la tutela da design può riguardare le scatole contenenti polvere per makeup?

La HIGH COURT OF JUSTICE BUSINESS AND PROPERTY COURTS OF ENGLAND & WALES INTERLLECTUAL PROPERTY LIST (Ch D) ha risposto positivamente alla domanda in oggetto: la tutela da design può concernere anche le scatole (la loro goffratura) contenenti la polvere per makeup.

Precisamente può riguadare: i) sia il particolare disegno impresso alla polvere pressata, nonostante che con l’uso questa si esaurisca e il disegno scompaia; ii) sia il disegno impresso sulla scatola-contenitore .

Così riferisce

Responsabilità dei sindaci (di s.r.l.): messa a punto della Cassazione (n. 18770 del 12.07.2019 e n. 20.651 del 31.07.2019)

In una sentenza di Cassazione di metà 2019  (n. 18.770 del 12.07.2019, sez. I,  rel. Nazzicone) ci sono alcune utili precisazioni sulla disciplina della responsabilità dei sindaci, governata dall’art. 2407 c.c.  Leggiamo ad esempio:

<<Da un lato, solo un più penetrante controllo, attuato mediante attività informative e valutative — in primis, la richiesta di informazioni o di ispezione ex art. 2403-bis c.c. – può dare concreto contenuto all’obbligo di tutela degli essenziali interessi affidati al collegio sindacale, cui non è consentito di rimanere acriticamente legato e dipendente dalle scelte dell’amministratore, quando queste collidano con i doveri imposti dalla legge, al contrario avendo il primo il dovere di individuarle e di segnalarle ad amministratori e soci, non potendo assistere nell’inerzia alle altrui condotte dannose: senza neppure potersi limitare alla richiesta di chiarimenti all’organo gestorio, ma dovendosi spingere a pretendere dal medesimo le cd. azioni correttive necessarie. Dall’altro lato, il sindaco dovrà fare ricorso agli altri strumenti previsti dall’ordinamento, come i reiterati inviti a desistere dall’attività dannosa, la convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2406 c.c. (ove omessa dagli amministratori, o per la segnalazione all’assemblea delle irregolarità di gestione riscontrate, dunque anche ex artt. 2446 e 2447 c.c.), il ricorso al tribunale per la riduzione del capitale per perdite (ai sensi di tali disposizioni), i solleciti alla revoca delle deliberazioni assembleari o sindacali illegittime, l’impugnazione delle deliberazioni viziate, il ricorso al tribunale per la nomina dei liquidatori ex art. 2487 c.c., la denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c. o all’autorità giudiziaria penale, ed altre simili iniziative.

Dovendosi ribadire che, come questa Corte ha già osservato, anche la semplice minaccia di ricorrere ad un’autorità esterna può costituire deterrente, sotto il profilo psicologico, al proseguimento di attività antidoverose da parte dei delegati (Cass. 29 dicembre 2017, n. 31204; Cass. 11 novembre 2010, n. 22911).

Senza trascurare, altresì, che la condotta impediente omessa va valutata nel contesto complessivo delle concrete circostanze, in quanto l’inerzia del singolo nell’unirsi all’identico atteggiamento omissivo degli altri acquista efficacia causale, dato che, all’opposto, una condotta attiva giova a “rompere il silenzio” sollecitando, con il richiamo agli obblighi imposti dalla legge ed ai principi di corretta amministrazione, un analogo atteggiamento degli altri (così, in sede penale, Cass. pen. 7 marzo 2014, n. 32352, Tanzi)>> (sub 3.4 Nesso causale, pp.12-13).

Ed inoltre: <<l’onere di allegazione e di prova nelle azioni di responsabilità avverso l’organo sindacale si atteggia nel senso che spetta all’attore allegare l’inerzia del sindaco e provare il fatto illecito gestorio, accanto all’esistenza di segnali d’allarme che avrebbero dovuto porre i sindaci sull’avviso; assolto tale onere, l’inerzia del sindaco integra di per sè la responsabilità, restando a carico del medesimo l’onere di provare di non aver avuto nessuna possibilità di attivarsi utilmente, ponendo in essere tutta la gamma di atti, sollecitazioni, richieste, richiami, indagini, sino alle denunce alle autorità civile e penale>> (sub 3.6 Riparto dell’onere probatorio, p. 16).

Nel caso specifico era stata accertata una <<situazione di altissima illiceità, quale rumoroso “campanello di allarme” e macroscopico “segnale” circa la condizione di illegalità diffusa del gruppo>> , costituita da un processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza: la quale nel 2006 aveva dettagliatamente segnalato una  gravissima situazione di illiceità fiscale, della cui ricezione da parte della società i sindaci erano a conoscenza (p. 16-17).

Principi di diritto indicati dalla Corte:

<<Ricorre il nesso causale tra la condotta inerte antidoverosa dei sindaci di società e l’illecito perpetrato dagli amministratori ai fini della responsabilità dei primi – secondo la probabilità e non necessariamente la certezza causale – se, con ragionamento controfattuale ipotetico, l’attivazione lo avrebbe ragionevolmente evitato, tenuto conto di tutta la possibile gamma di iniziative che il sindaco può assumere, esercitando i poteri-doveri della carica (quali la richiesta di informazioni o di ispezione ex art. 2403-bis c.c., la segnalazione all’assemblea delle irregolarità riscontrate, i solleciti alla revoca della deliberazione illegittima, l’impugnazione della deliberazione viziata ex artt. 2377 c.c. e ss., la convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2406 c.c., il ricorso al tribunale per la riduzione del capitale per perdite ex artt. 2446 e 2447 c.c., il ricorso al tribunale per la nomina dei liquidatori ex art. 2487 c.c., la denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c., ed ogni altra attività possibile ed utile)>>.

<<Ove i sindaci abbiano mantenuto un comportamento inerte, non vigilando adeguatamente sulla condotta illecita gestoria contraria alla corretta gestione dell’impresa, non è sufficiente ad esonerarli da responsabilità la dedotta circostanza di essere stati tenuti all’oscuro dagli amministratori o di avere essi assunto la carica dopo l’effettiva realizzazione di alcuni dei fatti dannosi, allorchè, assunto l’incarico, fosse da essi esigibile lo sforzo diligente di verificare la situazione e di porvi rimedio, onde l’attivazione conformemente ai doveri della carica avrebbe potuto permettere di scoprire tali fatti e di reagire ad essi, prevenendo danni ulteriori>>.

SULLE DIMISSIONI: <<Le dimissioni presentate non esonerano il sindaco da responsabilità, in quanto non integrano adeguata vigilanza sullo svolgimento dell’attività sociale, per la pregnanza degli obblighi assunti proprio nell’ambito della vigilanza sull’operato altrui e perchè la diligenza impone, piuttosto, un comportamento alternativo, allora le dimissioni diventando anzi esemplari della condotta colposa tenuta dal sindaco, rimasto indifferente ed inerte nel rilevare una situazione di reiterata illegalità>>”.

Sull’ultima affermazione della Suprema Corte si può in linea di massima concordare. E’ stato però segnalato in senso parzialmente critico che la stessa non può essere ritenuta valida sempre e comunque: cioè non si può sempre comunque dichiarare insufficienti le dimissioni per esonerare il sindaco (De Luca, Collegio sindacale: non bastano le dimissioni per evitare la responsabilità? , nota a Cass. 18770 del  12.07.2019 e a Cass. 20.651 del 31.07.2019, Il foro it., 2019, 11, 3547/8). Per questo a. bisogna distinguere tra il sindaco lungamente connivente, che si dimette, e il sindaco, che invece si dimette dopo aver intimato la rimozione di irregolarità.

