Coordinamento tra responsabilità per danno da emotrasfusione infetta e indennizzo ex L. 210/92: quando può operare la compensazione lucri cum damno

Cass. sez. III, ord. 14/12/2024 n. 32.550, rel. Vincenti:

<<L’orientamento ormai consolidato di questa Corte (tra le altre: Cass. n. 20909/2018; Cass. n. 8866/2021; Cass. n. 7345/2022; Cass. n. 16808/2023; Cass. n. 2840/2024) è nel senso che: a) l’eccezione di compensano lucri cum damno è un’eccezione in senso lato, configurandosi, quindi, come mera difesa in ordine all’esatta entità globale del pregiudizio effettivamente patito dal danneggiato e, come tale, è rilevabile d’ufficio e il giudice, per determinare l’esatta misura del danno risarcibile, può fare riferimento, per il principio dell’acquisizione della prova, a tutte le risultanze del giudizio; b) la compensano non può operare qualora manchi la prova – di cui è onerata la parte che la eccepisce – che la somma sia stata corrisposta e tantomeno sia determinata o determinabile, in base agli atti di causa, nel suo preciso ammontare; c) sono, dunque, soggette a compensazione non soltanto le somme già percepite al momento della pronuncia, ma anche le somme da percepire in futuro, in quanto riconosciute e, dunque, liquidate e determinabili; d) il giudice di merito può a tal fine anche avvalersi del potere officioso di sollecitazione presso gli uffici competenti e ciò, segnatamente, quando la percezione dell’indennizzo non sia negata.

Di tali principi, pur in parte richiamati a sostegno della decisione, non ha fatto buon governo la Corte territoriale, erroneamente negando la detraibilità dall’importo risarcitorio riconosciuto al Ch.Ad. (euro 151.725,00) delle somme a titolo di indennizzo che il medesimo ha avuto corrisposte dopo il 31 dicembre 2016 e che avrebbe percepito successivamente in misura sicuramente determinabile.

E ciò alla luce di quanto già emergeva dalle risultanze in atti (valorizzate dal primo giudice e di cui lo stesso giudice di appello ha fatto solo parziale uso), ossia la prova acquisita non solo del complessivo importo indennitario ex lege n. 210/1992 già percepito dallo stesso Ch.Ad. (e, dunque, riconosciuto ed erogato in base a parametri di fonte normativa comunque accertabili), ma anche, e decisivamente, dell’importo annuo – euro 9.167,40 – che gli era stato corrisposto al medesimo titolo nel 2016 (cfr. p. 4 della sentenza di primo grado n. 39/2017 del Tribunale di Lecce)>>.

Altro precedente (da me postato qui) è Cass. 4.415/23024, rel. Scoditti.

Sentenza veneziana sulla limitazione brevettuale

App Venezia n 624/2023 del 21 marzo 2023, RG 1737/2019, GMI srl+1 v. Sei Elettronica +1, va ricordata soprattutto per due insegnamenti inerenti: i) al dies a quo degli effetti della limitazione brevettuale ; ii) alla inefficacia della limitazione brevettuale in corso di causa (art. 79 cpi) a seguito di un abuso del diritto .

Il secondo è importante perchè applica uno strumento generale (l’abuso del diritto) dai contorni sfuggenti ma dagli effetti dirompenti (diniego di efficacia).

In breve, l’istanza di limitazione , essendo stata strategicamente avanzata più volte nel corso del processo per ridurre gradualmente l’oggetto del brevetto, non può conseguire alcun effetto.

<<Pertanto, va verificato il confine della facoltà di una limitazione a “cascata”, vale a dire della possibilità per il titolare di limitare progressivamente la rivendicazione al fine di giungere, per approssimazioni successive, a conservare la validità della versione brevettuale più ridotta possibile rispetto a quel che in concreto consente lo stato della tecnica anteriore al giudizio; certamente incide negativamente sulla durata (e sui costi) del processo e richiede una fase di accertamento tecnico peritale per ciascuna riduzione.          E un tale confine è segnato dal divieto di abuso del diritto e dalla buona fede, ossia da principi espressi in forma di clausola generale che non consentono l’individuazione di criteri generali precisi ma che richiedono una analisi del caso concreto in funzione di quel bilanciamento dei contrapposti interessi prescritto dall’art. 52, comma 3, cpi, in modo da garantire “un’equa protezione al titolare ed una ragionevole sicurezza giuridica ai terzi”.

Pertanto, nel tracciare i limiti della facoltà concessa dall’attuale art. 79, comma 3, cpi, tenendo conto che tale facoltà non può e non deve essere utilizzata per ritardare sine die la fine del procedimento sino a quando il titolare del brevetto non si riterrà soddisfatto della (nuova) formulazione delle rivendicazioni, occorre individuare un ragionevole punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze, ossia tra l’interesse del titolare volto ad una declaratoria di validità, anche parziale, del brevetto, l’interesse dei terzi a conoscere con certezza l’ambito di validità della privativa per non incorrere nella contraffazione e il principio del giusto processo.
Ebbene, nel caso di specie, la limitazione della privativa è avvenuta attraverso plurime riformulazioni della rivendicazione 1, che hanno consentito l’individuazione diretta e non ambigua dell’oggetto della rivendicazione per successiva approssimazione. Tale risultato emerge dall’esame della ricognizione effettuata dal Ctu in questo grado, da cui si ricava che le varie riformulazioni erano destinate a focalizzare il contenuto della privativa:
– Prima riformulazione, riguardante l’oggetto della rivendicazione (v. pag. 28 Ctu);
– Seconda riformulazione, finalizzata ad introdurre alcune caratteristiche essenziali atte a spiegare l’interazione tra i vari apparati (v. pag. 31 Ctu);
– terza riformulazione, volta a fornire tutte le informazioni tecniche relative ai mezzi di movimentazione della testa di taglio laser lungo i mezzi di guida, prima oggettivamente mancanti (v. pag.31-33 Ctu);
– quarta riformulazione, resa necessaria dalla riscontrata incompatibilità tra due forme di realizzazione della macchina (seconda barra o albero cui era associata la testa di taglio laser: v. Ctu pag. 33);
– quinta riformulazione, presentata in data 29/01/2018 per superare obiezione di generalizzazione intermedia, contraria ai requisiti di cui all’art. 79 comma 3 cpi (v. Ctu pag. 35-36).
Da quanto riportato dal Ctu, pertanto, emerge come siano state necessarie le progressive e molteplici riformulazioni fino all’esatta individuazione dell’ambito della privativa, a discapito di una certezza delle situazioni giuridiche verso i terzi e della ragionevole durata del processo. È pur vero che le riformulazioni erano formalmente consentite, tuttavia, sono state elaborate per effetto dell’esito dell’istruttoria, con conseguente ricostruzione del brevetto attraverso il ripetuto inserimento di elementi che, pur derivanti dal testo brevettuale, hanno richiesto reiterati accertamenti peritali nel corso del giudizio con inevitabile uso distorto dello strumento processuale. Infatti, nel giudizio di accertamento, va vagliata la validità di un brevetto già rilasciato e già utilizzato, consentendo al titolare di ‘limitare’ la privativa, ma non di costruire nel processo o salvare la privativa, attraverso le infinite combinazioni possibili, con conseguente pregiudizio dell’affidamento dei terzi e della certezza dei rapporti giuridici.
In sostanza, lo jus poenitendi sostanziale di cui all’art. 79, comma 3, cpi, non può essere esercitato in modo abusivo e reiterato, dovendo rientrare nei canoni del giusto processo senza richiedere continui accertamenti peritali iterativi sulle riformulazioni via via avanzate, pena l’inammissibilità della domanda di accertamento della validità del brevetto.
Nel caso di specie, le riformulazioni sono, sì, derivate dall’esito delle indagini peritali, esito che, anche a prescindere dal rilievo per eccesso di mandato da parte del consulente nominato, ha consentito di fondare l’insindacabile ed irreversibile scelta del titolare della privativa di ridurre l’ambito di protezione di quest’ultima, tuttavia, tale scelta è comunque vincolata al rispetto di quel punto di equilibrio tra le esigenze del titolare e quelle dei terzi, oltre il quale appare contrario a buona fede quel comportamento che si avvale del processo per delineare il contenuto della privativa rivendicata.
Pertanto, essendo il diritto alla riformulazione del brevetto soggetto ad un doppio limite, uno attinente al contenuto della privativa dato che non può essere introdotta materia nuova e, l’altro, riguardante il processo che non può essere abusato, va ritenuta corretta la decisione impugnata laddove dà atto che GMI ha legittimamente esercitato lo jus poenitendi sostanziale ma che lo ha fatto avvalendosi del processo in modo abusivo e contrario a buona fede.
Ne consegue l’inammissibilità dell’accertamento di validità del brevetto per invenzione fatto oggetto della riformulazione del 29/1/2018, con conseguente impossibilità di esaminare il merito di essa>>.

