La responsabilità del produttore grava pure sul distributore se usa i medesimi segni distintivi

Quesito interpretativo posto dalla ns Cassazione:

«Se sia conforme all’articolo 3, paragrafo 1, direttiva [85/374] – e, se non sia conforme, perché non lo sia – l’interpretazione che estenda la responsabilità del produttore al fornitore, anche se quest’ultimo non abbia materialmente apposto sul bene il proprio nome, marchio o altro segno distintivo, soltanto perché il fornitore abbia una denominazione, un marchio o un altro segno distintivo in tutto o in parte coincidenti con quello del produttore».

La risposta, corretta, della C.G. con sentenza 19.12.2024, C-157/23, Ford italia spa c. ZP-Stracciari spa:
<<Di conseguenza, l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 85/374 deve essere interpretato, alla luce del contesto in cui si inserisce tale disposizione e dell’obiettivo perseguito dalla normativa di cui essa fa parte, nel senso che la nozione di «persona che si presenta come produttore», ai sensi di detta disposizione, non può riguardare esclusivamente la persona che ha materialmente apposto il proprio nome, marchio o altro segno distintivo sul prodotto. Decidere diversamente porterebbe a restringere la portata della nozione di «produttore» e a compromettere in tal modo la tutela del consumatore. In particolare, si deve ritenere che il fornitore di un prodotto «si presenti come produttore» quando il nome di tale fornitore o un elemento distintivo di quest’ultimo coincida, da un lato, con il nome del fabbricante e, dall’altro, con il nome, il marchio o un altro segno distintivo apposto sul prodotto da quest’ultimo.

47      Tuttavia, conformemente all’articolo 5 della direttiva 85/374, siccome la persona che si presenta come produttore e il fabbricante del prodotto difettoso sono responsabili in solido, il fatto che il consumatore faccia valere la responsabilità di tale prima persona lascia impregiudicate le disposizioni di diritto nazionale relative al diritto di rivalsa, in particolare le disposizioni che consentono a detta persona di far valere, a sua volta, la responsabilità del fabbricante del prodotto difettoso.

48      Occorre pertanto rispondere alla questione sollevata dichiarando che l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 85/374 deve essere interpretato nel senso che il fornitore di un prodotto difettoso deve essere considerato una «persona che si presenta come produttore» di detto prodotto, ai sensi di tale disposizione, qualora tale fornitore non abbia materialmente apposto il suo nome, marchio o altro segno distintivo su siffatto prodotto, ma il marchio che il produttore ha apposto su quest’ultimo coincida, da un lato, con il nome di tale fornitore o con un elemento distintivo di quest’ultimo e, dall’altro, con il nome del produttore.>>

La norma rilevante ex art. 3.1 dir. 85/374:

<<1. Il termine « produttore » designa il fabbricante di un prodotto finito, il produttore di una materia prima o il fabbricante di una parte componente, nonché ogni persona che, apponendo il proprio nome, marchi [nds: c’è un errore un GUCE] marchio o altro segno distintivo sul prodotto, si presenta come produttore dello stesso.>>.

La corrispondente normna delal nuova direttiuva2024/2853 , abrogativa della precedente, recita:

<< «fabbricante»: qualsiasi persona fisica o giuridica che:

a) …

b) fa progettare o fabbricare un prodotto o che, apponendo il proprio nome, marchio o altre caratteristiche distintive su tale prodotto, si presenta come fabbricante; >>

Sulla confondibilità tra marchi all’Oktoberfest

Lite sui marchi evocanti l’Oktoberfest, decisa dal Board of Appeal EUIPO 11.12.2024, caso 1264/2024-2, FCRB IMPEX SRL v. ANDESHAUPTSTADT MÜNCHEN, correttamente decisa in base alla debolezza dell’anteriorità.

Marchi in lite:

marchio chiesto in registrazione
anteriorità azionata in opposizione

La opposition e il Board of appeal escludono il riscjhio di confuisione.

