Requisiti oggettivi per il diritto agli alimenti (stato di bisogno e incapacità di provvedere al proprio mantenimento)

Cass. sez. I, ord.  09/12/2024 n. 31.555, rel. Parise:

<<2.1. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte che il Collegio condivide, il diritto agli alimenti è legato alla prova non solo dello stato di bisogno, ma anche della impossibilità di provvedere, in tutto o in parte, al proprio sostentamento mediante l’esplicazione di un’attività lavorativa, sicché, ove l’alimentando non provi la propria invalidità al lavoro per incapacità fisica o l’impossibilità, per circostanze a lui non imputabile, di trovarsi un’occupazione confacente alle proprie attitudini e alle proprie condizioni sociali, la relativa domanda deve essere rigettata (Cass.21572/2006). È stato altresì precisato (Cass. 11889/2015; Cass. 33789/2022) che lo stato di bisogno deve essere connotato da una oggettiva impossibilità di soddisfare i bisogni primari con proprie fonti o attingendo anche da una rete solidale, per quanto non giuridicamente vincolante e però sostanzialmente fruibile e continuativa [NB: è il passaggio più ibnteressnte] e deve essere valutato in relazione alle effettive condizioni dell’alimentando, tenendo conto di tutte le risorse economiche di cui il medesimo disponga, compresi i redditi ricavabili dal godimento di beni immobili in proprietà o in usufrutto, e della loro idoneità a soddisfare le sue necessità primarie (così anche Cass.25248/2013).

2.2. Nel caso di specie la Corte di merito, sulla scorta dell’accertamento peritale effettuato in primo grado e degli elementi probatori acquisiti, ha fatto corretta applicazione dei suesposti principi, e, dopo aver dato conto delle complesse patologie fisiche da cui era affetta la controricorrente e della situazione anche psicologica in cui si trovava, ha affermato che la Bo.Ma. non era, allo stato, “concretamente in grado di attivarsi per reperire (e per mantenere) una occupazione lavorativa, seppur astrattamente compatibile con la propria formazione universitaria e con le proprie condizioni e limitazioni fisiche (ad esempio riprendendo le traduzioni a domicilio)”. In particolare la Corte di merito ha condiviso la valutazione effettuata dal Tribunale, secondo cui la malattia rara (“displasia neuronale viscerale, interessante il tubo digerente, con sintomatologia insorta nell’infanzia, con stipsi ostinata”) da cui è affetta la figlia del ricorrente aveva comportato, a partire dal 2013, interventi chirurgici e cure costanti. Era inoltre emersa «, pur a fronte di una pregressa istruzione universitaria ed attività lavorativa come traduttrice per alcune case editrici e privati, una attuale (dal 2013 ad oggi) situazione di ritiro sociale, assenza di occupazione, continua necessità di dedicarsi a specifiche manovre fisiologiche derivanti dalla patologia, con impossibilità di uscire di casa se non per poco tempo ed in dipendenza dalle condizioni fisiche del momento; la signora è risultata di umore deflesso, con note ansiose, affetta da “attendibile disturbo alimentare in magrezza grave”. Il consulente ha riconosciuto alla stessa una riduzione della capacità lavorativa generica, in rapporto ai quadri morbosi coesistenti, del 67%»>>.

Interessanti le circostanze fattuali, come sempre in casi del genere:

<<Sulla base di tali risultanze, la Corte di merito ha quindi concluso ritenendo “sussistente, quantomeno ad oggi, di fatto, uno stato di bisogno dovuto ad una incolpevole capacità di provvedere al proprio sostentamento”.

A fronte di tale congruo percorso motivazionale, la censura espressa con il primo motivo non coglie nel segno, poiché con la locuzione “incolpevole incapacità di provvedere al proprio sostentamento” la Corte di merito non ha affatto inteso, contrariamente a quanto si sostiene in ricorso, valorizzare un elemento soggettivo, ma proprio, invece, l’impossibilità concreta dell’alimentanda, allo stato, “di attivarsi per reperire (e per mantenere) una occupazione lavorativa” , così come previsto dall’art. 438 c.c.

2.3. Le doglianze espresse con gli altri motivi sono inammissibili perché non si confrontano compiutamente con la motivazione della sentenza impugnata o sollecitano impropriamente il riesame del merito.

Nello specifico, la Corte d’Appello ha dato atto che la controricorrente non ha più lavorato, come traduttrice a domicilio, solo da quando le sue condizioni di salute sono peggiorate e ha subito una serie ravvicinata di interventi chirurgici (e non da venti anni come si assume in ricorso) e non ha affatto basato il proprio convincimento sulla sola sussistenza di una riduzione parziale della capacità lavorativa generica (secondo motivo), ma sulla complessiva situazione fisica e psichica riscontrata dal C.T.U. e valutata all’attualità, ed anzi ha auspicato che l’alimentanda trovi un supporto “in quelle difficoltà collaterali (ad esempio nell’alimentazione, che la stessa ha riferito essere attualmente solo liquida), anche di natura verosimilmente psicologica, che le hanno reso sino ad oggi concretamente non spendibile neppure quella residua capacità lavorativa alla stessa riconosciuta dal consulente”.

I motivi terzo (ingenti disponibilità economiche della controricorrente), quarto (CTU “referente” ) e quinto (convincimento basato su mere deduzioni) denunciano la violazione degli artt. 428 c.c. e 115 e 116 c.p.c., ma in realtà si tratta di doglianze impropriamente dirette al riesame dei fatti. La Corte d’Appello ha preso in considerazione la situazione economica della controricorrente, in particolare l’aiuto anche economico consistente datole negli anni dallo zio materno, ma ne ha escluso motivatamente la rilevanza ai fini che qui interessano, così affermando “Il lodevole aiuto, di carattere materiale e non solo, fornito alla sig.ra Bo.Ma., da circa 20 anni (sostanzialmente dal decesso della madre) dallo zio materno non può essere utilizzato né per escludere lo stato di bisogno dell’appellata (atteso che le somme erogate sono ovviamente soggette ad inevitabile erosione in assenza di redditi periodici) né per esonerare il padre dal proprio onere di solidarietà familiare”.

