Interpretazione ampia del divieto del patto di quota-lite

Cass. sez. II, ord. 04/09/2024  n. 23.738, rel. Giannaccari:

<<In particolare, l’art.13, comma 3 della L. 31.12.2012, n.247, ammette “la pattuizione a tempo, in misura forfettaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base all’assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l’intera attività, a percentuale sul

valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione”.

Il coordinamento tra il terzo e quarto comma impone all’interprete la distinzione tra i patti commisurati, anche in percentuale sul valore dell’affare, che sono ammessi ed il patto di quota lite, che è vietato. Dal combinato disposto dalle due norme si ricava che se la percentuale può essere certamente rapportata al valore dei beni o degli interessi litigiosi, non lo può essere quanto al risultato, in piena coerenza con la ratio del divieto volto ad enfatizzare il distacco del legale dagli esiti della lite; in tal modo, si evita la commistione di interessi tra il cliente e l’avvocato, che si avrebbe qualora il compenso fosse collegato, in tutto o in parte, all’esito della lite, con il rischio così della trasformazione del rapporto professionale da rapporto di scambio a rapporto associativo.

Come sostenuto dalla giurisprudenza di questa Corte (in particolare Cassazione civile sez. II, 06/07/2022, n.21420, non massimata ed i precedenti in essa richiamati), il divieto del cosiddetto “patto di quota lite” tra l’avvocato ed il cliente, trova il suo fondamento nell’esigenza di assoggettare a disciplina il contenuto patrimoniale di un peculiare rapporto di opera intellettuale, al fine di tutelare l’interesse del cliente e la dignità della professione forense, che risulterebbe pregiudicata tutte le volte in cui, nella convenzione concernente il compenso, sia ravvisabile la partecipazione del professionista agli interessi economici finali ed esterni alla prestazione richiestagli.

Ne consegue che il patto di quota lite va ravvisato non soltanto nell’ipotesi in cui il compenso del legale sia commisurato ad una parte dei beni o crediti litigiosi, ma anche qualora tale compenso sia stato convenzionalmente correlato al risultato pratico dell’attività svolta, realizzandosi, così, quella non consentita partecipazione del professionista agli interessi pratici esterni della prestazione (Cass. 11485/1997; Cass. 4777/1980).

Coerentemente con la ratio del divieto, infatti, accentuando il distacco dell’avvocato dagli esiti della lite, diminuisce la portata dell’eventuale commistione di interessi tra il cliente e l’avvocato (Cass. Sez. Unite, N.25012/2014).

La nullità del patto di quota lite è assoluta e colpisce qualsiasi negozio avente ad oggetto diritti affidati al patrocinio legale, anche di carattere non contenzioso, sempre che esso rappresenti il modo con cui il cliente si obbliga a retribuire il difensore, o, comunque, possa incidere sul suo trattamento economico.

Nel caso di specie, il compenso dell’avvocato era stato parametrato ad una percentuale dell’importo che la ricorrente avrebbe percepito dal Comune a titolo di retribuzioni intermedie dalla data dell’illegittimo licenziamento fino alla data di reintegra. Il compenso non era parametrato al valore presunto della controversia, determinabile in via approssimativa già al momento del conferimento dell’incarico, ma al risultato raggiunto all’esito del giudizio, avente ad oggetto non solo la reintegra nel posto di lavoro, ma anche la condanna del datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni non versate.

L’argomento sostenuto dalla controricorrente, secondo cui la causa verteva sull’illegittimità del licenziamento, non è condivisibile in quanto a tale accertamento conseguiva la condanna al pagamento delle retribuzioni e, sulla loro percentuale, ovvero sulla res litigiosa, era stato determinato il compenso dell’avvocato>>.

Determinazione dell’assegno di mantenimento (verso coniuge e figli) da separazione personale

Cass. sez. I, ord. 18/09/2024  n. 25.055, rel. Tricomi:

<<4.2. – L’art. 156, primo comma 1, c.c., stabilisce che “Il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”. Per quanto riguarda i figli, l’art. 155 c.c. richiama l’art. 337-ter c.c. (applicabile anche ai figli maggiorenni ancora non indipendenti economicamente), il quale prevede che “Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando: 1) le attuali esigenze del figlio. 2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori. 3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore. 4) le risorse economiche di entrambi i genitori. 5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore”.

La giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere che, il giudice di merito, per quantificare l’assegno di mantenimento spettante al coniuge al quale non sia addebitabile la separazione, deve accertare, quale indispensabile elemento di riferimento, il tenore di vita di cui la coppia abbia goduto durante la convivenza, quale situazione condizionante la qualità e la quantità delle esigenze del richiedente, accertando le disponibilità patrimoniali dell’onerato. A tal fine, non può limitarsi a considerare soltanto il reddito emergente dalla documentazione fiscale prodotta, ma deve tenere conto anche degli altri elementi di ordine economico, o comunque apprezzabili in termini economici, diversi dal reddito dell’onerato, suscettibili di incidere sulle condizioni delle parti, quali la disponibilità di un consistente patrimonio, anche mobiliare, e la conduzione di uno stile di vita particolarmente agiato e lussuoso (così, tra le tante, Cass. n. 9915-2007). Anche l’assegno di mantenimento in favore dei figli minori, o maggiori d’età ma non autosufficienti economicamente, deve essere determinato considerando le esigenze del beneficiario in rapporto al tenore di vita goduto durante la convivenza dei genitori, tenendo conto di tutte le risorse a disposizione della famiglia, non potendo i figli di genitori separati essere discriminati rispetto a quelli i cui genitori continuano a vivere insieme (cfr. già Cass. n. 9915-2007 e, di recente, Cass. n. 16739-2020). È per questo che l’art. 706 c.p.c., nel disciplinare i procedimenti in materia di separazione personale dei coniugi, in deroga alla disciplina ordinaria dell’onere della prova, lasciata di regola alla libera iniziativa delle parti interessate, stabilisce che “Al ricorso e alla memoria difensiva sono allegate le ultime dichiarazioni dei redditi presentate”.

Dall’esame delle norme sopra richiamate si evince con chiarezza che ciò che rileva, al fine della quantificazione dell’assegno di mantenimento a favore del coniuge, al quale non sia addebitabile la separazione, e dei figli è l’accertamento del tenore di vita di cui i coniugi avevano goduto durante la convivenza, quale situazione condizionante la qualità e la quantità delle esigenze del richiedente, accertando le disponibilità patrimoniali dell’onerato (Cass. n. 9915-2007), a prescindere, pertanto, dalla provenienza delle consistenze reddituali o patrimoniali da questi ultimi godute, assumendo rilievo anche i redditi occultati al fisco, in relazione ai quali l’ordinamento prevede, anzi, strumenti processuali, anche ufficiosi, che ne consentano l’emersione ai fini della decisione, quali le indagini di polizia tributaria (Cass. n.22616-2022) e l’espletamento di una consulenza tecnica.

Inoltre, va rammentato che in tema di separazione personale, la formazione di un nuovo aggregato familiare di fatto ad opera del coniuge beneficiario dell’assegno di mantenimento, operando una rottura tra il preesistente tenore e modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale ed il nuovo assetto fattuale, fa venire definitivamente meno il diritto alla contribuzione periodica (Cass. n. 32871-2018; Cass. n.34728-2023) e che il diritto all’assegno di mantenimento, in caso di crisi familiare, viene meno ove, durante lo stato di separazione, il coniuge avente diritto instauri un rapporto di fatto con un nuovo partner, che si traduca in una stabile e continuativa convivenza, ovvero, in difetto di coabitazione, in un comune progetto di vita connotato dalla spontanea adozione dello stesso modello solidale che connota il matrimonio, con onere della prova a carico del coniuge tenuto a corrispondere l’assegno; ne consegue che la stabilità e la continuità della convivenza può essere presunta, salvo prova contraria, se le risorse economiche sono state messe in comune, mentre, ove difetti la coabitazione, la prova relativa all’assistenza morale e materiale tra i partner dovrà essere rigorosa (Cass. n.34728-2023)>>.

La formula tedesca e la determinazione dell’equo premio a favore dell’inventore dipendente (art. 64 c.2. cpi)

Interessanti passaggi della Corte di appello di Milano 2 aprile 2024 n. 976, rel. Meroni  (letta in Onelegale).

IN particolare è significativa la questione della pluralità di inventori : non determina moltiplicazione dell’equio premio, che rimane unico, ma suo frazionamento tra i coiventori.

