La doppia vendita costituisce inadempimento del veniditre verso il primo acquirente

Cass. sez. II, ord. 26/09/2024  n. 25.768, rel. Trapuzzano, in un caso di vendita di autoveicolo e assente l’elemento -sempre presente nelle analoghe liti su immobili- della trascrizione:

<<La vendita successiva ad un terzo dello stesso bene già venduto costituisce, infatti, inadempimento all’obbligo contrattuale che il venditore implicitamente assume nei confronti del primo compratore, allorché esprime la volontà di trasferirgli la piena ed esclusiva disponibilità della cosa – impedita, invece, dalla seconda alienazione della medesima -, che, pertanto, legittima la domanda di risoluzione del primo contratto.

Ed invero, con riguardo al contratto avente ad oggetto il trasferimento della proprietà, nella volontà espressa dal venditore di trasferire a taluno la piena ed esclusiva disponibilità della cosa è implicito l’obbligo di non trasferirla ad altri, con la conseguenza che costituisce inadempimento contrattuale la condotta del proprietario di un bene che, dopo averlo trasferito ad un’altra persona, lo vende successivamente ad un terzo, comportando detta successiva vendita impedimento ad opera del venditore a che il primo acquirente acquisti un concreto potere, pieno ed esclusivo, di godimento e disponibilità della cosa trasferitagli, e così l’inadempimento della cennata correlativa obbligazione contrattuale, con il correlato diritto al risarcimento del danno ed alla risoluzione del contratto (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1403 del 21/03/1989)>>.

Si sarebbe però dovuto approfondire il ruolo della consegna della res, rimasto in ombra nell’ordinanza.

La determinazione del danno biologico in caso di premorienza (nel corso del giudizio di appello, ma non a seguito dell’illecito azionato) e il rapporto tra danno morale e danno biologico

Cass. sez. III, ord. 26/11/2024 n. 30.461, rel. Cricenti:

<<La questione posta con tale motivo riguarda la liquidazione del danno biologico per il caso di premorienza. Si è detto che il danneggiato è morto durante il procedimento di appello. Il che ha comportato che il danno biologico non poteva più essere liquidato sulla base della sua aspettativa di vita, ma piuttosto sulla base dell’effettivo vissuto (9 anni).

Per operare tale liquidazione il giudice di appello ha utilizzato le tabelle milanesi, che, per il caso di premorienza, prevedono un valore decrescente di risarcimento, sul presupposto che l’invalidità permanente incide in maniera maggiore all’inizio, e minore alla fine.

Secondo la ricorrente questo criterio è illogico ed è già stato giudicato come illegittimo da questa Corte, dovendosi invece propendere per una liquidazione proporzionale e non già decrescente.

Il motivo è fondato.

È principio di diritto che ‘Qualora la vittima di un danno alla salute sia deceduta, prima della conclusione del giudizio, per causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell’illecito, l’ammontare del risarcimento spettante agli eredi del defunto “iure successionis” va parametrato alla durata effettiva della vita del danneggiato e non a quella statisticamente probabile, sicché tale danno va liquidato in base al criterio della proporzionalità, cioè assumendo come punto di partenza il risarcimento spettante, a parità di età e di percentuale di invalidità permanente, alla persona offesa che sia rimasta in vita fino al termine del giudizio e diminuendo quella somma in proporzione agli anni di vita residua effettivamente vissuti (Cass. 41933/ 2021; Cass. 15112/ 2024).

La liquidazione del danno biologico, tenuto conto della premorienza del danneggiato, va dunque effettuata proporzionalmente e non già assegnando un maggior valore alla invalidità iniziale ed uno minore a quelle finale, ossia prossima al decesso>>.

Sul rapporto danno morale/danno biologico::

<<Dunque, il danno morale non è stato liquidato. E doveva essere preso in considerazione. La tesi, infatti, secondo cui si tratta di una duplicazione del danno biologico è infondata.

È principio di diritto consolidato che il danno morale è una voce autonoma di danno, che ovviamente va accertato e liquidato solo se verificatosi effettivamente, ma che non costituisce una duplicazione illegittima del danno biologico, né può ritenersi rilevante solo ove sia provata una personalizzazione del danno, ossia solo ove il danno abbia avuto conseguenze singolari ed eccezionali sulla vittima. Il danno morale è una voce di danno come il biologico, che può prodursi senza che si produca quest’ultimo (una ingiuria o una reputazione che determinano sofferenza interiore ma nessuna conseguenza sulla salute).

