Sull’azione di risarcimento del danno (extracontrattuale) del creditore sociale verso i revisori legali della società fallita

Il Tribunale di Roma  con sentenza 26.09.2018, relativa al fallimento Deiulemar, tra le altre cose afferma che:

i) <<Rientra nella competenza della sezione specializzata del tribunale delle imprese la controversia nella quale si agisce in responsabilità contro la società di revisione incaricata della certificazione del bilancio di una s.p.a.>>: soluzione piana, visto il tenore dell’art. 3 co. 2 lett. a) del d. lgs. 168/2003.

2)<<I singoli creditori di società per azioni fallita sono legittimati ad agire nei confronti della società di revisione incaricata della certificazione del bilancio della società e della Consob per il risarcimento del danno ad essi direttamente causato da omessa vigilanza>> : cioè non rientra nelle azioni c.d. di massa, per le quali è legittimato il Curatore. Anche questa regola è tutto sommato sicura, alla luce dell’art. 15 , d. lgs. 39/2010 sulla revisione legale (probabilmente ricavabile pure dal previgente art. 2409 sexies c.c.)

Gli odierni attori lamentavano <<il danno subìto per aver riposto fiducia nelle certificazioni dei revisori che li hanno spinti a sottoscrivere delle obbligazioni ritenute sicure e a non dismettere i titoli, cosi ledendo la loro libertà negoziale, confidando gli stessi nel pagamento degli interessi e nella restituzione del capitale versato sulla base della falsa percezione della solidità della società oggetto di revisione>> (c. 4090, sub § 4)

(massime tratte da Il Foro Italiano, 2018/12, I, 4085 ss)

Responsabilità civile per danno alla reputazione tramite testata giornalistica (cartacea e on line)

È stata pubblicata la sentenza del Tribunale di Firenze 22 ottobre 2018 nella causa civile per danno alla reputazione tra Tiziano Renzi, padre dell’ex capo del governo, e il quotidiano Il Fatto Quotidiano (in Il Foro It., 2018/12, c. 4069 ss).

Il signor Tiziano Renzi ha censurato sei articoli de Il Fatto Quotidiano , due dei quali tratti dalla testata online. Il Tribunale ha accolto la domanda per alcuni articoli e non per altri. Qui segnalo i seguenti aspetti, non registrandosi particolari novità circa il (consueto) bilanciamento tra diritto di cronaca e diritto alla reputazione (la peculiarità concerne semmai l’interesse pubblico per i fatti di causa, stante la strettissima partentela dell’attore con una figura politicamente assai rilevante).

1°  Sul riparto interno della responsabilità ex art. 2055 c.c. (comma 2, probabilmente, e cioè ai fini del regresso tra corresponsabili: il che significa che è stato proposta apposita domanda) tra autore dell’articolo e direttore del quotidiano, da una parte, ed editore, dall’altra, quest’ultimo responsabile ex art. 11 legge sulla stampa n° 47 del 1948 (secondo cui <<Responsabilità civile – Per i reati commessi col mezzo della stampa sono civilmente responsabili, in solido con gli autori del reato e fra di loro, il proprietario della pubblicazione e l’editore>>)  – Il  riparto è stato accertato rispettivamente nella misura del 70%-30% e cioè 30% a carico dell’editore e 70% a carico di autore e direttore (articoli di giornale 2 e 6, secondo la numerazione data dal giudice). Autore e direttore, si badi, coincidevano.

Non è però spiegato come si è giunti a quantificare così il riparto.

Incongruenza nella motivazione relativa ad uno dei due articoli usciti nell’edizione online (articolo di giornale 5, secondo la numerazione in sentenza) –  Il giudice prima afferma la responsabilità della giornalista Scacciavillani e dell’editore (sempre ex art. 11 L. 47/’48; mentre non sarebbe responsabile il direttore, in quanto testata on line: v. punto seg.), ma poi prosegue così: <<Ai fini della ripartizione interna della responsabilità, quella dell’autore e direttore responsabile Marco Travaglio deve essere indicata nella misura del cinquanta per cento ciascuno>>.  Il riparto è poco comprensibile, visto che concerne autore e direttore responsabile, mentre appena prima afferma la responsabilità ex art. 2055 c.c. di giornalista ed editore. E’ poco comprensibile anche perché il direttore della testata online, semmai, pare essere Peter Gomez, non Marco Travaglio. Oscurità che indurrebbe all’appello sul punto.

Sulla irresponsabilità del direttore della testata on line (v. punto precedente)  – Si legge in sentenza che <<infatti non viene in rilievo la responsabilità del direttore per il reato di omesso controllo ex art. 57 c.p., giacchè l’attività on line non è riconducibile nel concetto di stampa periodica ex articolo 1 L. 8 febbraio 1948 n. 47>>. La motivazione non è limpida, poichè:

i) non è chiaro se l’articolo de quo manchi del requisito della “periodicità”, fermo restando che di stampa si tratta, oppure se non sia nemmeno qualificabile come “stampa” (alla luce del cit. art. 1, secondo cui <<Definizione di stampa o stampato – Sono considerate stampe o stampati, ai fini di questa legge, tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione>>);

