Conclusione non contestuale del contratto donativo (art. 782.2 c. c.)

Si dilunga Cass. sez. II, ord. 13/12/2024 n. 32.333, rel. Picaro, sulla non frequente fattispecie concreta in oggetto. L’operatore ne prende accurata nota: serve la notifica formale.

<<L’art. 782 comma 2 cod. civ., prevede che, nel caso in cui non vi sia contestualità tra proposta ed accettazione, quest’ultima deve necessariamente rivestire la forma dell’atto pubblico e stabilisce che la donazione non è perfetta se non dal momento in cui l’atto di accettazione sia notificato al donante, in deroga al generale principio che non indica il mezzo attraverso il quale l’accettante deve portare a conoscenza del proponente la propria accettazione (art. 1326 cod. civ.).

La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente interpretato l’art. 782 comma 2 cod. civ., nel senso che la notifica dell’atto di accettazione è un elemento costitutivo del negozio, prima del quale non si produce alcun effetto traslativo e che tale notifica non ammette equipollenti, non potendosi, dunque, considerare soddisfatto il relativo requisito con l’utilizzo di mezzi diversi dalla stessa.

D’altra parte, lo stesso tenore letterale del comma in esame impone una siffatta interpretazione, in quanto il riferimento testuale non è alla conoscenza della volontà di accettare, ma proprio alla notifica al donante dell’atto pubblico posteriore di accettazione.

Si tratta di un contratto a formazione progressiva, per il quale è prevista una particolare solennità (atto pubblico) e formalità (notifica) della volontà di accettare, che si giustificano per gli effetti che il perfezionamento del contratto determina, prima fra tutte l’irrevocabilità dell’atto di liberalità. In altri termini, è necessario il perfezionarsi di una ben precisa sequenza procedimentale di formazione e di incontro delle volontà, in considerazione della particolare natura dell’atto di donazione, soprattutto con riferimento all’irrevocabilità degli effetti traslativi del diritto di proprietà su beni immobili.

Data la particolarità del contratto di donazione, la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente interpretato la notifica di cui all’art. 872 cod. civ., come atto formale nel senso che non sono ammessi equipollenti. Una copiosa giurisprudenza in tal senso si è formata soprattutto con riferimento alla donazione in favore di persona giuridica, nel regime precedente l’abrogazione dell’art. 872 cod. civ., comma 4, allorché si è affermata l’irrilevanza della notificazione della mera richiesta di autorizzazione governativa ad accettare, rilevante, invece, al diverso fine di rendere irrevocabile per un anno la dichiarazione del donante. In tali casi si è ritenuto necessario, ai fini del perfezionamento del contratto, ai sensi dell’art. 782 cod. civ., che il donatario notificasse al donante l’atto pubblico contenente la manifestazione della volontà di accettare, che non poteva derivare da forme alternative di pubblicità o dall’effettiva conoscenza dell’accettazione (Cass. n. 15121/2001; Cass. n.9611/1991; Cass. sez. un. n. 6481/1988; Cass. n.2834/1982; Cass. n.3247/1971).

In linea di continuità con i precedenti citati e con la sentenza n.9476 del 23.3.2022 di questa Corte, deve affermarsi, pertanto, che la prova della conoscenza da parte del donante dell’accettazione del donatario, non può essere equiparata alla notificazione dell’atto di accettazione, formalità necessaria per il perfezionarsi degli effetti che, ai sensi dell’art. 782 cod. civ., comma 3, determinano l’irrevocabilità della dichiarazione.

D’altra parte, l’opposta interpretazione seguita dalla Corte d’Appello, che ha ritenuto che la prova rappresentata dall’avviso di ricevimento della notificazione ex art. 4 della L. 20.11.1982 n. 890 possa essere sostituita attraverso l’utilizzo di elementi presuntivi, oltre a contrastare con quella disposizione, svilirebbe del tutto la previsione codicistica, non potendosi distinguere dal generale precetto dell’art. 1326 cod. civ., in tema di proposta e accettazione. Infatti, ai fini del configurarsi del perfezionamento del contratto (art. 1326 cod. civ.), è sufficiente che il proponente conosca l’accettazione dell’altra parte in qualsiasi modo, anche – ad esempio – mediante esibizione, e senza consegna (art. 1335 cod. civ.), del documento che la contiene, il che può anche essere testimonialmente provato (Cass. n. 6105/2003).

La norma perderebbe di autonomo significato anche in relazione agli artt. 1334 e 1335 cod. civ., posto che, per determinare nel destinatario, la conoscenza di un atto unilaterale recettizio, negoziale o non, la legge non impone modalità predeterminate (raccomandata con ricevuta di ritorno o altri mezzi particolari), sicché, salvi i casi in cui una forma determinata sia espressamente prescritta per legge o per volontà delle parti, deve ritenersi idoneo, al predetto fine, qualsiasi strumento di comunicazione, purché esso sia congruo in concreto a farne apprendere compiutamente e nel suo giusto significato il contenuto (in tal senso vedi Cass. n.2262/1984).

