Il punto della Cassazione sull’amministrazione di sostegno

Cass. sez. I, ord. 17/09/2024  n. 24.878, rel. Russo R. E. A.:

<<Deve qui ricordarsi che l’amministrazione di sostegno è uno strumento volto a proteggere la persona in tutto o in parte priva di autonomia, in ragione di disabilità o menomazione di qualunque tipo e gravità, senza mortificarla e senza limitarne la capacità di agire se non -e nella misura in cui- è strettamente indispensabile; la legge chiama il giudice all’impegnativo compito di adeguare la misura alla situazione concreta della persona e di variarla nel tempo, così da assicurare all’amministrato la massima tutela possibile con il minor sacrificio della sua capacità di autodeterminazione (Cass. sez. un., 30/07/2021, n.21985Cass., sez. I 27 settembre 2017, n. 22602, Cass. sez. I, 11 maggio 2017, n. 11536; Cass. civ. sez. I 26 ottobre 2011, n. 22332; Cass. civ. sez. I 29 novembre 2006, n. 25366; Cass. civ. sez. I 12 giugno 2006, n. 13584; Cass. civ, sez. I, 11 settembre 2015, n. 17962).

Introducendo l’amministrazione di sostegno, il legislatore ha dotato l’ordinamento di una misura che può essere modellata dal giudice tutelare in relazione allo stato personale e alle circostanze di vita di ciascun beneficiario e in vista del concreto e massimo sviluppo delle sue effettive abilità. Così l’ordinamento mostra una maggiore sensibilità alla condizione delle persone con disabilità, è più attento ai loro bisogni e allo stesso tempo più rispettoso della loro autonomia e della loro dignità di quanto non fosse in passato, quando il codice civile si limitava a stabilire una netta distinzione tra soggetti capaci e soggetti incapaci, ricollegando all’una o all’altra qualificazione rigide conseguenze predeterminate. Nell’assolvere a questi compiti di protezione della persona, non è la gravità della malattia o menomazione che deve orientare il giudice, ma piuttosto la idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa (Corte Cost. 10/05/2019 n.114; Cass. civ. sez. I 4/03/ 2020, n. 6079; Cass. sez. I del 12 /06/ 2006 n. 13584).

La flessibilità è il tratto distintivo di questa misura di protezione, che non ha una disciplina legale predeterminata in ogni suo aspetto, posto che la normativa lascia ampi spazi di regolamentazione e di adattamento della misura al caso concreto (il c.d. vestito su misura). Il giudice verifica, da un lato, le competenze della persona e cioè le sue capacità e abilità, e, dall’altro, le sue carenze, muovendo dal presupposto che la persona potrebbe essere in grado di autodeterminarsi e di esercitare con sufficiente avvedutezza taluni diritti, ovvero operare in taluni ambiti della vita sociale ed economica, mentre potrebbe non essere abile e competente in altri settori. In esito a tale verifica il giudice, oltre a decidere l’an della misura, deve anche definire e perimetrare i compiti e i poteri dell’amministratore, in termini direttamente proporzionati all’incidenza degli accertati deficit sulla capacità del beneficiario di provvedere ai suoi interessi, di modo che la misura risulti specifica e funzionale agli obiettivi individuali di tutela, altrimenti implicando un’ingiustificata limitazione della capacità di agire della persona (Cass. 02/11/2022, n.32321).

La disciplina legale della misura, come si è detto, si caratterizza per una maggiore attenzione alla dignità della persona, il che significa che la sua volontà, nei limiti del possibile, deve essere rispettata. L’opinione del beneficiario non può essere considerata minusvalente solo perché espressa da un soggetto fragile, disabile, affetto da malattia psichica, poiché in tal modo si riproporrebbe uno schema rigido fondato su regole predeterminate, spesso desunte da dogmi indimostrati e talora discriminatori; invece di valutare, come richiede un approccio orientato al rispetto dei diritti umani, se nel caso concreto è possibile ed in quale misura rispettare la volontà dell’interessato senza pregiudizio per i suoi interessi (Cass. n. 7414 del 20/03/2024, in motivazione).

3.- In sintesi, la misura si giustifica in quanto, in primo luogo, si accerti un deficit e cioè che la persona non è in grado di provvedere, da sola o eventualmente con il supporto della rete familiare, ai suoi interessi, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica (art 404 c.c.), tenendo conto, nei limiti del possibile, della volontà del beneficiario, ovvero, se deve disporsi diversamente, motivando adeguatamente sul punto.

La misura può avere finalità di mero supporto, oppure, ove il giudice tutelare ritenga di estendere al beneficiario le limitazioni e decadenze previste per l’interdetto o l’inabilitato (art 411 c.c.) comportare il conferimento all’amministratore di specifici poteri di rappresentanza o di assistenza, analoghi rispettivamente a quelli del tutore o del curatore, e nei limiti strettamente necessari a proteggere gli interessi del beneficiario, ma non può essere essa stessa un mezzo istruttorio e di monitoraggio, poiché l’accertamento del deficit di competenze deve precedere e non seguire la misura>>.