ii) qualora si ritenga che manchi addirittura il requisito di “stampa”, è vero che le norme penali non possono essere applicate a casi non previsti tramite analogia. Tuttavia bisogna appurare se la stampa digitale sfugga all’art. 57 c.p. pure in base ad un’interpretazione estensiva, dai più invece ammessa. Quest’ultima via è per vero difficilmente percorribile, come in tutti i casi di  novità tecnologica non prevista dal legislatore dell’epoca: sarebbe stata in ogni caso necessaria una motivazione sul punto. Ciò tanto più se si ricorda che proprio la via dell’interpretazione estensiva è stata battuta da recente giurisprudenza penale: – con estensione in bonam partem, v. Cass. sez. un., ud.  29.01.2015, dep. 17.07.2015, n. 31022 sulla guarentigia ex art. 21 Cost. in tema di sequestrabilità preventiva di un sito web (§§ 17-22, commentata in varie riviste); – con estensione in malam partem (sta qui il puntum dolens, ovviamente), v. Cass. sez. V pen., ud., 11-12-2017, dep. 22-03-2018, n. 13398,  sull’applicabilità dell’art. 57 c. pen. al direttore di testata telematica registrata (§ 4, ad es. in Il foro it., 2018, II, 305 ss., ed annotata da S. Vimercati, Il revirement della Cassazione: la responsabilità per omesso controllo si applica al direttore della testata telematica, in www.medialaws.eu); – sempre con estensione in malam parte dell’art. 57 c. pen., v. Cass. sez. V penale, ud., 23/10/2018, dep. (pare) 11.01.2019, n. 1275 (§ 9.2, criticamente annotata da L. Amerio in medialaws.eu, § 7).

Per non dire della possibilità di valorizzare il differente trattamento tra due iniziative editoriali uguali sotto il profilo funzionale (anzi, la testata on line è assai più lesiva di quella cartaca, quanto a platea raggiungibile): con un problema di incostituzionalità non  modesto. Il giudice delle leggi però ha già respinto questa idea. Si veda Corte Cost. 16/12/2011, n.337 : <<È manifestamente inammissibile la q.l.c. dell’art. 11 l. 8 febbraio 1948 n. 47, censurato, in riferimento all’art. 3, comma 1, cost., nella parte in cui, escludendo dalla responsabilità civile ivi prevista il proprietario ed editore del sito web, sul quale vengono diffusi giornali telematici, accorderebbe una tutela ingiustificatamente più ampia alle persone offese da reati commessi col mezzo della carta stampata, rispetto a quelle che il medesimo reato abbiano subito col mezzo di un giornale telematico. L’eventuale accoglimento della questione, infatti, non potrebbe condurre ad una pronuncia di condanna al risarcimento del danno del presunto responsabile civile, perché una sentenza della Corte costituzionale non può avere l’effetto di rendere antigiuridico un comportamento che tale non era nel momento in cui è stato posto in essere (sent. n. 202 del 1991; ord. n. 71 del 2009).>> (massima da De Jure e ivi nota critica di A. Pace da Giur. cost. 2011, 6, 4613).

La disparità di trattamento, però, stava al centro della motivazione nelle citate pronunce della Cassazione penale;

iii) anche rigettata ogni possibilità di applicare la norma penale, nel caso in esame si trattava di responsabilità civile. Dunque si poteva considerare l’ipotesi di responsabilità del direttore di testata on line per estensione delle norme citate (artt. 11 L. 47/48-art. 57 c.p.) bensì analogica ma ai soli fini civili (sempre che non si ravvisi nell’art. 11 una norma eccezionale).

iv) l’equiparazione di stampa telematica a quella cartecea, in ogni caso , varrebbe solo per la testata telematica funzionalmente equiparabile a quella tradizionale cartacea: il che non è per i  blog (Cass. pen., sez. 5,  ud. 08/11/2018, dep. 20/03/2019, n. 12546, sub 3.2, richiamando appunto Cass. pen. sez. un. 31022 del 2015, cit.)

 

Decadenza dal marchio farmaceutico per non uso e suo utilizzo nelle sperimentazioni cliniche (per l’autorizzazione alla immissione in commercio)

Secondo gli articolo 15 co. 1-58 co.1 lett. a) reg. 207/2009 (poi artt.18 co.1-58 co.1 lett. a reg. 2017/1001), il mancato <<uso effettivo>> del marchio per cinque anni comporta la decadenza dal diritto, “salvo motivo legittimo per il mancato uso” (o, nel reg. 2017/1001, “se non vi sono ragioni legittime per la mancata utilizzazione”).

Ebbene, le domande arrivate alla giustizia UE nella causa C‑668/17 P, Viridis Pharmaceutical Ltd c. EUIPO, sono le seguenti:

1°) L’uso di un marchio per prodotti farmaceutici, limitato alla fase delle sperimentazioni cliniche (clinical trials) per ottenere l’autorizzazione alla immissione in commercio (AIC),  vale “uso effettivo” ai sensi della predetta normativa?

2° ) [In subordine,] può dirsi che il divieto di commercializzazione, prima dell’ottenimento dell’AIC, costituisca “motivo legittimo” del mancato uso?

Ad entrambe le domande hanno risposto negativamente sia l’EUIPO che il Tribunale UE. Ora il soccombente ricorre alla Corte di Giustizia.

Pure l’avvocato generale Szpunar , però, risponde negativamente: v. le sue Conclusioni del 09.01.2019.

Aspettiamo ora la decisione della Corte

Testamento e disposizione mortis causa a contenuto non patrimoniale (riconoscimento di figlio naturale) : l’atto “veicolo” della disposizione deve avere forma e solennità tipiche del testamento, altrimenti la disposizione non produce effetto.

Istruttivo caso deciso da Cassazione 02.02.2016 n. 1993.