Le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio hanno consentito di accertare la reale condizione fisica e psichica dell’alimentanda e le conclusioni peritali sono state condivise dalla Corte d’Appello e, prima, dal Tribunale in quanto basate su riscontri oggettivi e documentati. La motivazione della sentenza impugnata è congrua e pienamente comprensibile, nonché ancorata a dati di riscontro e sorretta da un ragionamento logicamente argomentato>>.

Trasferimento titoli di credito tra adempimento (valido) di obbligazione naturale, liberalità indiretta e donazione nulla per macanza di forma

Cass. sez. II, ord. 05/12/2024 n. 31.170, rel. Falaschi:

fatto:

<<con atto di citazione notificato il 25 maggio 2004 , De.Al. evocava, innanzi al Tribunale di Ravenna, Mu.Ma., chiedendo di accertare e dichiarare la nullità per vizio di forma di n. 124 atti di liberalità, sotto forma di trasferimento di titoli di credito, per una somma totale pari a Euro 144.607,93, elargiti durante la vita dall’anziano padre, De.Gi., in favore della convenuta, madre della loro figlia, riconosciuta solo dopo l’introduzione di un contenzioso, sostenendo che tali elargizioni configuravano donazioni nulle, poiché effettuate in assenza della forma prescritta ad substantiam, non al fine di contribuire al mantenimento della nipote, come sostenuto dalla Mu.Ma., ma in virtù della relazione affettiva che lo stesso De.Gi. aveva instaurato con Mu.Ma.;>>

Poi in diritto:

<< Con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione o la falsa applicazione degli artt. 769,782 e 2034 c.c., oltre che degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., per aver la Corte d’Appello ritenuto che le dazioni di De.Gi. integrassero donazioni nulle ex art. 769 c.c. sulla sola base del quantum dell’attribuzione e delle modalità adottate per il loro trasferimento, piuttosto che un’obbligazione naturale per l’adempimento di doveri morali ex art. 2034 c.c., derivanti dalla solidarietà familiare e, come tali, impassibili di restituzione ai sensi dell’art. 2033 c.c. Secondo la ricorrente, il giudice avrebbe omesso di compiere indagini necessarie ai fini della verifica della proporzionalità ed adeguatezza del valore delle dazioni rispetto alla situazione di ampia e diffusa disponibilità patrimoniale di De.Gi.. Inoltre, il giudice di seconde cure avrebbe giudicato in contraddizione con le prescrizioni dell’art. 115 c.p.c, non ponendo a fondamento delle sue argomentazioni le risultanze istruttorie decisive, come la risultanza istruttoria decisiva del CTP nelle proprie osservazioni del 31 dicembre 2009, formulate in sede di CTU per la sola valutazione del quantum delle dazioni.

Il motivo è privo di pregio.

Occorre preliminarmente rilevare che la consolidata giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente ribadito che il trasferimento di dossier titoli da parte del beneficiante nei confronti di un beneficiario non configura una liberalità atipica, riconducibile alla disposizione di cui all’art. 809 c.c., per ragioni quali l’entità degli importi, le modalità di trasferimento e la stabilità dell’attribuzione patrimoniale, che presuppongono la stipulazione dell’atto pubblico di donazione, predisposto dall’ordinamento al fine di tutelare il donante e assicurarsi che abbia effettiva contezza del compimento di atti di disposizione del proprio patrimonio, onde evitare scelte affrettate e conseguenze potenzialmente pregiudizievoli, integrando una donazione diretta ad esecuzione indiretta, suscettibile come tale di impugnazione per mancanza del requisito formale dell’atto pubblico (Cass., Sez. Un., n. 18725 del 2017; Cass. n. 23127 del 2021; Cass. n. 527 del 1973).

Orbene, di questo principio ha fatto corretta applicazione la Corte di merito, qualificando l’atto in questione come una donazione diretta ma nulla, poiché sprovvista del requisito di forma scritta ad substantiam, ritenendo che la volontà del nonno fosse quella di attribuire alla nipote risorse adeguate alle sue esigenze di vita futura>>.

Purtroppo mancano dettagli sul tipo di titoli e di trasferimento (124 atti in tale senso!!!).

Onere impossibile o illecito, nullità del legato e pluralità di motivi alla base di questo (art. 647.3 cc)

Cass. sez. II sent.  24/10/2024 n. 27.606, rel. Fortunato:

In diritto:

<<L’art. 647 c.c., comma terzo, c.c. dispone che l’onere impossibile o illecito si considera non apposto, ma rende nulla la disposizione se ne ha costituito il solo motivo determinante.

Affinché la nullità del modus possa invalidare l’intero lascito e necessario accertare se esso sia stato ispirato da un motivo senza il quale la volontà testamentaria sarebbe stata diversa e il legato non sarebbe stato disposto.

In presenza di una pluralità di motivi, uno solo di essi può essere considerato determinante ai fini della validità del legato, prevedendo la norma in ogni caso che l’errore sul motivo deve cadere su quello che risulti causam dans.

Più in particolare, se di due o più motivi ognuno ha pari efficienza, nessuno dei due isolatamente può essere considerato causam dans. Basta che uno dei due sia lecito o possibile perché la disposizione sia salva.

Se invece, di più motivi, uno solo sia determinante, l’errore su questo travolge la disposizione (cfr., testualmente, Cass. 1380/1955; Cass. 2071/1964; in tema di errore, di recente, Cass. 7056/2023)>>.

