Ripasso sulla causalità nella responsabilità medica penale

Sta nel § 3 di Cass. pen. sez. IV 2 dicembre 2024 n. 45.399, rel. Ranaldi:

<<È noto l’approdo della giurisprudenza assolutamente dominante, secondo cui è “causa” di un evento quell’antecedente senza il quale l’evento stesso non si sarebbe verificato: un comportamento umano è dunque causa di un evento solo se, senza di esso, l’evento non si sarebbe verificato (formula positiva); non lo è se, anche in mancanza di tale comportamento, l’evento si sarebbe verificato egualmente (formula negativa).

Da questo concetto nasce la nozione di giudizio controfattuale (“contro i fatti”), che è l’operazione intellettuale mediante la quale, pensando assente una determinata condizione (la condotta antigiuridica tenuta dell’imputato), ci si chiede se, nella situazione così mutata, si sarebbe verificata, oppure no, la medesima conseguenza: se dovesse giungersi a conclusioni positive, risulterebbe, infatti, evidente che la condotta dell’imputato non costituisce causa dell’evento. Il giudizio controfattuale costituisce, pertanto, il fondamento della teoria della causalità accolta dal nostro codice e cioè della teoria condizionalistica. Naturalmente esso, imponendo di accertare se la condotta doverosa omessa, qualora eseguita, avrebbe potuto evitare l’evento, richiede preliminarmente l’accertamento di ciò che è effettivamente accaduto e cioè la formulazione del c.d. giudizio esplicativo (Sez. 4, n. 416 del 12/11/2021 – dep. 2022, Rv. 282559 – 01; Sez. 4, n. 23339 del 31/01/2013, Rv. 256941 – 01). Per effettuare il giudizio controfattuale è, quindi, necessario ricostruire, con precisione, la sequenza fattuale che ha condotto all’evento, chiedendosi poi se, ipotizzando come realizzata la condotta dovuta dall’agente, l’evento lesivo sarebbe stato o meno evitato o posticipato (Sez. 4, n. 43459 del 04/10/2012, Rv. 255008 – 01). In tema di responsabilità medica, è dunque indispensabile accertare il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, in quanto solo in tal modo è possibile verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta dal sanitario, l’evento lesivo sarebbe stato evitato o differito (Sez. 4, n. 26568 dei 15/03/2019, Rv. 276340 – 01).

L’importanza della ricostruzione degli anelli determinanti della sequenza eziologica è stata sottolineata, in giurisprudenza, laddove si è affermato che, al fine di stabilire se sussista o meno il nesso di condizionamento tra la condotta del medico e l’evento lesivo, non si può prescindere dall’individuazione di tutti gli elementi rilevanti in ordine alla “causa” dell’evento stesso, giacché solo conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici la scaturigine e il decorso della malattia è possibile analizzare la condotta omissiva colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale, avvalendosi delle leggi scientifiche e/o delle massime di esperienza che si attaglino al caso concreto (Sez. 4, n. 25233 del 25/05/2005, Rv. 232013 – 01).

Le Sezioni Unite , con impostazione sostanzialmente confermata dalla giurisprudenza successiva, hanno enucleato, per quanto attiene alla responsabilità professionale del medico, relativamente al profilo eziologico, i seguenti principi di diritto: il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa, l’evento non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. Non è però consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, cosicché, all’esito del ragionamento probatorio, che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori eziologici alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto grado di credibilità razionale”. L’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese). Ne deriva che, nelle ipotesi di omicidio o lesioni colpose in campo medico, il ragionamento controfattuale deve essere svolto dal giudice in riferimento alla specifica attività (diagnostica, terapeutica, di vigilanza e salvaguardia dei parametri vitali del paziente o altro) che era specificamente richiesta al sanitario e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare o ritardare l’evento lesivo, come in concreto verificatosi, con alto grado di credibilità razionale (Sez. 4, n. 30469 del 13/06/2014, Rv. 262239 – 01). Sussiste, pertanto, il nesso di causalità tra l’omessa adozione, da parte del medico, di misure atte a rallentare o bloccare il decorso della patologia e il decesso del paziente, allorché risulti accertato, secondo il principio di controfattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l’evento non si sarebbe verificato’ ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con modalità migliorative, anche sotto il profilo dell’intensità della sintomatologia dolorosa (Sez. 4, n. 18573 del 14/02/2013, Rv. 256338 – 01).

Si tratta di insegnamento ribadito dalle Sezioni Unite, che si sono nuovamente soffermate sulle questioni riguardanti l’accertamento della causalità omissiva e sui limiti che incontra il sindacato di legittimità, nel censire la valutazione argomentativa espressa in sede di merito (Sez. U, n. 38343 del 24.04.2014, Espenhahn, Rv. 261106 – 01). Nella sentenza ora richiamata, le Sezioni Unite hanno sviluppato il modello epistemologico già indicato nella citata pronunzia del 2002 – che delinea un modello dell’indagine causale capace di integrare l’ipotesi esplicativa delle serie causali degli accadimenti e la concreta caratterizzazione del fatto storico – ribadendo che, nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento dì deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto. In particolare, si è sottolineato che, nella verifica dell’imputazione causale dell’evento, occorre dare corso ad un giudizio predittivo, sia pure riferito al passato: il giudice si interroga su ciò che sarebbe accaduto se l’agente avesse posto in essere la condotta che gli veniva richiesta>>.