Nel caso dell’accettazione non contestuale della donazione, però, come si è detto, è il codice stesso, all’art. 872 comma 2 cod. civ., a prevedere una ben individuata e particolare modalità per portare a conoscenza del donante l’accettazione, quale appunto la notificazione, diversa dalla presa di conoscenza “a forma libera” di cui all’art. 1335 cod. civ.

Affermare, che in luogo della notifica dell’atto pubblico di accettazione, da provare necessariamente attraverso l’avviso di ricevimento della notifica, sia sufficiente la prova presuntiva dell’avvenuta notificazione, o addirittura di una generica conoscenza dell’accettazione in capo al donante, costituirebbe una violazione oltre che del canone di interpretazione della legge “letterale” anche di quello “sistematico”, finendo con l’operare una

non consentita interpretatio abrogans dell’art. 782 comma 2 cod. civ.

La notificazione di cui all’art. 782 comma 2 cod. civ., pertanto, si identifica con quella effettuata ai sensi dell’ordinamento processuale, e non costituisce un atto a forma libera che, come tale, può concretizzarsi in qualsivoglia atto idoneo a porre il debitore nella consapevolezza dell’avvenuta accettazione, essendo necessario che risulti ritualmente notificato l’atto pubblico di accettazione ai fini dell’efficacia della donazione, che del resto è un negozio solenne.

Solo in un remoto precedente questa Corte ha ritenuto ammissibile in alternativa alla notifica rituale un’altra forma di conoscenza egualmente idonea allo scopo e che valesse a documentare la cognizione dell’accettazione in capo al donante (Cass. n.2515/1962). In quell’occasione, tuttavia, la fattispecie era del tutto particolare in quanto anche se non era stato notificato a mezzo di ufficiale giudiziario l’atto pubblico posteriore di accettazione della donazione con una successiva scrittura privata, sottoscritta dal donante e dal donatario, si era fatto espresso riferimento alla donazione ed all’avvenuta accettazione della stessa, e, nel presupposto della perfezione del contratto di donazione, si era precisata la volontà di eseguirlo con determinate modalità ed oneri, a carico del donatario.

Peraltro, in altro precedente dello stesso anno si era invece affermato che: “In tema di donazione, quando il legislatore, dell’art. 1057 c.c., comma 2, abrogato e dell’art. 782 c.c., comma 2, vigente, parla di notificazione dell’atto di accettazione della donazione, intende riferirsi alla notificazione prevista dal codice di rito, cioè a quella forma di attività, diretta a portare a conoscenza altrui un atto che è posto in essere dall’organo all’uopo specificamente predisposto dalla legge, vale a dire dall’ufficiale giudiziario (Cass n. 1520/1962).

Tale orientamento è stato confermato anche in altri precedenti nei quali si è affermata altrettanto esplicitamente la necessità della notificazione dell’accettazione, da eseguirsi per mezzo di ufficiale giudiziario, ai fini del perfezionamento della donazione (Cass. n. 11050/1993; Cass. n. 1026/1977).

Le sentenze della Suprema Corte richiamate dall’impugnata sentenza per giustificare al contrario il ricorso alla prova presuntiva (Cass. n. 6578/1979 e Cass. n.511/2019) non sono invece pertinenti, in quanto si riferiscono rispettivamente ad un contratto di colonia e ad un contratto di lavoro a termine, e non al contratto solenne di donazione con accettazione distinta dalla liberalità, per il quale è prescritta espressamente per il perfezionamento la notificazione.

Naturalmente la notificazione al donante dell’accettazione per essere rituale oltre che dall’ufficiale giudiziario ex art. 137 c.p.c., può essere eseguita anche a mezzo del servizio postale ex art. 149 c.p.c. Infatti, anche in questo caso, interviene l’ufficiale giudiziario, che scrive la relata di notifica sull’originale e sulla copia dell’atto facendovi menzione dell’ufficio postale per mezzo del quale spedisce la copia al destinatario in piego raccomandato con avviso di ricevimento e quest’ultimo dev’essere allegato all’originale (art. 149 c.p.c., comma 2).

Con il compimento del procedimento di notificazione si consegue la certezza legale della conoscenza dell’atto pubblico da parte del destinatario, ad ulteriore conferma della differenza con la disciplina di cui all’art. 1335 cod. civ., dove si è ammessi a provare di essere, senza colpa, nell’impossibilità di averne notizia.

In definitiva il collegio intende riaffermare il seguente principio di diritto: “La notificazione dell’accettazione della donazione, prevista dall’art. 782 comma 2 cod. civ., per i casi in cui proposta ed accettazione siano contenuti in atti pubblici distinti deve eseguirsi in modo rituale e costituisce requisito indispensabile per la perfezione del relativo contratto che, pertanto, prima del suo verificarsi non può considerarsi ancora concluso” (in tal senso Cass. 23.3.2022 n. 9476)>>.