Il principio va condiviso

<<L’affermazione di cui al principio sub (…) è certamente condivisibile nella parte in cui evidenzia che il criterio della cd. formula tedesca non è vincolante per la decisione in ordine alla determinazione dell’entità del premio, ma può solo essere considerato un criterio orientativo a cui apportare le modificazioni opportune in relazione alla fattispecie concreta, pur rilevandosi che tale criterio viene abitualmente utilizzato per tale scopo e che la disciplina legislativa tedesca è, in realtà, sostanzialmente analoga a quella italiana e che la circostanza che nel diritto tedesco il pagamento sia previsto anche a favore del dipendente già retribuito è irrilevante.
– L’affermazione di cui al principio sub. (…) è, invece, gravemente errata sul piano logico, soprattutto per il modo con cui tale principio è stato applicato dal collegio degli arbitratori, pur tenendo conto che la formulazione dell’alt 64 D.Lgs. n. 30 del 2005 è molto generica.
Il collegio degli arbitratori ha, infatti, ritenuto di tener conto della presenza di coinventori semplicemente ricorrendo al criterio della formula tedesca con riguardo ad un parametro (la voce “soluzione del problema” che contribuisce alla determinazione del fattore P), che non attiene per nulla al fatto che l’ invenzione sia stata conseguita da un solo ovvero da più coinventori, ma concerne invece
la valutazione del contributo del dipendente – inventore rapportato al contributo fornito dal datore di lavoro – organizzatore/finanziatore degli investimenti che hanno consentito l’ invenzione; seguendo il criterio utilizzato nel lodo ne conseguirebbe che l’ importo del premio, attribuito al singolo inventore, potrebbe avere la medesima entità sia nel caso in cui l’ invenzione sia stata ottenuta da un dolo dipendente sia nel caso in cui sia stata ottenuta da dieci o cento dipendenti, con la conseguenza che in questo caso l’importo complessivo dei premi sia decuplicato o centuplicato, fino ad arrivare a superare, anche di gran lunga, il valore effettivo dell’invenzione.
E’ evidente che, per la determinazione dell’entità del premio spettante al singolo dipendente – inventore ovvero ai plurimi dipendenti – inventori, una volta accertata (con la formula tedesca o con altro criterio) la quota del valore dell’invenzione, che si ritiene possa essere attribuita come premio per l’ inventore, è sempre necessario suddividere (qualora costoro siano più di uno) tale quota astratta per il numero degli inventori che hanno contribuito all’ invenzione (e tale suddivisione, in assenza di elementi che possano differenziare tra loro gli apporti dei diversi dipendenti, non può che essere fatta in parti uguali) e, una volta determinata la quota astratta, eventualmente anche interamente attribuibile a ciascun inventore, è necessario valutare quale sia stato l’apporto dell’organizzazione del datore di lavoro, che ovviamente comprimerà la parte spettante al dipendente in relazione alla sua rilevanza rapportata alla rilevanza dell’apporto del dipendente.
– L’affermazione sub. (…) è errata, posto che dal principio affermato da Cass. 20239/2016, come sopra riportato, non consegue affatto, neppure avvalendosi di una interpretazione estensiva, che “se vi sono coinventori, siano o no remunerati ad hoc oppure abbiano o no diritto anch’essi a un premio, il loro contributo si conta come contributo dell’azienda nel momento di valutare l’equo premio spettante a ciascun altro avente diritto “, come sostenuto dal collegio degli arbitratori.
Cass. 20239/2016, infatti, a fronte dell’eccezione sollevata in quel giudizio dal datore di lavoro della sussistenza di un litisconsorzio necessario tra tutti i dipendenti coinventori con riguardo alla spettanza dell’equo premio rivendicata da uno solo di loro, ha affermato che tale eccezione era infondata, in quanto il diritto al premio (che ha la funzione di indennizzare il dipendente – inventore per il fatto che i diritti derivanti dall’ invenzione, dallo stesso realizzata, sono attribuiti in via originaria al suo datore di lavoro) non è un diritto attribuito in modo unitario a tutti i plurimi dipendenti partecipanti all’ invenzione, ma ciascun dipendente – inventore ha diritto di rivendicare singolarmente il premio a lui spettante ed ha, altresì, precisato che la controversia, oggetto del suo esame, concerneva l’accertamento della sussistenza del diritto al premio in capo al dipendente e non già la sua quantificazione (che avrebbe potuto essere oggetto di altro giudizio), di guisa che in tale controversia il riconoscimento del premio, in favore del dipendente che aveva promosso il giudizio, non avrebbe potuto in alcun modo danneggiare gli altri dipendenti coinventori, senza che questi fossero partecipi del giudizio.
La Corte di Cassazione, cioè, con la sentenza suddetta ha esplicitamente affermato che il principio dalla stessa individuato (vale a dire l’assenza di litisconsorzio necessario tra tutti i dipendenti coinventori con riguardo al riconoscimento della sussistenza del diritto al premio in capo a ciascuno di loro) non aveva alcuna rilevanza con riguardo alle modalità di quantificazione e quindi di eventuale ripartizione del premio tra tutti i coinventori.
La decisione del collegio arbitrale, per quanto esposto, è, pertanto, certamente viziata da un errore grave di determinazione logica dell’entità del premio e quindi certamente passibile di dichiarazione di nullità da parte del giudice>>.

