Prova della simulazione e impugnabilità per simulazione di una donazione inserita tra le condizioni di separazione o divorzio congiunti

Cass. sez. II,  ord. 30/04/2024 n. 11.525, rel. Fortunato:

Sul primo punto:

<<Non può condividersi la conclusione cui è pervenuto il giudice di merito, secondo cui la prova della simulazione poteva esser data per testi o per presunzioni solo in caso di perdita incolpevole del documento contenente la controdichiarazione.

Secondo il costante insegnamento di questa Corte, nel caso di simulazione di contratti formali, la prova soggiace a limitazioni diverse a seconda che si tratti di simulazione assoluta o relativa.

Nel primo caso, l’accordo simulatorio, pur essendo riconducibile tra i patti per i quali opera il divieto di cui all’art. 2722 c.c., non rientra tra gli atti per i quali è richiesta la forma scritta “ad substantiam” o “ad probationem”, menzionati dall’art. 2725 c.c., avendo natura ricognitiva dell’inesistenza del contratto apparentemente stipulato, sicché la prova testimoniale (e per presunzioni: Cass. 5296/1981) è ammissibile in tutte e tre le ipotesi contemplate dal precedente art. 2724 cod. civ. e quindi 1) se vi sia un principio di prova per iscritto costituito da qualsiasi scritto, proveniente dalla persona contro la quale è diretta la domanda o dal suo rappresentante, che faccia apparire verosimile il fatto allegato; 2) quando il contraente è stato nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta; 3) quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova (Cass. 4339/1983; Cass. 850/1986; Cass. 2998/1988; Cass. 697/1997; Cass. Cass. 10240/2007).

Per contro, solo nel caso di simulazione relativa occorre distinguere, poiché se la domanda è proposta da creditori o da terzi – che, essendo estranei al negozio, non sono in grado di procurarsi le controdichiarazioni scritte – la prova per testi o per presunzioni non può subire alcun limite; qualora, invece, la domanda venga proposta dalle parti o dagli eredi, la prova per testi, essendo diretta a dimostrare l’esistenza del negozio dissimulato, del quale quello apparente deve rivestire il necessario requisito di forma, è ammessa soltanto nell’ipotesi di cui al n. 3 dell’art. 2724 c.c., cioè quando il contraente ha senza colpa perduto il documento, ovvero quando la prova è diretta fare valere l’illiceità del negozio (Cass. 697/1997; Cass. 10240/2007; cfr. Cass. 18204/2017 secondo cui, in caso di simulazione relativa di un contratto di donazione, non si richiede che la controdichiarazione sia contenuta in un atto pubblico, essendo sufficiente la produzione della scrittura privata).

L’errore della Corte distrettuale è consistito, quindi, nell’aver ritenuto indimostrata l’esistenza della simulazione in mancanza della dimostrazione della perdita incolpevole della controdichiarazione, potendo invece far ricorso alla prova testi o per presunzioni anche negli altri casi di cui all’art. 2724 c.c., trattandosi di provare l’inesistenza del contratto e non l’esistenza di un contratto diverso>>.

Sul secondo:

<<Sostenendo che i negozi contenenti attribuzioni patrimoniali tra i coniugi, ove recepite tra le condizioni della separazione coniugale omologata, non sarebbero impugnabili per simulazione, la sentenza si è conformata ad un indirizzo non più attuale, poiché, sviluppando le argomentazioni delle S.U (sentenza n. 21761/2021), in ordine alla valenza negoziale di detti accordi e alla natura dichiarativa della pronuncia che ne convalidi la conformità alla legge, all’interesse dei figli e all’ordine pubblico nell’ambito della separazione omologata o del divorzio congiunto, la successiva giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che tali pattuizioni sono soggette alle ordinarie impugnative negoziali a tutela delle parti o di terzi (Cass. 24687/2022; Cass. 15169/2022; Cass. 10443/2019).

In caso di separazione consensuale o divorzio congiunto (o su conclusioni conformi), la pronuncia giudiziale incide sul vincolo matrimoniale mentre, riguardo all’accordo tra i coniugi, realizza – in funzione di tutela dei diritti indisponibili del soggetto più debole e dei figli – un controllo esterno.

Ne consegue la possibilità di far accertare la simulazione dei negozi familiari attributivi di beni immobili, non ostandovi l’intervenuto recepimento tra le condizioni della separazione omologata o del divorzio congiunto>>.