Il punto però è proprio questo: un’intimazione di rimozione delle irregolarità con successive dimissioni costituisce esatto adempimento dei doveri sindacali? la risposta in linea di massima è positiva, perlomeno se la diffida individua in modo preciso le irregolarità e i comportamenti da adottare a rimedio, secondo l’opinione dei sindaci. A conferma di quest’ultimo punto si veda  l’art. 14 c. 2 cod. crisi (v. sotto), secondo cui <<in caso di omessa o inadeguata risposta, ovvero di mancata adozione nei successivi sessanta giorni delle misure ritenute necessarie per superare lo stato di crisi, i soggetti di cui al comma 1 informano senza indugio l’OCRI>>: se ne ricava che le “misure ritenute necessarie” sono quelle che sindaci e revisori ritengono tali, essendo costoro obbligati ad informare l’OCRI se non sono poi adottate (conf. Cian M., Crisi dell’impresa e doveri degli amministrtori: i principi riformati e il loro possibile impatto, Nuove leggi civili commentate, 2019/5, 1173).  In altre parole, non è necessaria la denuncia di gravi irregolarità ex art. 2409 (di certo non lo è quando le irregolarità non sono “gravi”).

Più complesso è il tema -poco frequentato- dell’eventuale dovere di impugnativa delle delibere del CdA ex art. 2388 c.4 (se non di quelle dei soci).

Il codice della crisi (d. lgs. 14/2019) interviene sull’argomento obbligando i sindaci sia a segnalare agli amministratori l’esistenza di “fondati indizi della crisi” sia -in caso di mancata loro reazione- ad informare l’OCRI. Sul primo punto non ci sono grosse novità , in quanto il dovere di segnalare le irregolarità agli amministratori era già desumibile dal sistema ed anzi sorgeva ben prima che assurgessero a “fondati indizi della crisi”. Il secondo punto invece è nuovo . Qui però la responsabilità è disciplinata in negativo e cioè come esonero da responsabilità dei sindaci se si attengono alle prescrizioni di legge. Nulla si dice in positivo e cioè se vi siano responsabilità nel caso in cui non si sia provveduto in tal modo.

Soccorrerà allora la norma generale dell’articolo 2407 con il giudizio controfattuale chiesto dal c. 2, e <<la prova del nesso eziologico, da dimostrarsi secondo il criterio della prognosi postuma (“più probabile che non”)(vedi la recente Cass. 3704/2018), può essere fornita mediante presunzioni semplici, laddove possa ragionevolmente presumersi che la tempestiva segnalazione all’assemblea delle irregolarità riscontrate o la denuncia al P.M. sarebbe risultata idonea ad impedire le conseguenze dannose (del protrarsi) della condotta gestoria.>> (Cass. 31.07.2019 n. 20.651, p. 15-16).

In questo senso potrebbe allora trarre in inganno l’affermazione, secondo cui “si deve partire da un dato, costituito dalla mancata previsione nel decreto legislativo che ha introdotto il codice della crisi, e a monte nella legge delega, di sanzioni in caso di inadempienze da parte degli organi di controllo e dei revisori dell’obbligo su questi gravante di avvisare immediatamente l’organo amministrativo circa l’esistenza di fondati indizi della crisi e su quello, insorgente nel caso di omessa o inadeguata risposta, ovvero di mancata adozione nei successivi sessanta giorni delle misure ritenute necessarie per superare lo stato di crisi, di informare tempestivamente l’organismo di composizione della crisi>> (Brizzi, Procedure di allerta e doveri degli organi di gestione e controllo: tra nuovo diritto della crisi e diritto societario, in Orizz. del dir. comm., 2019/2, 361). Le sanzioni ci sono e son quelle di diritto comune (lasciando da parte l’approprietezza o meno dell’uso del termine “sanzione” in tali casi); ciò che manca, semmai, è una nuova e diversa “sanzione” (rectius: rimedio) per la violazione dei nuovi doveri introdottti o esplicitati dal codice della crisi.

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Meno utili le osservazioni della cit. Cass. 31.07.2019 n. 20.651, sez. I, rel. Fedderico, secondo cui <<in tema di responsabilità degli organi sociali, la configurabilità dell’inosservanza del dovere di vigilanza imposto ai sindaci dall’art. 2407, comma 2, c.c. non richiede l’individuazione di specifici comportamenti che si pongano espressamente in contrasto con tale dovere, ma è sufficiente che essi non abbiano rilevato una macroscopica violazione o comunque non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, così da non assolvere l’incarico con diligenza, correttezza e buona fede, eventualmente anche segnalando all’assemblea le irregolarità di gestione riscontrate o denunciando i fatti al Pubblico Ministero per consentirgli di provvedere ai sensi dell’art. 2409 c.c.(Cass. 22911/2010; 16314/2017)>> (p. 16)

Il Tribunale di Verona afferma la responsabilità civile della Banca nella questione delle vendite di diamanti

Sulla vendita  dei diamanti tramite banca  (sui cui ci sono nuovi sviluppi, scrive la Reuters), interviene il Tribunale civile di Verona RG 5251/2018 del 20.05.2019 , accogliendo la domanda dei clienti/investitori.

Questi ultimi avevano citato sia la Intermarket Diamond Business s.p.a. (IDB)  sia la Banca per ottenere ristoro del danno subito dal cattivo investimento loro proposto.

Qui interessa solamente il ruolo della Banca, la quale dall’istruttoria risulta aver promosso l’investimento in diamanti, che si sarebbe poi concretizzato in un contratto tra investitori e IDB.

Segnalo due passaggi della sentenza veronese.

Nel primo, il giudice scrive (p. 15): <<La fonte della responsabilità della banca va invece individuata, come proposto in via alternativa dal ricorrente, nel rapporto che, come si è visto, è indubbiamente intercorso tra la e l’istituto di credito in relazione all’acquisto dei diamanti e nell’ambito del quale la prima, per le ragioni dette al termine del precedente paragrafo, ha posto affidamento in un dovere di diligenza gravante in capo al secondo, in virtù delle sue specifiche competenze professionali.

Di tale competenza la ….. che era abituale investitore attraverso la banca, non avrebbe potuto ragionevolmente dubitare, dato che l’opportunità dell’acquisto dei diamanti le era stata presentata dal proprio referente investimenti contestualmente e in collegamento all’offerta di prodotti finanziari (quote di fondi comuni di investimento) e la valutazione di forme alternative di impiego del risparmio rientra nel servizio di consulenza finanziaria offerto dal personale dell’istituto di credito ai propri clienti.

E’ appena il caso di evidenziare che il comportamento tenuto in concreto dalla banca ha tradito quell’affidamento e molto probabilmente, per una sorta di eterogenesi dei fini, ha anche pregiudicato quel risultato di fidelizzazione della clientela che la resistente si prefiggeva di realizzare collaborando con IDB.

Il rapporto intercorso tra le parti ha anche generato a carico di Banco Bpm un obbligo di informazione e di protezione nei confronti del cliente a salvaguardia dell’affidamento in lui generato e il suo fondamento normativo può essere individuato, come suggerito dalla difesa attorea, nel disposto dell’art. 1173 c.c. (sul punto si veda Cass., sez. un., 26 giugno 2007 n. 14712 in tema di fondamento della responsabilità della banca negoziatrice per avere consentito, in violazione delle specifiche regole poste dall’art. 43 legge assegni l’incasso di un assegno bancario, di traenza o circolare, munito di clausola di non trasferibilità, a persona diversa dal beneficiario del titolo) e a tale conclusione non ostano le pronunce di merito prodotte dalla resistente, che non hanno esaminato tale questione poiché non era agitata in quei giudizi (la pronuncia del Tribunale di Milano dell’8 gennaio 2019 anzi ha evidenziato come la responsabilità della banca avrebbe potuto essere prospettata proprio sotto il profilo della violazione dell’obbligo di protezione).>>

In breve la Banca avrebbe violato un obbligo di informazione/protezione del cliente/investitore e dunque l’affidamento da questi riposto sulla professionalità e competenza della Banca stessa. Emerge dalla sentenza che l’investimento in diamanti era stato proposto dalla Banca al cliente/investitore in alternativa ad altri possibili e in sostituzione di un precedente investimento scaduto.