La corte riportaanche la formula tedesca considerata dal ctue l’applicaizone da lui fattane:

<<Il consulente tecnico ha così correttamente esposto la formula tedesca:
> EP = (W x C x R) / N x P; in cui:
– Co = equo premio,
– W = valore economico dell’ invenzione, pari alla sommatoria attualizzata di tutti gli utili conseguibili
dal brevetto e in via semplificata pari al 10% del ricavato,
– C = fattore correttivo che prevede una correzione di W, secondo una tabella prefissata (da 0,9 a 0,2) in
relazione all’entità dell’utile,
– R = fattore di riduzione (dal 12,5% al 33%, con valore normale al 20%) in relazione alla caratteristica
dell’invenzione,
– N = numero degli inventori,
– P = fattore di partecipazione, per il quale è previsto un punteggio: da 1 a 6 per la “posizione del
problema”, da 1 a 6 per la “soluzione del problema”, da 1 a 8 per le “mansioni svolte e la posizione occupata”; alla somma dei tre punteggi corrisponde la percentuale del fattore da utilizzare (ad es. alla somma del punteggio minimo di 3 corrisponde il fattore 3%, alla somma del punteggio massimo di 20 corrisponde il fattore 100%).
Il CTU, utilizzando il criterio della formula tedesca, ha così determinato il premio (nell’ ipotesi accolta nella sentenza definitiva del Tribunale):
. ha determinato il ricavo complessivo, per tutte le invenzioni brevettate in questione, per l’ intero periodo di efficacia in Euro 128.598.000: di cui Euro 114.379 per il periodo dal 1997 al 31.12.2019 (pari a Euro 104.193.000, corrispondente all’ importo dei ricavi effettivamente conseguiti, rivalutato alla data del 31.12.2019) ed Euro 14.219.000 per il periodo dal 1.1.2020 al 2024 (corrispondente al ricavo presumibile, attualizzato però al 31.12.2019, secondo la formula wacc);
. ha determinato il margine di utile nel 9,4% del ricavato, quindi pari a Euro 12.088.000, che con la correzione del fattore C (nel caso di brevetti singolarmente considerati) diventa pari a Euro 6.170.000 oppure (nel caso di brevetti complessivamente considerati) pari a Euro 4.948.000 e con l’abbattimento del fattore R (da prendere in considerazione per le caratteristiche delle invenzioni nel 30%) diventa pari a Euro 1.851.000 (nel caso di brevetti considerati singolarmente) o in Euro 1.484.000 (nel caso di brevetti considerati complessivamente);
. ha determinato il fattore N in 1/3, posto che gli inventori sono tre e non vi sono elementi per differenziare tra loro i rispettivi apporti;
. ha determinato per il fattore P il punteggio di 12: di cui 5 (come il collegio degli arbitratori) per “la posizione del problema”; 3 (anziché 1 attribuito dal collegio degli arbitratori) per “la soluzione del problema”; e 4 (come il collegio degli arbitratori) per “le mansioni svolte e posizione occupata”;
punteggio a cui corrisponde il 32% per il fattore P.
In conclusione, il CTU ha determinato l’equo premio (nell’ ipotesi accolta dal Tribunale) nell’importo complessivo di Euro 197.000 = 1.851.000 (utile abbattuto per i coefficienti C ed R, valutato per i brevetti considerati singolarmente) : 3 (per il numero degli inventori) x il 32% per il fattore P (cioè, il grado di partecipazione di OMISSIS all’invenzione in rapporto con il contributo apportato dal datore di lavoro>>

Il riconoscimento di debito non è negozio giuridico per cui non richiede specifico intento negozial-ricognitivo (actus legitimus?)

Cass. sez. III, ord. 20/08/2024  n. 22.948, rel. Tassone, circa l’asserito ricoscimento della dovutezza del canone locatizio implicito nel suo pagamento:

<<Questa Corte ha già avuto modo di affermare che il riconoscimento di un debito non esige formule speciali e può essere contenuto in una dichiarazione di volontà diretta consapevolmente all’intento pratico di riconoscere l’esistenza di un diritto, ma può risultare, implicitamente, anche da un atto compiuto dal debitore per una finalità diversa e senza la consapevolezza dell’effetto ricognitivo (Cass., 9097/2018).

L’atto di riconoscimento, infatti, non ha natura negoziale, né carattere recettizio e non deve necessariamente essere compiuto con una specifica intenzione riconoscitiva. Ciò che occorre è che esso rechi, anche implicitamente, la manifestazione della consapevolezza dell’esistenza del debito e riveli i caratteri della volontarietà (Cass., 30/10/2002, n. 15353).