Il concetto di “consumatore medio” (art. 20 cod. cons.) deve prendere atto della razionalità limitata e dei bias cognitivi

Interessante opinione dell’AG Emiliou nel caso C-646/22, Compass Banca v. AGCM, Conclusioni 25.04.2024, su rinvio pregiudiziale del ns Cons. Stato.

La lite riguardava  la proposta abbinata di finanziamento e assicurazione da parte di Compass, ritenuta pratica aggressiva da AGCM.

Tra le questioni proposte qui interessa la prima:  << Se la nozione di consumatore medio di cui alla direttiva 2005/29/CE inteso come consumatore normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto – per la sua elasticità ed indeterminatezza – non debba essere formulata con riferimento alla miglior scienza ed esperienza e di conseguenza rimandi non solo alla nozione classica dell’homo oeconomicus ma anche alle acquisizioni delle (…) teorie sulla razionalità limitata che hanno dimostrato come le persone agiscono spesso riducendo le informazioni necessarie con decisioni “irragionevoli” se parametrate a quelle che sarebbero prese da un soggetto ipoteticamente attento ed avveduto[,] acquisizioni che impongono una esigenza protettiva maggiore dei consumatori nel caso – sempre più ricorrente nelle moderne dinamiche di mercato – di pericolo di condizionamenti cognitivi>>.

l’Ag supera una prima obiezione , quella della irrilevanza in causa per mera teoricità (e assenza di rilevanza in casua) della questione: giustamente l’AG la rigetta.

Poi, entrando nel merito, afferma che il concetto di consumatore medio comprende le fragilità cognitive o volitive e quindi i (più o meno frequenti, spesso inevitabili) casi di razionalità limitata (bounded rationality). Su di essi c’è letteratura sterminata : si pensi ai lavori di Herbert Simon, Tversky e il recentemente scomparso Kahneman (e al suo meravigliso libro Pensieri lenti, pensieri veloci) , di Thaler e alla sterminata produzione di Cass Sunstein (che si aggiunge a quella di costituzionalista e di altro ancora) , da noi Paolo Legrenzi etc.

Su tale teoria  si basa il filone dell’economa comportamentale.

<< 43.  Alla luce di questo più ampio contesto ritengo che lo scopo dell’espressione «normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto», contenuta nel considerando 18 della direttiva 2005/29, non sia quello di «alzare il livello» di quanto ci si può attendere da un consumatore tipico rispetto a una determinata prassi commerciale, richiedendogli di essere, ad minima, un individuo razionale che si attiva per ottenere le informazioni rilevanti, elabora razionalmente le informazioni a lui presentate ed è pertanto in grado di adottare decisioni consapevoli (più o meno come un «homo oeconomicus»). Tali termini sono volti piuttosto a garantire che gli organi giurisdizionali e le autorità nazionali non adottino la prospettiva di un consumatore a tal punto poco informato, attento e avveduto che sia irragionevole o sproporzionato proteggerlo. A tal riguardo, osservo che, nei suoi Orientamenti sull’interpretazione della direttiva 2005/29 (24), la Commissione ha espressamente escluso dall’ambito di applicazione della protezione unicamente il «consumatore acritico, ingenuo o disattento», la cui protezione sarebbe a suo avviso «sproporzionata e creerebbe un ostacolo ingiustificato agli scambi commerciali». Si tratta di una soglia minima piuttosto bassa.

44. Per queste ragioni, non condivido la posizione della Compass Banca secondo cui, per il fatto che la direttiva 2005/29 contiene una disposizione specifica sulla protezione di gruppi di consumatori «particolarmente vulnerabili» (segnatamente, il suo articolo 5, paragrafo 3), il «consumatore medio», cui si riferisce l’articolo 5, paragrafo 2, di tale atto sarebbe, a sua volta, un individuo in grado di agire sempre in modo razionale. A mio parere, il fatto che il legislatore dell’Unione abbia inteso riconoscere una protezione accresciuta a «gruppi particolarmente vulnerabili» di consumatori non significa che non intendesse fornire un elevato livello di protezione a consumatori non rientranti in detti gruppi, o che li abbia considerati quali individui invulnerabili, sempre perfettamente razionali.