Il de cuius aveva rilasciato una dichiarazione scritta 26.12.1984 del seguente tenore: “Rocca di Caprileone 26.12.1984. N.G., nata a (OMISSIS), è mia figlia a tutti gli effetti”. Egli successivamente nominava però erede universale un terzo, la sig.ra MW.

Apertasi la successione in data 20.01.1998 , veniva stipulato tra le sig.re NG e MW un accordo di suddivisione del patrimonio ereditario in data 4 agosto 1998  “al fine di non vedere pregiudicate le rispettive ragioni successorie” (id est una transazione, suppongo). In seguito la sig.ra NG -accortasi di una vendita dell’immobile ereditario da parte di MW senza il proprio  consenso- chiedeva che venisse accertato che il predetto atto del dicembre 1984 costituiva un riconoscimento di figlia naturale e che pertanto ella era  erede al 50%, con domande consequenziali. La controparte sig.ra MW eccepiva, tra l’altro, che l’atto medesimo non poteva invece essere ritenuto un testamento valido e quindi che nemmeno era valido riconoscimento di figlia naturale.

Le domande di NG vennero rigettate sia nei giudizi di merito che in quello di legittimità.

Sul punto sopra ricordato nel titolo, la Cassazione così osserva:  

<< L’art. 587 c.c., al comma 2, afferma poi che le disposizioni di carattere non patrimoniale, che la legge consente siano contenute in un testamento (quale, ad esempio, il riconoscimento ex art. 254 c.c., i cui effetti si producono alla morte del testatore: art. 256 c.c.) hanno efficacia, se contenute in un atto che abbia la forma del testamento, anche se manchino disposizioni di carattere patrimoniale.

La possibilità che il testamento esaurisca il suo contenuto in disposizioni di carattere non patrimoniale impone comunque che sia ravvisabile un “testamento in senso formale“, rivelante la funzione tipica del negozio testamentario. Tale funzione consiste nell’esercizio da parte dell’autore del proprio generale potere di disposizione mortis causa. Perchè sia individuabile un testamento in senso formale, quindi, occorre rinvenire il proprium dell’atto di ultima volontà, nel senso che l’atto esprima un’intenzione negoziale destinata a produrre i suoi effetti dopo la morte del disponente. Il testamento, infatti, rappresenta l’unico tipo negoziale con il quale taluno può disporre dei propri interessi per il tempo della sua morte. Non è esclusa, quindi, l’esistenza del testamento, qualora esso contenga soltanto disposizioni di carattere non patrimoniale, ma requisiti irrinunciabili sono la formalità e la solennità dell’atto al fine di garantire la libertà di testare, la certezza e la serietà della manifestazione di volontà del suo autore e la sicura determinazione del contenuto delle singole disposizioni. A questo scopo la legge richiede ad substantiam che il testamento, seppur a contenuto soltanto non patrimoniale, venga redatto in una delle forme espressamente stabilite (art. 601 c.c. e ss.). Affinchè la dichiarazione di riconoscimento di un figlio nato al di fuori del matrimonio possa, pertanto, intendersi inserita in un testamento, del quale pure esaurisca il contenuto, giacchè l’atto risulta sprovvisto di disposizioni di carattere patrimoniale, occorre che esso riveli la sua natura di atto mortis causa (per il tempo in cui avrà cessato di vivere), nel senso che la morte sia assunta dal dichiarante come punto di origine (ovvero, appunto, come causa) del complessivo effetto del regolamento dettato con riguardo a tale situazione rilevante giuridicamente. Se è quindi corretto assumere che l’art. 587 c.c. non postula la necessaria patrimonialità di tipo dispositivo- attributivo, ovvero il necessario riferimento ai beni del testatore, il testamento non può non consistere in un atto di regolamento mortis causa degli interessi del testatore, allorchè tali disposizioni non patrimoniali evidenziano, comunque, la fisionomica essenziale inefficacia sino al momento della morte del testatore.

Come spiegato in precedenti pronunce di questa Corte, perchè un atto possa qualificarsi come testamento (sia pure inteso come forma vincolata, autonoma dal proprio naturale contenuto attributivo, in quanto includente soltanto disposizioni di carattere non patrimoniale), pur non essendo necessario l’uso di formule sacramentali, è necessario riscontrare in modo univoco dal suo contenuto che si tratti di atto di ultima volontà, ovvero, appunto, di un negozio mortis causa, in maniera da distinguerlo, per rimanere proprio al caso del riconoscimento del figlio nato al di fuori del matrimonio, da una mera enunciazione del fatto della procreazione. La ravvisabilità dell’atto di regolamento mortis causa rappresenta un prius logico rispetto ad ogni questione sull’interpretazione della volontà testamentaria, sicchè non vi è luogo di discutere di violazione o falsa applicazione dell’art. 1362 c.c. e segg. se neppure appare oggettivamente configurabile una volontà testamentaria nelle espressioni adottate all’interno della scrittura da esaminare. Si è perciò costantemente affermato che per decidere se un documento abbia i requisiti intrinseci di un testamento olografo, occorre accertare se l’estensore abbia avuto la volontà di creare quel documento che si qualifica come testamento, nel senso che risulti con certezza che con esso si sia inteso porre in essere una disposizione di ultima volontà (Cass. 28 maggio 2012, n. 8490).