Il tema è complesso, ma la soluzione lascia perplessi.

Perchè unaa motivazione, basata sul ritardo nel rendere giustizia, porta ad una sanzione non processuale (sulle spese di lite: art. 96 c. 3 cpc) ma sostanziale? Se si adducono ragioni di ordine non sostanziale ma solo processuale , è solo in ques’ultimo ambito che la sanzione deve operare.

Ancora sulla resposnabilità delle piattaforme per violazione di copyright e sul safe harbour ex § 512 DMCA

Il 9 circuito 13.01.2025, 21-2949(L) Capitol Records v. Vimeo nega la resp. di Vimeo specificando la red flag data dalla competenza di un dipendente.

Ribadisce inoltre che serve la conoscenza della illiceità dei file contestati, non di una generica possibile/probabile illiceità all’interno di tutti i materiali ospitati.

<<However, we also acknowledged in Vimeo I that it is “entirely possible that an employee of the service provider who viewed a video did have expertise or knowledge with respect to the market for music and the laws of copyright.” Id. at 97 (emphasis added). Thus, as an alternative way to establish red flag knowledge, a plaintiff could produce evidence to demonstrate that an employee (1) was not an “ordinary person” unfamiliar with these fields, and (2) was aware of facts that would make infringement objectively obvious to a person possessing such specialized knowledge. See id.
We noted, though, that “[e]ven an employee who was a copyright expert cannot be expected to know when use of a copyrighted song has been licensed,” id., and, as discussed below, even a copyright expert may similarly struggle to identify instances of fair use.
Thus, in order to carry their burden of demonstrating that Vimeo had actual or red flag knowledge of the specific instances of infringement, Plaintiffs needed to show that Vimeo employees were aware of facts making it obvious to (a) a person who has no specialized knowledge or (b) a person that Plaintiffs have demonstrated does possess specialized knowledge that: (1) the videos contained copyrighted music; (2) the use of the music was not licensed; and (3) the use did not constitute fair use>>.

Poi

<<The fact that licensing music, as a general matter, can be challenging or confusing does not make it obvious that music accompanying a particular user-uploaded video was not licensed. Even if a person without specialized knowledge would have intuited a likelihood that many of the posted videos were not authorized, that would not make it obvious that a particular video lacked authorization to use the music.

This is all the more true in view of the uncontested fact that, since 2011, Vimeo had run a store from which users could purchase licenses to use music in videos. Accordingly, Vimeo employees were aware of the existence of simplified opportunities available to purchase licenses. Furthermore, because Plaintiffs have not proved that Vimeo employees had specialized knowledge of the music industry, those employees’ awareness that music found on their videos was under copyright did not show that they knew whether the music they heard on user videos came from EMI or another label. Plaintiffs’ evidence does not support it being apparent to Vimeo employees that the music they heard on any particular video came from a label that did not offer licenses through Vimeo’s store or otherwise.

Plaintiffs also rely on the contention that EMI’s cease-and-desist letter, sent to Vimeo in 2008, put Vimeo employees on notice that any EMI music used on the website was unauthorized. Plaintiffs cite EMI Christian Music Grp., Inc. v. MP3tunes, LLC, 844 F.3d 79, 93 (2d Cir. 2016), where we explained that the defendant’s subjective awareness that there had been no legal online distribution of Beatles songs could support red flag knowledge that any online electronic copies of Beatles songs on defendant’s servers were unlicensed. But the same logic does not necessarily apply here. As the district court pointed out, an awareness that EMI sent a letter in the past demanding removal of its music gave no assurance that EMI did not thereafter make contracts licensing the use of its music, especially in view of evidence that some users who posted the videos containing EMI music asserted that EMI had provided them with authorization to use the music. The DMCA does not require service providers to perform research on mere suspicion of a user’s infringement to determine the identity of the music in the user’s video, identify its source, and determine whether the user acquired a license. See Vimeo I, 826 F.3d at 98-99 (explaining, in the context of a contention of willful blindness, that requiring service providers “constantly to take stock of all information their employees may have acquired that might suggest the presence of infringements in user postings, and to undertake monitoring investigations whenever some level of suspicion was surpassed, . . . would largely undo the value of § 512(m)”).
Even if we concluded that Vimeo had red flag knowledge that EMI’s music in user videos was not authorized or licensed, that would be insufficient to satisfy Plaintiffs’ burden. Plaintiffs needed in addition to show that it would be apparent to a person without specialized knowledge of copyright law, or, alternatively, persons who have been demonstrated to possess specialized knowledge of copyright law, that the particular use of the music in the Videos-in-Suit was not fair use>>.

(segnalazione e link offerti dal blog di Eric Goldman)

Sul marchio parodistico: torna al giudice di primo grado la lite Jack Daniel’s v. Bad Spaniels

Jocelyn Bosse in IPKat ci notizia della sentenza Distr. Arizona 23 gennaio 2025 n. Case 2:14-cv-02057-SMM , VIP products llc v. Jack Daniel’s Properties Incorporated, cui la causa era stat rimandata dalla Corte Suprema USA con la sua nota sentenza del 2023 (su cui v. mio post)

I marchi a paragone:

Secondo il giudice distrettuale non c’è confondibilità perchè la parodia è palese, però c’è danno alla rinomanza (infangamento, tarnishment).

Sorge un problema teorico: se la parodia è ammessa, reprimerla con il tarnishmnent è contraddittorio. Qualunque parodia ad attività commerciale ne può ridurre la capacità di generare proditti. Cioè la parodia è ammessa come difesa contro la privativa di marchio, purchè non ne leda in alcun modo la redditivita.   Il che è illogico, perchè di fatto rende inutilizzabile la difesa medesima.