Sempre sul mantenimento del figlio maggiorenne ma economicamente non autosufficiente

Cass. sez. I, ord. 28/10/2024 n. 27.818, rel. Tricomi:

<<4.1.- In materia di mantenimento del figlio maggiorenne e non autosufficiente, i presupposti su cui si fonda l’esclusione del relativo diritto, oggetto di accertamento da parte del giudice del merito e della cui prova è gravato il genitore che si oppone alla domanda, sono integrati: dall’età del figlio, destinata a rilevare in un rapporto di proporzionalità inversa per il quale, all’età progressivamente più elevata dell’avente diritto si accompagna, tendenzialmente e nel concorso degli altri presupposti, il venir meno del diritto al conseguimento del mantenimento; dall’effettivo raggiungimento di un livello di competenza professionale e tecnica del figlio e dal suo impegno rivolto al reperimento di una occupazione nel mercato del lavoro (Cass. n. 38366 /2021). Inoltre, ove il figlio dei genitori separati abbia ampiamente superato la maggiore età, e non abbia reperito una occupazione lavorativa stabile o che, comunque, lo remuneri in misura tale da renderlo economicamente autosufficiente, adeguata alle sue competenze, non può soddisfare l’esigenza ad una vita dignitosa, alla cui realizzazione ogni giovane adulto deve aspirare, mediante l’attuazione dell’obbligo di mantenimento del genitore, bensì attraverso i diversi strumenti di ausilio, ormai di dimensione sociale, che sono finalizzati ad assicurare sostegno al reddito, ferma restando l’obbligazione alimentare da azionarsi nell’ambito familiare per supplire ad ogni più essenziale esigenza di vita dell’individuo bisognoso (Cass. n.29264/2022; Cass. n. 12123/2024)>>.

Due osservazioni:

1) si noti l’onere della prova, erroneamente posto sul genitore;

2) l’assenza di diritto all’assegno, se il figlio è ampiamente (quanto?) maggiorenne: insegnamento diffuso, ma privo di base testuale e con base logico giuridica alquanto incerta, qualora egli abbia attuato seri sforzi per “emanciparsi”.

Il diritto di riproduzione dei beni culturali è una privativa pubblicistica e non privatistica: per cui non è avvicinabile al diritto di autore

Gilberto Cavagna ci informa di un’interessante sentenza di appello, App. Bologna , Aceto Balsamico del Duca di Adriano Grosoli srl c. Min. Beni culturali, RG 162/2020, rel. Donofrio, relativo all’ormai importante tema dello sfruttamento commerciale (non autorizzato)  della riproduzione di beni culturali (art. 106 ss TU 42/2004).

Si trattava dell’inserimento in un marchio della riproduzione del quadro di Velasquez, raffigurante il Duca Francesco I di Este.

In primo grado la domanda di danno del Ministero era stata accolta e la srl aveva appellato.

In appello la sentenza viene in sostanza confermata, anche se per alcuni anni viene affermata la prescrizione (quinquennale) del credito per canoni omessi.

I punti più importanti :

i) la privativa cit. è pubblicistica , per cui non avvicinabile a quelle privatistiche tipiche (autore, marchi etc.). Ne segue che non sottosta alla necessità di pubblico dominio confermata dall’art. 14 Dir. Copyright (nella stessa ottica la disposizione nazionale attuativa, art. 32 quater l. aut.,  esenta ilcod. beni culturali).

Ci si potrebbe naturalmente chiedere se la disciplina nazionale fosse compatibile con la cit. norma UE.

ii) la sua disciplina non contrasta con alcuna disposizione costituizionale interna (“Si deve inoltre ritenere totalmente infondata la questione di costituzionalità come prospettata dall’appellante in rapporto all’asserito contrasto tra la normativa in materia di beni culturali e gli articoli 3, 9 10, 41,76 e 77 della Costituzione, giacchè, come già sopra evidenziato, i beni sottoposti a vincolo culturale ricevono dall’ordinamento una tutela pubblicistica in quanto espressione di un’identità collettiva che l’ordinamento intende preservare. Pertanto, la durata temporale illimitata dei diritti relativi ai beni culturali non appare irragionevole, ma risponde a prevalenti ragioni costituzionali di valorizzazione e fruizione collettiva degli stessi, escludendo, di conseguenza, una qualsiasi disparità di trattamento tra enti pubblici e privati nella gestione di tali beni, poiché soltanto i primi possono assicurarne un uso compatibile con le esigenze dell’ordinamento“).

iii) essa è avvicianabile invece al diritto al nome e al ritratto, per cui è ammessa l’inibitoria.

Il punto iii) è però assai dubbio ed anzi errato: parificare un diritto sulla res (seppur per ragioni di pubblica utilità) ad un diritto personalissimo come nome ed immagine non ha fondamento. L’insistere sulla sua ratio pubblicistica impedisce di (e contasta col) ravvisare l’eadem ratio, necessaria per invocare l’analogia coi citt. diritto a nomne e immagine.

Grazie a Gilberto per l’utile aggiornamento.

Sulla disciplina della fotografia semplice ex art. 87 ss l. aut.

