Su marchi collettivi e “uso effettivo” ai fini del giudizio di decadenza (un caso un pò particolare: l’uso per imballaggi vale pure come uso per i prodotti imballati?)

Laa Corte di Giustizia UE (sentenza 12.12.2019, C-143/19 P, Der Grüne Punkt – Duales System Deutschland GmbH c. EUIPO ), affronta un caso un pò particolare di decadenza di marchio collettivo.

Le norme rilevanti soni l’art. 15 e l’art. 66 del reg. 207/2009.

Il noto marchio Grune Punkt, riferito ad imballaggi ecologici, era stato registrato anche per quasi tutte le altre classi merceologiche. A seguito di istanza di parte, però, era stato dichiarato decaduto per non uso per tutte le classi tranne che per i prodotti consistenti in imballaggi (§ 16).

I successivi tentativi del titolare di invalidare la decisione in via amministrativa e poi avanti il Trib. Ue sono andati male. La perseveranza però è stata premiata dato che la Corte ne ha accolto le ragioni.

La questione centrale è sottile e non semplice: si tratta di capire se l’uso del segno sugli imballaggi costituisca uso solo per il prodotto “imballaggio” oppure anche per gli svariati tipi di prodotti che sono presenti dentro l’imballaggio stesso. Nelle prime istanze era stato risposto nel primo modo; la Corte risponde invece nel secondo modo (o meglio non esclude il secondo modo e obbliga a valutare tale possibilità).

Vediamo i passi centrali del ragionamento del Tribunale, secondo il resoconto dela Corte .

<<Il pubblico di riferimento è perfettamente in grado di distinguere tra un marchio che indica l’origine commerciale del prodotto e un marchio che indica il recupero dei rifiuti di imballaggio. Inoltre, occorre tener conto del fatto che «i prodotti stessi sono di regola designati dai marchi che appartengono a società differenti»>> (§ 31).  Ne segue che <<«l’uso del marchio [in questione] in quanto marchio collettivo che designa i prodotti dei membri dell’associazione distinguendoli dai prodotti che provengono da imprese che non fanno parte di tale associazione sarà percepito dal pubblico di riferimento come un uso relativo agli imballaggi. (…) ]l comportamento ecologico dell’impresa, grazie alla sua affiliazione al sistema di accordo di licenza della [DGP], sarà attribuito dal pubblico di riferimento alla possibilità del trattamento ecologico dell’imballaggio e non ad un simile trattamento del prodotto imballato medesimo, che può rivelarsi inadeguato ad un trattamento ecologico»>> (§ 32).

Infine, <<l’uso del marchio in questione non aveva per obiettivo neppure di creare o di conservare uno sbocco per i prodotti. Detto marchio sarebbe conosciuto dal consumatore solo come l’indicazione che l’imballaggio, grazie al contributo del fabbricante o del distributore del prodotto, sarà smaltito e recuperato ove il consumatore porti l’imballaggio in un punto di raccolta locale. Pertanto, l’apposizione del suddetto marchio sull’imballaggio esprimerebbe semplicemente il fatto che il fabbricante o il distributore di questo prodotto opera nel rispetto del requisito fissato dalla normativa dell’Unione, secondo la quale l’obbligo di recupero dei rifiuti di imballaggio spetta a tutte le imprese. Secondo il Tribunale, nel caso, poco probabile, in cui il consumatore optasse per l’acquisto di un prodotto basandosi unicamente sulla qualità dell’imballaggio, resterebbe sempre il fatto che detto marchio crea o conserva uno sbocco non già rispetto a tale prodotto, ma esclusivamente per quanto riguarda l’imballaggio di quest’ultimo>> (§ 33).

Secondo il Tribunale infatti il presupposto è che <<«un marchio forma oggetto di un uso effettivo allorché assolve alla sua funzione essenziale, che è di garantire l’identità di origine dei prodotti o dei servizi per i quali è stato registrato, al fine di trovare o mantenere per essi uno sbocco>> (§ 26). Si tratta dell’affermazione centrale, perno di tutto il ragionamento, ratio decidendi anche delle Corte (pur se con esito opposto). Questa infatti lo estende ai marchi collettivi laddove dice che: <<questi marchi fanno parte, come i marchi individuali, dell’ambito del commercio. Per poter essere qualificato come «effettivo» ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 1, del regolamento n. 207/2009, il loro uso deve pertanto perseguire concretamente l’obiettivo delle imprese interessate di creare o di conservare uno sbocco per i loro prodotti e servizi. Ne consegue che un marchio collettivo dell’Unione europea è oggetto di un uso effettivo quando viene utilizzato conformemente alla sua funzione essenziale, che è quella di distinguere i prodotti o i servizi dei membri dell’associazione che ne è titolare da quelli di altre imprese, al fine di creare o di conservare uno sbocco per detti prodotti e servizi>> (§§ 56-57).

Peraltro <<ai fini della valutazione dell’esistenza di tale requisito, era necessario, secondo la costante giurisprudenza della Corte, esaminare se il marchio in questione fosse effettivamente utilizzato «sul mercato» dei prodotti o dei servizi interessati. Detto esame doveva essere realizzato valutando, in particolare, gli usi considerati giustificati, nel settore economico interessato, per conservare o creare quote di mercato per i prodotti o servizi contrassegnati dal marchio, la natura di tali prodotti o servizi, le caratteristiche del mercato, nonché l’ampiezza e la frequenza dell’uso del marchio>> (§ 62).

Il Tribunale doveva << –prima di pervenire a tale conclusione e di pronunciarsi quindi sulla decadenza del titolare dai diritti dal medesimo detenuti sul marchio in questione per la quasi totalità dei prodotti per i quali esso è registrato – (…)  esaminare se l’uso debitamente dimostrato nel caso di specie, vale a dire l’apposizione del marchio in questione sulle confezioni dei prodotti delle imprese affiliate al sistema della DGP, fosse considerato, nei settori economici interessati, giustificato per conservare o creare quote di mercato per taluni prodotti. Un siffatto esame, che doveva anche riguardare la natura dei prodotti interessati e delle caratteristiche dei mercati sui quali essi sono immessi in commercio, è assente nella sentenza impugnata. Il Tribunale ha sì ritenuto che il consumatore comprende che il sistema della DGP riguarda la raccolta locale e il recupero degli imballaggi dei prodotti e non la raccolta o il recupero dei prodotti in sé, però non ha debitamente considerato se l’indicazione al consumatore, al momento dell’immissione in commercio dei prodotti, della messa a disposizione di un simile sistema di raccolta locale e di smaltimento ecologico dei rifiuti di imballaggio apparisse giustificata, nei settori economici interessati o in alcuni di essi, per conservare o creare quote di mercato per taluni prodotti>> (§§ 67-68).