Applicato al caso sub iudice:

<<Ciò posto, anche a ritenere ormai acquisito e non più confutabile che il vincolo destinazione gravasse non solo sulla villa ma sull’intero compendio, non appare superabile l’accertamento in concreto svolto dal giudice circa il fatto che la disposizione era sorretta anzitutto da una molteplicità di motivi, tra cui lo svolgimento di attività benefiche, di pari rilevanza e che, invece, l’unico motivo tra i tanti che poteva considerarsi preminente e determinante risiedeva nella volontà di Carla Pontoni di ottenere l’intitolazione della casa di riposo alla memoria dei genitori, volontà che, come ha evidenziato la sentenza, era stata esplicitamente manifestata nel testamento.

A tale conclusione il giudice è pervenuto sulla base del dato letterale e di una lettura coordinata delle altre disposizioni, rilevando l’autonomia degli altri e diversi oneri e la determinante volontà di onorare la memoria degli ascendenti, in ossequio al principio per cui nell’interpretazione del testamento occorre privilegiare gli elementi intrinseci alla scheda e, solo ove il loro impiego non approdi a risultati appaganti, è possibile far ricorso ad elementi estrinseci (Cass. 10882/2018; Cass. 23393/2017).

La sentenza ha inoltre spiegato che le finalità di assistenza non potevano considerarsi le uniche che avevano indotto a testare e che, invece, l’aver beneficiato del legato proprio la Casa di Cura di C era coerente con lo scopo primario di onorare la memoria dei genitori, che solo l’Istituto avrebbe potuto realizzare.

Essendo tale motivo sicuramente lecito e determinante, era esclusa l’invalidità del lascito.

L’asserita strumentalità di molti degli oneri (e della stessa intitolazione della casa di riposo) rispetto alla destinazione non trova avallo nella sentenza, né appare autoevidente. Taluni pesi erano certamente compatibili con finalità estranee agli scopi benefici, ben potendo essere soddisfatti quale che fosse l’ulteriore scopo dell’attribuzione (costituzione dell’usufrutto, corresponsione di una somma una tantum ai coloni, pagamento delle imposte etc.), non assumendo valenza confermativa della perpetuità del vincolo di destinazione come unica ragione determinante del legato; la clausola che prevedeva la perdita dei diritti successori da parte dei chiamati che avessero impugnato il testamento rivelava invece – come ha spiegato la sentenza – l’equivalenza e la pari influenza dei diversi motivi del legato.

Lo scopo di onorare la memoria dei genitori della Po.In. non poteva considerarsi collegata alla destinazione dei beni a finalità benefiche, nel senso di esplicitare e integrare il reale movente della de cuius (come sostenuto in ricorso), potendo valere come autonoma ragione giustificativa, sul piano soggettivo, del lascito in sé, che la Po.In. avrebbe comunque disposto in favore dell’ente, essendo quella intitolazione rispondente ad un preciso interesse morale della de cuius, rispetto al quale anche la stessa perpetuità della destinazione (e del vincolo di alienabilità) poteva in astratto risultare funzionale.

I motivi di censura, nel professare il carattere unico e determinante del vincolo di destinazione, sconfinano nel perimetro degli accertamenti di merito circa il contenuto della volontà testamentaria, incensurabile in cassazione sotto i profili dedotti in ricorso>>.

Il secondary meaning si applica ai marchi ma non alll’imitazione servile

App. Milano 31.10.2023, RG 1609/2022, rel. Cortelloni:

<<Sotto altro profilo, la Corte ritiene che non sia meritevole di condivisione l’ulteriore prospettazione, articolata dalla Società appellante, in base alla quale i prodotti Vimar Spa, sebbene in origine privi di capacità individualizzante, l’abbiano acquisita nel tempo, stante la loro ampia e prolungata presenza sul mercato.
L’appellante prospetta l’acquisto di un “secondary meaning” da parte dei propri prodotti e che ciò consentirebbe di ottenere la protezione di cui all’art. 2598 c.c.
La Corte ritiene che la doglianza in esame non sia fondata, per le ragioni che seguono.
Il richiamo al c.d. secondary meaning è evocativo (sebbene l’appellante non vi faccia espresso riferimento) alla disciplina in tema di “marchi” e, segnatamente, all’art. 13, comma 3°, c.p.i.

Invero, tale norma, dopo avere previsto, al primo comma, che non possono costituire oggetto di registrazione – come marchio di impresa – i segni privi di carattere distintivo, al comma 3°, prevede che: “il marchio non può essere dichiarato o considerato nullo, se prima della proposizione della domanda o dell’eccezione di nullità, il segna che ne forma oggetto, a seguito dell’uso che ne è stato fatto, ha acquistato carattere distintivo”.
Secondo la corrente interpretazione, il secondary meaning indica l’acquisizione, da parte del segno sprovvisto in origine di capacità distintiva, in quanto generico o meramente descrittivo, di una tale capacità: “per effetto del consolidarsi del suo uso sul mercato, così l’ordinamento si trova a recepire “il fatto” della acquisizione successiva di una “distintività” attraverso un meccanismo di “convalidazione” del segno”.
Trattasi, pertanto, di un ambito di applicazione diverso da quello oggetto della presente controversia ed avente presupposti differenti.
Tale disciplina (art. 13 cpi) ha ad oggetto il “marchio”, quale segno distintivo di una determinata realtà imprenditoriale e che viene tutelato in quanto tale (cfr. artt. 20 e ss. c.p.i.); al contrario, quella codicistica, in tema di concorrenza sleale per imitazione servile, tutela un “prodotto” nella (sola) misura in cui l’imitazione della sua forma individualizzante risulti idonea a creare confusione nel pubblico di riferimento.
Quindi, mentre l’azione di contraffazione ha natura reale ed è volta a tutelare il diritto all’uso e allo sfruttamento esclusivo del marchio, in sé considerato e nel rispetto delle condizioni e dei limiti temporali previsti dalla tutela brevettuale; l’azione ex art. 2598 n. 1) c.c., invece, tutela il prodotto se ed in quanto l’imitazione possa indurre in inganno circa la sua provenienza>>

Questione interessante ma risposta giudiziale non perspicua ed anzi frettolosa. La applicabilità del S. M. non mi pare esclusa in partenza ma semmai solo dopo approfondito raginamento, valendo la ratio nel marchio forse anche nella condondibilità dell’aspetto.