Trib. Milano 31.08.2023 , RG 43030/2019, Appetito c. RSC, rel. Marangoni, sull’uso di una fotografia di Alberto Sordi sscatata nel 1979 durante le riprese di Il malato immaginario.

Il T. qualifica come fotografia semplice:

<<La valutazione della fotografia nel suo complesso non può che condurre ad assegnare alla stessa la più
limitata tutela di cui agli artt. 87 e ss. l.a.
Invero, l’immagine è pacificamente quella eseguita nel corso delle riprese del film “Il malato
immaginario” e rappresenta il protagonista del personaggio principale dell’opera interpretato
dall’attore Alberto Sordi in una posa della narrazione stessa, e cioè in un letto e in camicia da notte.
L’immagine ripresa dall’Appetito costituisce con evidenza la mera ripresa della rappresentazione del
personaggio nei termini e nell’aspetto scelti per la raffigurazione filmica di esso, senza che sia in effetti
individuabile l’aggiunta o l’integrazione in tale fotografia di scena di profili di caratterizzazione o di
creatività specificamente attribuibili al fotografo, al di là cioè di quelli che possono ritenersi pertinenti
alle scelte registiche, comprendenti anche gli aspetti scenografici e i costumi prescelti per la
rappresentazione stessa di quella particolare scena>>

A nulla serve che sia inserita in un Archivio storico: la valtuazione va fatta solo a sensi della l. aut.

Ne segue però che l’usoda parte di RCS, non menzinante il nome del fotografo, essendo avvenuto nel 2018 e cioè decorso il ventennio di protezione ex lege (art. 92), fu lecito.

Innteressante  è l’aggancio a tale temrine anche di quello del diritto morale di essere menzioanto ex art. 90 n. 1 l. aut.:

<<La disposizione dell’art. 90, comma 1 l.a. – che esige che gli esemplari della fotografia debbano essere
diffusi con la menzione dell’autore (o del soggetto titolare dei diritti di utilizzazione economica, quali
ad esempio il committente della stessa) – è evidentemente predisposta al fine di consentire
l’opponibilità dei diritti connessi del fotografo (o dei titolari dei diritti sull’immagine) ai terzi, sicchè –
a mente del secondo comma della medesima disposizione di legge – la mancanza di tali indicazioni
determina la libera riproducibilità dello scatto da parte di terzi.
Se, dunque, tale ipotesi comunque non pare attenere in sé alla tutela del diritto morale dell’autore della
fotografia – in quanto specificamente rivolta a consentire l’opponibilità dei diritti connessi
sull’immagine ai sensi degli artt. 88 e ss. l.a. – deve rilevarsi che l’imporre in epoca successiva alla
scadenza fissata dall’art. 92 l.a. ad un utilizzatore di un’immagine in libera riproduzione l’onere di
menzionare il nome dell’autore, oltre ad non essere stabilito da alcuna disposizione attinente alle
fotografie “semplici”, sarebbe evidentemente eccessivo e di fatto inesigibile, laddove – come nel caso
di specie – l’immagine sembrerebbe essere circolata priva di tale indicazione.
La semplice omissione del nome dell’autore – ove intervenuta la scadenza prevista dall’art. 92 l.a. –
non può costituire dunque fonte di illecito, mentre il richiamo a principi generali che consentono ad
ogni individuo di rivendicare la paternità del frutto delle proprie attività potrebbe trovare un
fondamento nella particolare ipotesi (qui non sussistente) in cui la paternità dell’immagine sia stata attribuita a persona diversa>>

 

Un caso di nullità contrattuale per abuso di dipendenza economica

Cass. sez. I, ord. 23/10/2024 n. 27.420, rel. Crolla:

<<4.4 Questa Corte (cfr. Cass. n. 1184/2020) ha affermato che nell’applicazione della norma, è necessario: 1) in primo luogo, con riguardo alla sussistenza della situazione di dipendenza economica, indagare non se sussista una situazione di mero squilibrio o “asimmetria” di diritti e di obblighi, ma se lo squilibrio sia “eccessivo” (L. n. 192 del 1998, art. 9, comma 1) e se l’altro contraente fosse realmente privo di alternative economiche sul mercato (rilevando, ad esempio, la dimensione della società dipendente, che non permetta agevolmente di differenziare la propria attività, o l’avere adeguato l’organizzazione e gli investimenti in vista di quel rapporto); 2) in secondo luogo, indagare sulla condotta arbitraria contraria a buona fede, ovvero sull’intenzionalità di una vessazione perpetrata sull’altra impresa, in vista del perseguimento di fini esulanti dalla lecita iniziativa commerciale retta da un apprezzabile interesse economico dell’impresa dominante (quale potrebbe essere, ad esempio, la legittima esigenza di modificare le proprie strategie di espansione, di adattare il tipo o la quantità del prodotto, ma anche di spuntare legittimamente migliori condizioni), in quanto volta, al contrario, essenzialmente a cagionare il pregiudizio altrui. Non ogni situazione di dipendenza economica può dirsi vietata, ma unicamente quella che sia abusivamente sfruttata dalla parte dominante, al fine di trarne vantaggi ulteriori rispetto a quelli derivanti dal legittimo esercizio della propria autonomia negoziale>>.