8.1. Orbene, nel caso di specie, la corte di merito ha fatto corretta applicazione di tali principi, dal momento che ha rilevato che la volontarietà del pagamento non era finalizzata a riconoscere l’esistenza e, soprattutto, l’entità dei debiti, ma era, piuttosto, quella di evitare lo sfratto per morosità, tanto che, del resto, nel giudizio di opposizione alla convalida sono state espletate ben due consulenze tecniche d’ufficio per accertare i rapporti di dare ed avere tra le parti.

Inoltre, diversamente da quanto prospettato dalla ricorrente, che sostanzialmente lamenta di essere stata condannata a pagare canoni e spese che aveva già corrisposto (v. p. 39 del ricorso), nella sentenza impugnata non è ravvisabile alcuna contraddizione nella motivazione dell’impugnata sentenza, che, invece, ricostruisce i rapporti di dare ed avere tra le parti e condanna la società conduttrice a pagare “i canoni e gli oneri accessori ancora da onorare” (così p. 11 dell’impugnata sentenza).

8.2. In ultima analisi, dunque, va rimarcato che la corte territoriale ha espresso una valutazione di idoneità del pagamento a seguito dell’intimazione di sfratto come diretta ad evitare la convalida e che tale valutazione è stata giustificata con una motivazione che, a tutto voler concedere, si sarebbe potuto criticare in iure sub specie di c.d. vizio di sussunzione, critica questa che tuttavia il motivo non svolge e che avrebbe, fra l’altro, richiesto l’indicazione, ove dedotti nel giudizio di merito, delle circostanze specifiche del pagamento, in modo da evidenziare il vizio>>.

Cass. sez. III ord. 06/09/2024 n. 24.007, rel. Rubino:

<<In tema di responsabilità professionale dell’avvocato, qualora essa si sia tradotta nella impossibilità per il cliente di intraprendere l’iniziativa giudiziaria concordata (per omessa proposizione di una impugnazione nei termini, oppure, come nella specie, per omesso rilascio della firma del cliente sul ricorso, dichiarato per questo inammissibile) ai fini della configurabilità del diritto del cliente al risarcimento del danno è necessario all’attore non soltanto provare il comportamento imperito, negligente o imprudente del professionista e il suo rapporto causale con la preclusione della iniziativa giudiziaria, ma anche che, se fosse stata intrapresa, l’iniziativa giudiziaria avrebbe avuto, sulla base di una valutazione ex ante ed applicando la regola probatoria del più probabile che non, ragionevoli probabilità di accoglimento.

Non è sufficiente infatti a fondare il diritto risarcitorio la sola prova della negligenza, anche se preclusiva dell’azione giudiziaria, lasciando ricadere sul professionista convenuto l’onere di provare che l’iniziativa, anche se regolarmente intrapresa, non avrebbe avuto realistiche probabilità di successo, traducendosi ciò in un indebito ribaltamento degli oneri probatori, perché l’onere del convenuto di fornire la prova liberatoria della propria responsabilità scatta soltanto se è accertato il nesso causale tra la condotta colposa e il danno.

Il contenuto dell’onere probatorio in capo all’attore, in caso si alleghi la responsabilità professionale dell’avvocato, non si esaurisce dunque nel provare la negligenza dell’avvocato ma consiste nel fornire gli elementi di prova dell’evento di danno e cioè nel fornire elementi ai fini dell’esito positivo del giudizio probabilistico, al fine di condurre all’accertamento che fosse più probabile che non che, se l’avvocato si fosse correttamente attivato evitando di porre in essere comportamenti che vanificavano l’efficacia della sua attività professionale, con buona probabilità avrebbe ottenuto l’esito sperato in favore del cliente (v. in questo senso Cass. n. 2638 del 2013: “La responsabilità dell’avvocato – nella specie per omessa proposizione di impugnazione – non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone”).

Il giudizio di risarcimento del danno per responsabilità professionale comprende quindi, come detto, un giudizio prognostico ex ante sulla accoglibilità della domanda che si andava a proporre nel giudizio che non si è celebrato per la negligenza dell’avvocato. All’interno di esso si deve peraltro tener conto, anche ai fini di verificare l’intervenuta, corretta distribuzione degli oneri probatori, delle peculiarità del giudizio che non si è potuto celebrare. Nel caso di specie, occorre considerare, per la particolarità della normativa e per il contenuto della posizione giuridica soggettiva attiva che si andava a far valere, il tipo di diritto che si andava ad azionare, ed il tipo di giudizio che si andava ad aprire.

Il Mo.Ma., cioè, andava ad introdurre non un giudizio volto al risarcimento del danno aquiliano, ma un giudizio volto ad ottenere il riconoscimento del diritto all’indennizzo per ingiusta detenzione, ex artt. 314 e 315 c.p.p.