La parte finale della seconda:

<<54  A global assessment of a likelihood of confusion implies some interdependence between the relevant factors, and in particular, the similarity between the trade marks and between the goods or services. Accordingly, a greater degree of similarity between the goods/services may be offset by a lower degree of similarity between the marks, and vice versa (22/06/1999, C-342/97, Lloyd Schuhfabrik, EU:C:1999:323, § 20; 11/11/1997, C-251/95, Sabèl, EU:C:1997:528, § 24; 29/09/1998, C-39/97, Canon, EU:C:1998:442, § 17).
55 As a preliminary point, in accordance with the principle of the interdependence between the factors to be taken into consideration when examining the likelihood of confusion, it must be noted that the ratio legis of trade mark law is to strike a balance between the interest that the proprietor of a trade mark has in safeguarding its essential function, on the one hand, and the interests of other economic operators in having signs capable of denoting their products and services, on the other (18/01/2023, T-443/21, YOGA ALLIANCE INDIA INTERNATIONAL (fig.) / yoga ALLIANCE (fig.), EU:T:2023:7, § 117 and the case-law cited).
56 It follows that excessive protection of marks consisting of elements that, as in the present case, have very weak distinctive character, if any, in relation to the goods or services at issue, could adversely affect the attainment of the objectives pursued by  trade mark law, if, in the context of the assessment of the likelihood of confusion, the mere presence of such elements in the signs at issue led to a finding of a likelihood of confusion without taking into account the remainder of the specific factors in the present case (18/01/2023, T-443/21, YOGA ALLIANCE INDIA INTERNATIONAL (fig.) / yoga ALLIANCE (fig.), EU:T:2023:7, § 118).
57 In that regard, where the earlier trade mark and the sign whose registration is sought coincide in an element that has a weak distinctive character with regard to the goods and services at issue, the global assessment of the likelihood of confusion within the meaning of Article 8(1)(b) EUTMR does not often lead to a finding that such likelihood exists (12/05/2021, T-70/20, MUSEUM OF ILLUSIONS (fig.) / MUSEUM OF ILLUSIONS (fig.), EU:T:2021:253, § 119 and the case-law cited).
58 In the present case, taking into account the above comparison of the signs and in particular the existence of the very weak common element ‘OKTOBER()FEST’ in both signs, the differences in the overall impression of the signs, especially the visually more striking and distinctive figurative element of the earlier mark (‘a flying beer mug’) and the figurative element in the contested sign, insofar as it will be seen as abstract, are such that the relevant public with an average level of attention will be able to make a clear distinction between the marks at issue. This applies notwithstanding the identity of the services at issue and the imperfect recollection of the public.
59 It follows from all the foregoing considerations that the Opposition Division correctly concluded that there was no likelihood of confusion on the part of the relevant public as regards the fact that the services may come from the same or economically linked undertakings.
60 Therefore, the appeal is dismissed>>

(notizia di Marcel Pemsel in IPKat, da cui il link ai marchi)

C’è rapporto concorrenziale tra venditore online e venditore tramite negozi fisici

Cass. sez. I, ord. 10/01/2025 n. 626, rel. Falabella, con insegnamento condivisibile circa una fattispecie di vendita di prodotti elettronici:

<<Secondo la giurisprudenza di questa Corte, presupposto indefettibile dell’illecito concorrenziale è la comunanza di clientela (per tutte: Cass. 22 ottobre 2014, n. 22332; Cass. 22 luglio 2009, n. 17144; Cass. 14 febbraio 2000, n. 1617) e tale comunanza di clientela non è data dall’identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall’insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti, uguali ovvero affini o succedanei a quelli posti in commercio dall’imprenditore che lamenta la concorrenza sleale, che sono in grado di soddisfare quel bisogno (Cass. 20 luglio 2023, n. 21586; Cass. 18 maggio 2018, n. 12364). Poiché la concorrenza è la competizione tra i soggetti economici il cui obiettivo di autoaffermazione nel mercato si raggiunge conquistando, a danno del concorrente, maggiore clientela, è la mancanza di una comunanza di clientela ad impedire ogni concorrenza e dunque anche ogni abuso del relativo diritto (Cass. 14 febbraio 2000, n. 1617, cit., in motivazione).

La modalità di commercializzazione del prodotto non riveste, allora, decisivo rilievo ai fini della configurabilità del rapporto di concorrenza: l’identità del sistema di vendita adottato da due imprenditori che si rivolgano a bacini di clientela non coincidenti nemmeno in via potenziale non fa sorgere il rapporto di concorrenza; all’opposto, tale rapporto è da ravvisarsi ove il medesimo prodotto, attraverso diversi canali di distribuzione, sia indirizzato a quanti avvertano il medesimo bisogno di mercato e possano essere quindi interessati a procurarselo.

Così, la clientela del mercato dei prodotti elettronici deve essere considerata unitariamente, indipendentemente dal fatto che l’acquisto dei medesimi si attui in punti di vendita diffusi sul territorio o attraverso un circuito on line: e ciò significa che è configurabile un rapporto di concorrenza tra operatori che veicolino la loro offerta attraverso queste distinte modalità di commercializzazione dei prodotti in questione.

