Nell’appalto il ricocnoscimento dei vizi è altro dall’assunzione dell’impegno a rimuoverli

Cass. sez. II, ord. 18/12/2024  n. 33.053, rel. Varrone, con precisazione esatta anche se scontata:

<<Questa Corte, sul punto, ha già avuto modo di affermare il seguente principio di diritto cui il Collegio intende dare continuità: Il semplice riconoscimento dei vizi e delle difformità dell’opera da parte dell’appaltatore implica la superfluità della tempestiva denuncia da parte del committente, ma da esso non deriva automaticamente, in mancanza di un impegno in tal senso, l’assunzione in capo all’appaltatore dell’obbligo di emendare l’opera, che, ove configurabile, è una nuova e distinta obbligazione soggetta al termine di prescrizione decennale; ne consegue che il predetto riconoscimento non impedisce il decorso dei termini brevi della prescrizione previsti in tema di appalto (Sez. 2, Ordinanza n. 19343 del 16/06/2022, Rv. 664999-02).

In tale occasione, infatti, si è precisato che occorre tenere distinto il profilo del riconoscimento dei vizi dal ben diverso profilo dell’assunzione dell’impegno a rimuoverli e della conseguente assunzione di una obbligazione diversa ed autonoma rispetto a quella originaria, svincolata dal termine decadenziale e soggetta al solo termine prescrizionale ordinario. La Corte territoriale ha ritenuto sufficiente il riconoscimento dei vizi e irrilevante la mancata assunzione di responsabilità in ordine alla loro causa con il conseguente impegno a rimuoverli.

Deve dunque ribadirsi che anche in presenza di un riconoscimento dei vizi e delle difformità dell’opera da parte dell’appaltatore – riconoscimento che elide l’onere di effettuare la denuncia – non può farsi discendere automaticamente dal riconoscimento medesimo l’assunzione in capo all’appaltatore dell’obbligo di emendare l’opera, in assenza della prova di un impegno in tal senso, con la conseguenza che il predetto riconoscimento non impedisce il decorso dei termini brevi della prescrizione previsti in tema di appalto (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15283 del 21/07/2005 – Rv. 582730-01)>>.

Danno non patrimoniale da illegittimo trattamento sanitario obbligatorio disposto a carico di persona psicologicamente fragile

Importante insegnamento (anche se pianamente discendente dalla tutela della dignità di ogni persona) in Cass. sez. III, ord.  19/12/2024 n. 33.290, rel. Rubino:

<<6.6. – Va a questo proposito puntualizzato che la illegittima privazione della libertà personale e la sottoposizione contro la propria volontà a trattamenti sanitari non consentiti ed indesiderati, consistendo in una ingiustificata compressione del diritto inviolabile alla libertà personale costituzionalmente tutelato, può essere causa di danno risarcibile anche a prescindere dal fatto che essa si associ ad un apprezzabile danno alla salute della persona. (…)

6.7. – Va ulteriormente aggiunto che la condizione di eventuale fragilità psicologica o psichica del paziente illegittimamente sottoposto a TSO non costituisce, come sembra ritenere la Corte d’Appello, una condizione ostativa alla apprezzabilità da parte del danneggiato e alla valutabilità da parte del giudice delle conseguenze pregiudizievoli dell’illecito, né quanto alla componente di sofferenza pura, né per quanto riguarda il pregiudizio nella sfera dinamico relazionale.

La condizione di eventuale fragilità del danneggiato rileva solo sotto il profilo della maggior complessità dell’accertamento ovvero della necessità di procedere ad un accertamento del danno che tenga conto, nelle sue modalità, della particolare condizione del potenziale danneggiato, al fine di indagare con mezzi adeguati, pur nei limiti dei fatti allegati e dei mezzi di prova proposti, e non di escludere a priori, se la privazione della libertà personale ridondi in una particolare sofferenza o se al contrario venga limitatamente o non apprezzabilmente percepita come tale dal soggetto, come pure a verificare se e in che misura il rapporto già eventualmente difficoltoso con gli altri della persona psicologicamente fragile sia stato negativamente intaccato, nell’immagine e nella considerazione sociale, dalla sottoposizione a TSO, rivelatasi a posteriori illegittima.