45. In terzo luogo, l’obiettivo della direttiva 2005/29, che consiste nel fornire «un livello elevato di tutela dei consumatori», conferma, a mio parere, tale interpretazione. Infatti, tale funzione protettiva – che, come ho osservato nell’introduzione, rappresenta la struttura portante non soltanto della direttiva di cui trattasi, ma di molti dei testi di legge adottati dal legislatore dell’Unione nel settore della tutela dei consumatori – non sarebbe necessaria se il «consumatore medio» dovesse essere sempre considerato rispondente al modello dell’«homo economicus». A costo di dire un’ovvietà, non credo che il legislatore dell’Unione avrebbe adottato la direttiva 2005/29 (il cui obiettivo è di proteggere i consumatori da pratiche che possono «falsare in misura rilevante il [loro] comportamento economico»), se avesse ritenuto che i consumatori siano sempre in grado di agire in maniera razionale >>.

La presa di posizione è condivisibile. Se ne era già occupato Michele Bertani, Pratiche commerciali scorrette e consumatore medio, Giuffrè, 2016 (collana Quad. di Giur. Comm.), cap. II, §§ 1-3 (e spt. il § 3), con proposta analoga (p. 44-45).

Il reale problema teorico è quello del se la legge voglia tutelare il consumatore così come è opppure gli imponga una soglia minima di attenzione  che tutti devon raggiungere, per fruire della tutela.

Non è un problkema da poco e l’AG opta per la prima soluzione.

L’articolato della dir. nulla dice, se non “consumatore medio”.

Qualche (modesto) spunto in più nei considd. 18-19:

<< (18)  È opportuno proteggere tutti i consumatori dalle pratiche commerciali sleali. Tuttavia, la Corte di giustizia ha ritenuto necessario, nel deliberare in cause relative alla pubblicità dopo l’entrata in vigore della direttiva 84/450/CEE, esaminare l’effetto su un virtuale consumatore tipico. Conformemente al principio di proporzionalità, e per consentire l’efficace applicazione delle misure di protezione in essa previste, la presente direttiva prende come parametro il consumatore medio che è normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici, secondo l’interpretazione della Corte di giustizia, ma contiene altresì disposizioni volte ad evitare lo sfruttamento dei consumatori che per le loro caratteristiche risultano particolarmente vulnerabili alle pratiche commerciali sleali. Ove una pratica commerciale sia specificatamente diretta ad un determinato gruppo di consumatori, come ad esempio i bambini, è auspicabile che l’impatto della pratica commerciale venga valutato nell’ottica del membro medio di quel gruppo. È quindi opportuno includere nell’elenco di pratiche considerate in ogni caso sleali una disposizione che, senza imporre uno specifico divieto alla pubblicità destinata ai bambini, tuteli questi ultimi da esortazioni dirette all’acquisto. La nozione di consumatore medio non è statistica. Gli organi giurisdizionali e le autorità nazionali dovranno esercitare la loro facoltà di giudizio tenendo conto della giurisprudenza della Corte di giustizia, per determinare la reazione tipica del consumatore medio nella fattispecie.

(19) Qualora talune caratteristiche, quali età, infermità fisica o mentale o ingenuità, rendano un gruppo di consumatori particolarmente vulnerabile ad una pratica commerciale o al prodotto a cui essa si riferisce, e il comportamento economico soltanto di siffatti consumatori sia suscettibile di essere distorto da tale pratica, in un modo che il professionista può ragionevolmente prevedere, occorre far sì che essi siano adeguatamente tutelati valutando la pratica nell’ottica del membro medio di detto gruppo>>.

Le norme europee sulle libertà fondamentali si applicano non solo agli Stati ma anche ai privati, quando abbiano di fatto un’importanza paragonabile (Conclusioni dell’AG Szpunar sulle regole FIFA in tema di trasferimento dei calciatori)

Il sempre ottimo AG SZpunar ha depositato le sue conclusioni 30.04.2024 , C-650-22, FIFA c. BZ .

Sintesi:

– esamina il rapporto tra i due settori disciplinari Ue: concorrenza e libertà fondamentali (spt. quella di circolazione del lavoratrori)

– le regole FIFA li violano entrambi

– alle regole FIFA si applicano le regole sulle libertà fondametnali, pur se dettate per gli Stati (come detto espressamente per l’art. 15 Carta dir. fondam. -v. art. 51-  ma non per l’art. 45 TFUe).   Punto non da poco, affermato in modo veloce (pur citando un precedente CG del 1974) , che avrebbe meritato maggior svolgimento.