Applicati al caso sub iudice:

<<4.4 Il Tribunale ha fatto corretta applicazione di tali principi ritenendo provata l’instaurazione di una situazione in cui una impresa (Be.) era in grado di determinare, nei rapporti commerciali con la fallita, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi sulla base dei seguenti elementi: i) la stipula del contratto di affitto d’azienda per il negozio Be. in via (omissis) al V (N) nonché quello in C con relative autorizzazioni all’uso del marchio e dei relativi prodotti a pochi mesi dalla costituzione della società; ii) le modalità della locazione d’azienda “senza personale e senza merci”, l’entità del corrispettivo di circa un milione di Euro all’anno e la previsione della clausola “(Be.) rimane, e rimarrà, libera di prendere qualsivoglia determinazione per quanto concerne l’esecuzione ovvero lo scioglimento dei propri rapporti”; iii) le previsioni di condizioni generali di vendita e di fissazione dei prezzi che lasciavano ampia discrezionalità alla Be. ed attribuivano quest’ultima, oltre che situazioni contrattuali vantaggiose, penetranti poteri sulle modalità di vendita, percentuali della scontistica da applicare, i periodi promozionali, le linee da promuovere lo stile gli allestimenti, circa le autorizzazioni e le condizioni generali di vendita; iv) la circostanza, risultante dai bilanci e dalla documentazione contabile della società in fallimento, che l’unico cliente e fornitore della fallita è stato Be. per tutta la sua “esistenza commerciale” e che in ciascun anno di esercizio la società in fallimento ha appostato al passivo milioni di Euro verso la Be. (per forniture e locazione); v) le condizioni e qualità dei contraenti (una società di capitali di modeste dimensioni il cui “business” era rappresentato esclusivamente dai rapporti con un grande gruppo industriale quale è Be.).

4.5 Si tratta di accertamenti in fatto, non suscettibili di essere messi in discussione in questa sede; essi, contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, danno conto, oltre che dell’evidenza della situazione di squilibrio, in conseguenza della chiara ed abusiva posizione dominante di Be. a fronte della dipendenza economica della contraente più debole, costretta a sottostare a qualsiasi pretesa, anche della impossibilità o della difficoltà della società fallita di reperire sul mercato adeguate alternative>>

Lectio su eredità beneficiata e creditori del de cuius

Cass. sez. II, sent. 24/10/2024 n. 27.626, rel. Pirari:

<<E invero, come noto, l’accettazione dell’eredità con beneficio di inventario, disciplinata negli artt. 490 – 509 cod. civ., ha l’effetto, ai sensi dell’art. 490, primo comma, cod. civ., di tenere distinto il patrimonio del defunto da quello dell’erede, dando luogo alla formazione di un patrimonio separato, che si pone in termini di eccezione rispetto al principio generale di cui all’art. 2740 cod. civ., secondo il quale il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri.

Il ridetto art. 490 cod. civ., nel descrivere gli effetti di questo particolare istituto, stabilisce, infatti, al secondo comma, che 1) l’erede conserva verso l’eredità tutti i diritti e tutti gli obblighi che aveva verso il defunto, tranne quelli estinti per effetto della morte, che 2) egli non è tenuto al pagamento dei debiti ereditari e dei legati oltre il valore dei beni a lui pervenuti e 3) che i creditori dell’eredità e i legatari hanno preferenza sul patrimonio ereditario di fronte ai creditori dell’erede, disposizione questa cui si correla l’art. 2830 cod. civ., che vieta, in caso di beneficio di inventario, l’iscrizione di ipoteche giudiziali sui beni ereditari nemmeno in base a sentenze pronunciate anteriormente alla morte del debitore, con lo scopo di assicurare la par condicio creditorum tra tutti i creditori ereditari e di evitare che taluni possano avvantaggiarsi rispetto ad altri iscrivendo ipoteche giudiziali (in questi termini, Cass., Sez. 1, 17/10/1966, n. 2482).

Il fulcro del funzionamento dell’istituto è proprio quello descritto nel n. 2) del secondo comma dell’art. 490 cod. civ., in quanto stabilisce che l’erede risponde dei debiti ereditari e dei legati non soltanto intra vires hereditatis, cioè non oltre il valore dei beni pervenuti a titolo di successione, ma anche cum viribus hereditatis, ossia pagando soltanto con i beni ereditari e non anche con i beni propri sia pure fino alla concorrenza del valore dei beni ereditari, senza conformare il diritto di credito azionato, che resta immutato nella sua natura, portata e consistenza, ma segnando i confini della sua soddisfazione, nel senso che ne consente la realizzazione soltanto con i beni dell’eredità e non già con quelli personali dell’erede, nei limiti del loro valore (in tal senso, Cass., Sez. 2, 27/7/2022, n. 23398; Cass., Sez. 2, 29/09/2020, n. 20531, in motivazione; Cass., Sez. 2, 22/12/2020, n. 29252; Cass., Sez. 3, 2015, n. 7090; Cass., Sez. 5, 19/3/2007, n. 6488).