L’equazione che si ricava dalla motivazione della sentenza impugnata, secondo la quale il fatto incontestato della forzata privazione della libertà personale della ricorrente, i trattamenti farmacologici subiti a forza, la destabilizzazione conseguente di un equilibrio già precario, la perdita di reputazione sociale fossero fatti sostanzialmente irrilevanti, proprio perché si trattava di una persona fragile e il cui rapporto con gli altri era comunque già problematico, prima che si verificassero i fatti per cui è causa, è errata e si traduce nella mancanza di una corretta verifica dell’esistenza e dell’entità dei danni conseguenza.

In altri termini, va ribadito, ove necessario, giacché la Corte d’Appello sembra non esserne stata consapevole, che i comportamenti illeciti possono rilevare sotto il profilo del danno conseguenza come danno non patrimoniale, nelle sue componenti della sofferenza pura e del danno dinamico relazionale, anche nei confronti di una persona psicologicamente fragile e che non goda di elevata considerazione sociale, perché ogni persona ha diritto a non essere coinvolta illegittimamente in episodi che mettano (ancor più) a repentaglio il suo equilibrio e la sua reputazione pubblica. Diversamente opinando si arriverebbe all’estrema, inaccettabile conseguenza, di affermare che gli episodi di violenza, di minaccia, di dileggio che si consumano a danno di persone psichicamente instabili o comunque che si collocano ai margini della società, e di illegittima privazione della libertà personale nei confronti di queste persone non producono mai alcun danno perché queste persone anche prima non godevano di elevata considerazione sociale o perché le stesse, avendo un equilibrio fragile e instabile, non sono in grado di avvertire il peso delle umiliazioni o di soffrire per la privazione della propria libertà.

È quindi del tutto errata e censurabile, perché priva di ogni riscontro e di una effettiva analisi dei fatti nonché della valutazione delle eventuali conseguenze subite dalla ricorrente, anche perché prescindente da ogni approfondimento clinico e psicologico, pur richiesti, l’affermazione (a pag. 15 della sentenza impugnata) secondo la quale, attesa la preesistente situazione di disagio psichico della signora, vissuta sia intimamente che nelle relazioni con il prossimo, non sia possibile “individuare un prima e un dopo rispetto a quanto accaduto nel maggio 2009”.

Ugualmente e correlatamente errata è, in siffatta situazione, la scelta di non ammettere la consulenza tecnica, pur richiesta, perché ritenuta meramente esplorativa, laddove nei casi in cui la comunicazione diretta con la parte e l’apprezzamento delle sue condizioni psicofisiche è problematica per il giudice, la consulenza tecnica (avvalendosi se del caso anche di specialisti in psicologia) diviene uno strumento istruttorio officioso necessario al fine di fornire il supporto tecnico adeguato per compiere la verifica delle conseguenze del fatto lesivo sul danneggiato; la sua richiesta non può, pertanto, essere ritenuta meramente esplorativa, dovendosi intendere come tale soltanto l’istanza rivolta a supplire le deficienze allegative ed istruttorie di parte, così da aggirare il regime dell’onere della prova sul piano sostanziale o i tempi di formulazione delle richieste istruttorie sul piano processuale>>.

Sottrazione sleale di clientela del concorrente tramite l’ex dipendente

Breve passaggio in Cass. sez. I, ord. 29/01/2024 n. 2.586, rel. Catallozzi:

<<- infatti, la concorrenza che si svolge mediante la distrazione di clienti da un altro imprenditore non è illecita, per cui non può essere preclusa al nuovo imprenditore, in assenza di un patto di non concorrenza, pena una menomazione della sua iniziativa imprenditoriale priva di fondamento normativo;

– ciò che è illecito è l’acquisizione sistematica di clientela di altro concorrente realizzata mediante l’uso diretto o indiretto di mezzi non conforme alla correttezza professionale, quale, ad esempio, l’utilizzo di notizie sui rapporti con i clienti di altro imprenditore, acquisite nel corso di una pregressa attività lavorativa svolta alle dipendenze di quest’ultimo, ove trattasi di notizie non destinate ad essere divulgate al di fuori dell’azienda, quando dal loro impiego consegua un vantaggio competitivo (cfr. Cass. 31 marzo 2016, n. 6274; Cass. 30 maggio 2007, n. 12681; Cass. 20 marzo 1991, n. 3011);>>