Ne riporto i passaggi:

<<32  Secondo la logica dei Trattati, tanto le libertà fondamentali quanto le norme sulla concorrenza sono funzionali all’obiettivo di garantire il funzionamento del mercato interno (14). A tal proposito, il Protocollo (n. 27) sul mercato interno e sulla concorrenza chiarisce espressamente che il mercato interno ai sensi dell’articolo 3 TUE comprende un sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata (15). L’idea originaria dei Trattati era che le libertà fondamentali fossero rivolte agli Stati membri in quanto soggetti pubblici, mentre le norme sulla concorrenza dovevano vincolare le imprese private.

33. Nel corso degli anni, tuttavia, la separazione di cui trattasi è divenuta più sfumata. Spesso è difficile negare che alcuni soggetti privati agiscono in modo simile a quello di uno Stato, per mera forza del loro potere economico o per il modo in cui emanano «norme», mentre vi sono altre situazioni in cui gli atti di uno Stato sono più simili a quelli di un’impresa privata. Pertanto, la Corte deve (o ha dovuto) stare al passo con siffatti sviluppi e la giurisprudenza si è evoluta: da un lato, in talune situazioni alcune delle libertà del mercato interno sono state applicate a soggetti privati (16), mentre, dall’altro, in altre situazioni, si è ritenuto che le azioni degli Stati membri rientrassero nell’ambito di applicazione del diritto della concorrenza (17). Una valutazione esaustiva e definitiva del tema di cui trattasi eccederebbe la portata delle presenti conclusioni>>.

Poi:

<< 75Tuttavia, come ho spiegato altrove, in una situazione come quella della presente causa, i soggetti privati come la FIFA sono funzionalmente paragonabili non già a un’istituzione dell’Unione, ma a uno Stato membro che cerca di giustificare una restrizione di una libertà fondamentale (51). La Corte ha costantemente affermato, a partire dalla sentenza Walrave e Koch (52), che le disposizioni del Trattato si applicano a un soggetto come la FIFA. Un siffatto soggetto è trattato come se fosse uno Stato membro che cerca di giustificare una restrizione di una libertà fondamentale (o, a seconda dei casi, una restrizione della concorrenza). Di conseguenza, è semplicemente logico che, in un’ipotesi del genere, le disposizioni della Carta si applichino a detto soggetto nel senso che esso è vincolato dalle stesse. In altri termini, se la Corte non ha avuto problemi ad applicare l’articolo 45 TFUE orizzontalmente a un soggetto come la FIFA, lo stesso deve valere per l’applicazione della Carta >>.

Prima di discutere sulla legittimità della costruzione rispetto ad una veduta, bisogna capire se esista il diritto di veduta (sugli artt. 905 e 907 cc)

Cass. sez. II,  sent. 23/02/2024  n. 4.816, rel. Falaschi:

<<La questione di diritto che il Collegio è chiamato a risolvere riguarda la legittimità o meno della apertura di vedute su un cortile di proprietà esclusiva di un edificio che perciò ne risulti gravato, con la peculiarità che tra l’edificio nel quale è realizzata la veduta ed il cortile non esiste nessun rapporto di accessorietà.

La giurisprudenza di legittimità che si è formata ha avuto riguardo a fattispecie in cui il cortile è comune ai due edifici e in ordine al quale si sono registrate due posizioni: in una fattispecie ha escluso l’applicabilità dell’orientamento che in mancanza di una disciplina contrattuale vincolante per i comproprietari al riguardo, il relativo uso è assoggettato alle norme sulla comunione in generale, e in particolare alla disciplina di cui all’art. 1102, comma 1 c.c. (Cass. 14 giugno 2019 n. 16069; Cass. 26 febbraio 2007 n. 4386; Cass. 19 ottobre 2005 n. 20200), in difetto del presupposto della proprietà comune del cortile.