Sembra dunque che si sia trattato, secondo il giudice, di violazione di un obbligo e quindi di responsabilità contrattuale.

Bisogna però trovare la fonte di tale obbligo. Il giudice lo trova nell’art. 1173 cc..  L’affermazione lascia un pò perplessi, dato che la norma non pone obblighi ma si limita ad elencare le possibili fonti, quindi rinviando ad altre norme. Infatti così recita: <<art. 1173 (Fonti delle obbligazioni). Le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformita’ dell’ordinamento giuridico>>.

Il giudice avrebbe quindi dovuto individuare uno specifico <<atto o fatto idoneo a produrre in conformita’ dell’ordinamento giuridico>> il dovere di informazione/protezione sub iudice.

Il che poteva avvenire, volendo restare come detto nella responsabilità contrattuale, tramite la teoria del dovere di protezione sorgente da un’obbligazione senza prestazione (meglio: rapporto obbligatorio senza obbligo primario di prestazione), fondato sull’affidamento, ogni volta che questo sia serio e cioè fondato sulla professionalità della controparte: principio generale, di cui la responsabilità precontrattuale sarebbe solo una manifestazione, e che non può essere limitato a questa. Questa è la tesi di C. Castronovo (seguito da A. Nicolussi, voce Obblighi di protezione, Enc. del dir., Annali, VIII, 664.) , esposta in più scritti, tra cui: C. Castronovo, Ritorno all’obbligazione senza prestazione, Eur. dir. priv., 2009, 679 ss, § 1 e § 4, pp. 680-681 e 694-699 ed ora C. Castronovo, Responsabilità civile, Giuffrè, 2018, 540-554. Castronovo trae dall’art. 1337 c.c. sulla c.d responsabilità precontrattuale un principio generale di tutela dell’affidamento, quando riposto in soggetti titolari di uno status professionale.

Oppure, non concordando su ciò (lo status professionale infatti non è alla base dell’art. 1337, come sarebbe invece necessario per ravvisare somiglianza a fini analogici: Lambo L. sia in Obblighi di protezione, CEDAM, 2007, 385 ss, spt. 390, che in La responsabilità del medico dipendente e il gioco dell’oca (obblighi di protezione c. alterum non laedere, Il Foro it., 2017, V, 242, § 5), si poteva prudentemente cercare l’estensione analogica di altre norme, come propone Zaccaria A. (ad es. in Contatto sociale e affidamento, attori protagonisti di una moderna commedia degli equivoci, in Principi, regole, interpretazione. contratti e obbligazioni, famiglie e successioni. Scritti in onore di Giovanni Furgiuele, a cura di G. Conte e S. Landini, Universitas Studiorum S.r.l. – Casa Editrice, 2017, 611 ss). Anche questo a. propone l’estensione dell’art. 1337 cc ma solo ai contatti negoziali e ai contatti simili a quelli negoziali (prestazioni per puro spirito di cortesia) (p. 615): per cui sul punto si avvicina molto alla tesi di Castronovo, la differenza dal quale allora sta nel fatto che secondo quest’ultimo dall’art. 1337 può trarsi un principio generale per cui l’affidamento va tutelato tramite l’obbligazione in tutti i casi “che mettono la sfera giuridica di ciascuna parte alla mercè di dell’altra” (Ritorno all’obbligazione senza prestazione, cit., 696-697).

Però il nostro caso riguarda bensì contatti in vista di una possibile stipula contrattuale, ma nei quali il soggetto, su cui è riposta la fides (banca), non è quello con cui il suo cliente eventualmente stipulerà (stipulerò infatti eventualmente l’IDB). Quindi si tratterebbe di estendere sotto il profilo soggettivo la regola del 1337 cc. Mi pare tuttavia che si possa procedere in tale senso: il venditore IDB non può pensare di sottrarvisi, delegando le trattative alla banca. Il cliente potrà infatti agire in risarcimento verso colui, che ha di fatto avuto di fronte durante le trattative stesse, se è stato costui a fornirgli informazioni inesatte e/o scorrette.

Non accettando ciò, si potrebbe restare nell’area del dovere violato, invocando la seconda parte della teoria di Zaccaria. Egli , infatti, per i contatti diversi sia da quelli negoziali che da quelli simili ai negoziali, propone la tutela dell’affidamento tramite l’obbligazione protettiva, solo quando si possa procedere con l’analogia da regole positivamente poste (Id., Contatto sociale e affidamento, cit., 617/8). E nel nostro caso la regola potrebbe essere ravvisata, se non l’art. 1337 cc., almeno nel dovere di  informazione a carico del mediatore (art. 1759 cc). Quest’ultimo è da tempo oggetto di applicazione estensiva, dato che lo si estende non solo alle circostanze (già) note al mediatore, ma anche a quelle che avrebbe potuto conoscere attivandosi diligentemente alla loro ricerca e comunque sempre dopo averle verificate (Giacobbe E., Il contratto di mediazione, Tratt. di dir. priv. dir. da Bessone, Giappichelli, 2015, 145-147).

Il che coprirebbe pure la tesi della Banca, secondo cui essa si sarebbe limitata a segnalare ad IDB l’interesse dei propri clienti all’investimento in diamanti, svolgendo quindi sostanzialmente una attività mediatoria.

Il secondo passaggio da segnalare concerne la possibile invocazione alternativa di altra responsabilità della banca. Il Tribunale infatti aggiunge:

<<Degli obblighi gravati su Banco Bpm può peraltro ravvisarsi, sulla base dei fatti di causa, anche una base contrattuale, con conseguente applicabilità dell’art. 1218 c.c., atteso che l’attività di vendita di beni preziosi, alla quale Banco Bpm ha sicuramente contribuito, può ricondursi al novero delle attività connesse a quella bancaria che l’art.8, comma 3, del D.M. Tesoro 6 luglio 1994 definisce come “attività accessoria che comunque consente di sviluppare l’attivita’ esercitata” aggiungendo che: “A titolo indicativo, costituiscono attivita’ connesse la prestazione di servizi di: a) informazione commerciale; b) locazione di cassette di sicurezza”.

Sulla base di tali indicazioni, da non considerarsi esaustive, possono ricondursi alle attività connesse anche la intermediazione nella conclusione di polizze rc auto o di compravendita di biglietti per eventi culturali o a musei e attrazioni varie, alle quali gli istituti di credito sono dediti da tempo.

In tale prospettiva viene allora in rilievo il consolidato indirizzo della Suprema Corte secondo cui nello svolgimento del rapporto contrattuale la buona fede implica non soltanto il rispetto della legge e delle pattuizioni contrattuali, ma altresì obblighi di protezione dell’altro contraente: in particolare sono dovute quelle cautele e attività ulteriori che, senza sacrificio eccessivo per una parte, consentono all’altra di conservare o conseguire le utilità nascenti dal contratto (c.d. buona fede integrativa, richiamata da Cass. 26 ottobre 2017, n. 25512; Cass. 7 novembre 2011, n. 23033 che parla in proposito di dovere di solidarietà contrattuale). E’ noto poi come la violazione degli obblighi informativi nella fase precontrattuale si traduca in una responsabilità contrattuale se il contratto si conclude>>.

Si può osservare che il DM 6 luglio 1994 parrebbe essere stato sostituito dal DM Economia e Finanze 17 febbraio 2009 n. 29 (v. art. 24); ma questo non è così importante, dato che la norma corrispondente -in entrambi casi, l’art. 8 c.3- non presenta variazioni.

Si può inoltre osservare quanto segue.