Nella specie, facendo corretta applicazione di questi principi, la Corte d’Appello di Perugia ha negato che la dichiarazione sottoscritta da D.S. in data 26 dicembre 1984, del tenore ” N.G., nata a (OMISSIS), è mia figlia a tutti gli effetti”, avesse valore di un testamento olografo ed ha perciò ritenuto inesistente il riconoscimento della filiazione. A tal fine, deve evidenziarsi come la valutazione di un atto quale disposizione testamentaria (ai sensi dell’art. 587 c.c.), ovvero, in particolare, quale testamento olografo (art. 602 c.c), costituisce apprezzamento di fatto, che si sottrae al sindacato di legittimità (Cass. 29 aprile 2006, n. 10035).

E’ d’altro canto del tutto da condividere la conclusione secondo cui la dichiarazione in esame non denoti un testamento in senso formale, in quanto non si evince da essa un’intenzione negoziale del D. volta a produrre l’effetto accertativo della filiazione dopo la sua morte, e perciò non sussiste la pretesa natura di atto mortis causa, nel quale la morte sia individuata come momento di insorgenza della regolamentazione dettata. Consegue in definitiva il rigetto del ricorso.>>

La Cassazione ricorda che il Tribunale, dopo aver negato che la dichiarazione del dicembre 1984 costituisse valido ricoscimento di figlia naturale,  aveva conseguentemente annullato l’accordo “transattivo” del 4 agosto 1998.

L’inseribilità nel testamento di disposizioni non patrimoniali è questione discussa, soprattutto in base a due variabili: – espressa previsione o meno nella legge della possibilità di  loro forma testamentaria; – presenza o meno nel testamento di ulteriori disposizioni (patrimoniali).

Sfruttamento della notorietà altrui (dopo la cessazione del rapporto contrattuale): un esempio “da manuale” (sul caso Canalis)

Il Tribunale di Milano nello scorso giugno ha deciso sulla lite promossa da Elisabetta Canalis e dal concessionario per lo sfruttamento dei suoi diritti d’immagine (tale Lidia Corp.[-oration?], società di diritto statunitense) nei confronti della società, produttrice di biancheria intima, con cui aveva stipulato un contratto di sfruttamento della propria immagine e del proprio nome (Trib. MI , sez. specializzata in materia di impresa A, 06.06.2018 , sentenza n. 6355/2018, RG 25844/2018).

La durata del rapporto era stata fissata in tredici mesi (1 marzo 2013 – 31 marzo 2014).

Secondo la sig.ra Canalis, attrice in causa, la controparte aveva continuato a sfruttare la sua notorietà anche dopo la cessazione del rapporto,  caricandone  (o mantenendo) alcune fotografie e video sul sito aziendale .

Il Tribunale ha accolto le domande della sig.ra Canalis .

Propongo alcuni passaggi interessanti del provvedimento. Il Tribunale:

  1. ha utilizzato come prova (compreso il profilo temporale, naturalmente, decisivo in causa) alcune pagine del sito della convenuta, estratte dal servizio wayback machine di archive.org (§ 1);
  2. ha inserito in sentenza (era ora che qualche giudice iniziasse a farlo) immagini tratte del sito della convenuta, ritenute pertinenti e probanti;
  3. circa la natura dell’illecito, ha affermato la violazione (p. 8):
    1. dell’art. 2043 cod. civ.;
    2. dell’art. 10 cod. civ.;
    3. degli artt. 96 e 97 l. autore;
    4. degli artt. 6, 7 e 9 cod. civ.  e dell’art. 8 co. 3 d. lgs. 30/2005 cod. propr. ind. (circa lo pseudonimo “ELI”);
  4. ha fatto assistere l’inibitoria da una penale di € 5.000,00 per ogni giorno di ritardo per rimozioni e cessazione e da una di € 50,00 per ogni prodotto immesso in comercio in violazione (p.9);
  5. sul danno patrimoniale, ha ritenuto che <<il risarcimento vada commisurato non solo all’importo che il titolare del diritto e il licenziatario avevano concordato in normali condizioni di mercato, bensì nell’importo che avrebbero concordato ad illecito già accertato, quando quindi il titolare del diritto – nello scenario ipotetico funzionale alla liquidazione equitativa – concederebbe lo sfruttamento a fronte di un diritto ormai violato: contesto in cui il prezzo è ragionevole ritenere sarebbe stato maggiore rispetto a quello determinato nelle ordinarie condizioni di mercato, perché necessario, appunto, funzionale a fra si che il titolare rilasciasse ex post il proprio consenso allo sfruttamento del diritto>> e accertato che lo sfruttamento illecito è durato per circa un anno , il Tribunale ha applicato il criterio del c.d. giusto prezzo del consenso, concretizzandolo in un importo di poco superiore a quello pattuito nel contratto (€ 120.000,00), oltre ad interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data [di inizio] dell’evento lesivo (p. 10);
  6. ha liquidato il danno non patrimoniale in € 30.000,00 : un quarto di quello patrimoniale. 

 Sarebbe interessante approfondire in linea teorica il rapporto reciproco (cioè la cumulabilità processuale) tra le azioni basate su ciascuna delle norme citate al punto 3 (soprattutto di quelle da 1 a 3 del punto 3)

Il marchio “BIG MAC” di McDonald’s è stato annullato per mancato uso quinquennale

Su istanza della irlandese Supermac’s di Galway,  titolare -sembra- di una catena di fast food dislocati per l’intera Irlanda, l’ufficio europeo EUIPO ha annullato (rectius: ha dichiarato decaduto: v. dopo; in inglese revoked) per mancato uso quinquennale il marchio denominativo << BIG MAC >> , di cui era titolare il gigante statunitense McDonald’s.