Sul rapporto tra fondo di investimento e società di gestione (SGR)

Cass. sez. trib., sent. 12/06/2024 n. 16.285, rel. Nonno:

<<3.1. La questione che si pone con riferimento al primo motivo è essenzialmente quella di comprendere se VR, nella sua qualità di SGR, possa essere qualificata debitore di IVA ai sensi dell’art. 17, del D.P.R. n. 633 del 1972 con riferimento ai debiti tributari facenti capo al fondo comune IBISCO.

3.2. L’art. 1, comma 1, lett. j), del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria – TUF), nella versione applicabile ratione temporis, afferma che il fondo comune di investimento è “il patrimonio autonomo raccolto, mediante una o più emissione di quote, tra una pluralità di investitori con la finalità di investire lo stesso sulla base di una predeterminata politica di investimento; suddiviso in quote di pertinenza di una pluralità di partecipanti; gestito in monte, nell’interesse dei partecipanti e in autonomia dai medesimi”.

3.2.1. Ai sensi dell’art. 36 del TUF il fondo comune è gestito da una società di gestione, che può o meno coincidere con la società promotrice, e che assume verso i partecipanti al fondo, solidalmente con quest’ultima, gli obblighi e le responsabilità del mandatario.

3.2.2. Ciò premesso, secondo Cass. n. 16605 del 15/07/2010, “I fondi comuni d’investimento (nella specie, fondi immobiliare chiusi), disciplinati nel D.Lgs. n. 58 del 1998, e succ. mod., sono privi di un’autonoma soggettività giuridica ma costituiscono patrimoni separati della società di gestione del risparmio; pertanto, in caso di acquisto nell’interesse del fondo, l’immobile acquistato deve essere intestato alla società promotrice o di gestione la quale ne ha la titolarità formale ed è legittimata ad agire in giudizio per far accertare i diritti di pertinenza del patrimonio separato in cui il fondo si sostanzia” (conf. Cass. n. 12062 del 08/05/2019).

3.3. Può, quindi, schematicamente affermarsi, per come disposto dal D.Lgs. n. 58 del 1998 (la CTR cita erroneamente la L. 23 marzo 1983, n. 77, abrogata proprio dal menzionato decreto legislativo), che, secondo il diritto interno: i) il fondo comune costituisce un patrimonio separato; ii) detto fondo non ha soggettività giuridica autonoma; iii) i beni immobili acquisiti dal fondo comune vengono intestati alla SGR; iv) è la SGR ad esercitare tutti i diritti relativi ai beni, imputando poi profitti e perdite al fondo comune>>.

Riconoscimento dei vizi da parrte dell’appalrztore nmon signific mnecessariamente assunzione della relativa responsabilitòà

Cass. sez. II, ord.  18/12/2024 n. 33.053, rel. Varrone:

<<La Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione del seguente principio di diritto: In tema di appalto, il riconoscimento da parte dell’appaltatore dei vizi e delle difformità dell’opera, agli effetti dell’art. 1667, secondo comma, cod. civ., non richiede la confessione giudiziale o stragiudiziale della sua responsabilità, né formule sacramentali e può, pertanto, manifestarsi per fatti concludenti, essendo sufficiente, affinché l’eccezione di decadenza del committente dalla garanzia per vizi possa ritenersi rinunciata e preclusa, che l’appaltatore abbia tenuto, nel corso del giudizio di primo grado, un comportamento incompatibile con la volontà di avvalersi di detta decadenza (Sez. 2, Sentenza n. 2733 del 05/02/2013, Rv. 624876-01).

Tuttavia, la Corte d’Appello ha compiuto un errore allorquando ha ritenuto sufficiente il riconoscimento del vizio per mutare l’obbligazione dell’appaltatore in obbligazione di garanzia che si prescrive in dieci anni. La Corte d’Appello, infatti, ha erroneamente ritenuto irrilevante il fatto che non fossero state identificate le cause dei vizi e, soprattutto, ha erroneamente ritenuto sufficiente l’ammissione dell’appaltatore circa la loro esistenza senza ammissione di sua responsabilità.

Questa Corte, sul punto, ha già avuto modo di affermare il seguente principio di diritto cui il Collegio intende dare continuità: Il semplice riconoscimento dei vizi e delle difformità dell’opera da parte dell’appaltatore implica la superfluità della tempestiva denuncia da parte del committente, ma da esso non deriva automaticamente, in mancanza di un impegno in tal senso, l’assunzione in capo all’appaltatore dell’obbligo di emendare l’opera, che, ove configurabile, è una nuova e distinta obbligazione soggetta al termine di prescrizione decennale; ne consegue che il predetto riconoscimento non impedisce il decorso dei termini brevi della prescrizione previsti in tema di appalto (Sez. 2, Ordinanza n. 19343 del 16/06/2022, Rv. 664999-02).

In tale occasione, infatti, si è precisato che occorre tenere distinto il profilo del riconoscimento dei vizi dal ben diverso profilo dell’assunzione dell’impegno a rimuoverli e della conseguente assunzione di una obbligazione diversa ed autonoma rispetto a quella originaria, svincolata dal termine decadenziale e soggetta al solo termine prescrizionale ordinario. La Corte territoriale ha ritenuto sufficiente il riconoscimento dei vizi e irrilevante la mancata assunzione di responsabilità in ordine alla loro causa con il conseguente impegno a rimuoverli.