Negare, del resto, il rapporto di concorrenza in ragione del semplice utilizzo di differenti canali di distribuzione del prodotto – enfatizzando, così, l’assenza di identità tra la clientela dei punti di vendita dislocati sul territorio e la clientela che accede al mercato on line – significa contravvenire al principio per cui, ai fini dell’individuazione del suddetto rapporto, deve aversi riguardo alla naturale dinamicità delle singole attività imprenditoriali. Questa Corte reputa, infatti, che la sussistenza di una comunanza di clientela vada verificata anche in una prospettiva potenziale, tenendo conto dell'”esito di mercato fisiologico e prevedibile” dell’attività svolta (Cass. 22 ottobre 2014, n. 22332, cit.; Cass. 22 luglio 2009, n. 17144, cit.; Cass. 14 febbraio 2000, n. 1617, cit.). In tal senso, una differenziazione dei mercati basata sulla rigida diversificazione dei sistemi di commercializzazione appare priva di ragionevole fondamento giustificativo anche in quanto trascura di considerare la naturale osmosi esistente tra le forme attraverso cui si attua lo scambio dei prodotti (quelle tradizionali, da un lato, e quelle più evolute, di crescente diffusione, dall’altro).>>

Responsabilità aggravata per l’amministratore non esecutivo di società bancaria rispetto a quello di società non bancaria?

Cass. sez. II, ord.  20/11/2024  n. 29.844. rel. Giannaccari, sull’annosa questione sempre sollevata in tema di opposizione a sanzioni Banca di Italia:

premessa genrale, poco interessante perchè scontata:

<<E’ stato affermato che l’obbligo imposto dall’art. 2381, ultimo comma del codice civile agli amministratori delle società per azioni di “agire in modo informato”, pur quando non siano titolari di deleghe, si declina, da un lato, nel dovere di attivarsi, esercitando tutti i poteri connessi alla carica, per prevenire o eliminare ovvero attenuare le situazioni di criticità aziendale di cui siano, o debbano essere, a conoscenza, dall’altro, in quello di informarsi, affinché tanto la scelta di agire quanto quella di non agire risultino fondate sulla conoscenza della situazione aziendale che gli stessi possano procurarsi esercitando tutti i poteri di iniziativa cognitoria connessi alla carica, con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze>>.

Più interessante il prosieguo sul settore bancario:

<<Tali obblighi si connotano in termini particolarmente incisivi per gli amministratori di società che esercitano l’attività bancaria, prospettandosi, in tali ipotesi, non solo una responsabilità di natura contrattuale nei confronti dei soci della società, ma anche quella, di natura pubblicistica, nei confronti dell’Autorità di vigilanza.

Il dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle società bancarie – inoltre – non va rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacché anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del business bancario e, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega.

A prescindere dalla qualità di consigliere esecutivo o meno, tutti gli amministratori, che vengono nominati in ragione della loro specifica competenza anche nell’interesse dei risparmiatori, devono svolgere i compiti loro affidati dalla legge con particolare [perchè particolare??]  diligenza e, quindi, anche in presenza di eventuali organi delegati, sussiste il dovere dei singoli consiglieri di valutare l’adeguatezza dell’assetto organizzativo e contabile, nonché il generale andamento della gestione della società, e l’obbligo, in ipotesi di conoscenza o conoscibilità [come al solito, è proprio questo il punto: quando ricorre la conoscibilità?] di irregolarità commesse nella prestazione dei servizi di investimento, di assumere ogni opportuna iniziativa per assicurare che la società si uniformi ad un comportamento diligente, corretto e trasparente (Cass. n. 2620/2021).

Ne consegue che il consigliere di amministrazione non esecutivo di società per azioni, in conformità al disposto dell’art.2932 comma 2 del codice civile, è solidalmente responsabile della violazione commessa quando non intervenga al fine di impedirne il compimento o attenuarne le conseguenze dannose (Cass. n. 19556/2020; Cass. n. 24851/2019; Cass. n. 5606/2019).

A tali principi si è uniformata la Corte d’Appello che, con motivazione non apparente (Cass. Sez. Unite n. 8054/2014), ha ritenuto che le mere richieste di informazioni e di chiarimenti da parte di Ca.Fr., prive di alcun intervento diretto a manifestare il dissenso in ordine alle criticità dell’assetto organizzativo e alle scelte strategiche dell’azienda, non fossero sufficienti ad elidere le sue responsabilità, considerazione questa che è riferibile anche alla autosospensione.[questo è il passo piùinterssante]