Si potrebbe pensare che tale valutazione, per ciascun tipo di prodotto domandato in registrazione, fosse eccessiva. Se anche fosse così, <<era tuttavia opportuno, stante la diversità dei prodotti interessati da un simile marchio, fornire un esame che distinguesse diverse categorie di prodotti in funzione della loro natura e delle caratteristiche dei mercati e che valutasse, per ciascuna di tali categorie di prodotti, se l’uso del marchio in questione perseguisse effettivamente l’obiettivo di conservare o di creare quote di mercato>> (§ 69). Infatti <<alcuni dei settori economici interessati riguardano prodotti di consumo quotidiano, come alimenti, bevande, prodotti per l’igiene personale e per la pulizia della casa, idonei a generare quotidianamente rifiuti di imballaggio che i consumatori devono gettare via. Non si può pertanto escludere che l’indicazione sull’imballaggio di prodotti di questo tipo, da parte del fabbricante o del distributore, dell’affiliazione a un sistema di raccolta locale e di trattamento ecologico dei rifiuti di imballaggio possa influenzare le decisioni di acquisto dei consumatori e, in tal modo, contribuire alla conservazione o alla creazione di quote di mercato relative a tali prodotti>> (§ 70).

Il Tribunale si era ben chiesto se il marchio servisse a creare/conservare uno sbocco commerciale: ma aveva concluso che ciò avveniva solo per il prodotto <<imballaggio>> e mai per i prodotti presenti dentro l’imballaggio: con ciò però violando il tipo di analisi richiesto e che la Corte aveva prima indicato al § 62 (§ 71).

Questa è dunque la ratio decidendi. Il marchio apposto sull’imballaggio può valere come uso anche del marchio sui prodotti in esso contenuti, quando l’imballaggio costituisca (in tutto o in parte, direi: la Corte genericamente dice “possa influenzare le decisioni di acquisto”) motivo di acquisto dei prodotti stessi: cioè quando conferisca loro appeal e ne incrementi l’apprezzamento del pubblico.

Il punto è complesso e servirebbe un’indagine specifica, toccando profili apicali del diritto dei marchi. Ad una primissima riflessione la posizione della Corte non persuade: il che invece accade per quella del Tribunale. L’uso nel commercio di un componente di un prodotto finale (tale è l’imballaggio) è distinta dall’uso del prodotto stesso: quindi l’uso dei rispettivi segni resta pure distinto. Altrimenti si avrebbe che il prodotto recherebbe due marchi, i quali indicherebbero due provenienze aziendali diverse. Invece il segno proprio dell’imballaggio (come di qualunque componente) indica solo la provenienza del componente medesimo.

Infine seguono un paio di considerazioni giustificative a posteriori o comunque generiche, di scarso ausilio per le scelte pratiche.

La necessità di questa analisi (id est l’applicazione del concetto “contributo a creare o conservare uno sbocco commerciale”, in cui si sostanzia l’uso effettivo ai fini del giudzio di decadenza),  <<che tenga debitamente conto della natura dei prodotti o dei servizi interessati nonché delle caratteristiche dei rispettivi mercati e che distingua, di conseguenza, fra vari tipi di prodotti o servizi, laddove questi ultimi siano molto diversificati, riflette adeguatamente la delicatezza della posta in gioco di tale valutazione. Tale valutazione stabilisce, infatti, se il titolare di un marchio sia decaduto dai diritti su quest’ultimo e, in caso affermativo, per quali prodotti o servizi viene dichiarata la decadenza>> (§ 72). E’ infatti certamente importante <<assicurare il rispetto del requisito di un uso che concretamente persegua l’obiettivo di creare o di conservare uno sbocco per i prodotti e i servizi per i quali il marchio è stato registrato, affinché il titolare di quest’ultimo non resti indebitamente protetto con riferimento a prodotti o servizi la cui commercializzazione non sia veramente promossa da tale marchio. Ciò nondimeno, è altrettanto importante che i titolari dei marchi e, nel caso di un marchio collettivo, i loro membri possano, in modo debitamente protetto, sfruttare il proprio segno nell’ambito del commercio>>, § 73. E’ una sorte di hysteron proteron dato che, se si tratti di sfruttamento del segno rientrante nella privativa di legge, è proprio il quid demonstrandum.

Avendo uil Tribunale omesso di effettuare tale esame, la sua sentenza va annullata.

contrarietà all’ordine pubblico nel diritto europeo dei marchi

il Tribunale UE con sentenza 12.12.2019, T-683/18, Santa Conte c. EUIPO,  si pronuncia sulla contrarietà all’ordine pubblico (poi anche <<O.P.>>) di un marchio figurtivo/denominativo. La norma applicata è l’art. 7.1.f del reg. 2017/2001 in combinato disposto con l’art. 7.2 del medesimo reg.

Visto l’esito negativo in sede amminsitrativa, la ricorrente chiede al Tribunale di annullare le decisioni ivi prese. Trascuro qui il primo motivo, di natura procesurale, e riferisco del secondo, di dirito sostanziale.

Il marchio è così descritto: <<contiene un elemento denominativo composto dai termini «cannabis», «store» e «amsterdam», nonché un elemento figurativo, ossia tre file di foglie verdi stilizzate, corrispondente alla comune rappresentazione della foglia di cannabis, su uno sfondo nero delimitato da due bordi di colore verde fosforescente, al di sopra e al di sotto del motivo. Le tre parole anzidette partecipano anche alla dimensione figurativa del segno controverso in quanto appaiono in lettere maiuscole, ove la parola «cannabis» è in esso rappresentata con caratteri di colore bianco, molto più grandi delle altre due parole, che essa sovrasta al centro del segno>>, § 36 (v. l’immagine in  sentenza).

il Tribunale ricorda alcuni principi in tema di ordine pubblico ai §§ 31-35.

V. ad es. il § 33: <<il pubblico di riferimento non può essere circoscritto, ai fini dell’esame dell’impedimento alla registrazione di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), del regolamento n. 2017/1001, al pubblico al quale sono direttamente destinati i prodotti e i servizi per i quali la registrazione è richiesta. Occorre, infatti, tener conto del fatto che i segni oggetto di tale impedimento alla registrazione scioccheranno non solo il pubblico al quale i prodotti e i servizi designati dal segno sono rivolti, ma parimenti altre persone che, senza essere interessate a tali prodotti e servizi, si troveranno accidentalmente di fronte a tale segno nella loro vita quotidiana>> e i  §§ 34-35: <<i segni percepibili come contrari all’ordine pubblico o al buon costume non sono gli stessi in tutti gli Stati membri, in particolare per ragioni linguistiche, storiche, sociali o culturali (…) Ne consegue che, per l’applicazione dell’impedimento assoluto alla registrazione di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettera f), del regolamento 2017/1001, occorre prendere in considerazione tanto le circostanze comuni a tutti gli Stati membri dell’Unione quanto le circostanze proprie di taluni Stati membri singolarmente considerati, che possono influenzare la percezione del pubblico di riferimento situato nel territorio di tali Stati>>.

Inoltre, visto che due parole sono comprensibili anche al di fuori del mondo anglofono, il pubblico di riferimeno non è solo quello anlogofono ma tutto quello dell’UE , § 42.