Accanto a tale impostazione si è affiancata altra, che, a ben vedere, meglio si collega alla peculiarità della fattispecie in esame, secondo cui, anche in caso di accertata comunione di un cortile sito fra edifici appartenenti a proprietari diversi ed allorché fra il cortile e le singole unità immobiliari di proprietà esclusiva non sussista quel collegamento strutturale, materiale o funzionale, ovvero quella relazione di accessorio a principale, che costituisce il fondamento della condominialità dell’area scoperta, ai sensi dell’art. 1117 c.c., l’apertura di una veduta da una parete di proprietà individuale verso lo spazio comune rimane soggetta alle prescrizioni contenute nell’art. 905 c.c. Il partecipante alla comunione del cortile non può, in sostanza, aprire una veduta verso la cosa comune a vantaggio dell’immobile di sua esclusiva proprietà, finendo altrimenti per imporre di fatto una servitù a carico dell’edificio frontistante, applicabile ai rapporti tra proprietà individuali e beni comuni finitimi, che sono piuttosto disciplinati dalle norme che regolano i rapporti tra proprietà contigue od asservite (Cass. 21 ottobre 2019 n. 26807; Cass. 4 luglio 2018 n. 17480; Cass. 21 maggio 2008 n. 12989; Cass. 20 giugno 2000 n. 8397; Cass. 25 agosto 1994 n. 7511; Cass. 28 maggio 1979 n. 3092). Quest’ultimo orientamento ha trovato conferma in una recente pronuncia (Cass. 11 marzo 2022 n. 7971), con la quale è stato evidenziato che si tratta di rapporti tra proprietà individuali, anche se con beni comuni finitimi, che sono piuttosto disciplinati dalle norme che regolano i rapporti tra proprietà contigue od asservite.

Del resto, il riconoscimento di un diritto di veduta comporta una permanente minorazione della utilizzabilità del bene che ne è gravato da parte di chiunque ne sia o ne divenga proprietario, con attribuzione all’edificio limitrofo di un corrispondente vantaggio che a questo finisce per inerire come qualitas, ossia con le caratteristiche di realità tali da inquadrarsi nello schema delle servitù.

Nel caso in esame, il giudice di merito ha applicato seccamente la norma di cui all’art. 907 c.c. senza prima accertare in fatto se la situazione obiettiva trovasse fondamento in una previsione pattizia a titolo derivativo (tramite contratto) o a titolo originario (tramite usucapione o destinazione del padre di famiglia), fondando il proprio convincimento sulla mera anteriorità dell’apertura che da sola non può costituire il diritto di veduta, ritenendo peraltro erroneamente ricorrere ipotesi di non contestazione (tacita) circa lo stato dei luoghi descritto nei titoli di acquisto, confermata dall’eccezione di prescrizione con effetto liberatorio; trattasi di accertamento necessario per poter eventualmente escludere, alla luce del citato principio di diritto affermato dal Collegio, l’applicazione delle norme che regolano i rapporti tra proprietà contigue od asservite per far posto all’utilizzo del cortile nei termini fatti valere dalla originaria attrice.

Si rende necessario, dunque, un nuovo esame degli elementi di giudizio che tenga conto dei rilievi sopra esposti>>.

L’adempimento di un legato non signiica necessariamente accettazione tacita, potendo essere itneso diversamente ad es. come adempimento del terzo

Cass. sez. II, sent. 29/04/2024 n. 11.389, rel. Fortunato:

<<E’ noto che l’accettazione deve intendersi avvenuta tacitamente quando il chiamato compie un atto che presuppone necessariamente la volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella sua qualità di erede e di dominus dei beni ereditari (c.d. pro herede gestio).

Per aversi accettazione tacita di eredità non basta che il chiamato all’eredità abbia agito con l’implicita volontà di accettarla, ma è altresì necessario che si tratti di atto che egli non avrebbe diritto di porre in essere se non nella qualità di erede, occorrendo la necessaria sussistenza di entrambe le descritte condizioni.

E’ inoltre pacifico nella giurisprudenza di questa Corte – e nelle opinioni dottrinali assolutamente prevalenti – che non integra accettazione tacita di eredità il pagamento di un debito che il chiamato abbia eseguito con denaro proprio, poiché a tale adempimento può provvedere anche un terzo senza alcun esercizio di diritti successori (art. 1180 c.c.; cfr. Cass. 497/1965; Cass. 14666/2012; Cass. 20878/2020).).

Alle medesime conclusioni deve pervenirsi anche riguardo all’esecuzione di un legato, nel senso che il suo adempimento da parte del chiamato non integra necessariamente un atto di accettazione tacita, non ravvisandosi ostacoli per ritenere che anche una disposizione mortis causa a titolo particolare possa, per le più svariate ragioni, essere adempiute da un terzo, al pari dei debiti ereditari.