La Corte d’Appello, con apprezzamento di fatto [NOOO: è giudizio, non accert. di fatto], incensurabile in sede di legittimità ha ritenuto che non fossero sufficienti pochi e segmentati interventi dell’opponente in consiglio di amministrazione per escludere la responsabilità nelle scelte gestionali della banca, nel dovere di vigilanza sull’organizzazione in quanto da detti interventi non era riscontrabile alcun fattivo interessamento del ricorrente al fine di informarsi e, successivamente, di offrire concreti spunti tecnici per correggere le problematiche inerenti ai rischi ed oggetto dei rilievi. Secondo la Corte di merito, si è trattato di generiche richieste di chiarimenti o di ricognizioni o di raccomandazioni, prive di incisività e specificità in relazione ai temi trattati, prive di motivazione congrua e prive quindi di concreta attitudine a indirizzare ed orientare il Consiglio di amministrazione ad una migliore e più prudente valutazione dei rischi medesimi.[prenda adeguata nota l’oepratore]

Contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, non si configura, nel caso di specie, una forma di responsabilità oggettiva, ma una responsabilità per colpa, correlata ad una condotta negligente ed inerte rispetto agli obblighi di vigilanza sanciti dalle disposizioni secondarie che disciplinano l’attività bancaria. Sotto tale profilo, l’elemento soggettivo dell’illecito amministrativo deve essere valutato alla stregua della competenza professionale specifica richiesta ad ogni componente del Consiglio di amministrazione di una banca, tenuto conto che in tema di sanzioni amministrative, l’art. 3 della legge 24 novembre 1981, n. 689, pone una presunzione relativa di colpa a carico dell’autore del fatto vietato, riservando a questi l’onere di provare di aver agito senza colpa (cfr. Cass. n. 27432/2013)>>.

Resposnabilità da ostacolo presenrte sulla strada appartenente all’ente pubblico

Cass sez. III, ord. 18/12/2024 n. 33.136, rel. Gianniti

<< 4.3. Occorre infine rilevare che è jus receptum nella giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le più recenti, Cass. n. 6826/2021 e n. 6651/2020) il principio per cui, in materia di responsabilità per la custodia di strade, occorre distinguere fra i casi in cui il danno sia conseguenza di un vizio intrinseco alla struttura della cosa, oppure sia da ascrivere all’intervento di agenti esterni, normalmente imputabili alla natura, al traffico, al pubblico degli utenti o ad un singolo soggetto terzo (un masso, un animale, una macchia d’olio, ecc.). In tale seconda evenienza – che secondo la prospettazione del Pa.Ma. ricorrerebbe anche nel caso di specie – la responsabilità non è imputabile oggettivamente all’ente pubblico, per il solo fatto della presenza dell’ostacolo, ma occorre che risulti che l’intrusione è stata agevolata dalla peculiare conformazione del bene; oppure dal difetto di manutenzione o di vigilanza sullo stesso (presenza di animali o di altri ostacoli, ecc.) ed, in questi ultimi casi, che vi è stato colpevole ritardo nell’accertare la sopraggiunta situazione di pericolo e/o nell’intervenire per rimuoverla.

In conformità al suddetto principio di diritto, al quale la Corte qui intende dare continuità, quand’anche fosse risultato provato che il sinistro era stato causato dalla presenza di un ramo d’albero sulla carreggiata, parte attorea, per ottenere l’accoglimento della sua domanda, avrebbe dovuto provare che detto ramo si trovava sulla strada da un certo lasso di tempo e che l’ente convenuto, nonostante avesse avuto notizia di tale circostanza, non si fosse tempestivamente attivato per il relativo intervento tecnico.

Circostanza quest’ultima che nel giudizio di merito non risulta essere rimasta accertata>>.

Quando la fotografia costituisce opera dell’ingegno

Cass. sez. I, ord. 20/12/2024 n. 33.599, rel. Valentino, sul noto caso della fotografia riproducente Falcone e Borsellino:

<<In generale, una fotografia può essere considerata un’opera fotografica prescindendo dal suo valore artistico se rappresenta una scelta creativa del fotografo.

Il discrimine tra opera protetta e semplice fotografia è incentrato nella capacità creativa dell’autore, vale a dire nella sua impronta personale, nella scelta e studio del soggetto da rappresentare, così come nel momento esecutivo di realizzazione e rielaborazione dello scatto, tali da suscitare suggestioni che trascendono il comune aspetto della realtà rappresentata. Le fotografie semplici, invece, si distinguono dalle precedenti in quanto non richiedono alcun apporto creativo da parte del fotografo, poiché trattasi di mere fotografie, seppur di altissimo livello qualitativo, che si limitano a riprodurre fedelmente la realtà esterna, senza alcuna personale e sostanziale rielaborazione della fotografia da parte dell’autore.