Una cosa  è capire se una certa attività costituisce o meno concessione di finanziamenti al pubblico e quindi se ricade o meno nella riserva soggettiva posta dall’art. 106 /1 TU credito, 385/1993. L’art. 8 esordisce infatti con <<1. Gli intermediari finanziari possono esercitare attività strumentali o connesse a quelle finanziarie svolte.>>. Altra cosa è se nel caso specifico vi sia stata o meno lo svolgimento di queste attività, con conseguenti eventuali obblighi protettivi generali dall’esecuzione secondo buona fede. Altra cosa ancora, infine, è capire la rilevanza dell’invocazione di tale norma: fermi i fatti storici, se la Banca non fosse stata autorizzata a tale attività , sarebbe venuta meno la possibilità di ravvisare nella fattispecie la violazione del dovere de quo?

Di quale dovere, poi? Il giudice scrive dei doveri di protezione dovuti da un contraente all’altro “nello svolgimento del rapporto contrattuale”. Qui però il contratto finale sarebbe stato stipulato con IDB, non con la Banca. Si torna quindi al ruolo della Banca da individuare al di fuori del rapporto contrattuale fonte di obblighi primari di prestazione: per cui resta da chiarire quale sia la diversa fonte di dovere contrattuale, prospettata in alternativa dal giudice.

In conclusione, circa questo secondo profilo, non è chiarissima nè la pertinenza della norma bancaria invocata dal Giudice nè la fonte del dovere di buona fede gravante sulla Banca, dato che il rapporto contrattuale si sarebbe instaurato solo con IDB

Climate Corporate Governance: principi guida dal World Economic Forum

Il World Economic Forum il 17.01.2019 ha emanato dei guiding principles sulla corporate governance relativamente alle questioni climatiche: How to Set Up Effective Climate Governance on Corporate Boards: Guiding principles and questions.

Sono otto principi estrapolati da interviste a managers di diverse società.

Sono un pò generici, ma interessanti. V. ad es.:

– l’esplicitazione del principio di sostenibilità , che ora riguarda pure l’ambiente (Pr. 1, 4 e 6);

– la necessità di competenze e professionalità specifiche nel board  (Pr.2);

– la necessità che il profilo del clima informi gli investimenti strategici e sia inserito nella gestione di rischi e opportutnità (Pr. 5)

– la disclosure in tema deve essere diretta a tutti gli stakeholders e soprattutto ad investitori e regolatori (Pr. 7; v. pure Pr. 8); non si menzionano però specificamente le comunità locali ove sono collocate le unità operative aziendali. Sul punto v. ora da noi il d. lgs. 254/2016, ad es. art. 3, in attuazione della Dir. 2014/95/UE sulla comunicazione di informazioni di carattere non finanziario e di informazioni sulla diversità da parte delle grandi imprese (gli obblighi curiosamente gravano solo sugli amministratori -art. 3 c. 7- e dunque non sull’ente).

Circa  gli obblighi sorti da quest’ultima normativa, si è osservato che -tramite il riferimento alla correttezza della gestione imprenditoriale  imposta alle società dall’art. 2497 cc- potrebbe ravvisarsi un affidamento negli stakeholders a più stretto contatto con l’impresa tutelabile tramite azione contrattuale nella forma dell’obbligo di protezione in capo all’impresa stessa (L. Papi, Crisi del sistema “volontaristico” e nuova frontiere europee della responsabilità sociale di impresa, Riv. dir. comm., 2019, 109 ss, § 5, 144 ss e spt. 159-163) .

Gli intervistati hanno portato dei motivi per cui sino ad oggi è stato difficile tener conto dei rischi climatici. Tra questi spicca il profilo temporale: mentre i manager sono schiacciati dalla necessità di portare risultati nel breve periodo, il cambiamento climatico presetna rischi nel lungo periodo (p. 10).

Molto interessante è l’Appendix 1 Legal perspectives e ivi il cenno ai Trends in climate litigation.  Su quest’ultimo aspetto esiste un approfondito documento delle Nazioni Unite: UN Enviroment The Status of Climate Change Litigation : A Global Review, maggio 2017.

Questi guiding principles si basano anche su un precedente ampio lavoro del giugno 2017 inerente i Climate-Related Risks and Potential Financial Impacts promosso da una Task Force del Financial Stability Bord (Recommendations of the Task Force on Climate related Financial Disclosures June 2017- Final Report).

E’ stato scritto di recente che dai codici di condotta in tema di corporate governance si desume un cambiamento verso la gestione del rischio. In particolare <<il rischio cessa di essere una nebulosa indistinta. Il rischio può e deve essere declinato nei suoi molteplici aspetti. Il rischio in qualche misura è riportato- sembra paradossalmente-  alla prevedibilità. Il rischio va gestito, e non solo attraverso l’assicurazione (in fondo ultima) ratio. La rilevanza e gestione del rischio, di ciò che pareva esterno alla condotta, diventano componente essenziale della corretta amministrazione. Ed ancora -in  definitiva si tratta di profilo assai vicino a quello del rischio- i codici di comportamento danno un forte contributo ad una concezione dei sistemi di controllo come componente dell’azione gestoria (concezione, intendiamoci, presente a livello di sistema, che le best practices potenziano)>> (P. Marchetti,  Codici di condotta, Corporate governance e diritto commerciale, in Riv. di dir, comm., 2019, 1, 33 /34).

E’ giusta l’ultima osservazione del prof. Marchetti. La gestione dei rischi (tutti: anche ambientali) fa già parte dei doveri degli amministratori: rientrano infatti nella diligenza dovuta ex art. 2392 cc (e in quella ex artt. 2394-2395 nel caso di violazione verso creditori, soci e terzi, eventualmente). L’esplicitazione di alcuni di essi nelle best practices favorisce (meglio: rende probabilmente incontestabile) il loro inserimento nella diligenza dovuta, secondo la ricostruzione diffusa del del concetto di clausola generale.

Vizi della cosa venduta e relativo onere della prova: intervengono le sezioni unite

Sulla questione dell’onere della prova in tema di vizi della cosa venduta sono intervenute le sezioni unite della Cassazione con sentenza 3 maggio 2019 numero 11.748, relatore Cosentino.

Il Collegio evidenzia che fino al 2013 non c’erano incertezze giurisprudenziali: vigeva l’orientamento per cui tocca al compratore provare i difetti. Nel 2013 questo orientamento è stato incrinato da una pronuncia, secondo cui -in applicazione della nota pronuncia di legittimità sez. un. 13533 del 2001– al compratore basta allegare l’inesatto adempimento o denunciare la presenza di vizi e difetti; rimane a carico del venditore-debitore l’onere di dimostrare di aver consegnato una cosa conforme o comunque priva di vizi. Successivamente  alcune pronunce hanno seguito questo innovativo indirizzo, mentre altre sono tornate a quello precedente.

La Corte, però, in relazione ai diritti e doveri generati dal contratto di compravendita, evidenzia oggi che si può parlare di obbligazioni in senso tecnico, cioè aventi ad oggetto una prestazione dovuta dal venditore, solo per quella di cui al n. 1 dell’articolo 1476 cc (non considera il n. 2 nè l’evizione di cui al n. 3: § 12).

Invece per la garanzia da vizi (n. 3 del medesimo articolo),  non si tratta di obbligazione in senso tecnico, in quanto non è promessa una prestazione da eseguirsi successivamente alla stipula da parte del venditore (§§ 17-21).

Alcuni per questo motivo qualificano la garanzia a carico del venditore come un indennizzo di tipo assicurativo (§ 15). Tale proposta però non viene accolta dal Collegio perché non sono ad esso riconducibili da un lato i rimedi della risoluzione e della riduzione di prezzo (anche se prescindono dalla colpa del venditore), dall’altro nemmeno quello del risarcimento del danno, che presuppone colpa nel venditore (art. 1494 cc), anche questo anomalo rispetto ai rimedi assicurativi.