Deve dunque ribadirsi che anche in presenza di un riconoscimento dei vizi e delle difformità dell’opera da parte dell’appaltatore – riconoscimento che elide l’onere di effettuare la denuncia – non può farsi discendere automaticamente dal riconoscimento medesimo l’assunzione in capo all’appaltatore dell’obbligo di emendare l’opera, in assenza della prova di un impegno in tal senso, con la conseguenza che il predetto riconoscimento non impedisce il decorso dei termini brevi della prescrizione previsti in tema di appalto (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15283 del 21/07/2005 – Rv. 582730-01)>>.

A stretto rigor di logica potrebbe essere esatto. Solo che, i difetti riconosciuti dall’appaltatore nell’esito della sua opera , chi altro potrebbe averli gemnerati?

Ripasso sulla causalità nella responsabilità medica penale

Sta nel § 3 di Cass. pen. sez. IV 2 dicembre 2024 n. 45.399, rel. Ranaldi:

<<È noto l’approdo della giurisprudenza assolutamente dominante, secondo cui è “causa” di un evento quell’antecedente senza il quale l’evento stesso non si sarebbe verificato: un comportamento umano è dunque causa di un evento solo se, senza di esso, l’evento non si sarebbe verificato (formula positiva); non lo è se, anche in mancanza di tale comportamento, l’evento si sarebbe verificato egualmente (formula negativa).

Da questo concetto nasce la nozione di giudizio controfattuale (“contro i fatti”), che è l’operazione intellettuale mediante la quale, pensando assente una determinata condizione (la condotta antigiuridica tenuta dell’imputato), ci si chiede se, nella situazione così mutata, si sarebbe verificata, oppure no, la medesima conseguenza: se dovesse giungersi a conclusioni positive, risulterebbe, infatti, evidente che la condotta dell’imputato non costituisce causa dell’evento. Il giudizio controfattuale costituisce, pertanto, il fondamento della teoria della causalità accolta dal nostro codice e cioè della teoria condizionalistica. Naturalmente esso, imponendo di accertare se la condotta doverosa omessa, qualora eseguita, avrebbe potuto evitare l’evento, richiede preliminarmente l’accertamento di ciò che è effettivamente accaduto e cioè la formulazione del c.d. giudizio esplicativo (Sez. 4, n. 416 del 12/11/2021 – dep. 2022, Rv. 282559 – 01; Sez. 4, n. 23339 del 31/01/2013, Rv. 256941 – 01). Per effettuare il giudizio controfattuale è, quindi, necessario ricostruire, con precisione, la sequenza fattuale che ha condotto all’evento, chiedendosi poi se, ipotizzando come realizzata la condotta dovuta dall’agente, l’evento lesivo sarebbe stato o meno evitato o posticipato (Sez. 4, n. 43459 del 04/10/2012, Rv. 255008 – 01). In tema di responsabilità medica, è dunque indispensabile accertare il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, in quanto solo in tal modo è possibile verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta dal sanitario, l’evento lesivo sarebbe stato evitato o differito (Sez. 4, n. 26568 dei 15/03/2019, Rv. 276340 – 01).

L’importanza della ricostruzione degli anelli determinanti della sequenza eziologica è stata sottolineata, in giurisprudenza, laddove si è affermato che, al fine di stabilire se sussista o meno il nesso di condizionamento tra la condotta del medico e l’evento lesivo, non si può prescindere dall’individuazione di tutti gli elementi rilevanti in ordine alla “causa” dell’evento stesso, giacché solo conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici la scaturigine e il decorso della malattia è possibile analizzare la condotta omissiva colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale, avvalendosi delle leggi scientifiche e/o delle massime di esperienza che si attaglino al caso concreto (Sez. 4, n. 25233 del 25/05/2005, Rv. 232013 – 01).

Le Sezioni Unite , con impostazione sostanzialmente confermata dalla giurisprudenza successiva, hanno enucleato, per quanto attiene alla responsabilità professionale del medico, relativamente al profilo eziologico, i seguenti principi di diritto: il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa, l’evento non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. Non è però consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, cosicché, all’esito del ragionamento probatorio, che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori eziologici alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto grado di credibilità razionale”. L’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese). Ne deriva che, nelle ipotesi di omicidio o lesioni colpose in campo medico, il ragionamento controfattuale deve essere svolto dal giudice in riferimento alla specifica attività (diagnostica, terapeutica, di vigilanza e salvaguardia dei parametri vitali del paziente o altro) che era specificamente richiesta al sanitario e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare o ritardare l’evento lesivo, come in concreto verificatosi, con alto grado di credibilità razionale (Sez. 4, n. 30469 del 13/06/2014, Rv. 262239 – 01). Sussiste, pertanto, il nesso di causalità tra l’omessa adozione, da parte del medico, di misure atte a rallentare o bloccare il decorso della patologia e il decesso del paziente, allorché risulti accertato, secondo il principio di controfattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l’evento non si sarebbe verificato’ ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con modalità migliorative, anche sotto il profilo dell’intensità della sintomatologia dolorosa (Sez. 4, n. 18573 del 14/02/2013, Rv. 256338 – 01).

Si tratta di insegnamento ribadito dalle Sezioni Unite, che si sono nuovamente soffermate sulle questioni riguardanti l’accertamento della causalità omissiva e sui limiti che incontra il sindacato di legittimità, nel censire la valutazione argomentativa espressa in sede di merito (Sez. U, n. 38343 del 24.04.2014, Espenhahn, Rv. 261106 – 01). Nella sentenza ora richiamata, le Sezioni Unite hanno sviluppato il modello epistemologico già indicato nella citata pronunzia del 2002 – che delinea un modello dell’indagine causale capace di integrare l’ipotesi esplicativa delle serie causali degli accadimenti e la concreta caratterizzazione del fatto storico – ribadendo che, nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento dì deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto. In particolare, si è sottolineato che, nella verifica dell’imputazione causale dell’evento, occorre dare corso ad un giudizio predittivo, sia pure riferito al passato: il giudice si interroga su ciò che sarebbe accaduto se l’agente avesse posto in essere la condotta che gli veniva richiesta>>.