L’apporto creativo deve potersi desumere da una precisa attività del fotografo, volta o a un miglioramento degli effetti ottenibili con l’apparecchio (inquadratura, prospettiva, cura della luce, del tutto peculiari) o dalla scelta del soggetto (intervenendo il fotografo sull’atteggiamento e sull’espressione, se non creando addirittura il soggetto stesso), purché emerga una prevalenza del profilo artistico sull’aspetto prettamente tecnico. La creatività dell’artista può manifestarsi in diverse fasi della produzione fotografica. La scelta delle lenti, la disposizione delle luci, la sistemazione del soggetto o del fotografo, la composizione dell’immagine, il momento dello scatto, la post produzione, la scelta dei toni, la stampa etc.

Rispetto a tale contesto, la censura non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata e non tiene conto che i principi evocati corrispondono a quanto affermato dalla Corte territoriale.

La Corte d’Appello ha correttamente evidenziato che nella fotografia oggetto del giudizio non è “percepibile l’impronta creativa personale del suo autore ovvero la singolarità della forma richiesta ai fini del riconoscimento della creatività, di talché l’immagine che la fotografia documenta non può dirsi connotata da elementi che la distinguano da altre possibili riproduzioni fotografiche che avrebbero potuto realizzarsi nel medesimo convegno dei due magistrati ripresi, tra l’altro nel momento documentato nella foto in questione”.

La motivazione è cioè fondata sull’assenza dell’apporto creativo e non sul suo valore artistico come la doglianza lamenta.

Di talché la censura si risolve in una deduzione mirata ad una rivalutazione delle valutazioni di merito, non sindacabile in sede di legittimità, nonostante che il ricorrente assuma diversamente.

In linea generale, la protezione del diritto d’autore postula il requisito dell’originalità e della creatività, consistente non già nell’idea che è alla base della sua realizzazione, ma nella forma della sua espressione, ovvero dalla sua soggettività, presupponendo che l’opera rifletta la personalità del suo autore, manifestando le sue scelte libere e creative.

La consistenza in concreto di tale autonomo apporto forma oggetto di una valutazione destinata a risolversi in un giudizio di fatto, come tale sindacabile in sede di legittimità (Cass., n. 10300/2020; Cass. 13524/2014)>>.

E’ utile leggere pure l’analitico ragionameno della corte di appello, come riportato dalla SC:

<<Per quanto qui di interesse, la Corte di merito ha precisato che: a) l’impugnazione ha essenzialmente riguardo all’operato disconoscimento del carattere creativo della fotografia e la conseguente esclusione della stessa dal novero delle “opere fotografiche” che ai sensi dell’art. 2, n.7, L.D.A., ricevono protezione quale oggetto del diritto d’autore, ed all’apprezzamento di essa invece quale “semplice fotografia”, definita dall’art. 57 della stessa legge come ritraente “immagini di persone o di aspetti, elementi o fatti della vita naturale e sociale, ottenute col processo fotografico o processo analogo”, talché dirimente nella specie è la valutazione della creatività o meno della riproduzione fotografica in questione; b) il requisito della creatività – sufficiente all’apprestamento della tutela invocata – non consiste nel valore artistico della fotografia, ma ricorre quando l’immagine fotografica ha un proprio contenuto espressivo e presenta tratti individuali marcati, riflettendo la personale visione della realtà del suo autore; c) la creatività ha una dimensione soggettiva che si identifica in una “forma particolare” che la fotografia assume a prescindere dalla sua novità e dal valore intrinseco del suo contenuto; d) la foto, oggetto del giudizio, è, invece, peculiare non per il suo carattere creativo, ma per “l’eccezionalità del soggetto”, ovvero i due magistrati simbolo della lotta contro la mafia; e) non è percepibile l’impronta creativa personale del suo autore ovvero la singolarità della forma richiesta ai fini del riconoscimento della creatività; f) l’immagine che la foto documenta non ha caratteristiche specifiche che possano distinguerla da altre possibili riproduzioni fotografiche che avrebbero potuto realizzarsi nel medesimo convegno dei due magistrati ripresi, tra l’altro, nel preciso momento documentato nella foto in questione; g) la fotografia non presenta una valenza estetica che possa essere apprezzata a prescindere dalle persone dei due magistrati rappresentati e dall’espressione dagli stessi assunta; h) non sussistono neppure i presupposti e le condizioni di cui all’invocato art. 91, comma 3, L. n. 633/1941 per il riconoscimento, in via subordinata, del diritto ad un equo compenso, non versandosi nelle ipotesi di legge, di riproduzione della fotografia in antologie ad uso scolastico o in opere scientifiche o didattiche>>.