Che poi il limite della responsabilità dell’erede si riferisca non soltanto al valore dei beni relitti, ma anche agli stessi beni (cum viribus hereditatis), è confermato, secondo quanto affermato dalla dottrina, da molteplici elementi, rinvenibili nella facoltà di rilascio dei beni consentita all’erede dall’art. 507 cod. civ., nell’esclusione dei beni personali dell’erede per il pagamento dei debiti ereditari sancito dall’art. 497 cod. civ. (sulla mora del debitore) e nella surrogazione legale concessa all’erede che paga con denaro proprio i debiti ereditari dall’art. 1203, n. 4, cod. civ.

Ciò comporta che il diritto al rimborso dell’erede e la stessa surrogazione può configurarsi non soltanto quando questi paghi i debiti ereditari ultra vires hereditatis, ma anche quando lo faccia con propri beni e non con quelli relitti.

6.3 Proseguendo con la disciplina della eredità beneficiata, occorre osservare come l’art. 484 cod. civ., nel prevedere che l’accettazione con beneficio d’inventario si fa con dichiarazione, preceduta o seguita dalla redazione dell’inventario, delinei una fattispecie a formazione progressiva di cui sono elementi costitutivi entrambi gli adempimenti ivi previsti, atteso che sia la prevista indifferenza della loro successione cronologica, sia la comune configurazione in termini di adempimenti necessari, sia la mancanza di una distinta disciplina dei loro effetti, fanno apparire ingiustificata l’attribuzione all’uno dell’autonoma idoneità a dare luogo al beneficio, salvo il successivo suo venir meno, in caso di difetto dell’altro. Da ciò consegue che, se da un lato la dichiarazione di accettazione con beneficio d’inventario ha una propria immediata efficacia, determinando il definitivo acquisto della qualità di erede da parte del chiamato che subentra perciò in universum ius defuncti, compresi i debiti del de cuius, d’altro canto essa non incide sulla limitazione della responsabilità intra vires, che è condizionata (anche) alla preesistenza o alla tempestiva sopravvenienza dell’inventario, in mancanza del quale l’accettante è considerato erede puro e semplice (artt. 485,487,488 cod. civ.) (in questi termini Cass., Sez. 2, 9/8/2005, n. 16739).

Orbene, come già affermato da questa Corte, l’accettazione beneficiata pone l’erede-debitore in una posizione più favorevole nei confronti dei creditori del de cuius, incidendo sulla “qualità del relativo rapporto”, sì da assumere rilievo proprio e unicamente nel giudizio di cognizione che abbia ad oggetto l’accertamento del credito e la condanna del debitore all’adempimento dello stesso, prima che venga ad instaurarsi la fase dell’esecuzione forzata (o della misura cautelare finalizzata all’esecuzione) (in tal senso, Cass., Sez. 2, 27/7/2022, n. 23398; Cass., Sez. U., ordinanza interlocutoria, 07/05/2013, n. 10531; Cass., Sez. 3, 2015, n. 7090), e da precludere ogni misura anche cautelare sui beni personali dell’erede (Cass., Sez. 2, 18/5/1993, n. 5641).

Pertanto, l’erede che abbia accettato l’eredità con beneficio di inventario, benché possa essere convenuto in giudizio dai creditori del de cuius che propongano azioni di accertamento o di condanna (Cass., Sez. 2, 14/3/2003, n. 3791; Cass., Sez. 3, 16/11/1994, n. 9690), per avere egli comunque acquisito i diritti caduti in successione ed essere divenuto soggetto passivo delle relative obbligazioni, ancorché intra vires hereditatis (Cass., Sez. 3, 4/9/2012, n. 14821; Cass., Sez. 3, 14/3/2003, n. 3791), – non può – una volta che abbia eseguito la pubblicazione prevista dall’art. 498, terzo comma, cod. civ. – essere assoggettato dai medesimi ad esecuzione forzata (neanche con riferimento ai beni caduti in successione), dovendosi procedere alla liquidazione dei beni ereditari nei modi previsti dagli artt. 499 e segg. cod. civ. (Cass., Sez. 2, 14/3/2003, n. 3791; Cass., Sez. 3, 16/11/1994, n. 9690).

E se così è, appare evidente come ad essere precluso al creditore dell’eredità non sia il giudizio di cognizione volto ad accertare il credito e ottenere la condanna degli eredi, ma la sola fase esecutiva, l’unica soggetta alla disciplina della procedura propria dell’eredità beneficiata, che consente all’erede beneficiato di procedere attraverso la liquidazione individuale ex art. 495 cod. civ., ossia pagando i creditori man mano che si presentino, oppure, a sua scelta od obbligatoriamente in presenza di certe condizioni, attraverso quella concorsuale ex art. 498 cod. civ., che, diretta a garantire la pari condizioni dei creditori dell’eredità e dei legatari, impone il rispetto delle fasi 1) della formazione dello stato passivo, 2) della liquidazione dell’attivo, 3) della formazione dello stato di graduazione, con collocazione secondo il grado di preferenza legale (in primo luogo le spese del procedimento di accettazione con beneficio di inventario ai sensi dell’art. 511 cod. civ., quindi i crediti assistititi da diritto di prelazione e, infine, i legati) e 4) del pagamento dei debiti ereditari.