Applicazione al caso sub iudice:

<<4. Nel caso di specie, il giudice a quo non ha fatto buon governo dei principi appena delineati.

La decisione della Corte distrettuale si fonda sulla considerazione secondo cui, in esito alla disposta perizia medico-legale, la “causa” della morte della persona . offesa sia da ricondursi ad una condizione di shock settico in paziente affetta da colite pseudomembranosa fulminante con segni di megacolon tossico. Gli stessi giudici osservano che, a detta dei periti, tale patologia si palesa raramente nei giovani (la persona offesa, al momento del decesso, aveva 26 anni) e nel caso essa era “esordita in forma subacuta e di difficile diagnosi e gestione”. La Corte territoriale riconosce che non siano state chiarite con certezza le cause determinanti l’esordio e l’evoluzione di tale patologia, che solitamente (ma non sempre) si sviluppa per infezione batterica da “Clostridrium Difficile”, agente patogeno a sua volta difficile (come indicato dallo stesso nome) da diagnosticare (almeno all’epoca dei fatti). Tuttavia, i giudicanti, affidandosi alla valutazione dei periti, affermano che non sarebbero “decisive le circostanze di non aver trovato il Clostridium Diffìcile nei reperti istologici cui ricondurre in termini di certezza la colite pseudomembranosa né di non aver chiaramente inserito nei formulare ta diagnosi differenziale la ricerca dei Clostridium Difficile, ma l’omissione di ogni tipo di indagine indotta dalla constatazione dei sintomi manifestati da Da.Ka. con l’avvio di un percorso diagnostico che avrebbe consentito di individuare mediante successivi approfondimenti la causa della malattia, poi conclamata nella colite pseudomembranosa che ha portato la giovane alla morte”.

5. Si tratta di argomentazioni palesemente illogiche e non rispettose dei principi dianzi richiamati, che devono sempre informare l’accertamento del nesso causale tra la condotta ascritta ai sanitari ed il decesso della paziente, nel caso sostanzialmente basato su un giudizio ipotetico privo di adeguato supporto indiziario quanto al fattore scatenante e all’evoluzione che ha determinato la patologia fulminante da cui è derivato l’evento letale che gli imputati – secondo i giudici di merito – avrebbero dovuto e potuto evitare.

Sotto questo profilo, appaiono fondati i rilievi difensivi nella misura in cui constatano l’assenza di un solido e chiaro giudizio esplicativo in ordine alle cause di insorgenza e sviluppo della malattia, idoneo a supportare una adeguata valutazione di sussistenza del nesso causale fra le contestate condotte omissive e l’evento morte.

6. Le motivazioni della sentenza impugnata, in definitiva, non chiariscono in che modo gli imputati avrebbero dovuto e potuto evitare l’evento o comunque non forniscono un giudizio di aita probabilità logica in ordine alla sicura idoneità salvifica della condotta doverosa omessa, limitandosi ad offrire generiche considerazioni in ordine alla necessità di “effettuare i dovuti approfondimenti”, ovvero all’esigenza di affrontare “un percorso di approfondimento diagnostico vantaggioso”, atteso che, secondo i giudici, “Io stato clinico di Da.Ka. è stato sottovalutato con sbrigativa formulazione di diagnosi di influenza intestinale”; per contro, opina la Corte di appello, “L’individuazione della causa e l’approntamento di terapia mirata avrebbero con aita probabilità arrestato l’iter infausto della patologia”.

Tali affermazioni appaiono manifestamente illogiche laddove gli stessi periti non sono stati in grado di individuare le cause di insorgenza e i tempi di evoluzione della patologia, definita “fulminante” e di difficile diagnosi dagli stessi esperti, sicché si fatica a comprendere quali approfondimenti diagnostici” i medici avrebbero dovuto adottare e, soprattutto, se gli stessi avrebbero consentito di intraprendere un tempestivo percorso terapeutico idoneo ad impedire o, quantomeno, ritardare in maniera significativa l’evento morte. In particolare, la logica della decisione appare largamente insoddisfacente laddove, nella sostanza, per dare risposta al quesito “da quale momento poteva pretendersi dai sanitari intervenuti, in presenza di un fenomeno patologico ingravescente, l’effettuazione di mirati accertamenti diagnostici”, i giudici hanno condiviso il ragionamento adottato dai periti, sintetizzabile nella formula “prima si interviene e meglio è”, di per sé generico, carente e, come tale, inidoneo a fondare un serio giudizio controfattuale e, ancora prima, ad individuare con cognizione di causa il comportamento alternativo lecito che avrebbe dovuto essere seguito dai sanitari nel caso concreto.