Si precisa tuttavia (§ 16) di soffermarsi su questo aspetto (solo) per evidenziare che la garanzia da vizi non costituisce un rapporto obbligatorio sorto dalla compravendita. Questo contratto ha infatti per oggetto il modo di essere attuale della cosa dedotta in contratto e non una prestazione futura, come invece necessario per ravvisare un’obbligazione (§ 17).

Si aggiunge poi -ed è il punto forse più interessante- che questa considerazione non impone di uscire dal campo dell’inadempimento o meglio dell’inesatto adempimento del contratto (§ 22; la distinzione è più chiara adoperando i termini “inadempimento totale”/“inadempimento parziale”, il secondo potendo essere quantitativo oppure qualitativo). Solo che si tratta di inadempimento appunto non di un’obbligazione, bensì del contratto: o meglio in inadempimento della promessa di un certo risultato traslativo, sorta con la stipula della vendita. Quindi si tratta sempre di una violazione della lex contractus, anche se non nella forma dell’obbligo inadempiuto: <<si tratta di una responsabilità che prescinde da ogni giudizio di colpevolezza del venditore e si fonda solo sul dato obiettivo della esistenza dei vizi>> (§ 24).

Si pone allora, direi, il più ampio problema del se e in che misura possa applicarsi a questa (o altre) violazione della lex contractus, diversa dall’inadempimento di obbligazione (vizi della res venduta), la disciplina dell’obbligazione e del contratto in generale, nei casi non regolati dalla disciplina specifica della compravendita (la quale, in linea di massima, costituirà invece norma speciale e dunque prevalente sulle norme incompatibili, presenti nelle discipline generali dell’obbligazione e del contratto).

Qui va pure incidentalmente ricordato, a differenza da quanto pare dire la S.C., che anche nell’inadempimento delle obbligazioni si risponde a prescindere dalla colpevolezza: basta solamente l’oggettiva difformità del comportamento tenuto da quello dovuto (l’art. 1218 è chiarissimo). Molti autori e giurisprudenza pensano il contrario (richiedono cioè l’elemento della colpa): la differenza tra le due teorie (soggettiva e oggettiva) in tema di inadempimento, però, è più declamatoria che reale e comunque è molto più ridotta di quello che potrebbe sembrare (forse inesistente). Approfondire questo punto richiederebbe di affrontare il tema della doppia accezione di diligenza, magistralmente studiato da Mengoni nel suo saggio del 1954 <<Obbligazioni ” di risultato ” e obbligazioni ” di mezzi “>>: duplice accezione che però risulta non troppo convincente, anche se ancora in auge (ad es. alla base della teoria del duplice ciclo causale proposta da Cass. n° 18392 del 26/07/2017, rel. Scoditti). Il punto non può essere qui sviluppato ulteriormente.

Se così è, la disciplina del riparto dell’onere della prova tra venditore e compratore nelle azioni edilizie, non è compreso nell’ambito applicativo dei principi fissati dalla cit. sentenza sezioni unite del 2001, che riguardava l’inadempimento delle obbligazioni (§ 26). In tale sentenza l’esito decisionale era basato sul principio della presunzione di persistenza del diritto (id est dell’obbligazione), dicono le S.U. di oggi (in verità anche su quello della vicinanza alla prova): presunzione che non è applicabile al caso dei vizi della cosa venduta, circa i quali non può ravvisarsi alcuna obbligazione (§ 27).

Il riparto dell’onere probatorio in materia di vizi della cosa venduta, allora, non può che gravare sul compratore: il che risulta idoneo anche a soddisfare le esigenze pratiche espresse dal principio della vicinanza alla prova e del tradizionale canone negativa non sunt probanda, indicate dalle sezioni unite del 2001 (§ 28-29).

Le S.U. di oggi ricordano che il principio di vicinanza alla prova fu enunciato compiutamente per la prima volta proprio dalla cit. Cass. s.u. 15533/2001 e che esso trova ancoraggio nell’art. 24 Cost.

Al § 31 la S.C. ricorda che talora il principio di vicinanza/distanza della prova è utilizzato <<in sostanza utilizzato per distinguere i fatti costitutivi della pretesa (identificati con quelli che sono nella disponibilità dell’attore, che il medesimo ha l’onere di provare) dai fatti estintivi o modificativi o impeditivi, identificati con quelli che l’attore non è in grado di provare e che, pertanto, devono essere provati dalla controparte. In pronunce successive, per contro, il criterio della vicinanza/distanza della prova risulta scollegato dal disposto dell’art. 2697 c.c. e viene utilizzato come un temperamento della partizione tra fatti costitutivi e fatti estintivi, modificativi od impeditivi del diritto, idoneo a spostare l’onere della prova su una parte diversa da quella che ne sarebbe gravata in base a detta partizione>>.  Mi pare tuttavia preferibile il primo dei due orientamenti e cioè quello per cui il problema sorge quando è difficile distinguere fatti costitutivi e fatti estintivi/impeditivi. Se invece la distinzione è chiara, non può il giudice temperarla cioè modificarla in base a generiche esigenze di equità social-processuale. Egli semmai potrà sollevare questione di costituzionalità  per contrasto con l’art. 24 Cost.: da noi  il controllo di costituzionalità non è diffuso, come pensa (esplicitamente o implicitamente) certa dottrina, ma fa capo solo alla Corte Costituzionale.

Non è però necessario -aggiunge la S.C.- prendere posizione tra questi due orientamenti: entrambi nel caso specifico conducono infatti alla stessa conclusione e cioè che è il compratore gravato dell’onere di provare il vizio della cosa acquistata, per esercitare le azioni edilizie (§ 32). Qui potrebbe però obiettarsi qualcosa alla linearità della motivazione. Così dicendo, infatti, non è chiaro se la S.C. affermi (v. appena sopra) che tale riparto probatorio derivi direttamente dall’art. 2697 cc oppure da un suo “temperamento” apportato dal giudice (nel qual caso dovrebbe precisare e giustificare questo suo ruolo paralegislativo).

La S.C. tocca poi la questione dell’inadempimento parziale (o inesatto adempimento; § 33), che era stato parificato dalla pronuncia del 2001 all’inadempimento totale: con però molte critiche dottrinali su questo punto. Il Collegio implicitamente le tiene in considerazione e osserva: <<La prova dell’inesatto adempimento, al contrario, consiste nella prova di un fatto positivo diverso da quello atteso dal creditore; si tratta di una situazione più articolata e più difficilmente inquadrabile in schemi rigidamente predeterminati, potendo risultare necessario procedere ad una verifica concreta, nelle diverse tipologie di controversie, su quale sia la fonte di prova che meglio può offrire la dimostrazione dell’inesattezza dell’adempimento e su quale sia la parte che più agevolmente può accedere a tale fonte>>. La Corte sembra quindi dire che, nel caso di inadempimento inesatto e alla luce del principio negativa non sunt probanda (e, si può aggiungere anche della vicinanza alla prova, del quale il negativa non sunt probanda costituisce un’applicazione), non si può stabilire in astratto quale sia la parte più vicina alla prova e quindi quale sia quella invece da onerare. L’inciso <<potendo risultare necessario procedere ad una verifica concreta… su quale sia la fonte di prova che può meglio offrire la dimostrazione delle inesattezze di inadempimento>> sembra infatti un’apertura verso la soluzione, secondo cui, nei casi dubbi, spetta al giudice caso per caso assegnare l’onere probatorio alla parte meglio attrezzata per farvi fronte. Si tratterebbe di una regola ex post, sorta col giudizio (o meglio in sentenza) e quindi di per sè inopportuna, dato che le regole dovrebbero essere conoscibili ex ante. Però se la legge è muta e non c’è concordia dottrinale, questa soluzione non è facilmente evitabile. Il punto è di notevole importanza teorica e pratica.