Applicazione al caso sub iudice:

<<4. Nel caso di specie, il giudice a quo non ha fatto buon governo dei principi appena delineati.

La decisione della Corte distrettuale si fonda sulla considerazione secondo cui, in esito alla disposta perizia medico-legale, la “causa” della morte della persona . offesa sia da ricondursi ad una condizione di shock settico in paziente affetta da colite pseudomembranosa fulminante con segni di megacolon tossico. Gli stessi giudici osservano che, a detta dei periti, tale patologia si palesa raramente nei giovani (la persona offesa, al momento del decesso, aveva 26 anni) e nel caso essa era “esordita in forma subacuta e di difficile diagnosi e gestione”. La Corte territoriale riconosce che non siano state chiarite con certezza le cause determinanti l’esordio e l’evoluzione di tale patologia, che solitamente (ma non sempre) si sviluppa per infezione batterica da “Clostridrium Difficile”, agente patogeno a sua volta difficile (come indicato dallo stesso nome) da diagnosticare (almeno all’epoca dei fatti). Tuttavia, i giudicanti, affidandosi alla valutazione dei periti, affermano che non sarebbero “decisive le circostanze di non aver trovato il Clostridium Diffìcile nei reperti istologici cui ricondurre in termini di certezza la colite pseudomembranosa né di non aver chiaramente inserito nei formulare ta diagnosi differenziale la ricerca dei Clostridium Difficile, ma l’omissione di ogni tipo di indagine indotta dalla constatazione dei sintomi manifestati da Da.Ka. con l’avvio di un percorso diagnostico che avrebbe consentito di individuare mediante successivi approfondimenti la causa della malattia, poi conclamata nella colite pseudomembranosa che ha portato la giovane alla morte”.

5. Si tratta di argomentazioni palesemente illogiche e non rispettose dei principi dianzi richiamati, che devono sempre informare l’accertamento del nesso causale tra la condotta ascritta ai sanitari ed il decesso della paziente, nel caso sostanzialmente basato su un giudizio ipotetico privo di adeguato supporto indiziario quanto al fattore scatenante e all’evoluzione che ha determinato la patologia fulminante da cui è derivato l’evento letale che gli imputati – secondo i giudici di merito – avrebbero dovuto e potuto evitare.

Sotto questo profilo, appaiono fondati i rilievi difensivi nella misura in cui constatano l’assenza di un solido e chiaro giudizio esplicativo in ordine alle cause di insorgenza e sviluppo della malattia, idoneo a supportare una adeguata valutazione di sussistenza del nesso causale fra le contestate condotte omissive e l’evento morte.

6. Le motivazioni della sentenza impugnata, in definitiva, non chiariscono in che modo gli imputati avrebbero dovuto e potuto evitare l’evento o comunque non forniscono un giudizio di aita probabilità logica in ordine alla sicura idoneità salvifica della condotta doverosa omessa, limitandosi ad offrire generiche considerazioni in ordine alla necessità di “effettuare i dovuti approfondimenti”, ovvero all’esigenza di affrontare “un percorso di approfondimento diagnostico vantaggioso”, atteso che, secondo i giudici, “Io stato clinico di Da.Ka. è stato sottovalutato con sbrigativa formulazione di diagnosi di influenza intestinale”; per contro, opina la Corte di appello, “L’individuazione della causa e l’approntamento di terapia mirata avrebbero con aita probabilità arrestato l’iter infausto della patologia”.

Tali affermazioni appaiono manifestamente illogiche laddove gli stessi periti non sono stati in grado di individuare le cause di insorgenza e i tempi di evoluzione della patologia, definita “fulminante” e di difficile diagnosi dagli stessi esperti, sicché si fatica a comprendere quali approfondimenti diagnostici” i medici avrebbero dovuto adottare e, soprattutto, se gli stessi avrebbero consentito di intraprendere un tempestivo percorso terapeutico idoneo ad impedire o, quantomeno, ritardare in maniera significativa l’evento morte. In particolare, la logica della decisione appare largamente insoddisfacente laddove, nella sostanza, per dare risposta al quesito “da quale momento poteva pretendersi dai sanitari intervenuti, in presenza di un fenomeno patologico ingravescente, l’effettuazione di mirati accertamenti diagnostici”, i giudici hanno condiviso il ragionamento adottato dai periti, sintetizzabile nella formula “prima si interviene e meglio è”, di per sé generico, carente e, come tale, inidoneo a fondare un serio giudizio controfattuale e, ancora prima, ad individuare con cognizione di causa il comportamento alternativo lecito che avrebbe dovuto essere seguito dai sanitari nel caso concreto.

Del resto, la sentenza impugnata evidenzia tutta la sua illogicità là dove osserva che “il tempestivo ricovero nella struttura ospedaliera avrebbe permesso l’anticipazione degli accertamenti diagnostici, con esami ematici e strumentali, e dei trattamenti per fronteggiare il grave stato di disidratazione rallentando l’evoluzione della malattia e aumentando le possibilità di individuazione delle cause della gastroenterite da cui era affetta che, esordita in forma subacuta e poi cronicizzata, virava velocemente, in mancanza di alcuna azione efficace di contrasto, verso una forma fulminante”. Argomentazione con cui i giudicanti abbandonano lo schema condizionalistico seguito dalla giurisprudenza di legittimità degli ultimi venti anni, per affidarsi alla superata teorica dell’aumento del rischio o della perdita di chances, espressa da un indirizzo giurisprudenziale esauritosi nei primi anni duemila, in base al quale, nella verifica del nesso di causalità tra la condotta del sanitario e la lesione del bene della vita del paziente, occorreva privilegiare un criterio meramente probabilistico, sulle possibilità di successo del comportamento alternativo. Si tratta di una valutazione che si pone in frontale – e non motivato – contrasto con le indicazioni ermeneutiche espresse dal diritto vivente, sul tema dell’imputazione causale dell’evento (cfr. Sez. 4, n. 24372 del 09/04/2019, Rv. 276292 – 03). Al riguardo, va qui ribadito che per offrire la prova del fatto il giudice non può attingere a criteri di mera probabilità statistica (nel caso, peraltro, nemmeno evidenziati), ma deve fare riferimento al criterio della probabilità logica, intesa come “la verifica aggiuntiva, sulla base dell’intera evidenza disponibile, dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica” rispetto al singolo evento oggetto dell’accertamento giudiziale (cfr. Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222138 – 01), secondo i noti principi dianzi richiamati.>>