Del resto, la sentenza impugnata evidenzia tutta la sua illogicità là dove osserva che “il tempestivo ricovero nella struttura ospedaliera avrebbe permesso l’anticipazione degli accertamenti diagnostici, con esami ematici e strumentali, e dei trattamenti per fronteggiare il grave stato di disidratazione rallentando l’evoluzione della malattia e aumentando le possibilità di individuazione delle cause della gastroenterite da cui era affetta che, esordita in forma subacuta e poi cronicizzata, virava velocemente, in mancanza di alcuna azione efficace di contrasto, verso una forma fulminante”. Argomentazione con cui i giudicanti abbandonano lo schema condizionalistico seguito dalla giurisprudenza di legittimità degli ultimi venti anni, per affidarsi alla superata teorica dell’aumento del rischio o della perdita di chances, espressa da un indirizzo giurisprudenziale esauritosi nei primi anni duemila, in base al quale, nella verifica del nesso di causalità tra la condotta del sanitario e la lesione del bene della vita del paziente, occorreva privilegiare un criterio meramente probabilistico, sulle possibilità di successo del comportamento alternativo. Si tratta di una valutazione che si pone in frontale – e non motivato – contrasto con le indicazioni ermeneutiche espresse dal diritto vivente, sul tema dell’imputazione causale dell’evento (cfr. Sez. 4, n. 24372 del 09/04/2019, Rv. 276292 – 03). Al riguardo, va qui ribadito che per offrire la prova del fatto il giudice non può attingere a criteri di mera probabilità statistica (nel caso, peraltro, nemmeno evidenziati), ma deve fare riferimento al criterio della probabilità logica, intesa come “la verifica aggiuntiva, sulla base dell’intera evidenza disponibile, dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica” rispetto al singolo evento oggetto dell’accertamento giudiziale (cfr. Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222138 – 01), secondo i noti principi dianzi richiamati.>>

Revocazione della donazione per ingratitudine: un caso applicativo

Cass. sez. II, ord. 16/12/2024 n. 32.682, rel. Criscuolo, ravvisa l’ingratitudine del convivente, donatario di immobile, nell’aver fatto cessare la convivenza subito dopo la stipula della donazione:

<<1. Co.Gi., precisando di avere intrapreso una lunga relazione sentimentale, sfociata nella convivenza, con Ca.Ma. a far data dall’aprile del 2008, deduceva che in data 17 marzo 2016 aveva donato alla stessa un appartamento, da lui in precedenza acquistato, e che era stato adibito a casa comune. Tuttavia, a distanza di pochi giorni dalla donazione, aveva appreso che la Ca.Ma. aveva intrapreso una relazione sentimentale con un altro uomo, al quale era affettivamente legata da tempo, e che era stato quindi invitato ad allontanarsi dall’appartamento, aggiungendo che dopo la sua fuoriuscita dalla casa, la nuova relazione era divenuta di dominio pubblico, in quanto la coppia aveva iniziato a frequentarsi anche all’interno del bene donato.

Tanto premesso, ha chiesto pronunziarsi la revocazione per ingratitudine della donazione immobiliare. (….)

Rapportando tali principi alla fattispecie in esame, ancorché l’assenza di un vincolo matrimoniale attenui il dovere di fedeltà tra conviventi, ed anche a voler reputare lecita la condotta del convivente che decida di intraprendere una nuova relazione, la liceità di tale condotta non esime però dal dovere compiere una valutazione complessiva del comportamento tenuto onde apprezzare le modalità con le quali tale nuova relazione sia stata poi portata alla luce, considerando altresì anche le ulteriori condotte dalle quali possa ricavarsi un contegno irriguardoso nei confronti del donante, in avversione al sentimento di rispetto che deve invece connotare i rapporti tra donante e donatario.

La Corte d’Appello ha riformato la decisione di primo grado, imputando al Tribunale l’errore di avere valutato in maniera parcellizzata la condotta della convenuta, e procedendo correttamente ad una valutazione unitaria della sua condotta, onde verificarne l’idoneità a pregiudicare la dignità dell’attore.

Non si è quindi soffermata sulla sola liceità o meno della relazione successivamente intrapresa dalla convenuta, ma al fine di riscontrare una condotta successiva alla donazione idonea a concretare la grave ingiuria richiesta dall’art. 801 c.c., ha valorizzato la relazione intrapresa, sottolineando come la lesione della dignità del donante scaturiva dal fatto che la stessa, sebbene anteriore alla donazione, gli era stata taciuta e, sebbene il motivo della donazione fosse quello di rassicurare la Ca.Ma. circa la solidità del rapporto affettivo che avrebbe accomunato le parti, che a distanza di pochi giorni la Ca.Ma. (che aveva nella sostanza sollecitato la donazione, pur avendo già instaurato la relazione con un terzo) aveva troncato il rapporto di convivenza, invitando in pratica il Co.Gi. a trovare una nuova abitazione, salvo poi, a distanza di poco più di un mese rendere manifesta la nuova relazione, coabitando con il nuovo compagno proprio in quella casa, che nell’intento originario del controricorrente era destinata ad essere l’ambiente nel quale coltivare il progetto di vita comune dei conviventi.

Non è quindi la nuova relazione in sé ad essere stata reputata offensiva della dignità del Co.Gi., ma le modalità con le quali la stessa è stata resa palese, sebbene già intrapresa in epoca anteriore alla donazione, ed essendo stata poi esternata con modalità evidentemente irriguardose nei confronti dell’ex compagno.

Né può sostenersi, come pur trapela dalla lettura del ricorso, che le condotte della Ca.Ma. possano essere giustificate dal fatto che il Co.Gi. non abbia mai reciso il pregresso vincolo matrimoniale, in quanto, come sottolineato dalla Corte distrettuale, il progetto di vita comune intrapreso tra le parti era frutto, dal lato della ricorrente, di una scelta operata da un soggetto adulto che consapevolmente aveva inteso instaurare una convivenza con l’attore, accettando quindi la condizione di quest’ultimo, non potendo quindi essere così legittimata una condotta obiettivamente irriguardosa, a maggior ragione una volta che la convenuta era stata beneficiata con la donazione oggetto di causa>>.