La norma applicata è stata quella di cui all’art. 58 del reg. (UE) 2017/1001 del 14 giugno 2017 sul marchio dell’Unione europea (la nostra norma nazionale corrispondente è l’art. 24 co. 1  cod. propr. ind. , d. lgs. 30 / 2005).

Il marchio era stato inizialmente registrato il 22 dicembre 1998 e l’istanza di annullamento era stata depositata l’11 aprile 2017: quindi McDonald’s avrebbe dovuto il provare l’uso effettivo (genuine, in inglese) nei 5 anni anteriori e cioè dall’ 11 aprile 2012 fino al 10 aprile 2017.

L’istanza dell’impresa irlandese ha riguiardato tutti i prodotti e servizi coperti dalla registrazione:

<< Class 29: Foods prepared from meat, pork, fish and poultry products, meat sandwiches, fish sandwiches, pork sandwiches, chicken sandwiches, preserved and cooked fruits and vegetables, eggs, cheese, milk, milk preparations, pickles, desserts.

Class 30: Edible sandwiches, meat sandwiches, pork sandwiches, fish sandwiches, chicken sandwiches, biscuits, bread, cakes, cookies, chocolate, coffee, coffee substitutes, tea, mustard, oatmeal, pastries, sauces, seasonings, sugar.

Class 42: Services rendered or associated with operating and franchising restaurants and other establishments or facilities engaged in providing food and drink prepared for consumption and for drive- through facilities; preparation of carry-out foods; the designing of such restaurants, establishments and facilities for others; construction planning and construction consulting for restaurants for others.>>

La parte più interessante della decisione è quella inerente la qualità del materiale istruttorio offerto da McDonald’s: è opportuno che imprese e  loro  consulenti la tengano ben presente.

A dispetto della grandissima notorietà del segno distintivo, l’Ufficio (Cancellation Division) ha ritenuto il materiale probatorio/documentale insufficiente a provare l’uso effettivo in quanto o di provenienza interna a McDonald’s, e quindi poco persuasivo, oppure non comprovante l’uso effettivo in termini di dimensioni dell’uso stesso (quante vendite, a chi, dove …). 

Altro aspetto interessante è stato il cenno alla presenza su Wikipedia. Le  voci ivi presenti non sono state considerata fonte affidabile di informazione, poiché, potendo essere corrette dagli utenti di Wikipedia,  vanno considerate rilevanti solo se sostenute da altre prove indipendenti .

La decadenza ha effetto a partire dalla data dell’istanza e cioè dal 11 aprile 2017 e concerne il marchio per intero (in its entirety).

Il provvedimento di decadenza, titolato Cancellation No 14 788 C, è stato emesso dalla Sezione di Annullamento (Cancellation Division) in data 11.01.2019  e riguarda il marchio n° 62638; è leggibile quiqui oppure può essere cercato nel database dei cases dell’EUIPO, che porta alla seguente scheda.

McDonalds ha ora due mesi di tempo per ricorrere, ai sensi dell’art. 68 del reg. medesimo (sempre in via amministrativa) , per poi eventualmente adire il Tribunale della Corte di Giustizia UE (art. 72)

Infine, può essere di interesse vedere, da un lato, quanti marchi esistono contenenti  le parole Big Mac (o solo Mac, che non è detto abbia il medesimo valore distintivo) e, dall’altro, di quanti ne sia titolare McDonald’s: basta una ricerca in altro data base dell’EUIPO.  

Questioni di governance nelle società quotate: clausola simul stabunt simul cadent, abusività delle dimissioni dei consiglieri e impugnabilità delle delibere del collegio sindacale

I media hanno dato risalto ad un provvedimento cautelare del 24 aprile 2018 del tribunale di Milano concernente il contenzioso  all’interno della governance di Tim spa (cioè soprattutto tra il socio Vivendi e il socio Elliott).

E’ accaduto che -dopo una  convocazione dell’assemblea sociale per il 24 Aprile 2018- alcuni soci avessero formulato una richiesta di integrazione dell’ordine del giorno (ex art. 126 bis t.u.f.), avente ad oggetto la revoca di sei amministratori e la loro sostituzione.  Alla luce di questa istanza, detti sei amministratori più un altro (tutti di nomina Vivendi) si dimettevano “con decorrenza dal 24 aprile 2018” (non è chiara la data di invio e di ricezione dell’atto unilaterale di rinuncia), mentre un ottavo ed ultimo amminstratore (sempre di nomina Vivendi) si dimetteva con decorrenza immediata e cioè dalla chiusura dei lavori di quella di riunione consiliare.

Ciò secondo il CDA faceva scattare l’operatività della clausola statutaria simul stabunt simul cadent, dato che le dimissioni avevano riguardato la maggioranza degli amministratori (otto su quindici). Pertanto il CDA, con delibera 22 marzo 2018, si asteneva dall’integrare l’agenda dei lavori assembleari del seguente 24 aprile, ritenendo “superata” la richiesta in tal senso del socio Elliott, e convocava una separata assemblea per il rinnovo totale del CDA da tenersi il successivo 4 maggio.

La clausola statutaria predetta così recita: “Ogni qualvolta la maggioranza dei componenti del CDA venga meno per qualsiasi causa o ragione, i restanti Consiglieri si intendono dimissionari e la loro cessazione ha effetto dal momento in cui il CDA è stato ricostituito per nomina assembleare

Il socio, che aveva chiesto l’integrazione dell’ordine del giorno (Elliott), non si dava per vinto e indirizzava la richiesta di integrazione al collegio sindacale (ex art. 126 bis comma 5 t.u.f., verosimilmente) , affermando l’inapplicabilità’ della clausola simul stabunt simul cadent per la <<abusività manifesta>> delle dimissioni dei consiglieri,  “in quanto volte ad impedire agli azionisti di Tim Spa il voto sulle proposte di Elliot”.