In generale la parodia riposa su valori (democraticità, free speeech…) più importanti di quelli economici; solo che qui è azionata da un concorrente, quindi da chi agisce secondo logica pure economica.

L’eserczio di diritti fondamentali non è previsto espressamente come limite alla privativa (art. 14 reg. UE 1001 del 2017); ma cetamente va ammesso quantomeno per analogia iuris (se di dirittto europeo oppure italiano, è da vedere)

Non necessità di omologa per l’accordo a latere rispetto alle condizioni di separazione/divorzio e censura in Cassazione dell’interpretazione del contratto

Cass. sez. I, ord. 28/01/2025, n. 1.985, rel. Tricomi:

<<3.2.- Questa Corte ha già affermato che l’accordo transattivo relativo alle attribuzioni patrimoniali, concluso tra le parti in occasione di un giudizio di separazione o di divorzio, ed estraneo all’oggetto del giudizio di divorzio (status, assegno di mantenimento per il coniuge o per i figli, casa coniugale), seppure avente causa nella crisi coniugale, ha natura negoziale e produce effetti senza necessità di essere sottoposto neppure al giudice per l’omologazione (Cass. n. 24621/2015); ha, altresì, chiarito che la soluzione dei contrasti interpretativi tra una pattuizione a latere ed il contenuto di una separazione omologata o sentenza di divorzio, spetta al Giudice di merito ordinario, il quale dovrà fare ricorso ai criteri dettati dagli artt. 1362 s.s. c.c. in tema di interpretazione dei contratti (Cass. n. 1324/2025).

L’interpretazione del contratto è rimessa al giudice di merito; in sede di legittimità questa interpretazione è sindacabile solo nei limiti dell’applicazione delle norme di ermeneutica contrattuale e della logica della sua motivazione (Cass. n. 435/1997). Nell’interpretazione del contratto, funzione fondamentale assume l’elemento letterale. Nel contempo, il senso letterale della singola parola, anche nella sua chiarezza, è insufficiente (come l’art. 1362 primo comma cod. civ. presuppone) a delineare la comune intenzione delle parti (obiettivo dell’interpretazione), la quale emerge solo (come l’incondizionata, affermazione dell’art. 1363 cod. civ. esige) attraverso la connessione degli elementi letterali (“le une per mezzo delle altre”), la relativa integrazione (“il senso che risulta dal complesso dell’atto”), e la valutazione del complessivo comportamento delle parti (art. 1362 secondo comma cod. civ.) (Cass. n. 34687/2023; Cass. n. 6233/2004): passaggi necessari del procedimento interpretativo, di funzione non subordinata, bensì concorrente (Cass. n. 6389/1998).

Questa progressiva dilatazione degli elementi dell’interpretazione contrattuale si sviluppa man mano dalle singole parole alla clausola, alla connessione delle clausole, al complesso dell’atto, ed al comportamento complessivo delle parti (Cass. n. 5960/1999; Cass. n. 8574/1999), il quale non costituisce un canone sussidiario, bensì un parametro necessario ed indefettibile (“si deve valutare”: art. 1362 secondo comma cod. civ.). In tal modo, le disposizioni degli artt. 1362 primo comma, 1363 e 1362, secondo comma, cod. civ. sono fondate sulla stessa logica, che, esprimendo l’intrinseca insufficienza della singola parola (e del suo formale significato: come, in diverso campo ed in diversa misura, segnala l’art. 12 primo comma delle preleggi), prescrive la più ampia dilatazione degli elementi di interpretazione: le singole espressioni letterali devono essere inquadrate nella clausola, questa nelle altre clausole, queste nel complesso dell’atto, e l’atto nel complessivo comportamento delle parti.

Ciò comporta che la censura in sede di legittimità dell’interpretazione di una clausola contrattuale offerta dal giudice di merito imponga al ricorrente l’onere di fornire, con formale autosufficienza, gli elementi alla complessiva unitarietà del testo e del comportamento non adeguatamente considerati dal giudice di merito, nella loro materiale consistenza e nella loro processuale rilevanza (Cass. n. 34687/2023).

Nella specie, si verte in ipotesi di accordo stipulato tra ex coniugi, al momento della separazione e del successivo divorzio, al fine di disciplinare le questioni patrimoniali insorte nella coppia ed il ricorrente ha illustrato in maniera specifica e circostanziata gli elementi di fatto posti a fondamento delle critiche ed ha individuato le regole di ermeneutica contrattuale, letterale e secondo il comportamento delle parti, a suo parere, distintamente violate dalla Corte di appello, di guisa che il motivo risulta pienamente ammissibile>>.

Onere della prova nell’appalto (soprattutto nella garanzia per vizi e difetti a carico dell’appaltatore)

Importanti insegnamenti in Cass. sez. II, ord. 23/01/2025 n. 1.701, rel. Trapuzzano, sullo scivoloso tema in oggetto. Il notevole grado di dettaglio del ragionamento svolto rende la sentenza decisamente saliente per l’operatore.

Vale la pena di riportare tutto il lungo passo pertinente, nel frequentissimno caso di azione dell’impresa per il recupero del corrispettivo, osteggiata dall’eccezione (o domanda) riconvenzionale che fa valere la garanzia per vizi o difformitlò (/art. 1667-1668 cc):

<<Senonché non può prescindersi, nello scrutinare la doglianza, dalla verifica dei termini in cui è stato trattato il tema della ripartizione dell’onere della prova in ordine alla ricorrenza dei difetti denunciati (ovvero alla prova della loro inesistenza).

Si rammenta che l’assunto da cui muove la Corte territoriale si incentra sul seguente rilievo: a fronte della “domanda” di riduzione del prezzo spiegata dall’opponente subappaltante, in ragione dei vizi debitamente allegati (infiltrazioni provenienti dal coperto oggetto degli interventi della subappaltatrice e da un velux non correttamente posto in opera), la sostanziale equiparazione di tale domanda ad una “eccezione” riconvenzionale di inadempimento ex art. 1460 c.c. implicava che fosse l’opposta subappaltatrice a dovere fornire la dimostrazione dell’esecuzione dell’opera in conformità alle prescrizioni negoziali e alle regole dell’arte, prova nella specie difettata, con la conseguente inibizione (nell’intero) del diritto a pretendere il pagamento del corrispettivo (con la revoca del provvedimento monitorio opposto).

In dottrina costituisce affermazione granitica l’assunto secondo cui la prova dell’imperfezione dell’opera grava sul committente, anche qualora le difformità e i vizi siano dedotti con l’exceptio non rite adimpleti contractus. In questa prospettiva, la presunzione di colpa non influisce sulla distribuzione dell’onere probatorio in ordine alla ricorrenza delle imperfezioni, ma più limitatamente consente di ritenere che esse siano addebitabili all’appaltatore, una volta che l’appaltante le abbia dimostrate, ricadendo sul primo la prova contraria: ossia dell’avere agito con diligenza o, secondo altri, dell’interferenza di circostanze esimenti tipiche.

Più articolata è la posizione, anch’essa al quanto consolidata, assunta sul punto dalla giurisprudenza di legittimità.