Ancora: <<poiché la ricorrente, nella domanda di marchio, fa riferimento a prodotti e servizi di consumo corrente, destinati al grande pubblico senza distinzione di età, non vi è alcuna ragione valida per circoscrivere, come sostenuto dalla ricorrente in udienza, il pubblico di riferimento al solo pubblico giovane, di età compresa tra i 20 e i 30 anni. Analogamente, occorre aggiungere che (…) il pubblico di riferimento non è solo il pubblico cui sono direttamente rivolti i prodotti e i servizi per i quali è chiesta la registrazione, ma anche quello composto da altre persone che, senza essere interessate a tali prodotti e servizi, si troveranno accidentalmente di fronte a tale segno nella loro vita quotidiana (v. punto 33 supra), il che porta a respingere, anche per tale motivo, l’affermazione della ricorrente, formulata in udienza, secondo la quale detto pubblico sarebbe per la maggior parte un pubblico giovane, composto da persone di età compresa tra i 20 e i 30 anni>> , § 45.

La ricorente allega norme che proverebbero l’accettazine sociale della cannabis. Ma il Trib. risponde che << «in numerosi paesi dell’Unione [e]uropea (a titolo esemplificativo ma non esaustivo, Bulgaria, Finlandia, Francia, Ungheria, Irlanda, Polonia, Slovacchia, Svezia e Regno Unito)», i prodotti derivati dalla cannabis aventi tenore di THC superiore allo 0,2% sono considerati sostanze stupefacenti illegali>>, § 49.

Ne segue che <<attualmente, non si osserva nell’Unione alcuna tendenza unanimemente accettata, e neppure predominante, in merito alla liceità dell’uso o del consumo di prodotti derivati dalla cannabis con un tenore di THC superiore allo 0,2%.>>, § 51.

Di conseguenza <<giustamente la commissione di ricorso ha ritenuto che il segno controverso verrebbe percepito, nel suo complesso, dal pubblico di riferimento come riferito ad una sostanza stupefacente vietata in un elevato numero di Stati membri.>>, § 69.

Quanto al passaggio successivo e cioè al se il segno de quo sia contrario all’O.P. (il merito della lite), il giudice eureo risponde in modo positivo, confermando il rigetto amministrativo della domanda.

Premette che  <<il diritto dell’Unione non impone una scala di valori uniforme e riconosce che le esigenze di ordine pubblico possono variare da un paese all’altro e da un’epoca all’altra, mentre gli Stati membri restano essenzialmente liberi di determinare il contenuto di tali esigenze in funzione delle loro necessità nazionali. Pertanto, le esigenze di ordine pubblico, che pure non coincidono con gli interessi economici né con la mera prevenzione delle perturbazioni dell’ordine sociale insite in qualsiasi infrazione della legge, possono comprendere la protezione di diversi interessi considerati fondamentali dallo Stato membro di cui trattasi secondo il proprio sistema di valori>>, § 71.

l’O.P. <<esprime le intenzioni dell’ente normativo pubblico quanto alle norme che devono essere rispettate nel contesto sociale>>, § 72;  ed è esatto in sostanza <<che ogni contrarietà alla legge non costituisce necessariamente una contrarietà all’ordine pubblico (..) E’ ancora necessario, infatti, che tale contrarietà leda un interesse considerato fondamentale dallo Stato membro o dagli Stati membri di cui trattasi in base al loro sistema di valori >>, §  73.

Secondo il Tribunale allora <<negli Stati membri in cui il consumo e l’uso della sostanza stupefacente derivata dalla cannabis restano vietati, la lotta alla diffusione di quest’ultima riveste carattere particolarmente delicato, che risponde ad un obiettivo di salute pubblica volto a combattere gli effetti nocivi di tale sostanza. Tale divieto mira quindi a tutelare un interesse che detti Stati membri considerano fondamentale secondo il proprio sistema di valori, cosicché il regime applicabile al consumo e all’uso di detta sostanza rientra nella nozione di «ordine pubblico»>>, § 74. Inoltre <<l’importanza di tutelare tale interesse fondamentale è ulteriormente sottolineata dall’articolo 83 TFUE, secondo il quale il traffico illecito di stupefacenti è una delle sfere di criminalità particolarmente gravi che presentano una dimensione transnazionale, nelle quali è previsto l’intervento del legislatore dell’Unione, nonché dall’articolo 168, paragrafo 1, terzo comma, TFUE, secondo il quale l’Unione completa l’azione degli Stati membri volta a ridurre gli effetti nocivi per la salute umana derivanti dall’uso di stupefacenti, comprese l’informazione e la prevenzione>>, § 75.

Allora giustamente la commissione di ricorso ha sostenuto che <<sarebbe percepito dal pubblico di riferimento come un’indicazione del fatto che gli alimenti e le bevande menzionati dalla ricorrente nella domanda di marchio, nonché i relativi servizi, contenevano sostanze stupefacenti illegali in diversi Stati membri, fosse contrario all’ordine pubblico>>, § 76.

La ricorrente ha tentato di sminuire questo ragionamento, dicendo che il segno non incitava, banalizzava o approvava l’uso di stupefanti illegali. Però il Trib. replica che <<il fatto che tale segno sarà percepito dal pubblico di riferimento come un’indicazione del fatto che gli alimenti e le bevande menzionati dalla ricorrente nella domanda di marchio, nonché i relativi servizi, contengono sostanze stupefacenti illegali in diversi Stati membri è sufficiente per concludere che detto marchio è contrario all’ordine pubblico>>, § 77.

In ogni caso,  <<dal momento che una delle funzioni di un marchio consiste nell’identificare l’origine commerciale del prodotto o servizio, al fine di consentire così al consumatore che acquista il prodotto o il servizio contrassegnato dal marchio di fare, al momento di un successivo acquisto, la stessa scelta, qualora l’esperienza si riveli positiva, o di fare un’altra scelta, qualora essa risulti negativa (…),  detto segno, nella misura in cui sarà percepito nel modo sopra descritto, incita, implicitamente, ma necessariamente, all’acquisto di tali prodotti e servizi o, quantomeno, ne banalizza il consumo>>, § 77.

In altre e più brevi parole, il fatto, che il marchio miri ad incrementare le vendite,  perciò solo costituisce incitamento o quantomeno banalizzazione del consumo di sostanza illegale. Si tratta forse del passaggio più interessante a livello teorico.

C’è un altra sentenza recente che affronta in dettaglio la questione della contrarietà del marchio all’ordine pubblico: Trib. UE 15 marzo 2018, T-1/17, La Mafia Franchises c. EUIPO – Italia (caso La Mafia SE SIENTA A LA MESA), ampiamnte ricordata nella sentenza de qua.

Lo sfruttamento della notorietà altrui: il caso napoletano Maradona contro Dolce § Gabbana

Il tribunale di Napoli  con sentenza n. 11374/2019  del 9 dicembre 2019, RG 41088/2017, decide la lite tra Diego Armando Maradona eDolce§Gabbana. I fatti risultano i seguenti (testo della sentenza preso da Elenora Rosati su IPKat che ringrazio).