Di conseguenza va ribadito il principio di diritto secondo cui “In tema di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti, il giudice di merito, dopo aver identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, deve rigorosamente valutare, sul piano della prova, tanto l’aspetto interiore del danno (c.d. danno morale), quanto il suo impatto modificativo in peius con la vita quotidiana (il danno c.d. esistenziale, o danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale), atteso che oggetto dell’accertamento e della quantificazione del danno risarcibile – alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sent. n. 235 del 2014) e del recente intervento del legislatore (artt. 138 e 139 C.d.A., come modificati dalla legge annuale per il Mercato e la Concorrenza del 4 agosto 2017 n. 124) – è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, la quale, nella sua realtà naturalistica, si può connotare in concreto di entrambi tali aspetti essenziali, costituenti danni diversi e, perciò, autonomamente risarcibili, ma solo se provati caso per caso con tutti i mezzi di prova normativamente previsti”. (Cass., 901/ 2018)>>.

Un’applicazione concreta dell’art. 104 c. 1 bis TUF: il caso dell’offerta pubblica di scambio Unicredit/Banco BPM

I  media, non solo italiani, parlano diffusamente dell’OPS lanciata da Unicredit su Banco BPM (ritenuta ostile dal cda: v. comunicato stampa del Banco , in attesa della sua valutazione officiale ex art. 103.3 tuf) , dopo lo stop politico (da vedere se solo temporaneo) di quella sulla tedesca Commerzbank.

Banco BPM aveva già in corso a sua volta una opa su Anima Holding.

Il punto qui sottolineato è se l’esecuzione/completamento di questa ultima sia ammissibile o meno, alla luce dell’art. 104 tuf (“Difese”: c.d passivity rule) e in particolare del suo c. 1 bis, relativo all’attuazione delle decisioni prese prima del lancio dell’opa (qui: ops).

Il criterio per decidere è quello del se rientri o meno nel  “corso normale delle attività della società”.

Arrigoni e Restelli su LInkedin ricordano il loro saggio su BBTC, 2024 in cui  affrontano proprio questo argomento, optando per un’interpretazione ampia: “Coerentemente con la ratio che anima la disciplina in esame (supra, par. 5.1), la “normalità” cui si riferisce l’art. 104, comma 1-bis, t.u.f. dovrebbe allora essere ricercata nell’effettiva funzionalizzazione dell’atto all’esercizio dell’impresa, secondo le coordinate generali tracciate dall’oggetto sociale (primary purpose doctrine). Si dovrebbe così ritenere che rientrino « nel corso normale delle attività » (e che dunque non richiedano la preventiva autorizzazione dell’assemblea) tutte quelle operazioni che — a prescindere dalla loro “eterodossia” o eccezionalità — trovino la loro causa nel genuino adempimento dei doveri exartt. 2380-bis e 2392 c.c., nonché nella necessità di assicurare la sana e prudente gestione dell’impresa bancaria (art. 5 t.u.b.). Come si è detto, infatti, non vi è alcuna ragione di presumere che le decisioni assunte prima che sia resa nota l’intenzione di lanciare un’o.p.a. abbiano natura difensiva per il solo fatto che queste possano avere come semplice effetto quello di « contrastare il conseguimento degli obiettivi dell’offerta » (art. 104, commi 1° e 1-bis, t.u.f.). In tali circostanze, conformemente alla ratio che ispira la disciplina in esame, è invece necessario valutare la causa concreta dei singoli atti proposti dal consiglio di amministrazione, sottoponendo all’autorizzazione assembleare solamente le misure difensive in senso stretto”.

La questione è assai interessante ma di non semplice soluizione. Pare tuttavia eccessivamente largheggiare la proposta degli aa.

Il fatto che la scelta sia diligente ex art. 2392 non significa che sia normale/routinaria: la diligenza si applica anche ai casi difficili e straordinari, non normali.

Differenza tra gli assegni di mantenimento da separazione e da divorzio

Cass. sez. I ord. 22.11.2024 n. 30.119, rel. Acierno:

<<La separazione personale, a differenza dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, presuppone la permanenza del vincolo coniugale, sicchè in assenza della condizione ostativa dell’addebito, resta ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea, dalla quale deriva solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione, e che ha una consistenza ben diversa dalla solidarietà post-coniugale, presupposto dell’assegno di divorzio. Quanto alla determinazione del quantum dell’assegno di mantenimento, inoltre, è sufficiente che sia fondata su un’attendibile ricostruzione delle complessive situazioni patrimoniali e reddituali dei coniugi>>.

