Sta nel § 3 di Cass. pen. sez. IV 2 dicembre 2024 n. 45.399, rel. Ranaldi:
<<È noto l’approdo della giurisprudenza assolutamente dominante, secondo cui è “causa” di un evento quell’antecedente senza il quale l’evento stesso non si sarebbe verificato: un comportamento umano è dunque causa di un evento solo se, senza di esso, l’evento non si sarebbe verificato (formula positiva); non lo è se, anche in mancanza di tale comportamento, l’evento si sarebbe verificato egualmente (formula negativa).
Da questo concetto nasce la nozione di giudizio controfattuale (“contro i fatti”), che è l’operazione intellettuale mediante la quale, pensando assente una determinata condizione (la condotta antigiuridica tenuta dell’imputato), ci si chiede se, nella situazione così mutata, si sarebbe verificata, oppure no, la medesima conseguenza: se dovesse giungersi a conclusioni positive, risulterebbe, infatti, evidente che la condotta dell’imputato non costituisce causa dell’evento. Il giudizio controfattuale costituisce, pertanto, il fondamento della teoria della causalità accolta dal nostro codice e cioè della teoria condizionalistica. Naturalmente esso, imponendo di accertare se la condotta doverosa omessa, qualora eseguita, avrebbe potuto evitare l’evento, richiede preliminarmente l’accertamento di ciò che è effettivamente accaduto e cioè la formulazione del c.d. giudizio esplicativo (Sez. 4, n. 416 del 12/11/2021 – dep. 2022, Rv. 282559 – 01; Sez. 4, n. 23339 del 31/01/2013, Rv. 256941 – 01). Per effettuare il giudizio controfattuale è, quindi, necessario ricostruire, con precisione, la sequenza fattuale che ha condotto all’evento, chiedendosi poi se, ipotizzando come realizzata la condotta dovuta dall’agente, l’evento lesivo sarebbe stato o meno evitato o posticipato (Sez. 4, n. 43459 del 04/10/2012, Rv. 255008 – 01). In tema di responsabilità medica, è dunque indispensabile accertare il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, in quanto solo in tal modo è possibile verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta dal sanitario, l’evento lesivo sarebbe stato evitato o differito (Sez. 4, n. 26568 dei 15/03/2019, Rv. 276340 – 01).
L’importanza della ricostruzione degli anelli determinanti della sequenza eziologica è stata sottolineata, in giurisprudenza, laddove si è affermato che, al fine di stabilire se sussista o meno il nesso di condizionamento tra la condotta del medico e l’evento lesivo, non si può prescindere dall’individuazione di tutti gli elementi rilevanti in ordine alla “causa” dell’evento stesso, giacché solo conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici la scaturigine e il decorso della malattia è possibile analizzare la condotta omissiva colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale, avvalendosi delle leggi scientifiche e/o delle massime di esperienza che si attaglino al caso concreto (Sez. 4, n. 25233 del 25/05/2005, Rv. 232013 – 01).
Le Sezioni Unite , con impostazione sostanzialmente confermata dalla giurisprudenza successiva, hanno enucleato, per quanto attiene alla responsabilità professionale del medico, relativamente al profilo eziologico, i seguenti principi di diritto: il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa, l’evento non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. Non è però consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, cosicché, all’esito del ragionamento probatorio, che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori eziologici alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto grado di credibilità razionale”. L’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese). Ne deriva che, nelle ipotesi di omicidio o lesioni colpose in campo medico, il ragionamento controfattuale deve essere svolto dal giudice in riferimento alla specifica attività (diagnostica, terapeutica, di vigilanza e salvaguardia dei parametri vitali del paziente o altro) che era specificamente richiesta al sanitario e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare o ritardare l’evento lesivo, come in concreto verificatosi, con alto grado di credibilità razionale (Sez. 4, n. 30469 del 13/06/2014, Rv. 262239 – 01). Sussiste, pertanto, il nesso di causalità tra l’omessa adozione, da parte del medico, di misure atte a rallentare o bloccare il decorso della patologia e il decesso del paziente, allorché risulti accertato, secondo il principio di controfattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l’evento non si sarebbe verificato’ ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con modalità migliorative, anche sotto il profilo dell’intensità della sintomatologia dolorosa (Sez. 4, n. 18573 del 14/02/2013, Rv. 256338 – 01).