Il divieto di promuovere procedure esecutive, posto a carico dei creditori dall’art. 506, primo comma, cod. civ. (una volta eseguita la pubblicazione di cui all’art. 498 cod. civ.), non esclude, infatti, che i creditori stessi possano procurarsi un titolo giudiziale di accertamento o esecutivo e dunque procedano verso l’erede con le opportune azioni, valendo tale titolo nella procedura di liquidazione predetta, ove il relativo credito può trovare soddisfazione nell’eventuale residuo, sicché l’erede contro il quale sia stato formato un titolo esecutivo che lo condanni in qualità di erede beneficiato, pur se tenuto al pagamento non oltre il valore dei beni a lui pervenuti (ex art. 490, secondo comma, n. 2, cod. civ.), per potersi esonerare dal pagamento deve dimostrare non che l’asse ereditario sia stato originariamente insufficiente a coprire la passività, bensì che lo stesso è rimasto esaurito nel pagamento di creditori presentatisi in precedenza (Cass., Sez. 5, 24/10/2008, n. 25670; Cass., Sez. 1, 17/10/1977, n. 4428).

Ciò comporta che nella medesima posizione viene a trovarsi l’erede beneficiato che abbia pagato con proprie risorse il debito ereditario, al quale l’art. 1203, n. 4, cod. civ., concede, infatti, il diritto potestativo di surrogarsi di diritto nella posizione del creditore ereditario e di esercitarlo anche attraverso l’instaurazione di un giudizio di cognizione volto ad ottenere la condanna dell’eredità al relativo rimborso, dovendosi l’operatività di diritto della surroga legale intendere nel senso che essa opera anche senza il consenso del creditore originario e del debitore, e non invece nel senso che la sua concreta attuazione possa prescindere dalla rituale domanda del terzo che ha pagato di volersi surrogare al creditore soddisfatto (Cass., Sez. L., 22/2/1995, n. 1997; Cass., Sez. 1, 24/11/1981, n. 6240)>>.

Non necessaria una rigorosa omogeneità delle porzioni nella divisione ereditaria

Cass. sez. II, ord. 24/10/2024 n. 27.602, rel. Criscuolo, sull’art. 727 cc:

fatto processuale:

<<La Corte d’Appello ha ritenuto di condividere i due distinti progetti di divisione approvati dal Tribunale, addivenendo ad un’assegnazione dei beni che non prevede la divisione di ognuno degli immobili caduti in successione tra i due gruppi di condividenti, ma ha previsto che le quote in natura fossero formate in parte con beni interamente inclusi nelle stesse, ovvero, come nel caso del fondo R con delle porzioni oggetto di frazionamento non perfettamente corrispondenti al valore della quota ideale, compensando tale differenza con l’assegnazione a favore del condividente che aveva ricevuto una quota materiale del bene inferiore a quella ideale, con l’assegnazione di altri beni tali da compensare la detta differenza>>.

Valutazione giuridica della SC:

<<Trattasi di soluzione che appare in primo luogo supportata dalla giurisprudenza di questa Corte che ha in più occasioni affermato che il principio stabilito dall’art. 727 c.c., in virtù del quale, nello scioglimento della comunione, il giudice deve formare lotti comprensivi di eguali quantità di beni mobili, immobili e crediti, non ha natura assoluta e vincolante, ma costituisce un mero criterio di massima; ne consegue che resta in facoltà del giudice della divisione predisporre i detti lotti anche in maniera diversa, ove ritenga che l’interesse dei condividenti sia meglio soddisfatto attraverso l’attribuzione di un intero immobile, piuttosto che con il suo frazionamento, e che il relativo giudizio è incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato. (Cass. n. 29733 del 12/12/2017).

Inoltre nella divisione non si richiede necessariamente, in sede di formazione delle porzioni, una assoluta omogeneità delle stesse, ben potendo, nell’ambito di ciascuna categoria di beni immobili, mobili e crediti da dividere, taluni di essi essere assegnati per l’intero ad una quota ed altri, sempre per l’intero, ad altra quota, salvi i necessari conguagli, giacché il diritto dei condividenti ad una porzione in natura di ciascuna delle categorie di beni in comunione non consiste nella realizzazione di un frazionamento quotistico delle singole entità appartenenti alla stessa categoria, ma nella proporzionale divisione dei beni compresi nelle tre categorie degli immobili, mobili e crediti, dovendo evitarsi un eccessivo frazionamento dei cespiti in comunione che comporti pregiudizi al diritto preminente dei coeredi e dei condividenti in genere di ottenere in sede di divisione una porzione di valore proporzionalmente corrispondente a quello della massa ereditaria, o comunque del complesso da dividere. Pertanto, nell’ipotesi in cui nel patrimonio comune vi siano più immobili da dividere, il giudice del merito deve accertare se l’anzidetto diritto del condividente sia meglio soddisfatto attraverso il frazionamento delle singole entità immobiliari oppure attraverso l’assegnazione di interi immobili ad ogni condividente, salvo conguaglio (cfr. ex multis Cass. n. 17862 del 27/08/2020)>>.