(massima di Valeria Cianciolo in OndiF)

Il riconoscimento di figlio naturale non è necessariamente impugnabile solo perchè non veritiero

Cass. sez. I, Ord. 20 novembre 2024 n. 29.882, rel. Tricomi, sull’art. 264 cc:

<<Va rigettata la domanda di impugnazione di riconoscimento di paternità per difetto di veridicità, anche qualora il riconoscimento falso sia stato compiuto consapevolmente, se ciò corrisponde all’interesse del minore secondo il principio di bilanciamento del favor veritatis con il favor minoris, come stabilito dalla Corte Costituzionale nella pronuncia n.127 del 2020, che induce il giudice ad applicare variabili molto più complesse della rigida alternativa vero o falso>>

(massima di Cesare Fossati in Ondif)

Le spese dovute per le esigenze familiari non sono rimborsabili al coniuge che le ha sostenute

Cass. Civ., Sez. I, Ord. 20 novembre 2024, n. 29880, rel. Ioffrida:

<<Poiché durante il matrimonio ciascun coniuge è tenuto a contribuire alle esigenze della famiglia in misura proporzionale alle proprie sostanze, secondo quanto previsto dagli artt. 143 e 316-bis, primo comma, c.c., a seguito della separazione non sussiste il diritto al rimborso di un coniuge nei confronti dell’altro per le spese sostenute in modo indifferenziato per i bisogni della famiglia durante il matrimonio, dovendosi avere riguardo, quanto all’adempimento dell’obbligo di contribuzione ai bisogni della famiglia, non solo ai redditi rispettivi dei coniugi, ma anche ad ogni altra risorsa economica e personale dei due obbligati e alle rispettive capacità lavorative professionali o domestico-casalinghe ed essendo tenuto il coniuge che assuma di avere, da solo, contribuito al mantenimento della famiglia, a fornire prova della mancata contribuzione al menage familiare da parte dell’altro>>.

(massima di Cesare Fossati in Ondif)

Il genitore è legittimato a richiedere l’assegno di mantenimento del figlio maggiorenne non ancora autosufficiente economicamente

Cass. sez. I, ord. 22/11/2024  n.30.179, rel Pazzi:

<<La legittimazione iure proprio del genitore a richiedere l’assegno di mantenimento del figlio maggiorenne non ancora autosufficiente economicamente, che non abbia formulato autonoma richiesta giudiziale, sussiste quand’anche costui si allontani per motivi di studio dalla casa genitoriale, qualora detto luogo rimanga in concreto un punto di riferimento stabile al quale fare sistematico ritorno e sempre che il genitore anzidetto sia quello che, pur in assenza di coabitazione abituale o prevalente, provveda materialmente alle esigenze del figlio, anticipando ogni esborso necessario per il suo sostentamento presso la sede di studio>>.

(massima da De Jure)

In claris non fit interpretatio: talora è regola corretta

Interessante pronuncia su una success fee pattuita dall’avvocato con il convenuto: quindi parametrata non al quantum ottenuto ma al quantum ridotto rispetto alla domanda attorea.

Si tratta di Cass. sez. II, ord. 22/11/2024 n. 30.156, rel. OLiva:

fatto:

<<Il Tribunale ha dato atto che le parti avevano pattuito il compenso in parte in misura fissa, e precisamente in Euro 14.000, ed in parte in misura variabile, mediante una “success fee” pari allo 0,7% del minor importo che fosse stato ritenuto dovuto rispetto alla pretesa iniziale proposta dal Fallimento Antenna Tre Nord Est Spa nei confronti del Ba.. Ha però argomentato, il giudice di merito, che la predetta “success fee” non fosse dovuta, in quanto la pattuizione avrebbe avuto ad oggetto la sola ipotesi di accoglimento parziale della domanda, e non anche quella del suo totale rigetto, ed ha quindi limitato la pretesa degli odierni ricorrenti alla sola somma determinata in misura fissa, dalla quale ha poi detratto gli acconti, giungendo all’importo finale determinato in ordinanza.

I ricorrenti contestano tale statuizione, osservando che la clausola si riferisse ad ogni ipotesi in cui la pretesa della procedura concorsuale fosse stata ridotta, e dunque anche all’eventualità del suo totale rigetto. In effetti, la formulazione letterale della clausola non lascia dubbi, posto che essa prevede la spettanza della “success fee” nella misura dello “.. 0,7% del minor importo stabilito dal Giudice rispetto alla somma di Euro 3.333.460,15 oggetto della domanda” (cfr. pag. 3 del ricorso) e dunque in qualsiasi ipotesi di riduzione della pretesa di cui anzidetto>>.