Dolce§Gabbana in un evento mondano del luglio del 2009  (citazione notificata nel luglio 2017!) per clienti illustri o istituzionali, consistente in una sfilata di presentazione di simboli della città partenopea, aveva fatto sfilare una modella con una maglia del numero dieci, storica posizione calcistica di Maradona (sembra di capire: modella indossante la maglia del Napoli Calcio recante sul retro il n. 10, probabilmente quella a strisce bianche e azzurre verticali).

Sembra di capire -anche se non è detto in modo esplicito- che si trattasse di una maglia col numero 10 creata o ricreata dagli stilisti: altrimenti non si spiega la successiva affermazione per cui, dopo la diffida, D§G hanno omesso di mettere in produzione il capo di abbigliamento..

Maradona lamentava l’indebita utilizzazione e sfruttamento commerciale del proprio  nome e/o marchio.

il Tribunale accoglie la domanda affermando la violazione del diritto sul nome.

In realtà l’affermazione non è chiarissima, dal momento che il segno riprodotto abusivametne pare fosse un segno distintivo diverso dal nome: precisamente pare si fosse trattato della divisa ufficiale usata in partita e che l’ha reso famoso in tutto il mondo durante la sua esperienza italiana. La fattispecie ricorda la violazione -sempre di un segno distintivo personale  diverso dal nome che riguardò il cantante Lucio Dalla, del quale vennero abusivamente riprodotte le caratteristiche -anche qui assai note-  degli occhialetti tondi e del berrettino a zucchetto. A meno di pensare (allora il riferimento al diritto sul nome sarebbe esatto, anche se avrebbe dovuto essere esplicitato) che sul retro della maglia, oltre al numero, comparisse il nome “Maradona”, come spesso avveniva.

La domanda è accolta sotto il profilo dell’ articolo 8 codice di proprietà industriale: Dolce e Gabbana avrebbero mirato “ad appropriarsi delle componenti attrattive insite nel richiamo alla prestigiosa storia sportiva del mitico calciatore”.

La quantificazione del danno viene operata tramite il riferimento al criterio del cosiddetto prezzo del consenso.

l’attore aveva chiesto l’importo di € 1.000.000,00 e prodotto a sostegno , oltre a altri materiali irrilevanti, quattro contratti precedenti. Il tribunale, valutata  la modestia di uso del segno altrui (limitata ad una sfilata) ha invece liquidato € 70.000,00  più accessori

Il caso è interessante per l’anomalia consistente nel fatto che lo sfruttamento non autorizzato del segno distintivo altrui avviene da parte di due imprenditori della moda i quali pure sono provvisti di notorietà mondiale. Ci si può dunque chiedere se non fosse stato opportuno per il giudice accertare se veramente c’era stato uno sfruttamento della notorietà altrui: ma forse tale accettamento sarebbe stato superfluo ai fini del’art. 8 cpi.

Anzi a monte sarebbe stato necessario accertare che la maglia del Napoli col numero 10 fosse veramente qualificabile come segno distintivo di Maradona su cui questi avesse un diritto esclusivo: ad esempio potendo rilevare la regolazione pattizia di Maradona con la società del Napoli (a meno che contenesse il suo nome, come sopra ipotizzato)

Marchio di forma (o di colore) violato da (calzatura indossata da) personaggio di un film?

Le note suole rosse delle calzature Louboutin, sulla  cui esclusiva lo stilista francese ha ingaggiato liti giudiziarie in diversi Stati e su cui ha pure ottenuto ragione presso la Corte di Giustizia UE (C‑163/16 del 12.06.2018), sono ora forse riprodotte da una protagonista del recente film di Disney titolato Frozen 2.

Ne riferisce worldtrademarkreview.com  del 10. 12.2019 a firma di T. Lince.

Si considerino le due calzature (foto presa dall’articolo appena cit.):

(a sinistra quella di Frozen 2  e a destra quella di Louoboutin).

Qui sotto il marchio registrato (dalla sentenza C.G. cit.):

Il segno, usato nel film, costituisce riproduzione vietata del marchio di Louboutin? Direi che Louboutin avrebbe buone frecce nel suo arco, vista la norma europea armonizzata che da noi è stata recepita nel  novellato art. 21.1.c)  del cod. propr. ind.

Probabilmente lo stilista francese ci sta già pensando, visto l’impegno che mette nel tutelare il suo marchio.

La corte di appello milanese segue l’indirizzo, per cui -in tema di intermediazione finanziaria- la violazione dei doveri informativi fa presumere il nesso di causalità col danno subito

La Corte di appello di Milano 05.02.2019 , est. Giani, conferma l’indirizzo, per cui la mancata informazione dell’investitore da parte dell’intemediario fa presumere il ricorrere del nesso di causa col danno subito. Il passo pertinente  è al § 35.

La Corte invoca due precedenti : Cass. 18.05.2017 n. 12.544 e Cass. 26.07.2017 n. 18363. La prima tralaticiametne invoca a sua volta Cass., 17 novembre 2016, n. 23417 (v. § 6) per cui risulta priva di interesse; la seconda profonde invece maggior impegno motivazionale (§ 5.1). Precisamente così afferma la Corte milanese:

<<La giurisprudenza della Corte di legittimità ha più volte chiarito che, in materia di intermediazione finanziaria, gli obblighi d’informazione che gravano sull’intermediario, dal cui inadempimento consegue in via presuntiva l’accertamento del nesso di causalità del danno subito dall’investitore, impongono la comunicazione di notizie conoscibili in base alla necessaria diligenza professionale e l’indicazione, in modo puntuale, di tutte le specifiche ragioni idonee a rendere un’operazione inappropriata rispetto al profilo di rischio dell’investitore, purché debitamente e compiutamente acquisito, in quanto tali informazioni costituiscono reali fattori per decidere, in modo effettivamente consapevole, se investire o meno (Cass., 18-05-2017, n. 12544; cfr. anche Cass., 26-07-2017, n. 18363). Anche questa Corte (App. Milano, 15-01-2014, R. C. E. c. Banca Italease) ha avuto modo di stabilire che nelle azioni di danno promosse dagli investitori si deve presumere la sussistenza del nesso di causalità tra informazione inesatta od omessa e danno, del quale si chiede il risarcimento, salvo che l’informazione inesatta non sia marginale e di scarsa importanza; tuttavia, il convenuto ha la possibilità di dare la prova contraria, e cioè di dimostrare che controparte avrebbe comunque effettuato l’investimento dannoso anche se avesse conosciuto il vero stato delle cose.