Nel fondo patrimoniale, cade sul debitore l’onere di provare l’estraneità del debito ai bisogni della famiglia

Cass. civ., sez. V, sent. 11 ottobre 2024, n. 26496, rel. Chieca:

<<Posto che l’iscrizione di ipoteca su beni conferiti nel fondo patrimoniale è legittima soltanto se il debito da garantire sia stato contratto per uno scopo non estraneo ai bisogni familiari o se il titolare del credito per il quale si procede non fosse a conoscenza di tale estraneità e considerato che il criterio identificativo dei crediti suscettibili di realizzazione in via esecutiva va ricercato nella relazione esistente fra il fatto generatore delle obbligazioni e il soddisfacimento delle esigenze familiari, l’estraneità ai bisogni della famiglia non può ritenersi dimostrata, né esclusa, per il solo fatto dell’insorgenza del debito nell’esercizio dell’impresa, spettando, in ogni caso, al contribuente dimostrare i fatti che possono condurre all’illegittimità dell’ipoteca ovvero l’estraneità del debito ai bisogni della famiglia e la consapevolezza di tale estraneità da parte del creditore>>

(massima di CEsare Fossati in Ondif)

Keyword advertising e avvedutezza del consumatore medio online nel diritto dei marchi

L’appello del 9 circuito n. 23-16060 del 22.10.2024, Lerner&Rowe v. Brown Engstrand&Shely decide una lite per violazione di marchio tra due studi legali avvenuta tramite keyword advertising (k.a.).

Il Panel non affronta le legittimità di quest’ultimo strumento secondo la legge marchi, limitandosi a dire che non ricorre confondibilità tra gli esiti della ricerca Google e il nome/i segno dello studio attore.

Rigetta quindi la domanda.

E’ infatti assai  fiducioso sull’avvedutezza dell’utente medio di internet:

<<Google’s search engine is so ubiquitous that we can be confident that the reasonably prudent online shopper is familiar with its layout and function, knows that it orders results based on relevance to the search term, and understands that it produces sponsored links along with organic search results. Moreover, in this case, the relevant consumers specifically typed in “Lerner & Rowe” as a search term, suggesting that they would be even more discerning of the results they received. Therefore, because this case involves shopping on Google by using the precise trademark at issue, this factor weighs in favor of ALG.>>

E poi:

<The district court was correct to conclude that this is one of the rare trademark infringement cases susceptible to summary judgment. The generally sophisticated nature of online shoppers, the evidence demonstrating that there is not an appreciable number of consumers who would find ALG’s use of the mark confusing, and the clarity of Google’s search results pages, convince us that ALG’s use of the “Lerner & Rowe” mark is not likely to cause consumer confusion.>>.

Del che c’è da dubitare, come avverte Eric Goldman (dal cui blog prendo notizia della e link alla sentenza)

L’opinione concorrente di  J. Desai invece esamina se il k.a. costituisca “uso del marchio”. Ricorda un importante precedente del 2011 del 9 ciruito, che rispose in senso affermativo: ma ora intende rovesciarlo,  perchè non esatto.

<<Whether an action, like bidding
on keywords, that involves no display or presentation of a
mark whatsoever satisfies the “use in commerce” definition.
In other words, does a buyer of advertising keywords who
bids on certain terms and phrases “use” its competitor’s
mark when bidding on it?
In Network Automation, we answered, yes. 638 F.3d at
1144–45. But we provided no analysis to support this
holding, id. at 1145, and we relied on cases with
meaningfully different facts. >>

Chiede quindi un riesame della questione.

Cass. sez. I, Ord. 18.10.2024, n. 27.043, rel. Parise:

Regola astratta

<Secondo il più recente orientamento di questa Corte, invero, l’instaurazione da parte dell’ex coniuge di una stabile convivenza di fatto, giudizialmente accertata, incide sul diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio o alla sua revisione, nonché sulla quantificazione del suo ammontare, in virtù del progetto di vita intrapreso con il terzo e dei reciproci doveri di assistenza morale e materiale che ne derivano, ma non determina, necessariamente, la perdita automatica ed integrale del diritto all’assegno, in relazione alla sua componente compensativa (Cass. S.U. 32198/2021 ; Cass. 14256/2022). Infatti, alla luce delle Sezioni Unite n. 18287/2018 e n. 32198/2021, la ricostruzione dell’assegno divorzile sulla base di un criterio non più soltanto assistenziale, ma anche compensativo-perequativo comporta un temperamento del principio della perdita “automatica ed integrale” del diritto all’intero assegno di divorzio all’instaurarsi di una nuova convivenza.