La SC:

<<Ad avviso del Collegio, il giudice di merito ha operato un’interpretazione controletterale della clausola, in violazione dell’art. 1362 c.c., il quale, allorché nel primo comma prescrive all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto ma, al contrario, intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile (cfr. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 10967 del 26/04/2023, Rv. 667678, ed ivi richiami ai precedenti conformi, tra cui Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 21576 del 22/08/2019, Rv. 654900 e Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10290 del 27/07/2001, Rv. 548566).

Nel caso in esame, lettera e spirito della clausola, così come accertati nella loro oggettività dal Tribunale, mirano a parametrare il compenso professionale al valore differenziale tra disputatum e decisum, nel senso di far proprio (anche) nel rapporto interno tra il professionista e il suo cliente un criterio che normalmente rileva (solo) nel rapporto esterno tra le parti, ai limitati fini della liquidazione delle spese che il giudice opera in danno del soccombente.

Ciò posto, poiché il Tribunale ha accertato l’integrale rigetto della domanda proposta dalla procedura fallimentare, l’esito interpretativo della clausola in oggetto non può essere – ostandovi lo spirito della stessa – quello paradossale di azzerare un compenso aggiuntivo che, diversamente, ove cioè la domanda fosse stata accolta in qualsivoglia misura, vi sarebbe comunque stato a favore degli odierni ricorrenti>>.

Il conto corrente cointestato non comporta necessariamente la facoltà disgiunta di operarvi

Cass. sez. I, ord. 19/09/2024  n. 25.243, rel. Di Marzio:

<<6. – Il ricorso è inammissibile.

Esso muove dalla premessa che il conto cointestato recasse la facoltà di ciascuna cointestataria di compiere operazioni anche separatamente: ma questa premessa non risulta desumibile da quanto il ricorrente narra in ricorso, e la sentenza impugnata non ne parla, e cioè quella indicata risulta essere una prospettazione fattuale nuova.

L’inammissibilità dunque discende ex articolo 360-bis, n. 1, c.p.c., dall’applicazione del principio che segue: “In tema di conto corrente bancario cointestato a più persone, la facoltà per gli intestatari di compiere operazioni anche separatamente non può essere presunta per il solo fatto della comune intestazione, ma va espressamente menzionata nel contratto attraverso il rispetto di rigorosi requisiti formali, in quanto l’esigenza formale che caratterizza i contratti bancari, ai sensi dell’art. 117 del D.Lgs. n. 385 del 1993, ne preclude il rinvenimento in base al mero comportamento, processuale o extraprocessuale, delle parti” (Cass. 20 marzo 2017, n. 7110)>>.

Rigetto un pò brutale del ricorso, essendo sostanzialmente immotivato (certo non basta ricjhiamare una massima di precedent Cassazione). L’insegnamento evocato è però esatto, anche se probabilmente ovvio (assenti dati normativi contastrastanti)

Onere provatorio per escludere la condominialità di uin bene (art. 1117 cc: “se non risulta in contrario dal titolo”)

Cass. sez. II, ord. 21/11/2024 n. 30025, rel. Pirari, ribadisce insegnamenti consolidati:

<<7.1. Va, innanzitutto, premesso che, secondo quanto già reiteratamente statuito dalla giurisprudenza di questa Corte, per affermare la condominialità di un bene occorre gradatamente verificare dapprima che la res, per le sue caratteristiche strutturali, risulti destinata oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari (cfr. Cass. Sez. Unite, 7/07/1993, n. 7449 e, più recentemente, Cass., Sez. 2, 8/09/2021, n. 24189), e poi che [“non”: dimenticanza della SC…] sussista un titolo contrario alla “presunzione” di condominialità, facendo riferimento esclusivo al primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto.

L’art. 1117 cod. civ., infatti, nel contemplare un elenco, non tassativo, di beni caratterizzati dalla loro attitudine oggettiva al godimento comune e dalla concreta destinazione dei medesimi al servizio comune (Cass., Sez. 2, 18/4/2023, n. 10269; Cass., Sez. 2, 23/08/2007, n. 17928), opera ogniqualvolta, nel silenzio del titolo, il bene, per le sue caratteristiche, sia suscettibile di utilizzazione da parte di tutti i proprietari esclusivi (Cass., Sez. 2, 20/07/1999, n. 7764; Cass., Sez. 2, 30/03/2016, n. 6143), in quanto detta una presunzione di comune appartenenza a tutti i condomini che non può essere vinta con qualsiasi prova contraria, ma soltanto alla stregua delle “opposte risultanze di quel determinato titolo che ha dato luogo alla formazione del condominio per effetto del frazionamento dell’edificio in più proprietà individuali” (Cass., Sez. 2, 6/7/2022, n. 21440). La situazione di condominio, regolata dagli artt. 1117 e seguenti cod. civ., si attua, infatti, sin dal momento in cui si opera il frazionamento della proprietà di un edificio, a seguito del trasferimento della prima unità immobiliare suscettibile di separata utilizzazione dall’originario unico proprietario ad altro soggetto (Cass., Sez. 2, 6/7/2022, n. 21440, cit.), la cui trascrizione, comprensiva pro quota, senza bisogno di specifica indicazione, anche delle parti comuni, ne consente l’opponibilità ai terzi dalla data dell’eseguita formalità (Cass., Sez. 2, 17/2/2020, n. 3852; Cass., Sez. 2, 9/12/1974, n. 4119).