Si tratta di insegnamento ribadito dalle Sezioni Unite, che si sono nuovamente soffermate sulle questioni riguardanti l’accertamento della causalità omissiva e sui limiti che incontra il sindacato di legittimità, nel censire la valutazione argomentativa espressa in sede di merito (Sez. U, n. 38343 del 24.04.2014, Espenhahn, Rv. 261106 – 01). Nella sentenza ora richiamata, le Sezioni Unite hanno sviluppato il modello epistemologico già indicato nella citata pronunzia del 2002 – che delinea un modello dell’indagine causale capace di integrare l’ipotesi esplicativa delle serie causali degli accadimenti e la concreta caratterizzazione del fatto storico – ribadendo che, nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento dì deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto. In particolare, si è sottolineato che, nella verifica dell’imputazione causale dell’evento, occorre dare corso ad un giudizio predittivo, sia pure riferito al passato: il giudice si interroga su ciò che sarebbe accaduto se l’agente avesse posto in essere la condotta che gli veniva richiesta>>.
Applicazione al caso sub iudice:
<<4. Nel caso di specie, il giudice a quo non ha fatto buon governo dei principi appena delineati.
La decisione della Corte distrettuale si fonda sulla considerazione secondo cui, in esito alla disposta perizia medico-legale, la “causa” della morte della persona . offesa sia da ricondursi ad una condizione di shock settico in paziente affetta da colite pseudomembranosa fulminante con segni di megacolon tossico. Gli stessi giudici osservano che, a detta dei periti, tale patologia si palesa raramente nei giovani (la persona offesa, al momento del decesso, aveva 26 anni) e nel caso essa era “esordita in forma subacuta e di difficile diagnosi e gestione”. La Corte territoriale riconosce che non siano state chiarite con certezza le cause determinanti l’esordio e l’evoluzione di tale patologia, che solitamente (ma non sempre) si sviluppa per infezione batterica da “Clostridrium Difficile”, agente patogeno a sua volta difficile (come indicato dallo stesso nome) da diagnosticare (almeno all’epoca dei fatti). Tuttavia, i giudicanti, affidandosi alla valutazione dei periti, affermano che non sarebbero “decisive le circostanze di non aver trovato il Clostridium Diffìcile nei reperti istologici cui ricondurre in termini di certezza la colite pseudomembranosa né di non aver chiaramente inserito nei formulare ta diagnosi differenziale la ricerca dei Clostridium Difficile, ma l’omissione di ogni tipo di indagine indotta dalla constatazione dei sintomi manifestati da Da.Ka. con l’avvio di un percorso diagnostico che avrebbe consentito di individuare mediante successivi approfondimenti la causa della malattia, poi conclamata nella colite pseudomembranosa che ha portato la giovane alla morte”.
5. Si tratta di argomentazioni palesemente illogiche e non rispettose dei principi dianzi richiamati, che devono sempre informare l’accertamento del nesso causale tra la condotta ascritta ai sanitari ed il decesso della paziente, nel caso sostanzialmente basato su un giudizio ipotetico privo di adeguato supporto indiziario quanto al fattore scatenante e all’evoluzione che ha determinato la patologia fulminante da cui è derivato l’evento letale che gli imputati – secondo i giudici di merito – avrebbero dovuto e potuto evitare.
Sotto questo profilo, appaiono fondati i rilievi difensivi nella misura in cui constatano l’assenza di un solido e chiaro giudizio esplicativo in ordine alle cause di insorgenza e sviluppo della malattia, idoneo a supportare una adeguata valutazione di sussistenza del nesso causale fra le contestate condotte omissive e l’evento morte.