In sintonia con i principi generali sanciti con riferimento alla prova dell’adempimento contrattuale (Cass. Sez. U, Sentenza n. 13533 del 30/10/2001), questa Corte ha sostenuto che, in tema di inadempimento del contratto di appalto, le disposizioni speciali dettate dal legislatore attengono essenzialmente alla particolare disciplina della garanzia per le difformità ed i vizi dell’opera, assoggettata ai ristretti termini decadenziali di cui all’art. 1667 c.c., ma non derogano al principio generale che governa l’adempimento del contratto con prestazioni corrispettive, il quale comporta che – allorché il committente eccepisca l’inadempimento dell’esecutore – l’appaltatore abbia l’onere di provare di aver esattamente adempiuto la propria obbligazione e, quindi, di aver eseguito l’opera conformemente al contratto e alle regole dell’arte (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 25410 del 23/09/2024; Sez. 2, Ordinanza n. 16312 del 12/06/2024; Sez. 2, Sentenza n. 1634 del 24/01/2020; Sez. 6-2, Ordinanza n. 98 del 04/01/2019; Sez. 2, Sentenza n. 936 del 20/01/2010; Sez. 2, Sentenza n. 3472 del 13/02/2008).

Sicché siffatta distribuzione dell’onere probatorio non riguarda specificamente la garanzia speciale per i vizi dell’opera appaltata, ma risponde all’esigenza di assicurare, in tema di condanna all’adempimento nei contratti a prestazioni corrispettive, che la parte la quale chieda in giudizio l’esecuzione della prestazione dovuta (come il pagamento del compenso asseritamente maturato) non sia, a sua volta, inadempiente, avendo, piuttosto, l’onere di offrire l’esecuzione della propria prestazione, se le prestazioni debbano essere eseguite contestualmente, ovvero l’onere di dimostrare di aver adempiuto la propria obbligazione, se essa – come avviene per l’appaltatore – preceda l’adempimento in ordine al pagamento del corrispettivo cui la controparte è tenuta (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 15287 del 31/05/2024; Sez. 1, Ordinanza n. 7763 del 22/03/2024).

Ebbene, l’applicazione di tale regola al contratto di appalto, cui pacificamente si estende la disciplina generale dell’inadempimento del contratto, implica che l’appaltatore che agisca in giudizio per il pagamento del corrispettivo convenuto abbia l’onere di provare di avere adempiuto la propria obbligazione, ossia di aver eseguito l’opera, integrando tale adempimento il fatto costitutivo del diritto di credito, oggetto della sua pretesa.

Nondimeno, diverso è l’assetto relativo al riparto degli oneri probatori allorché sia fatta valere la garanzia speciale per le difformità e vizi dell’opera.

In questa prospettiva, da ultimo, con specifico riguardo al contratto di compravendita – ma il principio è stato espressamente esteso dalla stessa pronuncia, per identità di ratio, anche all’appalto -, si è affermato che, in materia di garanzia per i vizi della cosa venduta di cui all’art. 1490 c.c., il compratore che esercita le azioni di risoluzione del contratto o di riduzione del prezzo di cui all’art. 1492 c.c. è gravato dell’onere di offrire la prova dell’esistenza dei vizi. E ciò perché la garanzia per i vizi pone il venditore in una condizione non di “obbligazione” (dovere di prestazione) ma di “soggezione” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 11748 del 03/05/2019; così anche Cass. Sez. U, Sentenza n. 19702 del 13/11/2012), cosicché lo schema concettuale a cui ricondurre l’ipotesi che la cosa venduta risulti viziata non può essere quello dell’inadempimento di una obbligazione.

In particolare, la consegna di una cosa viziata integra un inadempimento contrattuale, ossia una violazione della lex contractus; ma, come è stato osservato in dottrina, non tutte le violazioni della lex contractus realizzano ipotesi di inadempimento di obbligazioni [si noti: inadempimento del contratto, non di una obbligazione, dato che non ricorreva quest’ultima ma semmai una garanzia].

Pertanto, traslando i riferiti argomenti all’odierno modello negoziale, l’imperfetta attuazione nell’appalto del risultato auspicato – ossia del compimento dell’opera o della prestazione del servizio in conformità alle pattuizioni negoziali e alle regole tecniche, in ragione della presenza delle difformità e dei vizi – integra una responsabilità che prescinde da ogni giudizio di colpevolezza dell’assuntore e si fonda soltanto sul dato obiettivo dell’esistenza dei difetti.[certo, ma ovvio]

Siffatta garanzia non può, quindi, essere ricondotta alla fattispecie dell’inesatto adempimento. Piuttosto, il diritto alla eliminazione o alla modificazione (quanto al prezzo) del contratto di appalto ovvero alla risoluzione, che vuol far valere l’appaltante che esperisca le azioni di cui all’art. 1668 c.c., per essere garantito dall’appaltatore in ordine ai difetti della cosa commissionata – vale a dire, per l’imperfetta attuazione del risultato al quale era funzionale l’obbligazione di facere, anche in assenza di colpa dell’assuntore -, si fonda sul fatto dell’esistenza dei difetti medesimi.

La prova di tale esistenza grava, dunque, in linea di principio, sul committente. E ciò anche in applicazione del principio di vicinanza della prova e del tradizionale canone riassunto nel brocardo latino negativa non sunt probanda.[piana applicaizone dell 2697 cc; che sia azine o mera eccezione nulla cambia]

Aderisce sostanzialmente a tale impostazione l’orientamento secondo cui l’onere della prova dei vizi è a carico della parte che abbia la disponibilità della cosa, in lineare applicazione del principio di vicinanza della prova, cosicché, in tema di garanzia per difformità e vizi, l’accettazione dell’opera segna il discrimine ai fini della distribuzione dell’onere della prova, nel senso che, fino a quando l’opera non sia stata espressamente o tacitamente accettata, al committente è sufficiente la mera allegazione dell’esistenza delle difformità e dei vizi, gravando sull’appaltatore l’onere di provare di aver eseguito l’opera conformemente al contratto e alle regole dell’arte, mentre, una volta che l’opera sia stata positivamente verificata, anche per facta concludentia, spetta al committente, che l’ha accettata e che ne ha la disponibilità fisica e giuridica, dimostrare l’esistenza dei difetti e delle conseguenze dannose lamentate, giacché l’art. 1667 c.c. indica nel medesimo committente la parte gravata dall’onere della prova di tempestiva denuncia delle difformità e dei vizi ed essendo questo risultato ermeneutico in sintonia col principio della vicinanza al fatto oggetto di prova (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 6161 del 07/03/2024; Sez. 2, Ordinanza n. 21230 del 19/07/2023; Sez. 2, Ordinanza n. 12723 del 10/05/2023; Sez. 2, Sentenza n. 7267 del 13/03/2023; Sez. 2, Ordinanza n. 2223 del 25/01/2022; Sez. 2, Sentenza n. 39599 del 13/12/2021; Sez. 2, Ordinanza n. 10149 del 16/04/2021; Sez. 2, Sentenza n. 19146 del 09/08/2013; Sez. 2, Sentenza n. 23923 del 27/12/2012).