È questo un giudizio sottratto ai canoni dell’art. 2043 c.c., di competenza del giudice penale, regolato almeno in parte dall’impulso di ufficio, in cui anche l’imputato assolto dalla incolpazione per la quale è stato sottoposto a carcerazione preventiva potrebbe essere ritenuto non meritevole dell’indennizzo ove ritenuto in colpa dal giudicante (v. Cass. pen. n. 29950 del 2019: “In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, le frequentazioni ambigue con soggetti condannati nel medesimo procedimento possono integrare un comportamento gravemente colposo, ostativo al riconoscimento del diritto all’indennizzo, anche nel caso in cui intervengano con persone legate da rapporto di parentela, purché siano accompagnate dalla consapevolezza che trattasi di soggetti coinvolti in traffici illeciti e non siano assolutamente necessitate”).

Tutto ciò premesso, appare corretta l’applicazione delle regole da parte della Corte d’Appello, la quale ha ritenuto, a fronte della intervenuta assoluzione nel merito del Mo.Ma. dalle incolpazioni per le quali era stato sottoposto a carcerazione, che il giudizio volto al riconoscimento dell’indennizzo per ingiusta riparazione avrebbe avuto esito probabilmente positivo, e che a fronte di ciò sarebbe stato onere del convenuto dover allegare, quale fatto estintivo, l’esistenza di una situazione riconducibile alla colpa o al dolo dell’imputato che avrebbe potuto portare ad un giudizio di non meritevolezza dell’indennizzo, pur a fronte di una assoluzione nel merito, ovvero all’esistenza di una condizione ostativa all’accoglimento>>.

Una volto risolto stragiudizialmente il contratto, non si può rinunciare agli effetti della intervenuta risoluzione

Cass. sez. III, 18 Settembre 2024 n. 25.128, rel.  Gorgoni:

<<La parte che ha ottenuto la risoluzione legale o giudiziale del contratto non può rinunciare ai relativi effetti, restando altrimenti leso il legittimo affidamento del debitore nell’ormai intervenuta risoluzione. (Nella specie, la S.C. ha affermato che il concedente di un’autovettura in leasing, una volta dichiarato di volersi avvalere di una clausola risolutiva espressa connessa al furto del bene, non può, per iniziativa unilaterale, far rivivere il contratto in conseguenza del suo ritrovamento, essendosi gli effetti risolutivi già cristallizzati nel momento in cui la dichiarazione era giunta a conoscenza dell’utilizzatrice)>>. (massima ufficiale)

 

E’ revocabile il trasferimento immobiliare pattuito negli accordi di separazione, anche se recepiti dalla sentenza che definisce una separazione giudiziale

Cass. sez. III, sent.  07/10/2024 n. 26.127, rel. Condello:

<<4.3. Le conclusioni cui giungono i precedenti sopra richiamati valgono anche nel caso qui in esame, con la sola differenza che, mentre in quelli gli accordi patrimoniali erano posti ad oggetto di separazione consensuale omologata dal Tribunale, nel caso in esame essi sono invece posti ad oggetto di ricorso di separazione giudiziale necessariamente concluso con sentenza che ne ha recepito il contenuto. Si tratta però di differenza che, ai fini in esame, rimane priva di rilievo.

In tal senso soccorrono le considerazioni svolte dalle Sezioni Unite con la sentenza del 29 luglio 2021, n. 21761, che, rispondendo a quesito riguardante la validità e trascrivibilità di accordi patrimoniali conclusi in sede (e ai fini del giudizio) di separazione o divorzio, ha affermato il principio di diritto, secondo cui: “Le clausole dell’accordo di separazione consensuale o di divorzio a domanda congiunta, che riconoscano ad uno o ad entrambi i coniugi la proprietà esclusiva di beni – mobili o immobili – o la titolarità di altri diritti reali, ovvero ne operino il trasferimento a favore di uno di essi o dei figli al fine di assicurarne il mantenimento, sono valide in quanto il predetto accordo, inserito nel verbale di udienza redatto da un ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in esso è stato attestato, assume forma di atto pubblico ex art. 2699 c.c. e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce, dopo il decreto di omologazione della separazione o la sentenza di divorzio, valido titolo per la trascrizione ex art. 2657 c.c., purché risulti l’attestazione del cancelliere che le parti abbiano prodotto gli atti e rese le dichiarazioni di cui all’art. 29, comma 1-bis, della L. n. 52 del 1985, come introdotto dall’art. 19, comma 14, del D.L. n. 78 del 2010, conv. con modif. dalla L. n. 122 del 2010, restando invece irrilevante l’ulteriore verifica circa gli intestatari catastali dei beni e la loro conformità con le risultanze dei registri immobiliari”.