Nel caso in esame, avendo l’intermediario omesso di acquisire il questionario MIFID prima dell’investimentoed essendosi, dunque, posto nella colpevole condizione di non poter compiere una valutazione di appropriatezza, il nesso causale tra tali gravi violazioni e omissioni, che hanno impedito in radice l’osservanza dell’obbligo susseguente di valutare l’appropriatezza dell’investimento in obbligazioni LB, si pone come sicura origina causale [qui c’è verosmilmente una dimenticanza da parte del giudice] del danno patito dall’investitore, senza che possa ritenersi vinta tale presunzione, facendo unicamente riferimento al portafoglio pregresso dell’investitore né, ancor meno, al questionario MIFID compilato solo successivamente agli investimenti de quibus. L’assenza di titoli di banche d’affari americane, coinvolte nella vicenda dei mutui subprime già in data anteriore al luglio 2008 (epoca degli investimenti in questione), fa ritenere non superata dall’intermediario la suddetta presunzione di sussistenza del nesso causale tra i gravi inadempimenti ascrivibili alla Banca e il danno cagionato. L’’investimento deve corrispondere al profilo personale (che nel caso di specie è carente d’informazioni sulla conoscenza del prodotto) e deve essere frutto di una scelta informata e consapevole (cfr. Cass 4727/2018). La prova del mancato adempimento di un rilevante obbligo informativo non può essere ritenuta ininfluente in considerazione dell’esperienza dell’investitore dal momento che l’accettazione consapevole di un investimento finanziario non può che essere il frutto di una scelta consapevole ed informata sulla preventiva conoscenza del prodotto (Cass 4727/2018. Nella specie la S.C. ha cassato la sentenza nella quale la Corte di Appello aveva escluso la sussistenza del nesso causale tra l’inadempimento ed il danno, sul rilievo che dalla prova testimoniale espletata era emerso che l’eventuale violazione degli obblighi informativi non avrebbe comunque inciso sulla decisione dell’investitore, orientato da un intento speculativo).

È necessario altresì sottolineare che, diversamente opinando, la probatio del nesso causale diverrebbe diabolica per l’investitore: qui, si sottolinea nuovamente, l’intermediario finanziario, avendo omesso di adempiere “a monte” all’obbligo di acquisire un profilo corretto e completo dell’investitore, si è posto nelle condizioni di violare l’obbligo di valutazione di appropriatezza dell’investimento, così impedendo ogni possibile disamina di questa, anche ai fini del nesso di causalità, non potendosi sapere a priori quali fossero le risultanze del questionario e dunque le propensioni dell’investitore relativamente agli strumenti negoziati dall’intermediario senza previa acquisizione del questionario. Soluzione questa che risulta altresì coerente con la finalità non solo riparativa, ma anche sanzionatoria della responsabilità civile e del risarcimento dei danni, quale sancita dalle Sezioni Unite della Cassazione (Cass., sez. un., 05-07-2017, n. 16601)>>.

L’orientamento indicato e la sentenza in esame sono forse un pò frettolosi.

Che l’investitore sia parte debole è affermazione di sicura esattezza. Invece il ravvisare il nesso di causalità per qualunque omissione informativa e per qualunque investitore non lo è altrettanto. In particolare, affermarlo in modo apodittico e a prescindere dalla circostanze, significa porre una presunzione di causalità di dubbia esattezza , essendo arduo definirla grave, precisa e concordante.  Il giudizio è sempre sul caso singolo, non per tipologie di rapporti sociali: e dunque deve analizzare le circostanze stesse. Si v. ad es. il più argomentato ragionamento in fatto svolto dalla cit. Cass. 18363/2017  al § 5.2.

Sorprendente infine è l’affermazione al termine del passo riportato, sulla finalità sanzionatoria della responsabilità civile. Da un lato pare poco pertinente nel percorso motivatorio ivi condotto; dall’altro le stesse sezioni unite l’hanno si ammessa nel 2017 ma a precise condizioni, che qui non sono ricordate.

Secondo S.C. s.u. 16601/2017, infatti, <<le  Sezioni Unite ritengono che questa analisi sia superata e non possa più costituire, in questi termini, idoneo filtro per la valutazione di cui si discute. Già da qualche anno le Sezioni Unite (cfr. SU 9100/2015 in tema di responsabilità degli amministratori) hanno messo in luce che la funzione sanzionatoria del risarcimento del danno non è più  “incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento, come una volta si riteneva, giacchè negli ultimi decenni sono state qua e là introdotte disposizioni volte a dare un connotato lato sensu sanzionatorio al risarcimento”. Le Sezioni Unite hanno tuttavia precisato che questo connotato sanzionatorio non è ammissibile al di fuori dei casi nei quali una “qualche norma di legge chiaramente lo preveda, ostandovi il principio desumibile dall’art. 25 Cost., comma 2, nonchè dall’art. 7 della Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali”. Se si completa quest’avvertenza con il richiamo, altrettanto pertinente, all’art. 23 Cost., si può comprendere perchè mai, perfino nello stesso ambito temporale, ritornino (l’esempio più significativo: SU n. 15350/15) dinieghi circa la funzione sanzionatoria e di deterrenza della responsabilità civile. Essi risalgono, quando non si tratta di meri arricchimenti argomentativi, alla esigenza di smentire sollecitazioni tese ad ampliare la gamma risarcitoria in ipotesi prive di adeguata copertura normativa>> (sub § 5.1).

E’ vero che subito dopo aggiungono: <<non possono valere tuttavia a sopprimere quanto è emerso dalla traiettoria che l’istituto della responsabilità civile ha percorso in questi decenni. In sintesi estrema può dirsi che accanto alla preponderante e primaria funzione compensativo riparatoria dell’istituto (che immancabilmente lambisce la deterrenza) è emersa una natura polifunzionale (un autore ha contato più di una decina di funzioni), che si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali sono quella preventiva (o deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva. 5.2) Indispensabile riscontro di questa descrizione è il panorama normativo che si è venuto componendo. Esso da un lato denota l’urgenza che avverte il legislatore di ricorrere all’armamentario della responsabilità civile per dare risposta a bisogni emergenti, dall’altro dimostra, con la sua vivacità, quanto sia inappagante un insegnamento che voglia espungere dal sistema, confinandole in uno spazio indeterminato e asfittico, figure non riducibili alla “categoria”>>  (segue elenco di ipotesi legislative in cui la r.c. assume funzione deterrente-sanzionatoria).

Però poi segue una importante precisazione, spesso dimenticata: <<Ciò non significa che l’istituto aquiliano abbia mutato la sua essenza e che questa curvatura deterrente/sanzionatoria consenta ai giudici italiani che pronunciano in materia di danno extracontrattuale, ma anche contrattuale, di imprimere soggettive accentuazioni ai risarcimenti che vengono liquidati. Ogni imposizione di prestazione personale esige una “intermediazione legislativa”, in forza del principio di cui all’art. 23 Cost., (correlato agli artt. 24 e 25), che pone una riserva di legge quanto a nuove prestazioni patrimoniali e preclude un incontrollato soggettivismo giudiziario.>>

La sentenza delle Sez. Un. era stata data in un processo per riconoscimento di sentenza statunitense (Florida) di condanna ai danni punitivi (€ 1.436.136,87); e di  altre pronncie per rifusione di spese e costi), per  cui il principio di diritto enunciato è stato il seguente: <<Nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poichè sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile. Non è quindi ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell’ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell’atto straniero e alla loro compatibilità con l’ordine pubblico.>>).