Ne discende che prima dell’accettazione la prova dell’assenza delle imperfezioni denunciate compete all’artefice; dopo l’accettazione, anche tacita, la dimostrazione dell’esistenza spetta all’ordinante.[NB: punto assai importante nella pratica]

In particolare, laddove il committente denunci la presenza di difformità, basta che questi provi la mancata osservanza di determinate pattuizioni, senza che sia necessario fornire la dimostrazione che l’opera ha un valore o rendimento minore: potendo tale scostamento essere fatto valere anche nelle ipotesi in cui l’opera risulti avere un maggior valore. Qualora, per converso, la causa petendi dell’azione di eliminazione, riduzione o risoluzione sia rappresentata dalla denunciata ricorrenza di vizi, l’appaltante è onerato della prova della violazione di determinate regole di buona tecnica, la quale implica che, sebbene l’opera sia idonea alla sua destinazione, abbia subito, a causa dei difetti dedotti, una diminuzione di valore o di rendimento rispetto al valore desumibile dalle prescrizioni negoziali; a fortiori, la dimostrazione del decremento di valore o di rendimento è sintomatica (recte meramente indicativa) della violazione delle regole dell’arte.

1.4.- Da queste argomentazioni deriva che solo allorché il committente si limiti ad eccepire l’inadempimento dell’appaltatore (deducendo la sussistenza di difformità o vizi, ma senza ampliare il thema decidendum) – nel caso quest’ultimo abbia agito in giudizio per il pagamento del corrispettivo convenuto – l’assuntore ha l’onere di provare di aver esattamente adempiuto la propria obbligazione e di aver eseguito l’opera conformemente al contratto e alle regole dell’arte.

E tanto in conformità al principio generale a mente del quale, in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il debitore convenuto per l’adempimento, ove sollevi l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., sarà onerato di allegare l’altrui inadempimento, gravando sul creditore agente l’onere di dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione (Cass. Sez. 6-3, Ordinanza n. 3587 del 11/02/2021; Sez. 3, Sentenza n. 3373 del 12/02/2010; Sez. 1, Sentenza n. 13674 del 13/06/2006; Sez. 3, Sentenza n. 8615 del 12/04/2006).

Quindi, qualora il committente contesti fondatamente l’adempimento, per non avere l’artefice dimostrato la perfetta esecuzione dell’opera, la domanda di condanna al pagamento non può essere accolta, non rilevando che l’inadempimento dell’appaltatore abbia scarsa importanza, in quanto a tale nozione l’art. 1455 c.c. fa riferimento a proposito della domanda di risoluzione del contratto e non di quella volta ad ottenere il suo adempimento, stante l’esigenza di prevedere l’operatività del rimedio della risoluzione solo nel caso in cui il comportamento di una parte produca un effettivo pregiudizio all’interesse della parte non inadempiente, alterando il sinallagma funzionale.

In tale evenienza è richiesta dunque la dimostrazione (positiva) dell’esatto adempimento, sul piano quantitativo e qualitativo, della prestazione, nel suo insieme, in collegamento sinallagmatico rispetto al pagamento del compenso (che appunto dà causa e giustifica il diritto alla sua percezione): sia sul completamento dell’opera o del servizio, sia sulla corrispondenza dell’opera o del servizio alle prescrizioni negoziali e alla buona tecnica.

Il che ontologicamente costituisce onere diverso dalla dimostrazione (negativa) dell’inesistenza di specifiche difformità o vizi.

Qualora, per converso, il committente eserciti le azioni di cui alla garanzia speciale per le difformità e i vizi – in via principale o in via riconvenzionale -, l’onere probatorio ricade sull’appaltante che abbia la disponibilità dell’opera.

In specie, l’azione di proporzionale riduzione costituisce rimedio satisfattivo speciale, che amplia il thema decidendum ed è funzionalmente diverso dal rimedio risarcitorio, il quale può essere esperito in aggiunta all’actio quanti minoris, ovviamente per il perseguimento di beni della vita eterogenei, anche se complementari, benché anch’essa tenda a riparare le conseguenze di un inadempimento contrattuale (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11604 del 02/08/2002; Sez. 2, Sentenza n. 1770 del 07/02/2001; Sez. 2, Sentenza n. 977 del 04/02/1999; Sez. 2, Sentenza n. 4839 del 04/08/1988).

L’incidenza del difetto sul prezzo postula, infatti, che sia indicata l’entità e la qualità delle difformità e dei vizi, i quali debbono essere singolarmente dedotti e valutati, ai fini dell’emarginazione della causa petendi della domanda, sebbene costituiscano altrettanti fatti semplici che concorrono a formare l’unico fatto giuridico (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1023 del 19/02/1986; Sez. 3, Sentenza n. 1617 del 17/06/1963; Sez. 1, Sentenza n. 1317 del 30/05/1962; Sez. 1, Sentenza n. 882 del 20/04/1961).

Quanto al petitum, la finalità della riduzione del prezzo è quella di porre il committente nella stessa condizione economica in cui si sarebbe trovato se avesse stipulato l’appalto per un’opera corrispondente a quella effettivamente realizzata, comprensiva dei difetti, ad un prezzo inferiore, cosicché l’esperimento dell’azione è volto a ristabilire il nesso di corrispettività tra le prestazioni. In questa prospettiva la riduzione incide sul prezzo inteso come valore contrattuale della cosa e non sul suo valore di mercato, ossia sul valore corrente obiettivo della cosa.

Ne discende che la pretesa dell’ordinante di condanna dell’artefice al pagamento della somma necessaria ad eliminare i vizi dell’opera non costituisce una mera modalità esecutiva della richiesta di eliminazione dei vizi a spese dell’assuntore (la quale postula che quest’ultimo proceda direttamente ai lavori di correzione o riparazione, in forza della condanna giudiziale disposta), bensì si inquadra nell’ambito dell’obbligo di riduzione del corrispettivo, assumendo il riferimento ai vizi funzione parametrica della somma all’uopo richiesta (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4161 del 02/03/2015; Sez. 2, Sentenza n. 5250 del 15/03/2004; Sez. 2, Sentenza n. 2974 del 22/06/1989; Sez. 2, Sentenza n. 1016 del 07/02/1983).

Delineati gli elementi costitutivi dell’azione di proporzionale riduzione del prezzo, propone domanda riconvenzionale il committente che, convenuto in giudizio dall’appaltatore per il pagamento del prezzo convenuto, chieda la riduzione di quel corrispettivo ai sensi dell’art. 1668, primo comma, c.c., denunciando difformità o vizi dell’opera (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2236 del 15/06/1976; nello stesso senso, con riferimento alla vendita, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1289 del 26/04/1968; Sez. 3, Sentenza n. 1352 del 06/06/1962).

Il discrimen è, per l’effetto, segnato dalla posizione processuale assunta dall’appaltante con riferimento alla domanda dell’artefice di pagamento del compenso: ove questi si limiti ad eccepire l’inadempimento, è onere dell’assuntore dimostrare la corretta esecuzione dell’opera ai fini di ottenere il pagamento del corrispettivo; ove, invece, il committente faccia valere la garanzia speciale per le difformità e i vizi, azionando le domande di eliminazione a spese dell’appaltatore oppure di diminuzione proporzionale del prezzo o di risoluzione dell’appalto, farà carico allo stesso committente, che sia rientrato nella piena disponibilità dell’opera, come fisiologicamente accade al termine dei lavori, l’onere di dimostrare l’integrazione di tali difformità e vizi>>.