In sostanza, le Sezioni Unite hanno affermato il valore meramente dichiarativo della pronuncia (sentenza di separazione o di divorzio) in relazione alle pattuizioni sui rapporti economici, rilevando che “i due istituti” (ossia, da un lato, la separazione consensuale tra i coniugi e, dall’altro, il divorzio congiuntamente richiesto dai medesimi, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 16) – pur presentando innegabili diversità sul piano della disciplina (le quali essenzialmente si compendiano nel fatto che, nel secondo caso, il procedimento non termina con l’omologazione da parte del tribunale, bensì con una sentenza emessa all’esito dell’audizione dei coniugi) – “si presentano strettamente connessi l’uno all’altro sul piano dogmatico. Ed invero, ad accomunare le due fattispecie è certamente la connotazione, presente in entrambe, dell’essere finalizzate ad ottenere mediante il consenso dei coniugi, piuttosto che con la pronuncia costitutiva del giudice, le divisate modificazioni dello status coniugale, con le conseguenti ricadute sull’affidamento ed il mantenimento della prole, ove esistente, e sui profili economici concernenti i rapporti tra i coniugi stessi”.

Hanno, quindi, evidenziato che “la pacifica… natura negoziale degli accordi dei coniugi, equiparabili a pattuizioni atipiche ex art. 1322 c.c., comma 2, comporta che – al di fuori delle specifiche ipotesi succitate – nessun sindacato può esercitare il giudice del divorzio sulle pattuizioni stipulate dalle parti. Come del resto – sul piano generale – il giudice non può sindacare qualsiasi accordo di natura contrattuale privato, che corrisponda ad una fattispecie tipica, libere essendo le parti di determinarne liberamente il contenuto (art. 1322 c.c., comma 1), fermo esclusivamente il rispetto dei limiti imposti dalla legge a presidio della liceità delle contrattazioni private e, se si tratta di pattuizioni atipiche, sempre che l’accordo sia anche meritevole di tutela secondo l’ordinamento (art. 1322 c.c., comma 2)” >>.

Sullegittimo interesse del titolare del trattamento in caso di aassenza del consenso (art. 6.1.f) GDPR)

Una federazione sportiva tennis olandese cede ai suoi sponsor i dati personali degli atleti federati, pur senza loro consenso.

Ricorre il legittimo interesse ex art. 6.1.f) GDPR?

Potrebbe anche darsi di si, risponde Corte Giust. 04.10.2024, C-621/22, Koninklijke Nederlandse Lawn Tennisbond c. Autoriteit Persoonsgegevens.

Devono ricrrere anmcjhe gli altri elemenit precista dlal norma cit. e … la valutazione compete al giudice nazionale.

I passi salienti:

<<49     Pertanto, un interesse commerciale del titolare del trattamento, come quello menzionato al punto 47 della presente sentenza, potrebbe costituire un legittimo interesse, ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, primo comma, lettera f), del RGPD, purché non sia contrario alla legge. Spetta tuttavia al tribunale nazionale valutare, caso per caso, l’esistenza di un interesse del genere, tenendo conto del quadro giuridico applicabile e di tutte le circostanze del caso. (…)

51      In secondo luogo, per quanto riguarda la condizione relativa alla necessità di tale trattamento per il conseguimento di detto interesse e, in particolare, l’esistenza di mezzi meno lesivi delle libertà e dei diritti fondamentali degli interessati e altrettanto adeguati, occorre constatare che sarebbe segnatamente possibile, per una federazione sportiva come il KNLTB, che intenda comunicare a titolo oneroso i dati personali dei suoi membri a terzi, informare previamente i suoi membri e chiedere a questi ultimi se desiderano che i loro dati siano trasmessi a tali terzi a fini di pubblicità o di marketing. (…)

56      Inoltre, il giudice del rinvio dovrà tener conto della circostanza che i dati in questione sono trasmessi, in particolare, a un fornitore di giochi d’azzardo e di giochi da casinò, come la NLO, le cui attività di promozione e di marketing, pur se legittime, sono esercitate in un contesto che, contrariamente a quanto risulta dal considerando 47 del RGPD, non sembra essere caratterizzato da una relazione pertinente e adeguata tra gli interessati e il titolare del trattamento. Inoltre, in talune circostanze, il trattamento di tali dati potrebbe avere effetti nefasti sui membri delle associazioni di tennis considerati in quanto tali attività possono esporre detti membri ai rischi connessi allo sviluppo della ludopatia>>.