Il collegio sindacale accoglieva l’istanza e provvedeva ad integrare  l’ordine del giorno come richiesto dal socio Elliot (presumibilmente ravvisando i propri poteri sempre nel comma 5 del predetto art. 126 bis tuf , che implicitamente ma sicuramente li prevede).

A sua volta però nemmeno il CDA si dava per vinto e deliberava a maggioranza di dissociarsi dalla decisione del collegio sindacale e di intraprendere azioni legali, impugnando proprio la delibera del collegio sindacale. L’impugnazione era proposta sia dal consiglio di amministrazione che da alcuni amministratori in proprio che, infine, dal socio Vivendi

I profili di maggior rilievo riguardanti il provvedimento sono i seguenti:

1) Sulla non operatività della clausola simul stabunt simul cadent per abusività delle dimissioni – Il tribunale pare ammettere la possibilità teorica di ravvisare abusività nelle dimissioni, anche se non la ravvisa nel caso specifico. Afferma infatti che <<non  paiono ravvisabili i presupposti per configurare quale abusiva la condotta in discussione vale a dire … l’insussistenza dell’interesse per il quale è riconosciuto il diritto e il perseguimento di interessi diversi lesivi di altrui posizioni>> .

Il tribunale non dà importanza al fatto che la sostituzione parziale avrebbe comportato la votazione col sistema  maggioritario, mentre l’innesco della clausola simul stabunt simul cadent avrebbe comportato l’innesco del sistema c.d. di lista.

Per un precedente, nel quale invece è stata accertata l’abusività delle dimissioni in presenza di clausola simul stabunt simul cadent , v. Trib. Bologna sez. spec. 19.12.2017 n. 2788/2017, RG 8639/2015 (v. i sette <<elementi indiziari>> ritenuti gravi, precisi e concordanti: p. 4). Qui il giudice, però, ha concesso tutela obbligatoria, non reale. L’effetto giuridico valorizzato, infatti, è stato solo quello del risarcimento del danno per revoca priva di giusta causa, avendo ravvisato nelle dimissioni un aggiramento dell’obbligo risarcitorio ex art. 2383 co. 3 c.c. Tuttavia, se di abusività si fosse realmente trattato, avrebbe dovuto essere annullato o dichiarato nullo (o comunque espunto dal mondo giuridico) l’effetto estintivo del rapporto di amministrazione, proprio dell’atto di rinuncia combinato con la clausola statutaria. Effetto estintivo, che è invece rimasto (la statuzione giudiziale non l’ha toccato) : semplicemente, si è ad esso aggiunto l’effetto risarcitorio. Allora le dimissioni concordate, più che un abuso del relativo istituto (e della clausola statutaria), paiono da inquadrare nella figura del procedimento indiretto in frode alla legge. Infatti la predetta  norma, fonte dell’obbligo risarcitorio, va ritenuta, da un lato, imperativa ex art. 1344 c.c. e, dall’altro, applicabile anche agli atti unilaterali quali sono le dimissioni (ex art. 1324 c.c.; salvo addirittura ravvisare, anzichè atti unilaterali isolati, un complessivo concerto e quindi un contratto) . 

2) Sulla inutilità del rinnovo parziale, dovendosi provvedere al rinnovo totale del cda – Il tribunale, alla luce della non abusività delle dimissioni e quindi riconoscendo l’operatività della clausola simul stabunt simul cadent, condivide la tesi degli impugnanti (CdA , singoli amministratori e socio Vivendi). Secondo tale tesi, è da ritenere “superata” l’istanza di integrazione dell’ordine del giorn (volta alla sostituzione parziale del cda) , dato che si deve procedere alla sostituzione dell’intero CDA nella successiva delibera di maggio (cioè pochi giorni dopo la data dell’assemblea prima convocata). Dice infatti il Tribunale che  “tale innesco [della clausola statutaria] comporta la necessità di integrale rinnovo del cda, senza la possibilità di procedere a sostituzioni parziali interinali”.

L’affermazione è però di dubbia esattezza. Infatti, rimuovere gli amministratori con efficacia immediata, come avviene con la revoca, anziché lasciarli in carica quantomeno fino all’assemblea convocata per seconda (cioè per 11 giorni) in regime di prorogatio (che non riduce minimamente i poteri ordinari, secondo l’opinione prevalente), può fare una notevole differenza in pratica.

Questo naturalmente presuppone aver risolto in una precisa direzione la questione della data di efficacia delle dimissioni : presuppone cioè che sia esatto individuarla nella data dell’assemblea seconda convocata, anzichè della prima (o magari ancor prima: efficacia immediata?) , questione non semplicissima (v. sotto). Nella seconda ipotesi, infatti, la delibera di revoca di chi è già cessato avrebbe un oggetto impossibile.

3) Sulla impugnabilità delle delibere del collegio sindacale – Altro punto importante è l’affermazione  di impugnabilità delle delibere del collegio sindacale. Pur mancando norma ad hoc , la corte milanese la afferma , seppure limitatamente  <<a specifici casi eccezionali rispetto alle normali manifestazioni del potere di controllo, produttive di effetti diretti rispetto alla organizzazione societaria ovvero rispetto alla posizione di singoli soci>>.  Questo tipo di delibere, infatti, avendo [eccezionalmente] “un contenuto propriamente gestorio”, non potrebbero sottrarsi alla regola generale della impugnabilità.