La revocazione della donazione per sopravvenenza di figli spetta solo se per il primo figlio, non per i successivi

Cass. sez. II, ord. 16/12/2024 n. 32.672, rel. Criscuolo:

<<È sicuramente erronea l’affermazione del giudice di appello che ritiene che la revocazione possa essere disposta anche nel caso in cui sopraggiunga un secondo figlio, e ciò in quanto si tratta di affermazione in contrasto con quanto affermato da questa Corte che ha sostenuto che la revocazione della donazione per sopravvenienza di figli o discendenti, rispondendo all’esigenza di consentire al donante di riconsiderare l’opportunità dell’attribuzione liberale a fronte della sopravvenuta nascita di un figlio, ovvero della sopravvenuta conoscenza della sua esistenza, in funzione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione che derivano da tale evento, è preclusa ove il donante avesse consapevolezza, alla data dell’atto di liberalità, dell’esistenza di un figlio ovvero di un discendente legittimo. Né tale previsione contrasta con gli artt. 3,30 e 31 Cost., non determinando alcuna ingiustificata disparità di trattamento o lesione del diritto dei figli sopravvenuti, i quali sono tutelati solo in via mediata ed indiretta, in quanto l’interesse tutelato dalla norma è quello di consentire al genitore di soddisfare le esigenze fondamentali dei figli, sicché è proprio l’assenza in assoluto di discendenti al momento della donazione che legittima la revocazione, al fine di assicurare rilevanza giuridica ad un intimo e profondo sentire dell’essere umano, che può non essere stato valutato adeguatamente dal donante che non abbia ancora avuto figli, diversamente da quello che, avendo già provato il sentimento di amore filiale, si è comunque determinato a beneficiare il donatario, benché conscio degli oneri scaturenti dalla condizione genitoriale (Cass. n. 5345/2017, che ha reputato anche manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 803 c.c., in relazione agli artt. 3 e 30 Cost., nella parte in cui preclude la revocazione per sopravvenuta nascita di un figlio nel caso al momento della donazione il donante abbia già la consapevolezza dell’esistenza di un altro figlio, non determinandosi alcuna ingiustificata disparità di trattamento o lesione del diritto dei figli sopravvenuti, in quanto è proprio l’assenza in assoluto di discendenti al momento della donazione che legittima la revocazione, al fine di assicurare rilevanza giuridica ad un intimo e profondo sentire dell’essere umano, in quanto il donante che non abbia ancora alcun figlio non può valutare adeguatamente l’interesse alla cura filiale, non avendo ancora provato il sentimento di amor filiale con la dedizione che esso determina ed il superamento che esso provoca di ogni altro affetto, viceversa non sussiste il fondamento applicativo della revocazione, allorché l’atto di liberalità sia stato compiuto da chi già aveva avuto modo di provare l’affetto filiale, e che, quindi, si è determinato a beneficiare il donatario pur nella consapevolezza degli oneri scaturenti dalla condizione genitoriale)>>.

 

I crediti cadono in comunione ereditaria, per cui il singolo comunista può agire per recuperare anche l’intero

Cassazione civile sez. III, 12/12/2024, (ud. 25/10/2024, dep. 12/12/2024), n.32077, rel. Fiecconi, confermando l’opinione ricevuta:

<<7.2. I crediti del “de cuius”, a differenza dei debiti, non si ripartiscono tra i coeredi in modo automatico in ragione delle rispettive quote, ma entrano a far parte della comunione ereditaria, essendo la regola della ripartizione automatica dell’art. 752 cod. civ. prevista solo per i debiti, mentre la diversa disciplina per i crediti risulta dal precedente art. 727, il quale, stabilendo che le porzioni debbano essere formate comprendendo anche i crediti, presuppone che gli stessi facciano parte della comunione, nonché dal successivo art. 757, che, prevedendo che il coerede al quale siano stati assegnati tutti o l’unico credito succede nel credito al momento dell’apertura della successione, rivela che i crediti ricadono nella comunione, ed è, inoltre, confermata dall’art. 760, che escludendo la garanzia per insolvenza del debitore di un credito assegnato a un coerede, necessariamente presuppone che i crediti siano inclusi nella comunione; né, in contrario, può argomentarsi dagli artt. 1295 e 1314 dello stesso codice, concernendo il primo la diversa ipotesi del credito solidale tra il “de cuius” ed altri soggetti e il secondo la divisibilità del credito in generale. Conseguentemente, ciascuno dei partecipanti alla comunione ereditaria può agire singolarmente per far valere l’intero credito comune, o la sola parte proporzionale alla quota ereditaria, senza necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti gli altri coeredi, ferma la possibilità che il convenuto debitore chieda l’intervento di questi ultimi in presenza dell’interesse all’accertamento nei confronti di tutti della sussistenza o meno del credito (così Cass. Sez. U, Sentenza n. 24657 del 28/11/2007; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15894 del 11/07/2014).