In ogni caso questo passaggio del § 33 è un obiter dictum e la corte lo riconosce al § seg.  Al § 34 infatti osserva che la questione sub iudice (vizio della cosa venduta) esula dall’inadempimento delle obbligazioni, sicchè non occorre prendere posizione sul predetto problema dell’onere probatorio nel caso di inesatto adempimento. E’ invece <<sufficiente evidenziare che la prova dell’esistenza del vizio della cosa è una prova positiva (di un fatto costitutivo del diritto alla risoluzione o modificazione del contratto) e pertanto, proprio alla stregua del canone negativa non sunt probanda, va giudicata più agevole di quella (negativa) della inesistenza del vizio medesimo>>.

Infine la Corte ricorda che questa impostazione è confortata:

i) dall’orientamento della Suprema Corte in tema di vizi della cosa nel contratto di appalto e di locazione (§§ 35-37) ;

ii) dall’orientamento della Corte di Giustizia UE in tema di onere probatorio per vizi della cosa acquistata dal consumatore (CGUE 4.6.15 C-497/13, Froukje Faber c. Autobedrijf Hazet Ochten BV, §§ 49-57).

Circa il diritto europeo, segnalo due proposte di direttiva UE (ora divenute però inefficaci, precisamente  il 20 maggio 2019, come si legge nella pagina web delle direttive, sotto indicata). 1° Quella sulle forniture digitali 9.12.2015 (COM(2015) 634 final – 2015/0287 (COD)) pone in modo espresso l’onere della prova a carico del fornitore: <<Art. 9 Onere della prova: 1. L’onere della prova riguardo alla conformità al contratto al momento indicato all’articolo 10, è a carico del fornitore. 2. Il paragrafo 1 non si applica nel caso in cui il fornitore dimostri che l’ambiente digitale del consumatore non è compatibile con i requisiti di interoperabilità e altri requisiti tecnici del contenuto digitale e nel caso in cui il fornitore abbia informato il consumatore di tali requisiti prima della conclusione del contratto. 3. Il consumatore collabora con il fornitore per quanto possibile e necessario per definire il proprio ambiente digitale. L’obbligo di collaborazione è limitato ai mezzi tecnicamente disponibili che sono meno intrusivi per il consumatore. Se il consumatore non collabora, l’onere della prova riguardo alla non conformità al contratto è a carico del consumatore.>>. Dal che si desume che sul consumatore gravi solo l’onere di denuncia o di allegazione del vizio/difetto.  2° Invece nella contemporanea proposta di direttiva sulle vendite online (Proposta relativa a determinati aspetti dei contratti di vendita online e di altri tipi di vendita a distanza di beni 9.12.2015 COM(2015) 635 final – 2015/0288(COD)) rimane l’impianto della dir. sulla vendita 1999/44, dato che non parla di onere della prova della conformità/difformità ma si limita a dire: <<Articolo 8 Momento rilevante per la determinazione della conformità al contratto : 1.  Il venditore risponde di qualsiasi difetto di conformità al contratto sussistente al momento in cui: (a)il consumatore o un terzo da lui designato e diverso dal vettore acquisisce il possesso fisico del bene, oppure (b) [sta scritto (a): ma è evidente errore] il bene è consegnato al vettore scelto dal consumatore, qualora tale vettore non sia stato proposto dal venditore o il venditore non proponga alcun mezzo di trasporto. 2.   Qualora il bene sia installato dal venditore o sotto la sua responsabilità, il consumatore acquisisce il possesso fisico del bene nel momento in cui l’installazione è terminata. Qualora il bene sia concepito per essere installato dal consumatore, il consumatore acquisisce il possesso fisico del bene allo scadere di un lasso di tempo ragionevole per effettuare l’installazione, e comunque non oltre 30 giorni dal momento di cui al paragrafo 1. 3.   Qualsiasi difetto di conformità al contratto che si manifesta entro due anni dal momento di cui ai paragrafi 1 e 2 si presume che fosse sussistente in tale momento, salvo che ciò sia incompatibile con la natura del bene o con la natura del difetto di conformità.>>. Il § 3 così allunga a due anni il termine semestrale previsto per l’analoga presunzione nella dir. 1999/44 , art. 5 § 3).

TAR Lazio conferma il provvedimetno dell’AGCM a carico di Volkswagen nel caso “dieselgate”

Il fatto è così esposto nel provvedimento 26.137 del 4 agosto 2016 dell’AGCM contro Volkswagen Group Italia S.p.A. e Volkswagen AG:

<<1. Il procedimento concerne il comportamento posto in essere dai professionisti, consistente nella  commercializzazione, a partire dall’anno 2009, sul mercato italiano di autoveicoli e veicoli commerciali, con motorizzazioni sia diesel che benzina, le cui emissioni inquinanti o concernenti l’ambiente non sarebbero conformi ai  valori dichiarati in sede d i omologazione, ovvero la cui omologazione è stata ottenuta attraverso l’utilizzo di un software nella centralina di controllo del motore (cosiddetto “ impianto di manipolazione ” o defeat device ), in grado di far sì che il comportamento del veicolo sia dive rso durante i test di banco per il controllo  delle emissioni rispetto al normale impiego su strada>>.

L’AGCM ritenne la pratica scorretta ai sensi degli artt. 20, comma 2, 21 comma 1, lettera b ), e 23, comma 1, lettera d ), del Codice del Consum.

L’art. 20 c. 2 così recita: <<Divieto delle pratiche commerciali scorrette – (…) ; 2. Una pratica commerciale e’ scorretta se e’ contraria alla diligenza professionale, ed e’ falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale e’ diretta o del membro medio di un gruppo  qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di  consumatori.>>

L’art. 21 c. 1 lett. b) così recita:<<Azioni ingannevoliE’ considerata ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o e’ idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o piu’ dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o e’ idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso:
a) …; b) le caratteristiche principali del prodotto, quali la sua disponibilita’, i vantaggi, i rischi, l’esecuzione, la composizione, gli accessori, l’assistenza post-vendita al consumatore e il trattamento dei reclami, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, la consegna, l’idoneita’ allo scopo, gli usi, la quantita’, la descrizione, l’origine geografica o commerciale o i risultati che si possono attendere dal suo uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto;>>

L’art. 23 c. 1 lett. d) così recita: <<Pratiche commerciali considerate in ogni caso ingannevoli –  Sono considerate in ogni caso ingannevoli le seguenti pratiche commerciali:

a) ..; b) …; c) …; d) asserire, contrariamente al vero, che un professionista, le sue pratiche commerciali o un suo prodotto sono stati autorizzati, accettati o approvati, da un organismo pubblico o privato o che sono state rispettate le condizioni dell’autorizzazione, dell’accettazione o dell’approvazione ricevuta;>>

Pertanto ne vietò la diffusione o continuazione e irrogò in solido alle predette società  una sanzione amministrativa pecuniaria di 5.000.000 € (cinquemilioni di euro).

La società sanzionate ricorsero al TAR Lazio, il quale il quale però,  con provvedimento della sez. I datato 31 maggio 2019 (N. 06920/2019 REG.PROV.COLL. N. 12293/2016 REG.RIC.), reperibile nel database del sito www.giustizia-amministrativa.it,  ha confermato totalmente il provvedimento dell’AGCM, rigettando il ricorso.