Sorge allora il problema di capire chi vi sia legittimato. Il Tribunale afferma la legittimazione in capo sia al consiglio di amministrazione, che ai suoi membri [individualmente],  che al socio Vivendi. In particolare l’impugnabilità del socio viene affermata ravvisando la lesività di un suo diritto ex art. 2388 penult. co. c.c., ritenuto applicabile al caso sub iudice. La lesività della delibera sindacale concernerebbe “l’esercizio del proprio diritto di voto in tema di nomina degli amministratori secondo il metodo di lista, previsto per il caso di rinnovo dell’intero CDA, esercizio che, sempre secondo l’attrice, sarebbe appunto impedito dalla delibera impugnata, indebitamente ammissiva di un odg assembleare invece comportante la sostituzione di una parte degli amministratori con il metodo maggioritario”.

Sì osservi che la rilevanza del  cambio di metodo di votazione viene riconosciuta a quest’ultimo proposito (legittimazione del socio Vivendi ad impugnare la delibera sindacale), mentre viene disconosciuta in relazione alla abusività delle dimissioni consiliari allegata da Elliott (come accennato sopra).

4) Sulla data di decorrenza della cessazione dalla carica –  Altra questione importante è quella della individuazione della data di decorrenza della cessazione degli amministratori, sia dei dimissionari (dimissionari “diretti”) che di quelli rimanenti, i quali però cessano per l’efficacia riflessa prodotta dal congiunto operare delle dimissioni dei primi e del patto  simul stabunt simul cadent (dimissionari “di riflesso”).

È curioso che i dimissionari “diretti” abbiano indicato una data di decorrenza delle proprie dimissioni e l’abbiano indicata in quella della prima assemblea cioè del 24 aprile , quando :  da un lato essi non hanno certo il potere di scegliere la data di decorrenza (dipendendo dalla disciplina legale o statutaria); dall’altro, il momento esatto è eventualmente quello della ricostituzione del CdA, che sarebbe dovuta in ipotesi avvenire in occasione (anzi, al fruttuoso termine) dell’assemblea del 24 aprile, più che nel giorno 24 aprile in sè.  

A parte ciò, l’importante è individuare la predetta decorrenza. Normalmente ed auspicabilmente verrà disciplinata in sede statutaria, ciò che è certamente possibile. Il problema è individuarla quando lo statuto nulla dica in proposito. La regola di legge (art. 2386 co. 4), circa gli amministratori dimissionari “di riflesso”, prevede il regime della prorogatio, toccando quindi ad essi convocare l’assemblea dei soci e provvedere alla ordinaria amministrazione. Lo statuto però può derogarvi e prevedere (v. il richiamo al comma quinto presente nel comma quarto dell’art. 2386) l’immediata cessazione di tutto il cda, provvedendo in tale caso i sindaci a convocare l’assemblea   e alla ordinaria amministrazione.

Per gli amministratori dimissionari “diretti” invece – in mancanza di regola statutaria- la soluzione potrebbe astrattamente e alternativamente porsi nell’estendere loro lo stesso regime dei dimissionari in via riflessa oppure nell’applicare il regime proprio delle dimissioni, posto dall’art. 2385 cc. E’ più persuasiva la seconda alternativa (anche se è da vedere quanto diversi sarebbero gli esiti adottando la prima). Così ragionando allora, si nota che l’art. 2385 distingue tra permanenza o meno in carica della maggioranza del cda , a seguito delle dimissioni. Ne segue che, nel caso sub iudice, ricorrendo l’ipotesi negativa, l’efficacia della rinuncia per i dimissionari “diretti” si produrrebbe a partire dalla ricostituzione della maggioranza del cda con l’accettazione dei nuovi amministratori (art. 2385 co.1 ult. parte):  il che avverrebbe nell’assemblea convocata per seconda (4 maggio 2018) e non il 24 aprile, data della assemblea inizialmente convocata e data indicata nell’atto di dimissioni.

Questo come disciplina legale di default; resta però da capire se sul punto dica qualcosa la pattuizione statutaria citata.

5) Sulla legittimità dell’intervento dei sindaci – Il loro intervento è di dubbia legittimità. L’art. 126 bis. co. 5 t.u.f. , infatti, lo prevede per il caso di “inerzia” dell’organo di amministrazione; nel caso in esame, però , il CDA non è stato inerte, ma ha esaminato e rigettato motivatamente l’istanza del socio. E’ difficile far rientrare questa condotta attivo/commissiva nel concetto di “inerzia”, che si riferisce ad una condotta passiva/omissiva.

La dottrina non ha mancato di rilevare questo profilo: lo solleva ad es. V. Pettirossi, Configurabilità e limiti del dovere di reazione dei sindaci di società per azioni, Riv. dir. comm., 2018/3, 515 ss. a p. 541, che richiama in tale senso il parere pro veritate  09.04.2018 fornito al CdA di  TIM  da prof. Portale-avv. Purpura-prof. Frigeni (§ 5 e spt. p. 21; vedilo nel sito di TIM) , sub <<Pareri legali acquisiti dal Consiglio di Amministrazione>>).