Falcone, Borsellino e la protezione giuridica della fotografia

La fotografia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sorridenti è una delle più note tra quelle che li riguardano: fu scattata dal fotografo palermitano Antonio Gentile nel 1992 (due mesi prima della morte del primo).

La foto è presente in numerosi siti internet; ad es qui in ilfotografo.it.

Il fotografo nel 2017 citò la RAI in giudizio in risarcimento danni, lamentando l’illecita riproduzione della stessa, come si legge in sentenza:  <<a dire dell’attore la fotografia era stata mandata in onda più volte e pubblicata da  RAI sul propriosito  web,  a  corredo  di  una  campagna  di  sensibilizzazione  denominata “La ricerca della Legalità”, senza che all’autore venissero corri-sposti i diritti, che quantificava in oltre un milione di euro. L’attore  chiedeva anche  il  risarcimento  dei  danni  non  patrimoniali  per  euro 300.000 e la pubblicazione della sentenza>> (p. 4).

Il Trib. Roma però, con sentenza 12.09.2019 n° 14758 RG n. 75066/2017, ha escluso la creatività sufficiente per ravvisare opera dell’ingegno.

Secondo il giudice infatti <<La  fotografia  (….)  non  si  caratterizza  (…)  per  una  particolare  creatività, non  sembra  vi  sia  stata  da  parte  dell’autore  della  fotografia  una  particolare scelta di posta, di luci, di inquadramento, di sfondo. Si tratta invero di una testimonianza, a mo’ di cronaca, di una situazione di fatto, il momento di sorri-so e di rilassamento di due colleghi magistratidurante un congresso. Ciò  che  rende  particolare  questa  fotografia è  l’eccezionalità  del  soggetto:  si tratta di due magistrati eroi e martiri della lotta della Repubblica contro il fenomeno  mafioso  ed  il  loro  atteggiamento  sorridente,  l’immagine  della  loro amicizia, la stima reciproca che emerge da questa foto sono altamente simbo-lici  di  un  periodo  repubblicano  nel  quale,a  duro  prezzo,finalmente  questo Stato preseconsapevolezza della grandezza del fenomeno mafioso e lo seppe e vollecombattere, mediante queste persone ed a prezzo del loro personale sacrificio, con forza, decisione e per mezzo della loro integritàpersonale. La bellezza nella foto quindi è tanto più grande quanto, a posteriori, si riconosca e si ricordi la storia dei soggetti che lì sono effigiati. Dubita  questo  collegio  che  tutte  queste  considerazioni  fossero  nell’animo  ovvero nell’intenzione  del  fotografo a  priori,  cioè mentre  riprendeva  la  scena amicale rappresentata nella fotografia; né d’altronde, presumibilmente, questa fotografia avrebbe assunto il valore simbolico odierno se i soggetti ivi rappresentati non fossero tragicamente morti per mano mafiosa. Si tratta quindi sicuramente di una bella fotografia, simbolica, toccante ma che non può configurarsi quale opera d’arte>>.

L’opera dell’ingegno fotografica, infatti, <<presuppone (…) una lunga accurata sceltada parte del fotografo del luogo, del soggetto, dei colori, dell’angolazione, dell’illuminazionee si concretizza in uno scatto unico, irripetibile nel quale l’autore sintetizza la sua visione del soggetto. Il fotografo deve quindi avere in mente un obiettivo pittorico e creativo di valore artistico ed innovativo che tende a realizzare in una rappresentazione che non è grafico-pittorica bensì fotografica. In  sostanza  i  presupposti  per  riconoscere  ad  una  fotografia  valore  di  opera d’arte sono i medesimi chedevono essere ascritti  ad un quadro. La fotografia deve essere l’espressione di un progetto artistico, di uno stile, di un momento creativo>>

Si tratta dunque di fotografia semplice ex art. 87 l. a.

Solo che nemmeno questa tutela è stata riconosciuta, essendo già decorso il termine ventannale di durata del diritto (art. 92 l.a.).

Copyright e intelligenza artificiale (AI): novità da AIPPI (e da WIPO)

E’ stata diffusa la notizia che AIPPI (Association Internationale pour la Protection de la Propriété Intellectuelle) ha concluso l’indagine sulla proteggibilità dei lavori creati con l’AI pubblicando la Risoluzione adottata al congresso di Londra del 18 settembre 2019, Copyright in artificially generated works.

L’ Encyclopaedia Britannica (richiamata nella Risoluzione) dà questa definizione introduttiva nella sua voce omonima:

<<Artificial Intelligence (AI) , the ability of a digital computer or computer-controlled robot to perform tasks commonly associated with intelligent beings. The term is frequently applied to the project of developing systems endowed with the intellectual processes characteristic of humans, such as the ability to reason, discover meaning, generalize, or learn from past experience. Since the development of the digital computer in the 1940s, it has been demonstrated that computers can be programmed to carry out very complex tasks—as, for example, discovering proofs for mathematical theorems or playing chess—with great proficiency. Still, despite continuing advances in computer processing speed and memory capacity, there are as yet no programs that can match human flexibility over wider domains or in tasks requiring much everyday knowledge. On the other hand, some programs have attained the performance levels of human experts and professionals in performing certain specific tasks, so that artificial intelligence in this limited sense is found in applications as diverse as medical diagnosis, computer search engines, and voice or handwriting recognition.>>

E’ interessante e chiaro il documento prepatorio Study Guidelines. Nelle pagine dedicate si possono consultare anche i vari report nazionali e quello riassuntivo (Summary Report).

Dei cinque casi (Working Example) prospettati per dare concretezza (ottima idea metodologica) al ragionamento, la Risoluzione afferma la proteggibilità solo per il case 2.a) e cioè:

<< Step 2: Data is selected to be input to the one or more AI entities. The data may be prior works such as artwork, music or literature. The data also may be inputs from sensors or video cameras or input from other sources, such as the internet, based on certain selection criteria.
[Case 2a]. The data or data selection criteria are selected by a human.
[Case 2b]. The data or data selection criteria are not selected by a human. >>

E’ invece negata la proteggibilità quando l’azione  umana consiste (solo) nella scelta degli obiettivi:

<< Step 1: One or more AI entities are created that are able to receive inputs from the environment, interpret and learn from such inputs, and exhibit related and flexible behaviours and actions that help the entity achieve a particular goal or objective over a period of time1. The particular goal or objective to be achieved is selected by a human and, for purposes of this Study Question, involves generation of works of a type that would normally be afforded copyright protection >>.

In sintesi, i risultati ottenuti senza intevento umano non son proteggibili come opera dell’ingegno, ma potrebbe esserlo come diritti connessi.