La Pubblica Amministrazione risponde del fatto illecito del dipendente che costituisca reato

Le sezioni unite della Corte di Cassazione , circa l’applicazione dell’art. 2049 c.c. ad una Pubblica Amministrazione (caso di somme depositate presso un ufficio giudiziario, illecitamente sottratte dal cancelliere), nella lunga sentenza 16 maggio 2019, n. 13.246 (fortunatamente divisa in brevi paragrafi, come sarebbe opportuno avvenisse sempre), hanno così statuito:

Premesso che

<<27. Alla stregua di tale elaborazione, il nesso di occasionalità necessaria (e la responsabilità del preponente) sussiste nella misura in cui le funzioni esercitate abbiano determinato, agevolato o reso possibile la realizzazione del fatto lesivo, nel qual caso è irrilevante che il dipendente abbia superato i limiti delle mansioni affidategli, od abbia agito con dolo e per finalità strettamente personali (tra molte: Cass. 24/09/2015, n. 18860; Cass. 25/03/2013, n. 7403); alla condizione però che la condotta del preposto costituisca pur sempre il non imprevedibile sviluppo dello scorretto esercizio delle mansioni, non potendo il preponente essere chiamato a rispondere di un’attività del preposto che non corrisponda, neppure quale degenerazione od eccesso, al normale sviluppo di sequenze di eventi connesse all’espletamento delle sue incombenze (Cass. 11816/16, cit.)>>

<<31. Ritengono queste Sezioni Unite di comporre la disomogeneità tra dette impostazioni rilevando che nessuna ragione giustifichi più, nell’odierno contesto socio-economico, un trattamento differenziato dell’attività dello Stato o dell’ente pubblico rispetto a quello di ogni altro privato, quando la prima non sia connotata dall’esercizio di poteri pubblicistici: e che, così, vada riconsiderato il preponderante orientamento civilistico dell’esclusione della responsabilità in ipotesi di condotte contrastanti coi fini istituzionali o sorrette da fini egoistici>>.

<<51. (…) basta qui rilevare che questa [l’occasionalità necessaria] coinvolge una peculiare specie di relazione di causalità, visto che, nella concreta elaborazione che finora se ne è operata e con le precisazioni di cui appresso, una tale occasionalità necessaria si identifica con quella peculiare relazione tra l’uno e l’altro tale per cui la verificazione del danno-conseguenza non sarebbe stata possibile senza l’esercizio dei poteri conferiti da altri, che assurge ad antecedente necessario anche se non sufficiente; ma qui va affermata la necessità che tale valutazione di impossibilità sia operata in base ai principi della causalità adeguata appena riassunti e così ad un giudizio controfattuale, oggettivizzato ex ante, di regolarità causale atta a determinare l’evento, vale a dire di normalità – in senso non ancora giuridico, ma naturalistico-statistico – della sua conseguenza>>.

Ciò premesso, così concludono:

<<52. Ne consegue che il preponente pubblico, con tale espressione potendo descrittivamente identificarsi lo Stato o l’ente pubblico nella fattispecie di interesse, risponde del fatto illecito del proprio funzionario o dipendente ogni qual volta questo non si sarebbe verificato senza l’esercizio delle funzioni o delle attribuzioni o dei poteri pubblicistici: e ciò a prescindere dal fine soggettivo dell’agente (non potendo dipendere il regime di oggettiva responsabilità dalle connotazioni dell’atteggiamento psicologico dell’autore del fatto), ma in relazione all’oggettiva destinazione della condotta a fini diversi da quelli istituzionali o – a maggior ragione – contrari a quelli per i quali le funzioni o le attribuzioni o i poteri erano stati conferiti.>>

56.  Ne deriva che quest’ultimo [il preponente] andrà esente dalle conseguenze dannose di quelle condotte, anche omissive, poste in essere dal preposto in estrinsecazione dei poteri o funzioni o attribuzioni conferiti, che fosse inesigibile prevenire o raffigurarsi oggettivamente come sviluppo non anomalo, secondo un giudizio controfattuale oggettivizzato ex ante, di quell’estrinsecazione, quand’anche distorta o deviata o vietata: in tanto assorbita od a tanto ricondotta, almeno quanto alla sola qui rilevante fattispecie dei danni causati dall’illecito del pubblico funzionario, ogni altra conclusione sull’occasionalità necessaria, tra cui l’estensione alla mera agevolazione della commissione del fatto.

(pregevole sintesi al §§ 57-59).

Enuncia quindi il principio di diritto al § 60 (e §64):

<<60. (…) lo Stato o l’ente pubblico risponde civilmente del danno cagionato a terzi dal fatto penalmente illecito del dipendente anche quando questi abbia approfittato delle sue attribuzioni ed agito per finalità esclusivamente personali od egoistiche ed estranee a quelle dell’amministrazione di appartenenza, purchè la sua condotta sia legata da un nesso di occasionalità necessaria con le funzioni o poteri che il dipendente esercita o di cui è titolare, nel senso che la condotta illecita dannosa – e, quale sua conseguenza, il danno ingiusto a terzi non sarebbe stata possibile, in applicazione del principio di causalità adeguata ed in base ad un giudizio controfattuale riferito al tempo della condotta, senza l’esercizio di quelle funzioni o poteri che, per quanto deviato o abusivo od illecito, non ne integri uno sviluppo oggettivamente anomalo“>>

Obsolescenza programmata: problemi giuridici

In un breve ma interessante articolo Mariateresa Maggiolino propone alla riflessione il tema dell’obolescenza programmata. Ne ricorda alcuni profili storici ed economici, invitando ad approfondire i profili giuridici ed anzi sollecita il legislatore a fare la sua parte, censurando in modo formale questa pratica (M. Maggiolino, Planned Obsolescence: A Strategy in Search of Legal Rules, in IIC – International Review of Intellectual Property and Competition Law , 2019, 405, editoriale del numero 4)

Ricorda che la Francia nel 2015 si è dotata della legge 2015-992, che definisce l’obsolescenza programmata come “the set of techniques by which an issuer on the market aims to deliberately reduce the lifetime of a product in order to increase its replacement rate” e la sanziona penalmente con pene sia detentive che pecuniarie (sino al 5 % del fatturato medio).

Ricorda anche il noto caso italiano di pratiche commerciali scorrette accertate da AGCM nei confronti di Apple e Samsung con i provvedeimenti del 25 settembre 2018 n. PS11039 – n. 27365 e, rispettivamente, n. PS11009 -n. 27363 .

L’estrato diffuso dall’AGCM ex art. 27 c. 8 cod. cons. è il seguente (prendo quello relativo ad Apple):

<<Le società Apple Inc, Apple Distribution International, Apple Italia S.r.l. e Apple Retail Italia S.r.l. hanno indotto i consumatori in possesso di iPhone 6/6plus/6s/6splus alla   installazione del sistema operativo iOS 10 e successivi aggiornamenti, senza fornire adeguate informazioni circa l’impatto di tale scelta sulle prestazioni degli smartphone e senza offrire (se non in misura limitata o tardiva) alcun mezzo di ripristino dell’originaria funzionalità degli apparecchi in caso di sperimentata diminuzione delle prestazioni a seguit o dell’aggiornamento (quali il downgrading o la sostituzione della batteria a costi ragionevoli). Tale pratica è stata valutata scorretta, ai sensi degli artt. 20, 21, 22 e 24 del D.Lgs. n. 206/2005 (Codice del Consumo) dall’Autorità Garante della Conco rrenza e del Mercato>>

Un annotatore, pur complessivamente apprezzando il provvedimento, dubita che sia stata realmente provata <<la deliberata e pianificata adozione di una strategia di obsolescenza  programmata>> (Giannaccari A., Apple, obsolescenza tecnologica (programmata) e diritti dei consumatori, Mercato Concorrenza Regole, 2019 / 1, 154-155)

Sono proponibili anche dubbi civilistici: il prodotto, progettato per durare meno di quel che potrebbe, può dirsi affetto da vizio, ai sensi della disciplina della vendita, comune o consumeristica?

42 Stati adottano tramite l’OECD una Raccomandazione sull’Intelligenza Artificiale

Il 22 maggio 2019 quarantadue paesi (tra cui l’Italia) tramite l’OECD (Organisation for Economic Co-operation and Development)  hanno adottato una Raccomandazione sulla policy inerente l’Intelligenza Artificiale.