7.3. Trova, rispetto ai crediti ereditari, applicazione il principio generale, secondo cui ciascun soggetto partecipante alla comunione può esercitare singolarmente le azioni a vantaggio della cosa comune. Ciascun coerede può, pertanto, domandare il pagamento del credito ereditario in misura integrale o proporzionale alla quota di sua spettanza senza che il debitore possa opporsi adducendo il mancato consenso degli altri coeredi, i quali non sono neppure litisconsorti necessari nel conseguente giudizio di adempimento poiché i contrasti sorti tra gli stessi devono trovare soluzione nell’ambito dell’eventuale e distinta procedura di divisione (cfr anche, Cass.Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 27417 del 20/11/2017; Cass.Sez.3-, Ordinanza n. 8508 del 06/05/2020; Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 10585 del 18/04/2024).

7.4. In coerenza coi surrichiamati principi, pertanto, il ricorrente, quale erede della parte lesa, ha la legittimazione per agire per il recupero dell’intero credito risarcitorio spettante al de cuius, cui è succeduto iure successionis, senza necessità alcuna di estendere il contradditorio al nipote coerede (o chiamato all’eredità), per ottenere il risarcimento della totalità del credito già spettante al de cuius, e da lui acquisito nel patrimonio iure successionis, poiché per il principio di cui sopra, la relativa pronunzia sul diritto comune fatto valere, pur spiegando efficacia nei riguardi di tutti i soggetti interessati a ottenere il risarcimento de quo, rimane impermeabile nei rapporti interni tra coeredi rispetto alle conseguenti vicende, da risolversi in seguito alla accettazione della eredità da parte dei coeredi (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24657 del 28/11/2007)>>.

Per l’assegno di mantenimento dei figli, contano solo le condiizoni economiche dei genitori, non quelle dei nonni

Cass. sez. I, ord. 13 dicembre 2024, n. 32.365, rel. Tricomi:

In tema di assegno di mantenimento per i figli trova applicazione il principio secondo cui, in sede di separazione, ai fini della determinazione dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge, non rilevano le condizioni economiche dei genitori del soggetto obbligato, giacché questi, una volta che il figlio sia divenuto autonomo e abbia fondato un proprio nucleo familiare, non hanno più alcun obbligo giuridico nei suoi confronti; pertanto, eventuali elargizioni dei genitori, ancorché continuative, costituiscono atti di liberalità e non possono essere considerate reddito del coniuge obbligato, salva la possibilità, ove ricorrano lo stato di bisogno e i presupposti di legge, di proporre domanda per il riconoscimento degli alimenti ex art. 433 e ss c.c.

(massima di Cesare Fossati in Ondif)

Resposanbilità dell’avvocato e danno non patrimoniale per eccessiva durata del processo (legge Pinto)

Cass. sez. III, ord.  11/11/2024 n. 29.050, rel. Cirillo:
<<3.2. Tanto premesso in relazione al primo motivo, il Collegio ritiene opportuno ricordare che in tema di responsabilità professionale dell’avvocato la giurisprudenza di questa Corte ha in più occasioni ribadito, con un orientamento ormai consolidato, che la valutazione sull’esistenza di una colpa professionale deve essere compiuta, con un giudizio ex ante, sulla base di una valutazione prognostica della possibile utilità dell’iniziativa intrapresa o omessa, non potendo comunque l’avvocato garantirne l’esito favorevole (viene di frequente richiamata, al riguardo, l’antica e ormai superata distinzione tra obbligazioni di mezzo e obbligazioni di risultato). Questo principio è stato affermato per lo più in relazione alla responsabilità omissiva, cioè quando si deve valutare la conseguenza dannosa, per il cliente, derivante da un’attività processuale che poteva essere compiuta e non è stata compiuta (v., tra le altre, la sentenza 24 ottobre 2017, n. 25112, e le recenti ordinanze 19 gennaio 2024, n. 2109, e 6 settembre 2024, n. 24007).

Tale giudizio si svolge, seguendo le regole causali in materia di responsabilità civile, secondo il principio del più probabile che non, in base al quale può ritenersi, in assenza di fattori alternativi, che l’omissione da parte del difensore abbia avuto efficacia causale diretta nella determinazione del danno. Si è detto, in particolare, che in questa materia occorre “distinguere fra l’omissione di condotte che, se tenute, sarebbero valse ad evitare l’evento dannoso, dall’omissione di condotte che, viceversa, avrebbero prodotto un vantaggio. In entrambi i casi possono ricorrere gli estremi per la responsabilità civile, ma nella prima ipotesi l’evento dannoso si è effettivamente verificato, quale conseguenza dell’omissione; nell’altra, il danno (che, se patrimoniale, sarebbe da lucro cessante) deve costituire oggetto di un accertamento prognostico, dato che il vantaggio patrimoniale che il danneggiato avrebbe tratto dalla condotta altrui, che invece è stata omessa, non si è realmente verificato e non può essere empiricamente accertato” (così la citata sentenza n. 25112 del 2017, testualmente ripresa dalla successiva ordinanza 30 aprile 2018, n. 10320).

3.3. Il caso odierno rientra nella seconda delle due ipotesi ora tratteggiate, perché si discute di cinque diversi giudizi risarcitori (secondo le norme della legge n. 89 del 2001) che l’avv. Ve.An. ebbe a promuovere nell’interesse di Ra.An. e che si conclusero tutti con pronunce preliminari in rito, conseguenti ad una serie di omissioni procedurali imputabili al difensore. Giudizi, questi, riguardo ai quali non è ovviamente possibile stabilire con certezza quale esito avrebbero avuto.