REsponsabilità da prodotto difettoso per carente informazione

Cass. sez. III, ord. 23/12/2024  n. 33.984., rel. Gorgoni, circa la pasta pasta dentaria Polident Imbattibile di Glaxo:

<<Un tanto pur dovendosi ribadire che:

i) il prodotto non è difettoso solo perché pericoloso; nel senso che il verificarsi del danno non prova indirettamente, di per sé, la pericolosità del prodotto in condizioni normali di impiego, ma solo una sua più indefinita pericolosità di per sé insufficiente per evocare la responsabilità del produttore, se non sia anche in concreto accertato che quella specifica condizione di insicurezza del prodotto si pone al di sotto del livello di garanzia di affidabilità richiesto dalla utenza o dalle leggi in materia (Cass. 29/5/2013, n. 13458; Cass. 29/5/2013, n. 13458; Cass. 13/12/2010, n. 25116; Cass. 23/10/2023, n. 29837);

ii) non esiste un prodotto del tutto innocuo (Cass. 10/05/2021, n. 12225, cit., osserva che “anche assumendo come parametro integrativo di riferimento la nozione di prodotto “sicuro” contenuta nella disciplina sulla sicurezza generale dei prodotti di cui all’art. 103 Codice del consumo (e già al D.Lgs. n. 172 del 2004)(…) di sicurezza prescritto, al di sotto del quale il prodotto deve considerarsi difettoso, non corrisponde a quello della sua più rigorosa innocuità, dovendo farsi riferimento ai requisiti di sicurezza dall’utenza generalmente richiesti in relazione alle circostanze specificamente indicate all’art. 117 Codice del consumo (e già al D.P.R. n. 224 del 1988, art. 5), o ad altri elementi in concreto valutabili e concretamente valutati dal giudice di merito, nell’ambito dei quali debbono farsi rientrare gli standards di sicurezza eventualmente imposti dalle norme in materia (v. Cass. 20/11/2018, n. 29828; Cass. 29/5/2013, n. 13458)”) e che una certa dose di rischio può accettarsi purché sia ragionevole in relazione ad alcuni indici di valutazione proposti dal legislatore, i quali mediano tra i comportamenti esigibili dal produttore e le realistiche attese di sicurezza dell’utilizzatore, anche allo scopo di non imporre al produttore un costo elevato e inefficiente.

Un primo dato certo è allora che, come osservato dall’odierna ricorrente, la pasta adesiva solo perché conforme agli standard tecnici non è per ciò solo inidonea a provocare danni.

Nonostante il rilievo crescente attribuito alle norme tecniche emanate da organismi di normalizzazione (norme UNI e CEI in Italia), recepite o richiamate da provvedimenti legislativi, che il prodotto sia pienamente conforme agli standard tecnici – che siano espressamente prescritti dalle cosiddette normative verticali o che siano altrimenti desumibili dallo stato dell’arte – non implica che esso non sia potenzialmente dannoso (Cass. n. 12225/2021, cit.), quand’anche se ne possa presumere la sicurezza e, per converso, un prodotto difforme può risultare solo occasionalmente (ma non necessariamente) dannoso. Il prodotto conforme agli standard tecnici può risultare difettoso, perché dannoso, in considerazione del fatto che gli standard tecnici individuano una soglia minima di sicurezza il cui rispetto è indispensabile per ottenere la certificazione senza la quale non è possibile immettere in circolazione il prodotto, ma non esonera da responsabilità il produttore che non abbia fatto ricorso a misure precauzionali additive, purché fossero nella sua disponibilità (Corte di Giustizia CE, 29/05/1997, C-26/96, secondo cui le conoscenze scientifiche e tecniche di cui all’art. 7 lett. e) della Direttiva n. 85/374 non riguardano soltanto la prassi e gli standard di sicurezza in uso nel settore industriale nel quale opera il produttore, ma comprendono, senza alcuna restrizione, lo stato dell’arte inteso nel suo livello più avanzato, purché concretamente accessibile al momento della messa in circolazione del prodotto considerato).