Ne dà notizia il sito dell’OECD ove si legge: <<OECD and partner countries formally adopted the first set of intergovernmental policy guidelines on Artificial Intelligence (AI) today, agreeing to uphold international standards that aim to ensure AI systems are designed to be robust, safe, fair and trustworthy>>.

Qui il testo.

V.  ora il sintetico ma chiaro saggio di Borsari sui profili penalistici dell’AI nel caso -in realtà, l’unico oggi interessante- funzioni con la caratteristica di machine learning: Borsari, Intelligenza artificiale e responsabilità penale: prime considerazioni, Riv. dir. dei media, 2019/3, §§ 4-5.

Sulla postergazione del rimborso dei finanziamenti erogati dal socio di SRL alla soceità: precisazioni utili dalla Cassazione

La S.C. (sez. I civ., 15.05.2019, n. 12994, rel. Nazzicone) interviene sulla postergazione del rimborso dei finanziamenti concessi dal socio di SRL alla società (art. 2467 c.c.).

E’ chiamata a rispondere a due quesiti:

1)  se la postergazione operi automaticamente e quindi sempre oppure solo in occasione di procedura concorsuale;

2) se nel corso del giudizio di recupero del credito, promosso dal socio, l’eccezione di postergazione costituisca eccezione in senso stretto  oppure lato.

Circa il quesito sub 1), la SC risponde in senso affermativo : la postergazione opera automaticamente (concezione “sostanziale”). La ratio legis dell’art. 2467 cc <<consiste (..) nell’intento di contrastare la non infrequente sottocapitalizzazione delle società, quale tecnica di traslazione sui creditori e sui terzi del rischio da continuazione dell’attività in regime di crisi, con eventuale profitto dei soci ed aggravamento del dissesto a scapito dei creditori: fenomeno determinato dalla convenienza dei soci a ridurre l’esposizione al rischio d’impresa, apportando nuove risorse a disposizione dell’ente collettivo nella forma del finanziamento, anzichè in quella appropriata del conferimento (cfr. Cass. 20 maggio 2016, n. 10509; Cass. 7 luglio 2015, n. 14056)>> (§ 3.3).

Ne segue che il credito del socio, <<in presenza di un finanziamento concesso nelle condizioni di eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto o laddove sarebbe stato ragionevole un conferimento, subisce una postergazione legale, la quale non opera una riqualificazione del prestito da finanziamento a conferimento con esclusione del diritto al rimborso, ma incide sull’ordine di soddisfazione dei crediti. Il legislatore, tra le tecniche disponibili al riguardo, ha escluso invero la riqualificazione del prestito ed optato per la postergazione: non muta ex lege la causa della dazione, che resta quella del mutuo (art. 1813 c.c.) e non diventa causa di conferimento (art. 2343 c.c.). I finanziamenti de quo, pertanto, costituiscono prestiti e non apporti di capitale, alla cui disciplina – rimborsabilità solo all’esito della liquidazione e, quindi, dopo la restituzione anche dei prestiti anomali – non sono soggetti>> (§ 3.4).

Dato tale contesto, <<l’effetto della postergazione è automatico, non dipendendo da una conoscenza effettiva dello stato della società o dall’intenzione delle parti, ed impone al giudice, richiesto del rimborso, di accertare, sulla base delle risultanze processuali in atti, se la situazione sociale ricada in una delle fattispecie ex art. 2467 c.c., comma 2.  Ne deriva che l’integrazione delle fattispecie indicate nel comma 2 dell’art. 2467 c.c., produce effetti negoziali sul diritto del socio alla restituzione della somma finanziata: il credito restitutorio, sebbene eventualmente sia anche scaduto il termine previsto per l’adempimento ex art. 1813 c.c., non è esigibile. La postergazione prevista dalla norma finisce, così, per operare come una condizione legale integrativa del regolamento negoziale circa il rimborso, la quale statuisce l’inesigibilità del credito in presenza di una delle situazioni previste dall’art. 2467 c.c., comma 2, con un impedimento (solo temporaneo) alla restituzione della somma mutuata.>> (§ 3.4).

Ne segue ancora <<l’ulteriore conseguenza che la società e, per essa, l’organo amministrativo può, ed anzi deve rifiutare il rimborso del prestito, sino a quando non siano venute meno le predette condizioni: evento, quest’ultimo, che rende nuovamente la società immediatamente tenuta al pagamento al socio di quanto dovutogli in restituzione. Quando, invero, sia stato superato lo squilibrio patrimoniale e, quindi, la situazione di rischio per i creditori sociali che ne discende e che la norma pone a fondamento della regola di postergazione – il credito del socio ritorna ordinariamente esigibile, sebbene non fossero stati a quel momento adempiuti tutti gli altri debiti sociali: potendosi allora ritenere realizzata una situazione di soddisfazione, sia pure “astratta”, dei creditori esterni e dunque esistente uno status di regolare esigibilità. Se, pertanto, la situazione di squilibrio sia venuta meno al momento in cui alla società sia richiesto il rimborso da parte del socio (ovvero al momento in cui il giudice del merito sia chiamato a decidere, come si dirà), essa è tenuta a provvedervi, non attenendo la postergazione all’esistenza in sè del credito, ma alle condizioni per l’esazione, onde il venir meno di detta situazione, dapprima esistente e quindi atta a rendere il credito non esigibile, comporta il superamento dello stato di inesigibilità>> (§ 3.5).

La risposta dovrebbe ragionevolmente essere uguale per la fase di liquidazione: non è necessario attenderla perchè l’art. 2467 diventi  applicabile.

Utile infine la precisazione processuale: <<Occorre aggiungere come, nel giudizio avente ad oggetto la condanna della società renitente alla restituzione del prestito in favore del socio, il giudice dovrà accertare se sussista, in concreto, una delle situazioni ex art. 2467 c.c., comma 2: non solo al momento del prestito (dies storico statico), ma anche al momento della richiesta di rimborso e sino alla pronuncia, trattandosi di una condizione di inesigibilità del credito.>> In altre parole l’esigibilità, come condizione dell’azione, <<può maturare in corso di causa e fino al momento della sentenza, chiamata ad accertare se si sia ripristinata, sia pure solo in pendenza del giudizio, la condizione di piena esigibilità del credito azionato in giudizio per l’inattualità della situazione di crisi>> (§ 3.7) (ciò entro i c.d. limiti cronologici del giudicato).

Circa il quesito sub 2), la Corte risponde che si tratta di eccezione in senso lato, rilevabile pure dal giudice.

Ricorda infatti che <<secondo principio consolidato, costituiscono eccezioni in senso stretto, rilevabili ad istanza di parte, quelle che possono essere sollevate soltanto dalle parti per espressa disposizione di legge, ovvero quelle il cui fatto integratore corrisponda all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio dal titolare e, quindi, presupponga una manifestazione di volontà di quest’ultimo>> (§ 4).

E dunque <<l’eccessivo squilibrio nell’indebitamento o la situazione finanziaria in cui sarebbe stato ragionevole un conferimento, quali situazioni previste dal comma 2, della norma in esame – da verificare sia al momento del prestito, sia della richiesta di rimborso e, quindi, in caso di controversia, della decisione giudiziale costituiscono fatto impeditivo del diritto al rimborso oggetto di eccezione in senso lato, non risultando, con riguardo ad esse, nessuna delle fattispecie, che possano fondarne la qualificazione come eccezione in senso proprio. La qualificazione di “credito postergato” discende dalla sussistenza di oggettive circostanze previste dalla legge e non dall’esercizio di un diritto potestativo della società finanziata, con la conseguenza che si deve escludere la sussistenza di un’eccezione in senso proprio.>> (§ 4, p. 12).

Infine si noti il passaggio sull’onere della prova: tocca alla società, richiesta del rimborso, eccepire (fatto impeditivo) l’esistenza delle condizioni giustificanti la postergazione.