Si potrebbe forse pensare ad una estensione del concetto di “inerzia” per comprendervi pure: i) il rifiuto esternato ma non motivato; ii) il rifiuto sì motivato ma con motivazione palesemente inconsistente (e così pure, tra l’altro, per il “non provvedono” dei Sindaci, che dà titolo per adire il Tribunale, sempre nel medesimo co. 5).  L’ipotesi, però, ad una prima riflessione non è particolarmente convincente, soprattutto per il secondo caso (palese inconsistenza): ciò sia per il tenore letterale della norma, sia perchè rimarrebbe a difesa dei soci istanti l’impugnabilità della seguente delibera assembleare perchè non presa in conformità alla legge (art. 2377 c.c.; anche se -va detto- le due possibilità sono assai diverse nei rispettivi effetti pratici). Se il legislatore avesse voluto comprendere anche i due casi ipotizzati, è lecito pensare che l’avrebbe esplicitato: soprattutto tenendo conto del fatto che negli scorsi anni ci sono state più occasioni per introdurre novelle legislative sul punto (ad es. quella generale del 2003 -v. infatti l’analoga norma del’art. 2367/2 c.c. Convocazione su richiesta dei soci- e quella più settoriale del 2012, con riferimento all’art. 126 bis  t.u.f.).

Si potrebbe in ogni caso esaminare l’intepretazione del concetto di “omissione o ingiustificato ritardo” degli amministratori nel convocare l’assemblea , che fa scattare il dovere sostitutivo dei sindaci (art. 2406 c.c.). Quello qui esaminato, in fondo, ne è un’applicazione.

6) è strano che nessuno abbia impugnato la delibera del CDA 22.03.2018, come ci si sarebbe aspettati.

appalti: la difettosa insonorizzazione costituisce “grave difetto” ex art. 1669 c.c. (nonchè sulla decorrenza del termine per la denuncia del vizio)

Secondo il Tribunale di Padova (pronuncia del 19.06.2018, est. Saturni, leggibile in www.ilcaso.it, doc. 21040 ) il difetto di insonorizzazione costituisce <<grave difetto>> ai sensi dell’art. 1669 cc e diventa quindi fonte della relativa responsabilità decennale.

Il giudice affronta specificamente la questione ai §§ 2.1 e 2.2, pagg. 10-12

Il punto non è per vero discutibile; tuttavia l’affermazione giudiziale è utile, in tempi di costruzioni immobiliari poco curate sotto questo aspetto.

Anche se il giudice scrive di “mancata insonorizzazione”, il principio è estendibile anche al caso in cui l’insonorizzazione non è assente ma solamente insufficiente: ciò sempre che la insufficienza superi una soglia de minims, che però va collocata molto in basso. Ci pare infatti che basti anche un difetto modesto per integrare il presupposto del “grave difetto” richiesto dall’art. 1669 (l’apparente bisticcio lessicale non costituisce contraddizione concettuale, si badi)

Quanto al termine annuale per la denuncia del vizio (questione assai rilevante nella pratica), il Tribunale condivisibilmente afferma che decorre da quando la parte ha <<sicura conoscenza>> del difetto e della sua causa : cioè -in mancanza di altri elementi- solo a partire dall’atto di acquisizione di perizia specialistica (nel caso: da quando l’architetto, incaricato come consulente di parte, dimise la propria perizia ante causam).

Analogamente v. sul punto il sintetico passaggio di Cass.  07/02/2019, n. 3674: <<Per costante giurisprudenza di questa Corte, i gravi difetti che, ai sensi dell’art. 1669 c.c., fanno sorgere la responsabilità dell’appaltatore nei confronti dei committente e dei suoi aventi causa consistono in quelle alterazioni che, in modo apprezzabile, riducono il godimento del bene nella sua globalità, pregiudicandone la normale utilizzazione, in relazione alla sua funzione economica e pratica e secondo la sua intrinseca natura. A tal fine, rilevano pure vizi non totalmente impeditivi dell’uso dell’immobile, come quelli relativi all’efficienza dell’impianto idrico o alla presenza di infiltrazioni e umidità, ancorchè incidenti soltanto su parti comuni dell’edificio e non sulle singole proprietà dei condomini (v. tra le tante, Sez. 2 -, Ordinanza n. 24230 del 04/10/2018 Rv. 650645; Sez. 2 -, Ordinanza n. 27315 del 17/11/2017 Rv. 646078; Sez. 2, Sentenza n. 84 del 03/01/2013 Rv. 624395). Sempre secondo la costante giurisprudenza di legittimità, però, il termine di un anno per la denuncia del pericolo di rovina o di gravi difetti nella costruzione di un immobile, previsto dall’art. 1669 c.c., a pena di decadenza dall’azione di responsabilità contro l’appaltatore, decorre dal giorno in cui il committente consegua una sicura conoscenza dei difetti e delle loro cause, e tale termine può essere postergato all’esito degli accertamenti tecnici che si rendano necessari per comprendere la gravità dei vizi e stabilire il corretto collegamento causale (v. Sez. 2 -, Sentenza n. 10048 del 24/04/2018 Rv. 648162; Sez. 3, Sentenza n. 9966 del 08/05/2014 Rv. 630635; Sez. 2, Sentenza n. 1463 del 23/01/2008 Rv. 601284; Sez. 2, Sentenza n. 11740 del 01/08/2003 Rv. 565596)>>.

Con l’occasione ricordo che l’art. 1669 si applica non solo alle costruzioni originarie, ma anche alle successive ristrutturazioni, come da dettagliato insegnamento offerto dalle sezioni unite nel 2017 (Cass. sez. un. 27.03.2017 n. 7756). Questo è il principio di diritto formulato nell’occasione: Lart. 1669 c.c., è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o  modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di questultimo.