In questi casi – come la suindicata giurisprudenza di questa Corte ha chiarito – il giudice di merito è chiamato a compiere un giudizio prognostico o controfattuale, nel senso che deve stabilire quale sarebbe stato, ragionevolmente, il possibile esito favorevole per il cliente ove la negligenza dell’avvocato non ci fosse stata.

Il che, esattamente, è quanto ha fatto la Corte leccese, con un accertamento di merito ineccepibile sul quale questa Corte non ha ragione di interloquire. La sentenza impugnata, infatti, applicando l’art. 2 della legge n. 89 del 2001 nella versione antecedente a quella introdotta dall’art. 5 del D.L. n. 83 del 2012 – che ha introdotto il comma 2-bis nell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, norma non applicabile nella fattispecie ratione temporis – ed assumendo come parametri i criteri indicati dalla Corte EDU per la ragionevole durata dei procedimenti, ha stabilito che la durata dei procedimenti presupposti era tale che la domanda risarcitoria sarebbe stata con tutta probabilità accolta. Ragionamento, questo, perfettamente logico e coerente con la normativa ora citata; ed infatti il comma 2-bis dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001 ha poi tradotto in legge quegli stessi criteri massimi di ragionevole durata stabiliti dalla Corte EDU (tre anni per il primo grado, due per il secondo grado e un anno per il giudizio di legittimità)>>.

Sul dannon non patrimoniale:

<<…  dando continuità al principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza 26 gennaio 2004, n. 1338, correttamente richiamata dalla Corte d’Appello, in tema di equa riparazione ai sensi dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Ne consegue che, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa – ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione – il giudice, una volta accertata e determinata l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme della citata legge n. 89 del 2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente (il principio è stato più volte confermato; v., tra le altre, la sentenza 17 ottobre 2008, n. 25365, e l’ordinanza 9 aprile 2019, n. 9919).

Sulla base di questo principio avrebbe dovuto essere, semmai, l’avv. Ve.An. a provare l’assenza di un danno risarcibile, eventualità che non è stata nemmeno prospettata>>.

Il minore è già erede con la dichiarazione di accettazione beneficiata, per cui una volta maggiorenne non può più rinunciarvi, anche se non è stato fatto l’inventario

Cass. sez. un., sent. 06/12/2024, (ud. 22/10/2024, dep. 06/12/2024), n.31310, rel. Bertuzzi:

<<8. Merita di essere qui confermato, in adesione alle motivate conclusioni del Procuratore Generale, l’indirizzo interpretativo che riconosce al minore la qualità di erede, per effetto della dichiarazione di accettazione del suo legale rappresentante, anche se non accompagnata dall’inventario, e nega per l’effetto la facoltà di una valida rinuncia successiva.

La ragione principale risiede nel rilievo, del tutto pacifico, che l’accettazione beneficiata è sempre accettazione dell’eredità, esprimendo la relativa dichiarazione la volontà del chiamato di succedere nel patrimonio del defunto. Come già detto, la legge ripudia l’idea che l’intenzione di avvalersi del beneficio di inventario possa essere trattata alla stregua di una condizione sospensiva dell’accettazione, tale da esprimere la volontà del dichiarante di essere erede solo se risponderà dei debiti del de cuius nei limiti del valore dei beni ricevuti. L’accettazione con beneficio d’inventario comporta, pertanto, l’acquisto della qualità di erede. Gli art. 485 e seguenti cod. civ. disciplinano le condizioni ed i casi in cui può ottenersi o meno il beneficio, ma non si interessano della condizione di erede, che danno per acquisita.

È noto, inoltre, che il negozio di accettazione dell’eredità è irretrattabile: chi accetta l’eredità l’acquista in modo definitivo, non essendo la relativa dichiarazione revocabile, in base al principio ” semel heres semper heres ” (Cass. n. 1735 del 2024; Cass. n. 15663 del 2020).

In applicazione di tale regola deve escludersi che, ad accettazione dell’eredità avvenuta da parte del legale rappresentante del minore, nella forma beneficiata come richiesto dalla legge, il minore stesso possa essere considerato, fino ad un anno dopo il compimento della maggiore età, mero chiamato all’eredità e non erede, e che gli sia concessa la facoltà di rinuncia, come se la dichiarazione di accettazione beneficiata del suo legale rappresentante non fosse mai stata resa, in base ad una non consentita equiparazione tra la dichiarazione di accettazione beneficiata non seguita dall’inventario e l’accettazione pura e semplice fatta dal legale rappresentante del minore.

La dichiarazione di accettazione ai sensi dell’art. 484 cod. civ., al contrario, in quanto accettazione dell’eredità, è atto idoneo e sufficiente a far acquistare al rappresentato la qualità di erede.

Secondo lo schema legale, il rappresentante del minore può rinunciare o accettare l’eredità, nella forma beneficiata. Se accetta, il minore è erede.

L’art. 489 cod. civ. è il logico sviluppo di questo presupposto. La disposizione stabilisce che il minore non decade dal beneficio di inventario se, entro un anno dal compimento della maggiore età, si conforma alle norme in materia, cioè provvede a redigere l’inventario ed osserva i relativi obblighi.