Sull’efficacia costitutiva dell’annotazione ipotecaria e sul suo rapporto con le vicende del credito garantito sottostante

Interessante esame del tema (un pò complesso per chi non lo frequenti regolarmente) da parte di Cass. sez. III, sent. 09/01/2025 n. 486, rel. Saija:

<<Né può dubitarsi, infine e già sul piano astratto (tenuto anche conto di quanto sostenuto dalla ricorrente circa il fatto che la cessione del 26.4.2006 aveva ad oggetto tutti i crediti vantati dalla banca ed, espressamente, tutte le garanzie ipotecarie – v. memoria Tr.Di., p. 4), della facoltà del creditore di poter ad un tempo cedere il diritto di credito, ma non anche il diritto di garanzia che lo assiste (che, in ipotesi, seguirà ovviamente il suo corso; nel caso dell’ipoteca, salva rinuncia formale del cedente, in ogni caso con l’estinzione ex art. 28/8, n. 3, c.c., non essendo configurabile un diritto ipotecario astratto, ossia scollegato dal diritto di credito garantito – a quel punto non più esistente in capo al cedente per effetto della cessione -, stante anche il principio di accessorietà): il disposto dell’art. 1263 c.c. certamente non esprime norma inderogabile, restando evidentemente nella piena disponibilità delle parti definire gli inerenti rapporti, anche in ordine alla loro estensione.

D’altronde, ferma la validità ed efficacia della cessione del credito tra le parti, ex art. 1260 c.c., per effetto dello scambio dei consensi, il trasferimento del diritto ipotecario che eventualmente ad esso acceda dipende pur sempre dall’espletamento delle formalità di annotazione, posto che, ai sensi dell’art. 2843, comma 2, primo periodo, “la trasmissione o il vincolo dell’ipoteca non ha effetto finché l’annotazione non sia stata eseguita”.

Insomma, la tesi propugnata al riguardo dalla parte pubblica non è condivisibile, e si pone anch’essa in termini di incoerenza rispetto al decisum.>>

E poi:

<<4.2 – Si tratta di un percorso decisorio all’evidenza non sostenibile in iure, perché confonde e sovrappone il piano negoziale (ossia, cosa i vari soggetti coinvolti abbiano voluto o potuto – rispettivamente – trasferire ed acquistare, con le due cessioni in rilievo), con il piano che deriva dall’espletamento delle formalità ipotecarie, ed in particolare quello concernente gli effetti dell’annotazione ex art. 2843 c.c., pacificamente effettuati prima dalla Lithos Spa, e poi dalla Tr.Di., avente causa di quest’ultima.

In proposito, è indiscutibile che l’annotazione della cessione del vincolo ipotecario su un immobile abbia effetto costitutivo (ex multis, Cass. n. 16669/2008), similmente all’iscrizione ipotecaria tout court cui accede, sicché il relativo diritto in tanto esiste in quanto risulti dai RR.II. In altre parole, il cessionario che abbia annotato la vicenda traslativa del diritto d’ipoteca in proprio favore (eseguendo le relative formalità e presentando al conservatore i relativi documenti giustificativi, perché questi vi provveda) è da considerare a tutti gli effetti titolare del diritto di garanzia, a prescindere dalie vicende sottostanti e dalla stessa coerenza di una simile risultanza con il titolo di provenienza; gli effetti di una tale annotazione, dunque, non possono obliterarsi sulla base di valutazioni estemporanee circa la validità o efficacia dell’annotazione stessa (come, ad es., opina la Corte lagunare, laddove rileva che detta annotazione, in favore della Lithos, avvenne per “errore formale”, peraltro non meglio individuato, da tanto ritenendo di poter escludere, da un lato, la titolarità del diritto d’ipoteca in capo alla Tr.Di., dall’altro, ogni responsabilità della banca e del notaio per la cancellazione di detta formalità), perché tutti i consociati devono necessariamente attenersi alle risultanze dei RR.II.; ciò a meno che non si sia al cospetto di una formalità che neppure possa considerarsi quale vera e propria annotazione (si fa riferimento ad ipotesi sostanzialmente scolastiche, quale ad es. l’inesistenza). Non a caso, l’art. 2843, comma 2, secondo periodo, c.c. espressamente recita: “dopo l’annotazione l’iscrizione non si può cancellare senza il consenso dei titolari dei diritti indicati nell’annotazione medesima”.

Tutto quanto precede, quindi, implica che, qualora l’annotante non presti il consenso alla cancellazione dell’annotazione indebitamente eseguita, il soggetto che ne abbia interesse è tenuto a proporre, dinanzi alla competente A.G., la relativa domanda di accertamento dell’inesistenza del diritto di ottenere l’annotazione ex art. 2843 c.c. e la relativa declaratoria di nullità della formalità, giacché in caso di accoglimento della domanda gli effetti dell’annotazione stessa, una volta passata in giudicato la sentenza che quelle domande abbia accolto e che abbia disposto la relativa cancellazione (trattandosi di sentenza dichiarativa da una parte, e tanto espressamente prevedendo, ai fini dell’esecuzione dell’ordine, l’art. 2884 c.c.), dovranno considerarsi tamquam non essent.

Ma, nella specie, non risulta che una simile domanda sia stata proposta da alcuno, con riguardo alle vicende per cui è processo.

(…)

4.4.1 – Discende da quanto precede che l’operato del BANCO BPM, allorché si è attivato prestando “l’assenso alla cancellazione dell’ipoteca pur inidoneo a conseguire l’annotazione della cancellazione” (così il BANCO BPM, p. 16 del controricorso), ben può costituire fatto illecito rilevante ai sensi dell’art. 2043 c.c., perché ha innescato la serie causale che ha condotto alla illegittima cancellazione della formalità in parola, i cui effetti sono irrimediabili, non essendo possibile, neppure a seguito di ordine giudiziale, ripristinare con effetto ex tunc l’ordine originario della garanzia ipotecaria, ma solo eventualmente ottenere, ove possibile, una nuova iscrizione (con grado basato sulla data di quest’ultima formalità) ed agire – comunque – per ottenere la tutela risarcitoria (si veda, sul punto, la recente Cass. n. 33740/2022).

A nulla rileva, pertanto, la circostanza per cui detto assenso venne prestato “perché costituiva adempimento di un obbligo assunto per un’iscrizione mai trasferita ai soggetti indebitamente annotati come surrogati nel diritto” (così ancora il BANCO BPM, ibidem), perché il Banco non era affatto abilitato a chiedere la cancellazione di alcunché, in quanto non più titolare del diritto d’ipoteca e, dunque, non legittimato ai sensi dell’art. 2882 c.c.: al tempo dell’operazione in discorso, l’unico creditore ipotecario sull’immobile del Ce.An. a S. era solo e soltanto Tr.Di..

Al fine di adempiere agli obblighi a suo tempo contrattualmente assunti con i soggetti interessati al noto trasferimento immobiliare, dunque, il BANCO BPM, preso atto delle vicende del diritto ipotecario più volte descritte, avrebbe solo potuto agire in sede giudiziaria per ottenere la declaratoria della invalidità e/o dell’inefficacia di entrambe le annotazioni in discorso, non certo attivarsi per ottenere direttamente la cancellazione da parte del conservatore, come invece avvenuto, in assenza del consenso del soggetto legittimato, ossia della Tr.Di..