6. Le motivazioni della sentenza impugnata, in definitiva, non chiariscono in che modo gli imputati avrebbero dovuto e potuto evitare l’evento o comunque non forniscono un giudizio di aita probabilità logica in ordine alla sicura idoneità salvifica della condotta doverosa omessa, limitandosi ad offrire generiche considerazioni in ordine alla necessità di “effettuare i dovuti approfondimenti”, ovvero all’esigenza di affrontare “un percorso di approfondimento diagnostico vantaggioso”, atteso che, secondo i giudici, “Io stato clinico di Da.Ka. è stato sottovalutato con sbrigativa formulazione di diagnosi di influenza intestinale”; per contro, opina la Corte di appello, “L’individuazione della causa e l’approntamento di terapia mirata avrebbero con aita probabilità arrestato l’iter infausto della patologia”.
Tali affermazioni appaiono manifestamente illogiche laddove gli stessi periti non sono stati in grado di individuare le cause di insorgenza e i tempi di evoluzione della patologia, definita “fulminante” e di difficile diagnosi dagli stessi esperti, sicché si fatica a comprendere quali approfondimenti diagnostici” i medici avrebbero dovuto adottare e, soprattutto, se gli stessi avrebbero consentito di intraprendere un tempestivo percorso terapeutico idoneo ad impedire o, quantomeno, ritardare in maniera significativa l’evento morte. In particolare, la logica della decisione appare largamente insoddisfacente laddove, nella sostanza, per dare risposta al quesito “da quale momento poteva pretendersi dai sanitari intervenuti, in presenza di un fenomeno patologico ingravescente, l’effettuazione di mirati accertamenti diagnostici”, i giudici hanno condiviso il ragionamento adottato dai periti, sintetizzabile nella formula “prima si interviene e meglio è”, di per sé generico, carente e, come tale, inidoneo a fondare un serio giudizio controfattuale e, ancora prima, ad individuare con cognizione di causa il comportamento alternativo lecito che avrebbe dovuto essere seguito dai sanitari nel caso concreto.
Del resto, la sentenza impugnata evidenzia tutta la sua illogicità là dove osserva che “il tempestivo ricovero nella struttura ospedaliera avrebbe permesso l’anticipazione degli accertamenti diagnostici, con esami ematici e strumentali, e dei trattamenti per fronteggiare il grave stato di disidratazione rallentando l’evoluzione della malattia e aumentando le possibilità di individuazione delle cause della gastroenterite da cui era affetta che, esordita in forma subacuta e poi cronicizzata, virava velocemente, in mancanza di alcuna azione efficace di contrasto, verso una forma fulminante”. Argomentazione con cui i giudicanti abbandonano lo schema condizionalistico seguito dalla giurisprudenza di legittimità degli ultimi venti anni, per affidarsi alla superata teorica dell’aumento del rischio o della perdita di chances, espressa da un indirizzo giurisprudenziale esauritosi nei primi anni duemila, in base al quale, nella verifica del nesso di causalità tra la condotta del sanitario e la lesione del bene della vita del paziente, occorreva privilegiare un criterio meramente probabilistico, sulle possibilità di successo del comportamento alternativo. Si tratta di una valutazione che si pone in frontale – e non motivato – contrasto con le indicazioni ermeneutiche espresse dal diritto vivente, sul tema dell’imputazione causale dell’evento (cfr. Sez. 4, n. 24372 del 09/04/2019, Rv. 276292 – 03). Al riguardo, va qui ribadito che per offrire la prova del fatto il giudice non può attingere a criteri di mera probabilità statistica (nel caso, peraltro, nemmeno evidenziati), ma deve fare riferimento al criterio della probabilità logica, intesa come “la verifica aggiuntiva, sulla base dell’intera evidenza disponibile, dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica” rispetto al singolo evento oggetto dell’accertamento giudiziale (cfr. Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222138 – 01), secondo i noti principi dianzi richiamati.>>