Non erano decisivi, per ravvisare necessariamente nel pagamento un atto di accettazione né che trattavasi di legato di genere, né l’assenza di denaro nel patrimonio ereditario, poiché anche in tale ipotesi, al contrario di quanto sostiene la resistente nelle memorie illustrative, il pagamento del legato può aver luogo non solo con disponibilità personali del chiamato, ma anche – ad es. – mediante la liquidazione di altri cespiti, mobiliari o immobiliari, presenti nell’asse e con l’impiego del ricavato.

Tuttavia, solo nel secondo caso, non anche nel primo, può configurarsi un atto (la liquidazione del patrimonio del de cuius) che solo l’erede ha il potere di compiere e che può comportare l’accettazione tacita e l’inefficacia di una successiva rinuncia.

D’altronde, la prestazione del legato non è subordinata all’esistenza di un attivo ereditario, poiché i limiti al soddisfacimento del legatario sono individuati esclusivamente nell’esistenza di una eredità accettata con il beneficio d’inventario e nella lesione della legittima (Cass. 1470/1972).

Neppure l’art. 662 c.c. (che prevede che, in mancanza di altre disposizioni del testatore, tenuti alla prestazione del legato sono solo gli eredi o i legatari), è di ostacolo a che il legato possa essere adempiuto da un terzo (art. 1180 c.c.) senza perciò integrare un atto che solo l’erede è in condizione di compiere, avendo la norma il diverso effetto di limitare la volontà del testatore, nel senso che questi non può porne l’onere a carico di soggetti diversi da quelli indicati, pena l’incoercibilità della disposizione (Cass. 1181/1967), oltre che di prevedere un criterio suppletivo di individuazione dei soggetti tenuti all’adempimento in mancanza di indicazioni del de cuius.

L’errore in cui è incorsa la Corte di merito è, perciò, consistito nell’aver qualificato il pagamento di entrambi i bonifici come atti di accettazione tacita, nel primo caso, riguardo al versamento eseguito in favore della madre del de cuius, per il fatto che il marito della ricorrente aveva agito su incarico di quest’ultima e in virtù della causale del bonifico quale acconto sul maggior importo dovuto, nel secondo caso, sul rilievo che a tale adempimento era tenuta la Mu.Ri. anche in assenza di somme nel patrimonio del testatore, omettendo di verificare con quali liquidità fossero stati effettuati entrambi i pagamenti (in particolare, riguardo al primo bonifico di Euro 7500,00, se le somme provenissero effettivamente dalla liquidazione del patrimonio ereditario), e ciò benché la Mu.Ri. avesse esplicitamente eccepito che il bonifico alla Di.Ro. era partito dai suoi conti personali e che nel patrimonio ereditario non vi erano liquidità al momento dell’apertura della successione, neppure per adempiere il legato in favore della madre>>.

Gli sconfinamenti non provano la conclusione per fatti concludenti di un contratto di apertura di credito

Cass. sez. I, ord. 24/04/2024 n. 11.016, rel. Terrusi:

premessa:

<<III. – In premessa è necessario evidenziare che il margine di rilevanza della questione sollevata si rinviene in ciò: che il rapporto bancario tra le parti era stato regolato da distinti conti correnti, due di questi chiusi rispettivamente il 22-11-1994 e il 22-12-1994, il terzo chiuso il 30-6-2000.

La causa era stata introdotta con citazione notificata il 20-3-2008.

In base alla sentenza, la banca aveva eccepito la prescrizione nel decennio anteriore alla notifica della citazione, quanto alle pretese relative ai primi due conti, e la prescrizione in ordine a tutte le pretese creditorie sorte prima della scadenza del decennio antecedente alla notifica dell’atto di citazione quanto al terzo, giacché non era “stata provata dall’attore la stipula di un contratto di apertura di credito per la cui validità è richiesta la forma scritta”.

IV. – La corte d’appello ha ritenuto che il termine di prescrizione fosse stato interrotto dal correntista con una lettera racc. del 25-10/2-11-2000, e che i versamenti erano stati eseguiti dal Sa.Vi. sul conto corrente affidato in costanza di rapporto, con conseguente funzione ripristinatoria della provvista.

Questo perché era rimasto incontestato il presupposto di esistenza dell’apertura di credito, per le ragioni indicate in narrativa, e altresì perché la funzione ripristinatoria era stata confermata dalle consulenze eseguite nel corso del giudizio, dalle quali non era emerso che vi fossero state “rimesse a copertura di un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento”>>.