4.4.2 – Né può sostenersi – come pure ha ribadito il BANCO BPM anche nel corso dell’udienza pubblica, con tesi invero singolare – che l’assenso alla cancellazione da esso prestato riguardava la sola ipoteca originaria in suo favore, non anche l’annotazione in favore di Tr.Di., sicché detto assenso “non poteva essere considerato dagli uffici competenti come titolo per ottenere la cancellazione dell’ipoteca iscritta a favore della signora Tr.Di.” (così ancora il BANCO BPM, ibidem; ma v. anche la memoria, p. 5, ove si afferma claris verbis che “il conservatore dei registri non avrebbe potuto annotare l’assenso alla cancellazione dell’ipoteca iscritta a favore della Signora Tr.Di. sulla base dell’assenso alla cancellazione dell’ipoteca iscritta a proprio favore”). A tacer d’altro, la tesi esposta postula la possibilità di una sorta di gemmazione del diritto d’ipoteca, in caso di cessione del credito con connessa cessione della garanzia, sicché ciascuno dei danti causa dell’ipotetica catena traslativa del diritto stesso ne conserverebbe la titolarità, quantomeno, ai fini della prestazione del consenso alla cancellazione.

Il che è chiaramente insostenibile, posto che l’annotazione ex art. 2843 c.c. concerne le vicende traslative del diritto di garanzia, sicché questo non può che essere uno e uno solo: se l’originario creditore ipotecario lo ha ceduto e se tanto emerga dai RR.II. a seguito di annotazione (si ripete, non importa se indebitamente effettuata), quegli non è più titolare di nessuna potestà al riguardo, perché – stanti anche i principi di accessorietà e di specialità – l’unico titolare dell’ipoteca è necessariamente il cessionario del credito, che abbia proceduto all’annotazione stessa; tanto è vero che, a mente del già citato art. 2843, comma 2, secondo periodo, c.c., è previsto, ai fini della cancellazione della formalità, il solo “consenso dei titolari dei diritti indicati nell’annotazione medesima”, non certo dei loro danti causa.

Non senza evidenziare, infine, l’intrinseca illogicità della tesi sopra esposta: se davvero il BANCO BPM era pienamente consapevole che l’assenso prestato non avrebbe comunque giustificato la cancellazione della formalità con riguardo alla posizione della Tr.Di., resta incomprensibile perché mai esso avrebbe dovuto incaricare un notaio (è pacifico, tra tutte le parti, che la dr.ssa Cu.La. era stata incaricata proprio dal Banco anche per quanto era necessario richiedere al conservatore dei RR.II. – v., in particolare, controricorso Cu.La., pp. 18-19) per annotare lo stesso assenso con le ventilate limitazioni, posto che, ove mai tanto fosse stato possibile, il Banco non avrebbe comunque potuto ritenersi adempiente rispetto ai propri richiamati obblighi, in quanto il bene immobile in questione non avrebbe comunque potuto considerarsi libero da formalità. Anche per tal verso, dunque, la tesi propugnata dal BANCO BPM si rivela completamente destituita di fondamento>>

C’è pure resposnabilità del notario per avcer rogato e poi fatto annotae un atto che pur se valido era palesam,ente dannoso per i terzi. Nè interrompe il nesso di causalitòà che la decisione sia stata presa dal Cosnervcatore.

<<

5.3 – Ciò posto, non v’è dubbio che la condotta complessivamente tenuta dal notaio Cu.La. sia ben suscettibile di essere valutata ai fini che occupano. Il notaio, infatti, pur tenuto (in base allo status notarile) a rogare gli atti che gli vengano richiesti, col solo divieto inerente agli atti nulli (artt. 27 e 28 legge n. 89/1913), non può comunque rogare l’atto richiesto ove consapevole che detto atto, benché non nullo, sia potenzialmente idoneo ad arrecare danno a terzi.

La vicenda che occupa è esemplare in tal senso: la dr.ssa Cu.La., accortasi della carenza di legittimazione ex art. 2882 c.c. in capo al BANCO BPM, avvertì il cliente del rifiuto pressoché certo del conservatore (e, dunque, dell’inutilità del rogito, manifestando il proprio iniziale dissenso); il cliente, però, insistette per procedere, incaricando il notaio anche per la cura delle formalità pubblicitarie. A tal punto, è evidente come l’operato del notaio, che comunque procedette nel senso voluto dalla cliente, esuli dal cono d’ombra degli artt. 27 e 28 della legge notarile: non si tratta di individuare la sussistenza o meno della violazione di tali disposizioni, dettate eminentemente a fini disciplinari/deontologici (v. Cass. n. 2033/2023), ma del generale dovere di astensione da comportamenti produttivi di danni a terzi.

In altre parole, non viene in rilievo il rispetto, da parte del notaio, delle regole deontologiche, né tampoco la valutazione circa l’espletamento del c.d. dovere di consiglio in favore del cliente, ma la verifica del parametro della condotta del notaio stesso rispetto al generale dovere del neminem laedere: se il notaio è consapevole che l’atto richiestogli si pone in violazione di una o più norme giuridiche, quand’anche queste non ne comportino la nullità, deve evidentemente interrogarsi su quali possano esserne le conseguenze, specialmente nei confronti di quei soggetti terzi che, inequivocamente, sono individuabili ex ante quali destinatari degli effetti dell’atto, benché non vi abbiano partecipato, sì da restare potenzialmente danneggiati dal compimento dell’atto stesso.

Per passare al concreto: a seguito della richiesta del BANCO BPM per la restrizione di una formalità ipotecaria di cui non era più titolare, per esserlo divenuta (in base alle risultanze dei RR.II., correttamente acquisite dal notaio stesso) Tr.Di., è del tutto evidente che il notaio Cu.La. avrebbe dovuto porsi il problema – anche al lume della diligenza professionale quam in suis – della potenziale dannosità del rogito, non potendo certo di per sé confidare nell’operato del conservatore, peraltro richiesto a più riprese dell’annotazione di una simile restrizione (benché, asseritamente, destinata con certezza al suo rifiuto), né potendo limitarsi a sconsigliare il Banco stesso dal procedere oltre, per poi cedere alle sue insistenze. Nessun dovere di rogare l’atto può mai configurarsi ove esso sia potenzialmente pregiudizievole nei confronti di terzi estranei e, conseguentemente, anche dello stesso notaio, chiamato se del caso a risarcire il danno arrecato.  (…)

uanto poi alle considerazioni sulla sequenza causale, che secondo la stessa controricorrente (nonché il Procuratore Generale) sarebbe rimasta interrotta per effetto dell’operato del conservatore dei RR.II., che ha disposto la cancellazione tout court, anziché rifiutare l’adempimento, sarà il giudice di rinvio a valutare quanto necessario, sulla base degli elementi istruttori acquisiti, trattandosi di questione allo stesso riservata (Cass. n. 13096/2017). Nel far ciò, il giudice del rinvio si atterrà al seguente consolidato principio: “Con riguardo all’illecito civile, si ha interruzione del nesso di causalità soltanto quando la causa sopravvenuta (che può identificarsi anche con la condotta dello stesso danneggiato) sia da sola sufficiente a provocare l’evento, in quanto autonoma, eccezionale ed atipica rispetto alla serie causale già in atto, sì da assorbire sul piano giuridico ogni diverso antecedente causale e ridurlo al ruolo di semplice occasione” (così, Cass. n. 21563/2022, alla cui motivazione si rinvia, anche per richiami)>>.