In presenza di tale presunzione legale, il condominio è, dunque, dispensato dalla prova del suo diritto, ed in particolare dalla cosiddetta probatio diabolica, spettando invece al condòmino che rivendichi la proprietà esclusiva di uno dei beni di cui al suddetto elenco dare la prova delle sue asserzioni, senza che a tal fine sia rilevante il titolo di acquisto proprio o del suo dante causa, ove non si tratti dell’atto costitutivo del condominio, ma di alienazione compiuta dall’iniziale unico proprietario che non si era riservato l’esclusiva titolarità del bene (Cass., Sez. 2, 17/2/2020, n. 3852; Cass., Sez. 2, 7/6/1988, n. 3862).

Ciò comporta che è al primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dall’originario unico proprietario e al conseguente frazionamento dell’edificio in più proprietà individuali che occorre fare riferimento al fine di verificare la possibilità di superare la previsione di cui all’art. 1117 cod. civ., con la conseguenza che non può considerarsi dirimente, a tali fini, il contenuto del contratto di compravendita di colui che abbia acquistato in epoca successiva al primo atto di acquisto dall’originario unico proprietario, a meno che questi non si sia riservato la proprietà di alcune porzioni immobiliari che sarebbe altrimenti cadute nella presunzione di condominialità. Quanto al regolamento condominiale c.d. contrattuale, ossia quello contestuale alla nascita del condominio e accettato col consenso individuale dei singoli condomini (cfr. Cass., Sez. 2, 6/7/2022, n. 21440, cit.; anche Cass., Sez. 2, 7/4/2023, n. 9951; Cass. Sez. 2, 03/05/1993, n. 5125; Cass. Sez. 2, 21/05/2012, n. 8012), deve osservarsi come esso possa contenere, oltre alle norme relative all’amministrazione e alla gestione delle parti comuni, anche l’indicazione stessa delle parti comuni e perfino la previsione dell’uso esclusivo di una parte dell’edificio definita comune a favore di una frazione di proprietà esclusiva, dando luogo ad un vincolo di natura pertinenziale, siccome posto in essere dall’originario unico proprietario dell’edificio, legittimato all’instaurazione e al successivo trasferimento del rapporto stesso ai sensi degli artt. 817, secondo comma, e 818 c.c. (Cass., Sez. 2, 4/9/2017, n. 20712; Cass. Sez. 2, 04/06/1992, n.6892; ma si veda anche Cass. Sez. 2, 24/11/1997, n. 11717).

Tuttavia, proprio perché l’esclusione, dal novero delle parti condominiali, di alcune porzioni dell’edificio che altrimenti vi ricadrebbero alla stregua della presunzione di cui all’art. 1117 cod. civ. incide sulla costituzione o modificazione di un diritto reale immobiliare (con la conseguenza che l’esclusione stessa deve risultare ad substantiam da atto scritto), è necessario, per aversi titolo contrario, che dal negozio, così come dal regolamento c.d. contrattuale, emergano elementi tali da essere in contrasto con l’esercizio del diritto di condominio, e tale indagine, in quanto afferente all’interpretazione della volontà negoziale dei condomini, presuppone un accertamento di fatto demandato all’apprezzamento dei giudici del merito, rimanendo incensurabile in sede di legittimità se non per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, così come previsti negli artt. 1362 e seguenti cod. civ., oppure nei limiti di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. (Cass., Sez. 2, 6/7/2022, n. 21440 cit.), senza che rilevi il dato empirico che l’area in esame, per la conformazione dei luoghi, sia stata di fatto goduta ed utilizzata più proficuamente e frequentemente dal condomino titolare della contigua unità immobiliare adibita ad attività commerciale, piuttosto che dagli altri condomini (Cass., Sez. 2, 4/9/2017, n. 20712; anche Cass., Sez. 2, 3/05/2002, n. 6359)>>.