Quest’ultima affermazione andrà precisata, dato che per certi di questi si pongono esigenze simili al diritto di autore: per artisti interpreti esecutori.  Se una macchina di AI esegue una partitura musicale, può essere tutelata anche l’esecuzione frutto solo di AI? Ci sono esigenze di policy così diverse da quelle che negano la protezione maggiore come opera dell’ingegno?

Per rispondere in maniera non troppo approssimativa bisognerebbe capire meglio il lato tecnico e cioè dove può situarsi e come può caratterizzarsi l’intervento umano in sede di progettazione e funzionamento della macchina.

C’è poi da capire come si possa verificare che vi sia stata reale attività umana e che sia consistita proprio in quella dichiarata (seppur a posteriori,  in caso di lite, dato che il diritto sorge senza formalità costitutive)

Inoltre W.I.P.O. il 13.12.2019 ha lanciato un Call for Comments ad una bozza di temi relativi all’impatto di AI sulla proprietà intellettuale . Riporto la parte sul copyright che correttamente imposta la questione (§ 12): <<The policy positions adopted in relation to the attribution of copyright to AI-generated works will go to the heart of the social purpose for which the copyright system exists. [1] If AI-generated works were excluded from eligibility for copyright protection, the copyright system would be seen as an instrument for encouraging and favoring the dignity of human creativity over machine creativity. [2] If copyright protection were accorded to AI-generated works, the copyright system would tend to be seen as an instrument favoring the availability for the consumer of the largest number of creative works and of placing an equal value on human and machine creativity>> (grassetti e numeri 1 e 2 in rosso da me aggiunti)

Nel frattempo la Cina taglia corto e riconosce il diritto di autore ai lavori prodotti dall’A.I.: v. la notizia 10.01.2020 in Venturebeat su una sentenza del tribunale di Shenzen.

Una a sintesi dei principali problemi, posti dalla protezione IP (brevetti e diritto di autore) delle creazioni ottenute tramite intelligenza artificiale, è stata redatta da Iglesias-Shamuilia-Andereberg, Intellectual Property and Artificial Intelligence – A literature review, 2019,  per conto della Commissione Europea. Qui trovi bibliografia in tema e l’indicazione  di protezioni tramite diritto di autore (nonchè di due tramite brevetto) (v. tabella a p. 12-13).

Locazioni commerciali e recesso per “gravi motivi” (art. 27 u.c. L. 392/1978)

La Corte di Cassazione effettua alcune utili precisazioni sul tema in oggetto (Cass., III, 24.09.2019 n. 23.639).

  1. la disdetta scritta deve indicare il grave motivo alla base del recesso, anche se non deve spiegare le ragioni giuridico-economiche sottostanti, nè tanto meno darne prova. Tale indicazione nella disdetta inerisce al  perfezionamento dell’atto di recesso e non può intervenire in un secondo momento [dunque va ivi inserita a pena di nullità del recesso]:  <<ai fini del valido ed efficace esercizio del diritto potestativo di recesso del conduttore, a norma della L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 27 è sufficiente che egli manifesti al locatore, con lettera raccomandata o altra modalità equipollente, il grave motivo per cui intende recedere dal contratto di locazione, senza avere anche l’onere di spiegare le ragioni di fatto, di diritto o economiche su cui tale motivo è fondato, nè di darne la prova, perchè queste attività devono esser svolte in caso di contestazione da parte del locatore. Trattandosi di recesso titolato, la comunicazione del conduttore non può, tuttavia, prescindere dalla specificazione dei motivi, con la conseguenza che tale requisito inerisce al perfezionamento della stessa dichiarazione di recesso e, al contempo, risponde alla finalità di consentire al locatore la precisa e tempestiva contestazione dei relativi motivi sul piano fattuale o della loro idoneità a legittimare il recesso medesimo (Sez. 3, Sentenza n. 549 del 17/01/2012, Rv. 620955 – 01), dovendo conseguentemente escludersi che il conduttore possa esplicitare successivamente le ragioni della determinazione assunta (Sez. 3, Sentenza n. 13368 del 30/06/2015, Rv. 635800 – 01)>> (§ 8).
  2. il grave motivo può essere di natura economica, anche se almeno tale da rendere assai gravosa la prosecuzione del rapporto: le ragioni del recesso devono essere state  <<determinate da avvenimenti sopravvenuti alla costituzione del rapporto, estranei alla volontà del conduttore e imprevedibili, tali da rendere oltremodo gravosa per quest’ultimo la sua prosecuzione (Sez. 3, Sentenza n. 12291 del 30/05/2014 (Rv. 631034 – 01). La gravosità della prosecuzione, che deve avere una connotazione oggettiva, non può risolversi nell’unilaterale valutazione effettuata dal conduttore in ordine alla convenienza o meno di continuare il rapporto locativo, e dev’essere, non solo tale da eccedere l’ambito della normale alea contrattuale, ma anche consistere in un sopravvenuto squilibrio tra le prestazioni originarie, tale da incidere significativamente sull’andamento dell’azienda globalmente considerata e, quindi, se di rilievo nazionale o multinazionale, anche nel complesso delle sue varie articolazioni territoriali (Sez. 3, Sentenza n. 26711 del 13/12/2011, Rv. 620662 – 01).>> (§ 9)
  3. nel caso di più rami di azienda utilizzanti più immobili, <<i gravi motivi, giustificativi del recesso anticipato di cui all’art. 27 cit., debbano essere accertati in relazione all’attività svolta nei locali per cui viene effettuato il recesso, senza possibilità per il locatore di negare rilevanza alle difficoltà riscontrate per tale attività in considerazione dei risultati positivi registrati in altri rami aziendali (Sez. 3, Sentenza n. 14365 del 14/07/2016, Rv. 640522 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 7217 del 27/03/2014, Rv. 630201 – 01).>>

Appalto, subappalto e responsabilità solidale del committente per omissioni contributive relative ai dipendenti del subappaltatore

Secondo l’art. 29 del d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276, <<in  caso di appalto di opere o di servizi il committente imprenditore o datore di lavoro e’ obbligato in solido con l’appaltatore, nonche’ con ciascuno degli eventuali ulteriori subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti>> (testo vigente all’epoca dei fatti)

La sezione lavoro dela Cassazione con sentenza 25.10.2019 n. 27.382, ha precisato che:

1) <<la norma si traduce in un’obbligazione di garanzia prevista dalla legge, incentrata sulla previsione di un vincolo di solidarietà tra committente ed appaltatore, secondo un modulo legislativo che intende rafforzare l’adempimento delle obbligazioni retributive e previdenziali, ponendo a carico dell’imprenditore che impiega lavoratori dipendenti da altro imprenditore il rischio economico di dover rispondere in prima persona delle eventuali omissioni di tale imprenditore>>.

2) La ratio è <<intesa ad incentivare un utilizzo più virtuoso dei contratti di appalto, inducendo il committente a selezionare imprenditori più affidabili per evitare che i meccanismi di decentramento e di dissociazione tra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione vadano a danno del lavoratore (Cass. n. 31768 del 07/12/2018).>>.