Assegno di mantenimento da separazione e assegno divorzile: differenze e (alcune) somiglianze

Breve ripasso in tema da parte di Cass. sez. I, ord. 07/01/2025 n. 234, rel. Russo R. E. A.:

<<La Corte territoriale si è limitata ad affermare che la moglie al momento della separazione non lavorava e che ha diritto di conservare l’elevato tenore di vita mantenuto in costanza di convivenza, senza valutare se ella sia in possesso di risorse economiche tra le quali rileva certamente, oltre che l’eventuale patrimonio, anche la capacità lavorativa, da valutarsi in concreto e non in astratto (Cass. n. 24049 del 06/09/2021).

2.1.- Non si tratta qui di estendere automaticamente alla separazione i principi affermati da questa Corte in tema di assegno divorzile (Cass. S.U. 18287/2018), quanto di verificare se sussistano i presupposti per ottenere l’assegno di mantenimento ed in che misura, con accuratezza e considerando la concreta situazione, pur tenendo fermo che assegno di divorzio ed assegno di mantenimento sono diversi quanto a natura presupposti e funzioni; e segnatamente, l’assegno di mantenimento che il coniuge privo di mezzi può ottenere in sede di separazione è correlato al tenore di vita ed è privo della componente compensativa, consistendo nel diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario mantenimento, in mancanza di adeguati redditi propri (art 156 c.c.).

2.2.- Nel quadro normativo del codice civile la separazione dei coniugi ha funzione conservativa, pur se la legge sul divorzio le ha affiancato anche una funzione dissolutiva, tanto che questa Corte ha affermato che in tema di crisi familiare, in ragione dell’unica causa della crisi, nell’ambito del procedimento di cui all’art. 473-bis.51 c.p.c., è ammissibile il ricorso dei coniugi proposto anche con domanda congiunta e cumulata di separazione e di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio. Secondo l’id quod prelumque accidit, si osserva che la crisi separativa conduce, sia pure attraverso la disciplina di una graduazione e assottigliamento delle posizioni soggettive (diritti e doveri) dei coniugi, dal fatto separativo e con altissima probabilità all’esito divorzile successivo (Cass. n. 28727 del 16/10/2023).

2.3.- Il diritto all’assegno di mantenimento è quindi fondato sulla persistenza del dovere di assistenza materiale fintanto che il matrimonio non è sciolto; il principio di parità richiede che tale sostegno sia reciproco, senza graduazioni o differenze, ma anche solidale (Cass. n. 34728 del 12/12/2023 in motivazione).

3.- Il Collegio ritiene di aderire a tutt’oggi a questo orientamento, considerando che l’assegno di mantenimento è fondato – come sopra si diceva – sulla persistenza di uno dei doveri matrimoniali e non ha – a differenza dell’assegno di divorzio – componenti compensative. Tuttavia, deve rilevarsi che l’accertamento del diritto ad esser mantenuti dall’altro coniuge a seguito di separazione non è scisso dalla valutazione che la solidarietà presuppone un rapporto paritario e di reciproca lealtà, incompatibile con comportamenti parassitari diretti a trarre ingiustificati vantaggi dal coniuge separato. Più volte questa Corte ha sottolineato come anche nelle relazioni familiari valga il principio di autoresponsabilità che è strettamente correlato alla solidarietà; tutte le comunità solidali presuppongono che ciascuno contribuisca al benessere comune secondo le proprie capacità e che nessuno si sottragga ai propri doveri.

4. – Deve quindi rilevarsi che ferma la differenza tra assegno di divorzio e assegno di separazione, vi sono alcuni tratti comuni tra i due istituti e tra questi il presupposto che il richiedente sia privo di risorse adeguate. L’art. 156 parla invero di mancanza di “adeguati redditi propri”, e non di “mezzi adeguati” come l’art. 5 della legge divorzile, ma, ove il richiedente sia dotato di concreta e attuale capacità lavorativa e non la metta a frutto senza giustificato motivo la assenza di adeguati redditi propri non può considerarsi un fatto oggettivo involontario ma una scelta addebitabile allo stesso interessato.

4.1.- Nella giurisprudenza di questa Corte si è affermato che il riconoscimento dell’assegno previsto dall’art. 156 c.c., pur essendo espressione del dovere solidaristico di assistenza materiale, non può estendersi fino a comprendere ciò che, secondo il canone dell’ordinaria diligenza, l’istante sia in grado di procurarsi da solo (Cass. n. 20866 del 21/07/2021). Ed ancora si è affermato che l’attitudine al lavoro proficuo dei coniugi, quale potenziale capacità di guadagno, costituisce elemento valutabile ai fini della determinazione della misura dell’assegno di mantenimento da parte del giudice, qualora venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale e ambientale e con esclusione di mere valutazioni astratte e ipotetiche (Cass. n. 5817 del 09/03/2018; Cass. n. 24049 del 06/09/2021).

Nella specie la Corte d’Appello di Napoli non ha fatto buon governo di questi principi nell’omettere qualsivoglia indagine sulle capacità lavorative concrete della richiedente assegno e non indagando sulla possibilità che la moglie si procuri redditi diversi, ad esempio da patrimonio, limitandosi ad affermare che la stessa al momento della separazione non lavorava>>.

Il marchio può essere “rinomato” anche se per prodotti non di lusso e pure se non risulta evidente sul singolo prodotto

Spunti interessanti (il secondo soprattutto) a livello teorico anche se purtroppo solo accennati in Cass. sez. I, ord. 17/01/2025  n. 1.153, rel. Campese, nella lite Pasta Zara / Zara abbigliamento:

<<3.1. Invero, ribadito che il marchio notorio è tale in quanto conosciuto dalla generalità del pubblico e non è necessariamente legato alla distribuzione di prodotti di lusso o dai connotati di esclusività e raffinatezza, l’assunto della ricorrente secondo cui, sostanzialmente, l’utilizzazione del marchio “ZARA” non darebbe luogo ad alcun pregiudizio alla società controricorrente, né attribuirebbe alcun vantaggio alla ricorrente perché si tratterebbe di un marchio privo di prestigio, non persuade, né convince l’ulteriore argomentazione per cui, sui capi di abbigliamento di ZARA, il marchio non è evidente (cfr. amplius, pag. 13-14 del ricorso). Si tratta, infatti, di circostanza che, come condivisibilmente sostenuto dal Pubblico Ministero nelle sue conclusioni scritte, “è facilmente spiegabile con la scelta della società spagnola di operare la distribuzione dei propri prodotti in negozi monomarca e non costituisce quindi un’implicita ammissione di assenza di prestigio” >>.

Sulla decisione giudiziale intorno al cognome ex art. 262 cc

Cass. Sez. I, Ord. 21/01/2025, n. 1.492, rel. Tricomi:

<<In caso di riconoscimento non contestuale da parte dei genitori non coniugati, l’art. 262 cod. civ. conferisce al giudice il potere discrezionale di decidere, in base al superiore interesse del minore, se aggiungere o sostituire al cognome materno quello paterno. Questo potere non è subordinato ad automatismi e deve tener conto dell’ambiente in cui il minore è cresciuto fino al momento del riconoscimento da parte del padre>>.

(massima da Onelegale)