Poi la Sc va al punto:

<< V. – Sennonché, anche prescindendo dal profilo coinvolgente l’art. 115 cod. proc. civ. quanto ai fatti affermati come non contestati al di fuori dell’effettivo esame delle difese delle parti, è essenziale osservare che è apodittica l’affermazione della corte d’appello di Napoli a proposito del riconoscimento della stipulazione di un’apertura di credito per fatti concludenti.

La sentenza ha ritenuto che, non essendo ratione temporis necessaria la forma scritta per i contratti bancari, l’avvenuta stipulazione del contratto di apertura di credito si sarebbe dovuta considerare in base a fatti desumibili dalla non contestazione dell’affidamento del cliente.

E tuttavia le indicazioni in ordine a un affidamento di fatto non sono conformate all’orientamento di questa Corte.

L’art. 3 della legge 17 febbraio 1992, n. 154, ha imposto l’obbligo della forma scritta ai contratti relativi alle operazioni e ai servizi bancari.

Non è in discussione che, nel regime previgente, fosse invece consentita la conclusione per fatti concludenti di un contratto di apertura di credito (tra le varie, Cass. Sez. 1 n. 17090-08).

Ma pur sempre occorreva che i “fatti” deponessero, ratione temporis, per la avvenuta stipulazione di quel contratto specifico, rispondente, cioè, al regime degli artt. 1842 e 1852 cod. civ., sicché la banca si fosse obbligata a tenere una somma di danaro per un dato periodo di tempo o a tempo indeterminato a disposizione del cliente, con diritto di questi di disporre della stessa in più volte, secondo le forme d’uso (salva diversa convenzione) ovvero in qualsiasi momento, e quindi anche immediatamente dopo l’apertura del credito (v. Cass. Sez. 1 n. 1225-00, Cass. Sez. 1 n. 8662-97, Cass. Sez. 1 n. 5389-98).

VI. – In tale ambito, riprendendo precisazioni fatte soprattutto in materia di revocatoria fallimentare di rimesse in conto corrente bancario, questa Corte ha sottolineato che (ratione temporis) la prova della esistenza di un contratto di apertura di credito alla data della rimessa, alla quale correlare la natura non solutoria della medesima, poteva essere assolta anche per facta concludentia, nel caso in cui risultasse applicabile la deroga del requisito della forma scritta prevista nelle disposizioni adottate dal Cicr e dalla Banca d’Italia ai sensi dell’art. 117 del T.u.b. e, anteriormente, ex art. 3 della legge n. 154 del 1992, purché il contratto risultasse essere stato in qualche modo previsto e disciplinato da quello di conto corrente stipulato per iscritto (v. Cass. Sez. 1 n. 14470-05, Cass. Sez. 1 n. 19941-06); e quindi a condizione che emergesse per lo meno l’ammontare dell’affidamento accordato al correntista.

D’altronde è intuitivo che una cosa è l’affidamento in apertura di credito in conto corrente, tutt’altra cosa la mera esistenza – eventualmente desunta da un atteggiamento tollerante della banca – di una linea di credito attivabile dal cliente mediante distinte pratiche di sconfinamento. La stessa annotazione nel libro fidi di una banca degli estremi di un affidamento, con riferimento sia al limite dello scoperto sia alla delibera interna di concessione, ancorché corrisposta da una situazione di fatto caratterizzata dallo svolgimento di un conto passivo con adempimenti reiterati da parte della banca di ordini di pagamento del correntista, in assenza di provvista e nell’ambito dei limiti di rischio dalla stessa banca preventivamente valutati, è stata sempre normalmente ritenuta non dimostrativa – in sé – della stipulazione per fatti concludenti di un contratto di apertura di credito in conto corrente, per l’appunto in quanto una tale situazione di fatto può trovare fondamento in una posizione di mera tolleranza da parte della banca; la quale ha la possibilità di controllare la situazione patrimoniale e finanziaria del correntista e fare immediato ricorso a forme sollecite di copertura e tutela (cfr. già Cass. Sez. 1 n. 12947-92).

In altre parole, in difetto di una concreta prova del contratto di apertura di credito, gli sconfinamenti del cliente rispetto al tetto massimo riconosciutogli devono ritenersi frutto di mera tolleranza da parte dell’istituto di credito e non anche dimostrativi, di per sé solo, dell’esistenza di un tale contratto da desumersi per facta concludentia (Cass. Sez. 1 n. 9018-98, Cass. Sez. 1 n. 686-99)>>.