3) <<L’obbligazione contributiva, derivante dalla legge e che fa capo all’INPS, è dunque distinta ed autonoma rispetto a quella retributiva ( Cass n 8662 del 2019, Cass. n. 13650 del 2019) e soprattutto se ne deve sottolineare la sua natura indisponibile nonché la sua commisurazione alla retribuzione che al lavoratore spetterebbe sulla base della contrattazione collettiva vigente (cd. “minimale contributivo>>.

Su questa base la Corte ha concluso che la responsabilità solidale del committente, per i contributi  dovuti da parte delle imprese subappaltatrici, opera anche se nel contratto di appalto era stata vietato il subappalto

l’atto esecutivo (divisionale/apporzionativo) di trust costituisce atto tra vivi e non mortis causa

La Corte di Casszione in sede di regolamento di giurisdizione insegna che l’atto apporzionativo di trust tra trustee e beneficiari è atto inter vivos, non mortis causa (Cass. sez. un., 18.831 del 12 luglio 2019, rel. Giusti)

Nel caso specifico tale atto fu stipulato nella forma di  Deed of agreement, indemnity, release and covenant not to sue tra il trustee e le due figlie del settlor, che erano state nominate beneficiaries in sede istitutiva (anche se in via successiva rispetto al primo beneficario, che era lo stesso disponente) . La legge del trust era neozelandese.

dopo la firma di detto deed, una delle due sorelle citò l’altra in giudizio cheidendo l’annullamneot per dolo ex art. 761 c.c. e ub subordine la rescisione pe lesione ultrea dimidiume ex art. 763.

Venne eccepita la mancanza di giursdizione italiana per clausola di arbitrato estero (svizzero) e proposto dalla concvenuta ricroso per giurisdizione.

Secondo l’attrice (controricorrente in Cassazione) si trattava di materia ereditaria e non di invalidazione del Deed, così sfuggendo [parrebbe] all’ambuto applictivo della clausola arbitrale_: <<ad avviso della controricorrente, la materia del contendere verte (…) non sulla caducazione del Deed, ma sull’attuazione della divisione della massa ereditaria secondo il criterio dell’eguale beneficio dettato dal de cuius P.S., cittadino italiano, deceduto a (OMISSIS). Le singole attribuzioni dei cespiti ereditari non infirmerebbero la natura successoria della controversia di scioglimento della comunione tra coeredi: la clausola per arbitrato estero (..) inerente all’attribuzione di un singolo cespite che compone l’asse ereditario, non osterebbe alla giurisdizione italiana in materia successoria, quale sancita dalla L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 50. Difatti il Deed avrebbe assolto la sola funzione di attribuire un cespite dell’asse da dividere, nel quadro e nel contesto del complessivo scioglimento della comunione ereditaria ancora in corso sotto le cure dell’esecutore testamentario M.C.; la lesione subita da P.E. attraverso il Deed ben potrebbe e dovrebbe essere conosciuta incidenter tantum in funzione del complesso oggetto successorio e divisionale della controversia di cui il Deed costituirebbe soltanto una singola parte; e sussisterebbe controversia divisionale ereditaria anche quando, come nella specie, ferme le quote testamentarie fissate dal de cuius, si controverta sui valori dei beni rispettivamente attribuiti, qui manifestamente distanti rispetto alla volontà del testatore di ripartire il suo patrimonio tra le due figlie in eguale misura>>. (§ 4 Fatti di causa).

Il punto non è chiaro, poichè la difesa svolta dalla controricorrente pare confondere due piani che invece sono distinti: i) se la materia sia o meno ereditaria per decidere quale sia la norma regolatrice la giurisdizione (art. 3 o art. 50 L. 218/1995); ii) se le domande proposte rientrino o meno nella sfera aplicativa della clausola arbitrale (a prescindere dal fatto che, in caso negativo, la questione sia o meno successoria a fini giurisdizionali).

la SC così imposta la qyuestione: << si tratta di stabilire, innanzitutto, se vi siano criteri di collegamento che consentano di ricondurre alla giurisdizione dello Stato italiano la controversia riguardante l’apporzionamento tra i beneficiari del bene conferito in trust e, in particolare, se la detta controversia sia suscettibile di essere ricompresa tra quelle concernenti la divisione ereditaria, per le quali la giurisdizione del giudice italiano è regolata dalla L. n. 218 del 1995, art. 50.>> (§ 2 Reg. della decis.).

Forse però la SC avrebbe anche dovuto porsi a monte la questione della devolvibilità in arbitrato delle liti sucessorie, che è il prius logico. Se la risposta fosse positiva, infatti, domandarsi se fosse o meno materia successoria a fini giusridionali non servirebbe a nulla: qualunque fosse la risposta, opererebbe sempre la clausola arbitrale (se la domanda vi rientrasse ratione materiae).

La risposta è stata nel senso che non si tratta di materia ereditaria, dato che il trasferimento, contenuto nel deed, tra trustee e beneficiarie, in esecuzione dell’atto istitutivo, è atto tra vivi , come tra vivi era l’atto istitutivo di cui il deed  è l’attuaizone. Nè l’uno nè l’altro corrono dunque il rischio di essere interpretati come patto successorio (nelle due fasi obbligatoria ed esecutiva) ex art. 458 cc

infatti <<deve tuttavia escludersi che il consenso espresso dalle beneficiarie all’apporzionamento tra le stesse, ad opera del trustee, dei beni conferiti in vita dal disponente P.S. nel Pale Trust (il Gruppo P.), integri un atto avente ad oggetto un bene caduto in successione ereditaria. Invero, sotto quest’ultimo profilo, va rilevato – in conformità delle conclusioni alle quali è pervenuto il pubblico ministero con la requisitoria depositata il 13 maggio 2019 – che con il Pale Trust non si è realizzata una devoluzione mortis causa di sostanze del disponente P.S..>> (§ 5.1 Rag. della dec.)

Del resto <<tali beni non sono caduti in successione perchè essi si trovavano, al tempo dell’apertura della stessa, già fuori del patrimonio del disponente, avendone costui trasferito la proprietà in via definitiva e per atto inter vivos al trustee; i beneficiari finali – le figlie E. e P. hanno acquistato i beni direttamente dal trustee e non già per successione mortis causa dal de cuius.>> (ivi)

Il Colelgio condivide il giudizio sull’atto attributivo/apporzionativo di trust come avente natura di donazione indiretta : <<Va quindi esclusa la natura mortis causa del trasferimento dal trustee ai beneficiari finali, che costituisce il secondo segmento dell’operazione, perchè – come è stato rilevato – tale atto traslativo ha investito ormai sfere giuridiche diverse da quelle dell’originario disponente: rispetto a tale trasferimento, la morte del settlor non ha alcuna rilevanza causale, potendo al più individuare il momento di esecuzione dell’attribuzione finale>>.

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