La previsione normativa presuppone che l’inventario non sia stato eseguito. In caso contrario, la concessione di un termine per porlo in essere non avrebbe senso, risolvendosi nell’obbligo di ripetere un adempimento già realizzato (Cass. n. 9142 del 1993). Né tale necessità sussisterebbe nel caso in cui l’inventario fosse stato eseguito dal legale rappresentante al di là del termine fissato dall’art. 485 cod. civ., essendo pacifico in giurisprudenza che tale ultima disposizione non si applica con riguardo all’eredità del minore.

L’art. 489 cod. civ. appare riferirsi sicuramente anche al caso in cui il legale rappresentante del minore abbia accettato l’eredità con beneficio di inventario, ma non lo abbia eseguito. Tale inadempimento, per volontà della legge, non è causa di impedimento al prodursi degli effetti del beneficio, ripugnando alla legge che il minore sia destinatario di una eredità dannosa ovvero, per usare le parole della legge, si trovi nella posizione di erede puro e semplice. Lo strumento attraverso cui la legge persegue tale risultato, è, sostanzialmente, la sterilizzazione del termine per la redazione dell’inventario durante il periodo della minore età e l’allungamento ad un anno, dal raggiungimento della maggiore età, per predisporlo. In caso vi provveda, egli usufruirà del beneficio che limita la sua responsabilità, in caso contrario sarà considerato erede puro e semplice, essendo ogni ostacolo a considerarlo tale superato dal raggiungimento della maggiore età. Correttamente l’inoperatività nei confronti del minore della disposizione di cui all’art. 485 cod. civ. è stata motivata in ragione della deroga che, con riguardo al tempo dell’inventario, risulta introdotta dall’art. 489 cod. civ.

Appare coerente con tali premesse il mancato riferimento, in quest’ultima disposizione, alla possibilità per il minore, una volta raggiunta la maggiore età, in caso di mancata redazione dell’inventario, di rinunciare all’eredità. La citata disposizione prospetta i possibili epiloghi, in termini alternativi, esclusivamente sul piano della responsabilità per i debiti ereditari, senza interessarsi e quindi incidere sulla sua condizione di erede, che dà per acquisita in forza della precedente accettazione fatta dal suo legale rappresentante. Parlando la norma di decadenza dal beneficio, essa fa intendere che l’incapace è già erede. Lo spettro di efficacia dell’art. 489 cod. civ. è, pertanto, limitato al termine per conseguire il beneficio, non al termine per accettare o rinunziare all’eredità.

Non condivisibile appare, perciò, l’argomento prospettato dall’orientamento qui disatteso, secondo cui non potendo il minore, per la regola generale accolta dall’ordinamento, essere erede puro e semplice e non potendo, in mancanza di inventario, considerarsi erede beneficiato, l’unica conclusione possibile sarebbe quella di riconoscergli la posizione di mero chiamato all’eredità. Tale tesi non considera che il termine per l’inventario è prorogato fino ad un anno dalla maggiore età e che la legge ripropone, con riguardo ad esso, l’alternativa tra erede puro e semplice ed erede beneficiato, secondo il meccanismo già utilizzato dall’art. 485 cod. civ. La differenza tra l’art. 485 e 489 cod. civ. va pertanto ravvisata, per il tema che qui interessa, esclusivamente nel termine per la redazione dell’inventario, che, con una disposizione di indubbio favore, è prorogato per i minori fino ad un anno della maggiore età>>.

Ancora sulla conclusione online del contratto del tipo “clickwrap”

Eric Goldman segnala Appello New York 25.11.2024, Wu v. Uber, sull’oggetto, naturalmente sempre sull’approvazione o meno della clausola arbitrale (qui predisposta da Uber).

Di seguito lo screenshot rappresentante la modalità richiesta di approvazione:

In generale , dice la corte, non c’è motivo per non applicare la disciplina comune:

<<There is no sound reason why the contract principles described above should not be
applied to web-based contracts in the same manner as they have long been applied to
traditional written contracts. Although this Court has not, until now, had the opportunity
to offer substantial guidance on the question, state and federal courts across the country
have routinely applied “traditional contract formation law” to web-based contracts, and
have further observed that such law “does not vary meaningfully from state to state”
(Edmundson v Klarna, Inc., 85 F4th 695, 702-703 [2d Cir 2023]). Case law from other
jurisdictions may therefore provide useful guidance>>.

Nello specifico, la proposta era sufficientemente chiara:

<< The headline and the larger text in the center of the screen—“We’ve updated our
terms” and “We encourage you to read our updated Terms in full”—clearly advised
plaintiff that she was being asked to agree to a contract with Uber. The terms themselves
were again made accessible by a hyperlink on the words “Terms of Use,” which were
formatted in large, underlined, blue text. A reasonably prudent user would have understood from the color, underlining, and placement of that text, immediately beneath the sentence
“encourag[ing]” users to “read [the] updated Terms in full,” that clicking on the words
“Terms of Use” would permit them to review those terms in their entirety. Finally, Uber
provided plaintiff with an unambiguous means of accepting the terms by including a
checkbox, “Confirm” button, and bolded text expressly stating that, “By checking the box,
I have reviewed and agree to the Terms of Use.” It is undisputed that plaintiff checked and box and clicked the “confirm” button.>>

Disciplina dei vizi della vendita per difetti o malattie degli animali

Cass. sez. II, ord. 06/12/2024 n. 31.288, rel. Giannaccari:

Fatto storico e processuale:

<<1. Con sentenza N. 149/2020 del 21.1.2020, la Corte d’Appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha accolto la domanda con la quale Ie.Al. e Ba.Pi. avevano chiesto la condanna di Ma.Ro. Roberto alla riduzione del prezzo di vendita del cane To. per vizi dell’animale, oltre al risarcimento dei danni.