Revocazione della donazione per ingratitudine: un caso applicativo

Cass. sez. II, ord. 16/12/2024 n. 32.682, rel. Criscuolo, ravvisa l’ingratitudine del convivente, donatario di immobile, nell’aver fatto cessare la convivenza subito dopo la stipula della donazione:

<<1. Co.Gi., precisando di avere intrapreso una lunga relazione sentimentale, sfociata nella convivenza, con Ca.Ma. a far data dall’aprile del 2008, deduceva che in data 17 marzo 2016 aveva donato alla stessa un appartamento, da lui in precedenza acquistato, e che era stato adibito a casa comune. Tuttavia, a distanza di pochi giorni dalla donazione, aveva appreso che la Ca.Ma. aveva intrapreso una relazione sentimentale con un altro uomo, al quale era affettivamente legata da tempo, e che era stato quindi invitato ad allontanarsi dall’appartamento, aggiungendo che dopo la sua fuoriuscita dalla casa, la nuova relazione era divenuta di dominio pubblico, in quanto la coppia aveva iniziato a frequentarsi anche all’interno del bene donato.

Tanto premesso, ha chiesto pronunziarsi la revocazione per ingratitudine della donazione immobiliare. (….)

Rapportando tali principi alla fattispecie in esame, ancorché l’assenza di un vincolo matrimoniale attenui il dovere di fedeltà tra conviventi, ed anche a voler reputare lecita la condotta del convivente che decida di intraprendere una nuova relazione, la liceità di tale condotta non esime però dal dovere compiere una valutazione complessiva del comportamento tenuto onde apprezzare le modalità con le quali tale nuova relazione sia stata poi portata alla luce, considerando altresì anche le ulteriori condotte dalle quali possa ricavarsi un contegno irriguardoso nei confronti del donante, in avversione al sentimento di rispetto che deve invece connotare i rapporti tra donante e donatario.

La Corte d’Appello ha riformato la decisione di primo grado, imputando al Tribunale l’errore di avere valutato in maniera parcellizzata la condotta della convenuta, e procedendo correttamente ad una valutazione unitaria della sua condotta, onde verificarne l’idoneità a pregiudicare la dignità dell’attore.

Non si è quindi soffermata sulla sola liceità o meno della relazione successivamente intrapresa dalla convenuta, ma al fine di riscontrare una condotta successiva alla donazione idonea a concretare la grave ingiuria richiesta dall’art. 801 c.c., ha valorizzato la relazione intrapresa, sottolineando come la lesione della dignità del donante scaturiva dal fatto che la stessa, sebbene anteriore alla donazione, gli era stata taciuta e, sebbene il motivo della donazione fosse quello di rassicurare la Ca.Ma. circa la solidità del rapporto affettivo che avrebbe accomunato le parti, che a distanza di pochi giorni la Ca.Ma. (che aveva nella sostanza sollecitato la donazione, pur avendo già instaurato la relazione con un terzo) aveva troncato il rapporto di convivenza, invitando in pratica il Co.Gi. a trovare una nuova abitazione, salvo poi, a distanza di poco più di un mese rendere manifesta la nuova relazione, coabitando con il nuovo compagno proprio in quella casa, che nell’intento originario del controricorrente era destinata ad essere l’ambiente nel quale coltivare il progetto di vita comune dei conviventi.

Non è quindi la nuova relazione in sé ad essere stata reputata offensiva della dignità del Co.Gi., ma le modalità con le quali la stessa è stata resa palese, sebbene già intrapresa in epoca anteriore alla donazione, ed essendo stata poi esternata con modalità evidentemente irriguardose nei confronti dell’ex compagno.

Né può sostenersi, come pur trapela dalla lettura del ricorso, che le condotte della Ca.Ma. possano essere giustificate dal fatto che il Co.Gi. non abbia mai reciso il pregresso vincolo matrimoniale, in quanto, come sottolineato dalla Corte distrettuale, il progetto di vita comune intrapreso tra le parti era frutto, dal lato della ricorrente, di una scelta operata da un soggetto adulto che consapevolmente aveva inteso instaurare una convivenza con l’attore, accettando quindi la condizione di quest’ultimo, non potendo quindi essere così legittimata una condotta obiettivamente irriguardosa, a maggior ragione una volta che la convenuta era stata beneficiata con la donazione oggetto di causa>>.

