessione del marchio a terzi è normalmente radicata proprio la concessione del diritto di esclusiva, essendo codesto un predicato della funzione del segno, il principio non può che comportare – nell’ottica dell’art. 6 del c.p.i. – una soluzione opposta a quella sostenuta dalla corte d’appello di Napoli>>.

Poi i principi affermati:

<<XIII. – Vanno quindi affermati i seguenti principi:

– in caso di comunione sul marchio, il contratto di licenza d’uso a terzi in via esclusiva richiede, per il suo perfezionamento, il consenso unanime dei contitolari, perché la concessione al licenziatario dell’esclusiva priva i contitolari del godimento diretto dell’oggetto della comunione, e dunque rileva secondo il disposto dell’art. 1108, primo e terzo comma, cod. civ.;

– ove la licenza sia stata concessa in via esclusiva con l’accordo unanime dei titolari è sempre possibile il venir meno della volontà di prosecuzione di uno dei medesimi, il quale non è vincolato in perpetuo alla manifestazione originaria; tale circostanza implica la necessità di rinegoziare l’atto mediante una nuova concessione, da concordare ancora una volta con unanimità dei consensi>>.

Il primo principio è esatto. Il secondo invece suscita serie perplessità: anzi pare errato, trascurando nella sua assolutezza la regole negozialmente pattuite, che non possono venire caducate dal ripensamento di un contitolare licenziante.