Ius sepulchri in un ‘azione di indebito arricchimento

Cass. sez. III, ord. 07/01/2025   n. 190, Tassone:

<<Giova premettere che questa Suprema Corte ha già avuto modo di affermare che “Nel sepolcro ereditario lo “ius sepulchri” si trasmette nei modi ordinari, per atto “inter vivos” o “mortis causa”, come qualsiasi altro diritto, dall’originario titolare anche a persone non facenti parte della famiglia, mentre nel sepolcro gentilizio o familiare – tale dovendosi presumere il sepolcro, in caso di dubbio – lo “ius sepulchri” è attribuito, in base alla volontà del testatore, in stretto riferimento alla cerchia dei familiari destinatari del sepolcro stesso, acquistandosi dal singolo “iure proprio” sin dalla nascita, per il solo fatto di trovarsi col fondatore nel rapporto previsto dall’atto di fondazione o dalle regole consuetudinarie, “iure sanguinis” e non “iure successionis”, e determinando una particolare forma di comunione fra contitolari, caratterizzata da intrasmissibilità del diritto, per atto tra vivi o “mortis causa”, imprescrittibilità e irrinunciabilità. Tale diritto di sepolcro si trasforma da familiare in ereditario con la morte dell’ultimo superstite della cerchia dei familiari designati dal fondatore, rimanendo soggetto, per l’ulteriore trasferimento, alle ordinarie regole della successione “mortis causa”. (v. Cass., n. 12957/2000; Cass., n. 700/2012).

Orbene, la corte di merito ha del tutto trascurato i suindicati principi e, per l’effetto, ha omesso di considerare che la scrittura privata di cessione era stata dichiarata nulla in prime cure sul rilievo della intrasmissibilità inter vivos dei diritti sul sepolcro gentilizio o familiare, per cui l’azione esperita da Ge.Gi. ex art. 2041 cod. civ., lungi dal risultare sussidiaria e recessiva rispetto “alle regole sulla comunione (art. 1100 e ss. cod. civ.)”, genericamente ed erroneamente richiamate nell’impugnata sentenza, risultava invece essere l’unica azione esperibile nel caso di specie, giusto il principio secondo cui “la nullità del contratto elimina il titolo su cui la relativa azione può essere fondata, rendendola non esercitabile” (Cass., 22/3/2012 n. 4620, che richiama, fra le altre, Cass., 24/2/2010 n. 4492).

Cessione di quote societarie affetta da simulazione assoluta

Cass. Civ., Sez. II, ord. 7 gennaio 2025 n. 230, rel. Besso Marcheis

<<In tema di simulazione assoluta del contratto, nel caso in cui la relativa domanda sia proposta da terzi estranei al negozio, “spetta al giudice del merito valutare l’opportunità di fondare la decisione su elementi presuntivi, da considerare non solo analiticamente, ma anche nella loro convergenza globale, a consentire illazioni che ne discendano secondo l’id quod plerumque accidit, restando il relativo apprezzamento incensurabile in sede di legittimità, se motivato.

Nel caso in esame, i giudici di merito hanno ritenuto raggiunta la prova della simulazione assoluta del contratto di cessione delle quote con il quale il marito aveva ceduto alla madre, per l’importo di Euro 60.000, il 90 per cento delle quote della società della quale il cedente era socio unico e amministratore.
Gli indizi, precisi e tra loro concordanti, consistevano nella circostanza temporale nella quale era stata stipulata la cessione di quote, avvenuta a favore della madre, nell’incongruità del prezzo di vendita, nella mancata prova dell’effettivo pagamento del prezzo, nel permanere della denominazione della società con l’indicazione a socio unico e nella tardiva dichiarazione a fini fiscali dell’incasso del prezzo della cessione delle quote>>.

massina dui Valeria Cianciolo in Ondif

Assegno di mantenimento a favore del figlio maggiorenne, economicamente non autosufficiente e affetto da patologia psichiatrica

Cass. sez. I, ord.  02/01/2025  n. 32, rel. Parise::