La revocazione della donazione per sopravvenenza di figli spetta solo se per il primo figlio, non per i successivi

Cass. sez. II, ord. 16/12/2024 n. 32.672, rel. Criscuolo:

<<È sicuramente erronea l’affermazione del giudice di appello che ritiene che la revocazione possa essere disposta anche nel caso in cui sopraggiunga un secondo figlio, e ciò in quanto si tratta di affermazione in contrasto con quanto affermato da questa Corte che ha sostenuto che la revocazione della donazione per sopravvenienza di figli o discendenti, rispondendo all’esigenza di consentire al donante di riconsiderare l’opportunità dell’attribuzione liberale a fronte della sopravvenuta nascita di un figlio, ovvero della sopravvenuta conoscenza della sua esistenza, in funzione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione che derivano da tale evento, è preclusa ove il donante avesse consapevolezza, alla data dell’atto di liberalità, dell’esistenza di un figlio ovvero di un discendente legittimo. Né tale previsione contrasta con gli artt. 3,30 e 31 Cost., non determinando alcuna ingiustificata disparità di trattamento o lesione del diritto dei figli sopravvenuti, i quali sono tutelati solo in via mediata ed indiretta, in quanto l’interesse tutelato dalla norma è quello di consentire al genitore di soddisfare le esigenze fondamentali dei figli, sicché è proprio l’assenza in assoluto di discendenti al momento della donazione che legittima la revocazione, al fine di assicurare rilevanza giuridica ad un intimo e profondo sentire dell’essere umano, che può non essere stato valutato adeguatamente dal donante che non abbia ancora avuto figli, diversamente da quello che, avendo già provato il sentimento di amore filiale, si è comunque determinato a beneficiare il donatario, benché conscio degli oneri scaturenti dalla condizione genitoriale (Cass. n. 5345/2017, che ha reputato anche manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 803 c.c., in relazione agli artt. 3 e 30 Cost., nella parte in cui preclude la revocazione per sopravvenuta nascita di un figlio nel caso al momento della donazione il donante abbia già la consapevolezza dell’esistenza di un altro figlio, non determinandosi alcuna ingiustificata disparità di trattamento o lesione del diritto dei figli sopravvenuti, in quanto è proprio l’assenza in assoluto di discendenti al momento della donazione che legittima la revocazione, al fine di assicurare rilevanza giuridica ad un intimo e profondo sentire dell’essere umano, in quanto il donante che non abbia ancora alcun figlio non può valutare adeguatamente l’interesse alla cura filiale, non avendo ancora provato il sentimento di amor filiale con la dedizione che esso determina ed il superamento che esso provoca di ogni altro affetto, viceversa non sussiste il fondamento applicativo della revocazione, allorché l’atto di liberalità sia stato compiuto da chi già aveva avuto modo di provare l’affetto filiale, e che, quindi, si è determinato a beneficiare il donatario pur nella consapevolezza degli oneri scaturenti dalla condizione genitoriale)>>.

 

I crediti cadono in comunione ereditaria, per cui il singolo comunista può agire per recuperare anche l’intero

Cassazione civile sez. III, 12/12/2024, (ud. 25/10/2024, dep. 12/12/2024), n.32077, rel. Fiecconi, confermando l’opinione ricevuta:

<<7.2. I crediti del “de cuius”, a differenza dei debiti, non si ripartiscono tra i coeredi in modo automatico in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria, essendo la regola della ripartizione automatica dell’art. 752 cod. civ. prevista solo per i debiti, mentre la diversa disciplina per i crediti risulta dal precedente art. 727, il quale, stabilendo che le porzioni debbano essere formate comprendendo anche i crediti, presuppone che gli stessi facciano parte della comunione, nonché dal successivo art. 757, che, prevedendo che il coerede al quale siano stati assegnati tutti o l’unico credito succede nel credito al momento dell’apertura della successione, rivela che i crediti ricadono nella comunione, ed è, inoltre, confermata dall’art. 760, che escludendo la garanzia per insolvenza del debitore di un credito assegnato a un coerede, necessariamente presuppone che i crediti siano inclusi nella comunione; né, in contrario, può argomentarsi dagli artt. 1295 e 1314 dello stesso codice, concernendo il primo la diversa ipotesi del credito solidale tra il “de cuius” ed altri soggetti e il secondo la divisibilità del credito in generale. Conseguentemente, ciascuno dei partecipanti alla comunione ereditaria può agire singolarmente per far valere l’intero credito comune, o la sola parte proporzionale alla quota ereditaria, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri coeredi, ferma la possibilità che il convenuto debitore chieda l’intervento di questi ultimi in presenza dell’interesse all’accertamento nei confronti di tutti della sussistenza o meno del credito (così Cass. Sez. U, Sentenza n. 24657 del 28/11/2007; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15894 del 11/07/2014).

7.3. Trova, rispetto ai crediti ereditari, applicazione il principio generale, secondo cui ciascun soggetto partecipante alla comunione può esercitare singolarmente le azioni a vantaggio della cosa comune. Ciascun coerede può, pertanto, domandare il pagamento del credito ereditario in misura integrale o proporzionale alla quota di sua spettanza senza che il debitore possa opporsi adducendo il mancato consenso degli altri coeredi, i quali non sono neppure litisconsorti necessari nel conseguente giudizio di adempimento poiché i contrasti sorti tra gli stessi devono trovare soluzione nell’ambito dell’eventuale e distinta procedura di divisione (cfr anche, Cass.Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 27417 del 20/11/2017; Cass.Sez.3-, Ordinanza n. 8508 del 06/05/2020; Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 10585 del 18/04/2024).

7.4. In coerenza coi surrichiamati principi, pertanto, il ricorrente, quale erede della parte lesa, ha la legittimazione per agire per il recupero dell’intero credito risarcitorio spettante al de cuius, cui è succeduto iure successionis, senza necessità alcuna di estendere il contradditorio al nipote coerede (o chiamato all’eredità), per ottenere il risarcimento della totalità del credito già spettante al de cuius, e da lui acquisito nel patrimonio iure successionis, poiché per il principio di cui sopra, la relativa pronunzia sul diritto comune fatto valere, pur spiegando efficacia nei riguardi di tutti i soggetti interessati a ottenere il risarcimento de quo, rimane impermeabile nei rapporti interni tra coeredi rispetto alle conseguenti vicende, da risolversi in seguito alla accettazione della eredità da parte dei coeredi (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24657 del 28/11/2007)>>.