Pilatesca decisione che non afrronta il tema principalre: questa cessione agli sponsor era stata da loro imposta? C’era margine di manovra diversa? E’ prassi diffusa nel mercato europep questo impoegnoi verso lo sponsor?

A nulla conta , invece, il settore di business dello sponsor, purchè lecito.

La canna fumaria, in linea dimassimam, non costiuisce costruzione ai fini della distanza minima tra costruzioni

Cass. sez. II, ord. 04/10/2024  n.26.042, rel. Pirari, con decisione poco condivisibile:

<<Esiste, infatti, ai sensi dell’art. 873 cod. civ., esiste una nozione unica di costruzione, non modificabile neppure dai regolamenti comunali, stante la loro natura di norme secondarie (Cass. n. 23843 del 2018; n. 144 del 2016; n. 19530 del 2005), la quale non si identifica in quella di edificio, ma consiste in qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione rispetto al suolo, anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente, indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell’opera stessa e dalla tecnica costruttiva adoperata (Cass., Sez. 2, 5/1/2024, n. 345; Cass., Sez. 2, 2/10/2018, n. 23856; Cass., Sez. 2, 20/7/2011, n. 15972).

Anche le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi sostenuti da solette aggettanti, anche se scoperti, ove siano di apprezzabile profondità e ampiezza, costituiscono corpo di fabbrica computabile ai fini del calcolo delle distanze, giacché, pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto civilistico di costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la consistenza dei fabbricati, mentre non sono computabili le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione meramente artistica, ornamentale, di rifinitura od accessoria, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le canalizzazioni di gronda e simili (Cass., Sez. 2, 17/9/2021, n. 25191; Cass., Sez. 2, 19/9/2016, n. 18282; Cass., Sez. 2, 22/7/2010, n. 17242; Cass., Sez. 2, 31/5/2006, n. 12964; Cass., Sez. 2, 26/1/2005, n. 1556).

In linea di principio, secondo la giurisprudenza di questa Corte, tra gli sporti non computabili rientrano, ad avviso del collegio, anche le canne fumarie, ancorché infisse al suolo e aventi i caratteri della solidità e stabilità, avendo esse valenza di mero accessorio di un impianto e non costituendo perciò costruzione, come già chiarito da questa Corte sia pure in tema di distanza delle vedute ai sensi dell’art. 907 cod. civ. (in tal senso vedi Cass., Sez. 2, 23/5/2016, n. 10618; Cass., Sez. 2, 23/2/2012, n. 2741).

Nel caso in esame, la Corte d’Appello ha verificato solo la sporgenza della canna fumaria, mentre avrebbe dovuto verificarne anche le precise caratteristiche costruttive, visto che dalla sentenza non risulta neppure se si tratta di un mero tubo di ferro oppure di un manufatto in muratura>>.

La valenza di accessorio è il profilo dello scopo; ma l’ingombro al passaggio di luce aria e spazio per vedute è altri e può ricorrere anche per canne fumarie.

Il marchio di colore di posizione è difficile da registrare

Il Trib. UE conferma il rigetto della domanda di registrazione per un marchio di colore (rosso giallo nero) e di posizone, applicato a macchine agrigole (Trib. UE 11.0.2024, . Joined Cases T‑361/23 to T‑364/23, Väderstad Holding AB c, EUIPO).

Riporto qui uno dei quattro azionati:

Segnalo solo uno dei motivi di rigetto: il fatto che i detti colori svolgono funzione di sicurezza e segnalazione (“the Board of Appeal found that the signalling effect of the colours red and yellow was of particular importance for the goods at issue, for example at the time when they were used in accordance with their purpose, when they were ‘parked’ or ‘on the road’. It stated that although the colour yellow was more easily perceived in low-light conditions, the colour red was particularly eye-catching during the day and was frequently used for safety purposes on all types of equipment in various sectors, including the agricultural sector. Furthermore, according to the Board of Appeal, the colour black, combined with the colour yellow, creates a contrast and thus improves visibility. As regards the safety function, the Board of Appeal also took into account the presence, on the goods at issue, of the combination of the colours yellow and black in the form of a banal rectangle which further improves visibility. The Board of Appeal found that the combination of the colours red, yellow and black served a safety or signalling function“: § 56.)

L’istante fa presente che ciò non rientra tra i motivi espressi di  nullità del marchio secondo la giurisprudenza UE, § 57.

Da noi non rientra espressamente nell’art. 13.1 (forse però nell’inciso finale alla lett. b): “o altre arattreristiche del prodotto”), nè  nei motivi di invalidità per  quelli di forma ex art. 9 (qui forse si potrebbe farli rientrare nelle lettere  a opppure b-).

Il T. rigetta.

(segnalazione di Marcel Pemsel in IPKat).