Il ragionamento, in verità, non è dissimile da quello che si segue da parte di questa Corte quando si deve accertare la sussistenza di un comportamento colposo; il fatto che l’agente abbia osservato una norma cautelare esclude, di norma, la sua colpa specifica, ma tanto non esime dal verificare la sussistenza di una sua colpa generica [ottima precisazione].

Erra dunque il giudice a quo quando conferma la pronuncia del Tribunale che aveva “precisato come, in dipendenza della qualifica di presidio marcato CE, la parte adesiva era stata sottoposta ai controlli previsti dalla disciplina in materia” (p. 6 della sentenza), dopo avere osservato, atteggiandosi a giudice di legittimità, che l’appellante aveva riproposto la propria tesi difensiva, già disattesa dal giudice di primo grado, senza un effettivo confronto con la più ampia argomentazione presente nella sentenza impugnata (p. 6).

Ora, nel caso di specie la ricorrente per invocare la responsabilità del produttore ha fatto leva su uno dei tre difetti su cui è incentrata la definizione normativa di prodotto difettoso, vale a dire il difetto di informazione (gli altri sono i difetti di fabbricazione – uno o pochi esemplari della serie sono difettosi, per cattivo funzionamento dell’impianto di prodizione o per una svista di qualche operatore i difetti di costruzione – l’intera serie è difettosa a causa di inadeguata progettazione, mancanza di congegni di sicurezza, uso di componenti o materie prime inadatte, insufficiente sperimentazione ecc.) cioè la mancanza o l’insufficienza di informazioni date dal produttore per un uso corretto del prodotto e per evitare i rischi connessi al suo uso.

Detta informazione, sia quella tratta dalla presentazione del prodotto e dalle sue caratteristiche palesi, sia quella fornita dal produttore con istruzioni e avvertenze aggiuntive, ha un contenuto inversamente proporzionale alle ragionevoli attese di sicurezza del bene e deve essere contemperata con l’uso ragionevole del prodotto (secondo Cass. 15/03/2007, n. 6007, il riferimento normativo all’uso ragionevole del prodotto “delimita l’ambito del dovere di cautela del produttore, escludendo la garanzia di sicurezza in presenza di anormali condizioni di impiego le quali possono logicamente dipendere non solo dall’abuso e dall’uso non consentito, come potrebbe ritenersi ad una più sommaria lettura, ma anche da circostanze anomale che, ancorché non imputabili al consumatore, rendano il prodotto, altrimenti innocuo, veicolo di danno (alla salute)”)., nel senso che l’uso del bene per una finalità irragionevole esclude la difettosità del prodotto, mentre un uso non accorto potrà essere causa di riduzione del risarcimento dei danni (Cass. 14/06/2005, n. 12750), oltre che con il tempo in cui il prodotto è stato messo in circolazione.

Il principio è chiaramente desumibile dall’art. 104,2 comma, cod. cons., ai sensi del quale il produttore deve fornire al consumatore tutte le informazioni utili alla valutazione dei rischi derivanti dall’uso normale o ragionevolmente prevedibile del prodotto e alla prevenzione contro detti rischi, ma “la presenza di tali avvertenze non esenta, comunque, dal rispetto degli altri obblighi previsti nel presente titolo”, cioè in sostanza non esenta dall’obbligo di “immettere sul mercato solo prodotti sicuri”(art. 104,1 comma, cod. cons.).

Nell’applicazione di detti principi, il giudice è tenuto a mettere a confronto le condotte delle parti in causa per valutare se il danno poteva essere più facilmente (cioè con minor sacrificio) evitato dalla vittima o dal produttore, alla luce delle informazioni di cui ciascuno dei due poteva disporre nel momento in cui ha agito, in uno con il rilievo attribuito ad una distinzione inespressa tra: i) danni prevedibili ed evitabili; ii) danni astrattamente prevedibili, ma inevitabili; iii) danni imprevedibili ed inevitabili. Il tutto sotto l’egida del parametro della ragionevolezza, quale strumento di concretizzazione e di bilanciamento di una pluralità di valori.