Gli attori avevano esposto di aver acquistato da Ma.Ro., venditore di animali, il cane di nome To., che, al momento dell’acquisto era privo di coda e di un testicolo; dopo la consegna, avevano scoperto che il cane aveva anche altre gravi malformazioni genetiche ed avevano sostenuto consistenti spese per le sue cure.

1.1. La Corte d’Appello ha ritenuto che l’assenza di coda e di un testicolo fossero vizi manifesti, tanto più che l’animale non era stato acquistato per finalità riproduttive e, in relazione a tali vizi, ha rigettato la domanda; quanto alla malformazione a carico delle vertebre e dei tessuti molli, il giudice d’appello ha ritenuto che si trattasse di vizi occulti ed ha condannato il venditore alla riduzione del prezzo ed al risarcimento dei danni>>.

In diritto:

<<5.4. Il venditore era, pertanto, tenuto a garantire il compratore dai vizi della cosa, ai sensi dell’art. 1476, comma 1, n. 3 c.c. salvo che i vizi non fossero evidenti o facilmente riconoscibili; in applicazione di tale principio, la garanzia non è stata correttamente estesa dalla Corte d’Appello alla mancanza della coda o del testicolo, anomalie che erano evidenti ictu oculi al momento della vendita.

5.5. Si trattava non solo di vizi palesemente riconoscibili ma non rilevanti ai fini della garanzia perché il venditore non aveva garantito la capacità riproduttiva del cucciolo ed i compratori non avevano manifestato interesse alla capacità riproduttiva.

5.6. Diversamente, la garanzia per vizi era operante per le altre patologie dell’animale, risultando che il cane era affetto da criptorchidismo e da malformazione genetica delle pelvi, da patologie a carico delle vertebre e dei tessuti molli.

5.7. Si trattava di vizi occulti che si erano manifestati dopo la vendita nonostante il venditore avesse garantito la qualità, sanità e purezza di razza del cane (pag. 7 della sentenza impugnata).

5.8. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di vendita di animali, le norme del codice civile si applicano in mancanza di leggi speciali o, in via gradata, degli usi locali; il venditore è tenuto alla garanzia per vizi per il solo fatto oggettivo della loro presenza, salvo che il compratore fosse a conoscenza dei vizi o che gli stessi fossero facilmente riconoscibili sempre che il venditore non abbia dichiarato che l’animale ne era esente (Cassazione civile sez. II, 17/05/2004, n. 9330)

5.9. Si tratta di vizi che rilevano anche in relazione all’art. 130 del Codice del Consumo, nella formulazione ratione temporis applicabile, sotto il profilo del “difetto di conformità” del bene.

5.10. Sussiste, pertanto, la responsabilità del venditore, il quale era tenuto ad una particolare diligenza in qualità di venditore professionale mentre aveva garantito la salute del cucciolo, senza assicurarsi delle reali condizioni patologiche in modo da porre gli acquirenti nella condizione di decidere se concludere il contratto, nella consapevolezza delle sofferenze che l’animale avrebbe dovuto sopportare, dei disagi da affrontare e delle spese per le cure.

5.11. Ne consegue che, sia ai sensi della normativa civilistica (art. 1492 c.c.) che del Codice del Consumo (art. 130, commi 2 e 7 del Codice del Consumo), gli acquirenti potevano chiedere, a loro scelta, la riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto, oltre al risarcimento dei danni>>

Nella separazione coniugale, l’assegno di mantenimento va parametrato al precedente tenore di vita (a differenza dal divorzio)

Cass. Civ., Sez. I, Ord. 26 novembre 2024, n. 30502, rel. Acierno:

<<Risulta, infine, pienamente condivisibile l’interpretazione dell’art. 156 c.c.
offerta dalla Corte d’Appello presta piena adesione alla consolidata
giurisprudenza di questa Corte per cui: “a norma dell’art. 156 cod. civ., il
diritto all’assegno di mantenimento sorge nella separazione personale a favore
del coniuge cui essa non sia addebitabile, quando questi non fruisca di redditi
che gli consentano di mantenere un tenore di vita analogo a quello esistente
durante il matrimonio e sussista disparità economica tra i coniugi; il parametro
al quale va rapportato il giudizio di adeguatezza è dato dalle potenzialità
economiche complessive dei coniugi durante il matrimonio, quale elemento
condizionante la qualità delle esigenze e l’entità delle aspettative del
richiedente, senza che occorra un accertamento dei redditi rispettivi nel loro
esatto ammontare, essendo sufficiente un’attendibile ricostruzione delle
situazioni patrimoniali complessive di entrambi” (Cass. Civ. Sez. 1, Sentenza n.
3974 del 19/03/2002 )>>