<<2.1. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte che il Collegio condivide, in materia di mantenimento del figlio maggiorenne e non autosufficiente, i presupposti su cui si fonda l’esclusione del relativo diritto, oggetto di accertamento da parte del giudice del merito e della cui prova è gravato il genitore che si oppone alla domanda di esclusione, sono integrati: dall’età del figlio, destinata a rilevare in un rapporto di proporzionalità inversa per il quale, all’età progressivamente più elevata dell’avente diritto si accompagna, tendenzialmente e nel concorso degli altri presupposti, il venir meno del diritto al conseguimento del mantenimento; dall’effettivo raggiungimento di un livello di competenza professionale e tecnica del figlio e dal suo impegno rivolto al reperimento di una occupazione nel mercato del lavoro (Cass. n. 38366/2021); inoltre, l’onere della prova delle condizioni che fondano il diritto al mantenimento – che è a carico del richiedente il mantenimento – vertendo esso sulla circostanza di avere il figlio curato, con ogni possibile impegno, la propria preparazione professionale o tecnica o di essersi, con pari impegno, attivato nella ricerca di un lavoro, richiede una prova particolarmente rigorosa per il caso del “figlio adulto” in ragione del principio dell’autoresponsabilità delle circostanze, oggettive ed esterne, che rendano giustificato il mancato conseguimento di una autonoma collocazione lavorativa (Cass. n. 26875/2023; Cass. 12123/2024).

2.2. La Corte d’Appello si è attenuta ai suesposti principi, scrutinando tutti i profili di rilevanza, contrariamente a quanto sostiene il ricorrente, ed ha accertato, con motivazione congrua, sulla base delle risultanze istruttorie, che la condizione di persistente mancanza di autosufficienza economico reddituale del figlio maggiorenne fosse dipesa, in via diretta ed in modo incolpevole, da peculiari e specifiche ragioni individuali di salute, che avevano, di fatto, impedito al ragazzo, fino al momento della decisione, di reperire una attività lavorativa. In particolare la Corte di merito ha rimarcato che Os.An. (nato nel (Omissis)) era affetto da depressione maggiore cronicizzata, disturbo post traumatico da stress e insonnia reattiva, causate dagli episodi di aggressività fisica e verbale posti in essere dal padre nei confronti della madre, che avevano profondamente turbato il ragazzo. A quest’ultimo era stata riconosciuta nel 2021 una provvidenza in base alla legge regionale n. 15/1992 proprio in relazione alla suddetta infermità, in quanto rientrante tra quelle indicate nell’allegato A della citata legge come invalidante.

Infine la Corte territoriale ha rilevato che la patologia psichiatrica era stata diagnosticata nel febbraio 2020, ossia pochi mesi dopo la sentenza di separazione, pronunciata tra le parti nel settembre 2019, quando Os.An. aveva già compiuto 20 anni, e che con la suddetta sentenza era stato riconosciuto per il figlio il contributo di mantenimento a carico del padre, per l’importo mensile di Euro 250,00, pari a quello riconosciuto con la sentenza ora impugnata. La Corte d’Appello ha, quindi, ritenuto che fosse incolpevole la persistente mancanza di autosufficienza economica del figlio, “allo stato, anche tenuto conto dell’età del ragazzo e del breve tempo intercorso dalla sentenza di separazione e dalla diagnosi medica”, così facendo corretta applicazione dei principi suesposti>>.

Responsabilità solidale dei condomini per danno da parte comune

Cass. sez. III, ord. 11/10/2024 n. 26.521, rel. Guizzi, con affermazioni esatte ma consolidate (interessante comunque è la ratio della solidarietà) in una domanda di danno da infiltrazioni:

<<8.1.2. Questa Corte, infatti, con riferimento all’azione risarcitoria per danni da cosa in custodia di proprietà condominiale, ha ritenuto applicabile la regola della responsabilità solidale ex art. 2055, comma 1, cod. civ., individuando nei singoli condomini, e non nel condominio, i soggetti solidalmente responsabili (Cass. Sez. 2, sent. 29 gennaio 2015, n. 1674, Rv. 634159 – 01) e, quindi, titolari dal lato passivo del rapporto fatto valere in giudizio dal danneggiato.

In particolare, nel caso sottoposto a questa Corte ed oggetto dell’arresto appena menzionato, è stata ritenuta erronea l’affermazione del giudice di merito, il quale aveva escluso la solidarietà sul rilievo che “nella disciplina positiva del condominio” vi sarebbe sempre “un collegamento immediato tra le obbligazioni e le quote che esprimono la proprietà” (qualunque sia il titolo dell’obbligazione), per cui, “secondo il combinato disposto degli arti 1118 e 1123 cod. civ. i diritti e le obbligazioni dei condomini sono proporzionati al valore del bene in proprietà solitaria, sicché all’adempimento delle obbligazioni i condomini sono tenuti sempre in proporzione alle rispettive quote”.