Esaminando specificamente il profilo del difetto di informazione, ha ragione la ricorrente quando osserva che l’informazione che si traduca in una mera avvertenza circa il fatto che un determinato evento possa verificarsi non vale ad esonerare il produttore da responsabilità; conducente è solo la veicolazione di informazioni che, come osservato da attenta dottrina, contribuisca “a prevenire un rischio evitabile o a soppesare adeguatamente quello che… non lascia altra scelta che accettarlo o rinunziare alle utilità del prodotto pericoloso. Un’avvertenza che non operi in un senso o nell’altro, ma si limiti a ricordare che le cose possono andare male e, su questa base, intenda isolare il produttore da responsabilità, val quanto una clausola di esclusione da responsabilità; e ne condivide le sorti”.

Non bisogna, nondimeno, trascurare il fatto che la responsabilità del produttore non è regolata alla stregua di una responsabilità oggettiva pura (o assoluta) e che perciò il comportamento dell’utente non è affatto irrilevante: esso deve essere improntato al principio di autoresponsabilità (codificato dall’art. 122 cod. cons., ai sensi del quale “Il risarcimento non è dovuto quando il danneggiato sia stato consapevole del difetto del prodotto e del pericolo che ne derivava e nondimeno vi si sia volontariamente esposto”) e deve essere valutato dal giudice, il quale dovrà accertare se vi sono i presupposti per ritenere che proprio l’utilizzatore si sia trovato nella condizione migliore per evitare o contenere il danno>>.

Il risultato tecnico ostativo alla registrazione del marchio di forma

Eleonora Rosati in IPKat ci notizia di (e ci linka ad) una assai interessante decisione del 4 Board of appeal EUIPO sull’effetto tecnico ostativo alla registrazione dei marchi di forma (6 dicembre 2024, proc. R 12/2024-4, Tetra Laval v. Lami Packaging), tema sempre  un poco complesso.

La norma è l’art. 7.1.e.ii) del reg. 2017/1001.

Il marchio sub iudice è costituito dalla seguente forma del noto contenitore Tetrapack:

Ebbene il Board dice che l’effetto tecnico, oltre a dover concernere tutte le caratteristiche, deve poi essere percepibile dall’utente. Mi pare il punto più interessante.

E’ vero che il parametro sogettivo è dato da quest’ultimo (l’utente medio), secondo la filosofia concorrenziuale alla base della privativa di marchio, Ma perchè mai la privativa va conessa (cioè l’ostacolo noramtivo citato non opera) quando la scelta della forma è dettata solo da ragioni tecniche, anche se a fini di più efficiente produzione e trasporto, ciò di cui l’utente di riferimento non è in grado di avvedersi? Eppure così decide il Board.

<<59 In conclusione, l’articolo 7, paragrafo 1, lettera e), sub ii), RMC si applica quando la forma in questione ha un effetto diretto sull’utilità che il prodotto in questione è destinato ad avere dal punto di vista del pubblico di riferimento. L’articolo 7, paragrafo 1, lettera e), sub ii), RMC non trova applicazione nel caso di specie perché il risultato tecnico ottenuto dalle prime tre caratteristiche individuate al punto 30 che precede si riferisce semplicemente al processo di fabbricazione del prodotto stesso, senza incidere sulla funzione svolta da tale prodotto.
60 Pertanto, l’articolo 7, paragrafo 1, lettera e), sub ii), RMC deve essere escluso in casi come quello di specie, in cui la forma in questione non è la causa di un risultato tecnico che influisce sul modo in cui il prodotto è utilizzato, bensì la conseguenza dell’ingegneria industriale sulla sua progettazione eproduzione.
61 Pertanto, il fatto che il marchio contestato consenta un efficace rapporto volumetrico rispetto alla superficie conservando nel contempo la staffabilità, l’immagazzinamento e la manipolazione del prodotto non riguarda un risultato tecnico ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera e), punto ii), RMC. Infatti, la capacità di una forma di contenere più liquidi o prodotti alimentari o di essere facilmente imballata e captata non è un risultato tecnico raggiunto dal prodotto nel normale corso del suo uso. La forma in questione non svolge una funzione intrinseca, né in relazione ad altri prodotti” >>(qui l’originale in inglese stante l’incerta traduzione -forse automatica.- italiana).

Rigettata pure la contestazione di malafede basata sul fatto che il richiedente sarebbe stato consapevole della non registrabilità.