È stato altresì precisato che, ai fini della revoca dell’assegno divorzile, la convivenza more uxorio instaurata dall’ex coniuge che ne sia beneficiario può costituire fattore impeditivo del relativo diritto anche quando non sia sfociata in una stabile coabitazione, purché sia rigorosamente provata la sussistenza di un nuovo progetto di vita dello stesso beneficiario con il nuovo partner, dal quale discendano inevitabilmente reciproche contribuzioni economiche e reciproci obblighi di assistenza morale e materiale, gravando l’onere probatorio sul punto sulla parte che neghi il diritto all’assegno (Cass. 3645/2023) [solo che con la convivenza di fatto non nasce alcun obbligo, nemmeno dopo la L. 76/2016!!!!]. Si è affermato che il giudice deve procedere al relativo accertamento tenendo conto, quale elemento indiziario, dell’eventuale coabitazione con l’altra persona, in ogni caso valutando non atomisticamente ma nel loro complesso l’insieme dei fatti secondari noti, acquisiti al processo nei modi ammessi dalla legge, e gli eventuali ulteriori argomenti di prova, rilevanti per il giudizio inferenziale in ordine alla sussistenza della detta convivenza, intesa quale legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale i conviventi si siano spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale (Cass. 14151/2022).

La coabitazione, dunque, ai fini che qui interessano, assume una valenza indiziaria, ai fini della prova dell’esistenza di un rapporto di convivenza di fatto, elemento indiziario “da valutarsi in ogni caso non atomisticamente… ma nel contesto e alle circostanze in cui si inserisce”, mentre, viceversa, “l’assenza della coabitazione non è di per sé decisivo”. Occorre, comunque, in mancanza dell’elemento oggettivo della stabile coabitazione, che l’accertamento dell’effettivo legame di convivenza, allorquando esso costituisca un fattore impeditivo del diritto all’assegno divorzile, sia compiuto in modo rigoroso, in riferimento agli elementi indiziari potenzialmente rilevanti, perché gravi e precisi, così come previsto dal primo comma dell’articolo 2729
c.c.: il giudice è quindi tenuto, perché è la stessa norma dell’art. 2729
c.c. che lo richiede, a procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi così isolati, nonché di eventuali argomenti di prova acquisiti al giudizio. Le Sezioni Unite nella sentenza n. 32198/2021 hanno fatto riferimento esemplificativo ad alcuni indici, quali l’esistenza di figli, la comunanza di rapporti bancari o altre patrimonialità significative, la contribuzione al menage familiare. Deve esserci, in sostanza, un nuovo progetto di vita con il nuovo partner, dal quale inevitabilmente discendono reciproche contribuzioni economiche e, come si è detto, il relativo onere probatorio incombe su chi neghi il diritto all’assegno (Cass. 3645/2023citata)>>.

Applicata al caso de quo:

<<2.2. Nel caso di specie, la Corte d’Appello si è attenuta ai suesposti principi e, con motivazione congrua (Cass. S.U. 8053/2014), ha accertato che “gli elementi emersi, pacificamente assente la stabile convivenza (C.C. peraltro vive a R e non a P), non documentano con sufficiente certezza la formazione di una famiglia di fatto, non essendo prova sufficiente di una sostanziale comunione e condivisione di vita e di impegni economici i viaggi e le vacanze estive della coppia, la frequentazione domestica, documentata occasionalmente, né la dazione di somme di denaro nel periodo (marzo 2010 – 2018) in cui A.A. non le versava gli assegni (circostanza che aveva indotto la controparte ad iniziare azioni esecutive sulle quote delle società di famiglia del A.A., abbandonate dopo il pagamento da questi effettuato con denari provenienti da una eredità pervenutagli dalla madre), e che dopo tale pagamento la B.B. ha iniziato a parzialmente restituire come da documentazione prodotta già in primo grado”.

Dunque, contrariamente a quanto assume il ricorrente, la Corte di merito non ha valorizzato solo la mancata coabitazione, ma ha valutato il compendio probatorio complessivo, pervenendo alla conclusione della mancata dimostrazione in causa della “famiglia di fatto”. Va ribadito che è incensurabile in sede di legittimità l’apprezzamento del giudice del merito circa la valutazione della ricorrenza, o della non ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, sempre che la motivazione adottata appaia congrua dal punto di vista logico, immune da errori di diritto e rispettosa dei principi che regolano la prova per presunzioni (Cass. 1216/2006; Cass. 15219/2007; Cass. 656/2014; Cass. 1792/2017, che ha affermato come il risultato dell’ accertamento in merito alla valida prova presuntiva, se adeguatamente e coerentemente motivato, “si sottrae al sindacato di legittimità, che è invece ammissibile quando nella motivazione siano stati pretermessi, senza darne ragione, uno o più fattori aventi, per condivisibili massime di esperienza, una oggettiva portata indiziante”; Cass. 19987/2018; Cass. 1234/2019, ove si è ribadito che il sindacato del giudice di legittimità circoscritto alla verifica della tenuta della relativa motivazione, nei limiti segnati dall’art. 360 , comma 1, n. 5, c.p.c.). È stato altresì chiarito, a tale riguardo, che, se il vizio è denunciato ai sensi dell’art. 360 , n. 3, c.p.c. per violazione della norma dell’art. 2729 c.c., la critica non può svolgersi mediante argomentazioni dirette ad infirmare la plausibilità della ricostruzione del fatto da parte del giudice di merito (Cass. 18611/2021), come, invece, è nella specie, poiché il ricorrente in buona sostanza si limita a criticare la valutazione degli elementi probatori effettuata dalla Corte di merito (secondo motivo)>>.