Questa Corte, tuttavia, è giunta all’opposta conclusione senza smentire il principio generale – da essa precedentemente enunciato, nella sua più autorevole composizione – secondo cui, “in difetto di un’espressa previsione normativa che stabilisca il principio della solidarietà, la responsabilità dei condomini nel caso di obbligazioni pecuniarie è retta dal criterio della parziarietà, per cui le obbligazioni assunte nell’interesse del condominio si imputano ai singoli componenti soltanto in proporzione delle rispettive quote, secondo criteri simili a quelli dettati dagli artt. 752 e 1295 cod. civ.” (Cass. Sez. Un, sent. 8 aprile 2008, n. 9148, Rv. 602479 – 01).

Nondimeno, nel caso dei danni che originino da parti condominiali, tale “espressa previsione normativa” – ha affermato questo giudice di legittimità – si identifica nell’art. 2055 cod. civ., sussistendo tre elementi (che questa Corte individua in “premesse storiche, ragioni sistematiche e considerazioni particolari alla fattispecie della responsabilità per danni derivanti da cose in custodia”) idonei a confortare “la tesi dell’applicabilità” del principio di solidarietà “anche in ambito condominiale” (Cass. Sez. 2, sent. n. 1674 del 2015, cit.).

Sul piano storico si è rilevato, infatti, che già nel codice civile 1865 (che pure, come tutti i codici liberali dell’800, richiedeva una specifica fonte convenzionale o legale della solidarietà, essendo ispirato al favor debitoris; cfr. art. 1188), “la previsione della solidarietà passiva nelle ipotesi di delitto o quasi – delitto” (cfr. art. 1156) “impediva che l’opposto principio della parziarietà dell’obbligazione, concepito come una sorta di beneficio, potesse operare anche a vantaggio di chi, essendo autore di un illecito aquiliano, non ne era ritenuto degno”. A maggior ragione, dunque, nel codice del 1942, la regola dell’attuazione solidale dell’obbligazione risarcitoria da fatto illecito – sancita dall’art. 2055 cod. civ. – è destinata a ricevere applicazione generalizzata, giacché essa è “mera norma di rimando all’art. 1294 cod. civ.” (così, nuovamente, Cass. Sez. 2, sent. n. 1674 del 2015, cit.).

A quello storico, questa Corte ha fatto seguire, poi, un argomento di natura sistematica, ovvero che l’applicabilità dell’art. 2055 cod. civ. realizza, anche in questo caso, la sua funzione tipica, quella di operare “un rafforzamento del credito evitando al creditore di dover agire coattivamente contro tutti i debitori pro quota)”, coerente con il fatto che il condomino danneggiato si pone “quale terzo rispetto allo stesso condominio cui è ascrivibile il danno stesso (con conseguente inapplicabilità dell’art. 1227, comma 1, cod. civ.)”, non potendo ritenersi soggetto che abbia “concorso a cagionare il danno” (cfr., ancora una volta, Cass. Sez. 2, sent. n. 1674 del 2015, cit.).

Infine, il terzo argomento fa leva sulle caratteristiche intrinseche della responsabilità per danni prevista dall’art. 2051 cod. civ., giacché essa presuppone l’individuazione di uno o più soggetti cui sia imputabile la custodia, tale soggetto non potendo “essere identificato né nel condominio, interfaccia idoneo a rendere il danneggiato terzo rispetto agli altri condomini, ma pur sempre ente di sola gestione di beni comuni, né nel suo amministratore, essendo questi un mandatario dei condomini. Solo questi ultimi, invece, possono considerarsi investiti del governo della cosa, in base ad una disponibilità di fatto e ad un potere di diritto che deriva loro dalla proprietà piena sui beni comuni ex art. 1117 cod. civ.” (così, testualmente, Cass. Sez. 2, sent. n. 1674 del 2015, cit.).

8.1.3. Orbene, sulla base di tali considerazioni, deve ritenersi che la Corte territoriale abbia errato nell’escludere la titolarità, dal lato passivo, nel rapporto controverso, della condomina AUSL Umbria 2, con conseguente accoglimento del primo motivo di ricorso.

8.2. I motivi secondo e terzo sono assorbiti dall’accoglimento del primo.

9. In conclusione, il primo motivo di ricorso va accolto e la sentenza impugnata cassata in relazione, con rinvio alla Corte d’appello di Perugia, in diversa composizione, per la decisione sul merito e sulle spese, ivi comprese quelle del presente giudizio di legittimità, alla stregua del seguente principio di diritto:

in caso di azione ex art. 2051 cod. civ. esperita da un condomino in relazione a danni alla sua proprietà individuale che originino da parti comuni, la domanda risarcitoria può essere proposta, ex art. 2055 cod. civ., nei riguardi di un singolo condomino e non necessariamente dell’intero condominio” >>.