L’obbligazione naturale tra conviventi more uxorio resta tale anche in presenza di dazioni successive alla fine della convivenza

Cass. sez. I, ord. 02/01/2025  n. 28, rel. Parise, con insegnamento importante e per nulla scontato:

Premessa generale:

<<3.2. Tanto precisato, secondo l’orientamento consolidato di questa Corte che il Collegio intende qui ribadire, la sussistenza dell’obbligazione naturale ex art. 2034, comma 1, c.c., postula una duplice indagine, finalizzata ad accertare se ricorra un dovere morale o sociale, in rapporto alla valutazione corrente nella società, e se tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di proporzionalità ed adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso (tra le altre Cass. 19578/2016).

Inoltre questa Corte ha avuto modo di chiarire (cfr. da ultimo Cass. 16864/2023) che le unioni di fatto, quali formazioni sociali che presentano significative analogie con la famiglia formatasi nell’ambito di un legame matrimoniale e assumono rilievo ai sensi dell’art. 2 Cost., sono caratterizzate da doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell’altro, doveri che si esprimono anche nei rapporti di natura patrimoniale, sicché le attribuzioni finanziarie a favore del convivente more uxorio, effettuate nel corso del rapporto per far fronte alle esigenze della famiglia (nella specie, versamenti di denaro sul conto corrente del convivente con quindici bonifici per un importo complessivo di € 74.000), configurano l’adempimento di un’ obbligazione naturale ex art. 2034 c.c., a condizione che siano rispettati i principi di proporzionalità e di adeguatezza, per la cui valutazione occorre tener conto di tutte le circostanze fattuali, oltre che dell’entità del patrimonio e delle condizioni sociali del solvens>>.

Sul punto specifico :

<<3.3. La questione oggetto del contendere e oggetto della specifica censura di cui si sta trattando concerne la configurabilità dei doveri di natura morale e sociale di ciascun convivente nei confronti dell’altro in relazione ad attribuzioni economiche o patrimoniali effettuate non nel corso del rapporto di convivenza more uxorio, ma dopo la cessazione dello stesso, e su detto specifico profilo non constano pronunce di questa Corte.

Ritiene il Collegio che sia corretta la soluzione adottata dalla Corte territoriale, che ha ritenuto di poter ricondurre nell’alveo dei doveri sociali e morali, in rapporto alla valutazione corrente nella società, quello solidaristico nei confronti dell’ex-convivente more uxorio, ravvisato, cioè, sussistente e meritevole di tutela anche nel periodo successivo alla cessazione del rapporto, avuto riguardo alla specificità del caso concreto.

Occorre osservare che le convivenze di fatto sono un diffuso fenomeno sociale, anche se di origine relativamente recente, poiché dai dati statistici risulta la “moltiplicazione delle unioni libere”, che ormai sopravanzano, in numero, le famiglie fondate sul matrimonio, come affermato anche dalla Corte costituzionale, da ultimo con la pronuncia n. 148/2024, che ha ricostruito in dettaglio l’evoluzione del quadro normativo e tratteggiato le caratteristiche salienti dell’ampliamento progressivo del rilievo dato dal legislatore alle unioni di fatto.

L’affermarsi di una concezione pluralistica della famiglia, dapprima nella società e quindi nella giurisprudenza, grazie anche all’impulso dato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 21 luglio 2015, Oliari e altri contro Italia), ha trovato un approdo legislativo nella legge n. 76 del 2016, che in un unico e lungo articolo, suddiviso in 69 commi, contempla due modelli distinti: il primo, quello dell’unione civile, cui sono dedicati i primi 35 commi, è riservato alle coppie formate da persone dello stesso sesso; il secondo, quello della convivenza di fatto, è aperto a tutte le coppie, eterosessuali e omosessuali. Quanto al secondo modello (la convivenza di fatto), la legge n. 76 del 2016 abbandona la rigida alternativa tra tutela, o no, parametrata a quella riservata alla famiglia fondata sul matrimonio e valorizza l’esigenza di speciale regolamentazione dei singoli rapporti, siano essi quelli che vedono coinvolti i conviventi tra di loro, ovvero quelli tra genitori e figli o che si sviluppano con i terzi (così la sentenza citata n.148/2024). La convivenza di fatto, trovando copertura di rango costituzionale nell’art. 2, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo nelle “formazioni sociali” ove si svolge la sua personalità, esige una tutela che si affianca a quella che l’art. 29, primo comma, Cost. riserva alla “famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” (sentenze n. 269 del 2022, n. 170 del 2014 e n. 138 del 2010 della Corte Cost.).

Dunque, la convivenza di fatto implica un “legame affettivo di coppia” e plurime disposizioni di legge, nel tempo, ne hanno sancito il rilievo sotto molteplici e disparati profili (per una puntuale elencazione cfr. la citata sentenza n.148/2024; tra le più recenti cfr. la legge 27 dicembre 2017, n. 205 in tema di caregiver familiare; il decreto legislativo 30 giugno 2022, n. 105, che richiama la figura del convivente di fatto come possibile beneficiario dei permessi per assistere persone disabili; il decreto legislativo n. 105 del 2022, nella parte in cui prevede che al coniuge convivente sono equiparati, ai fini dei riposi e permessi per assistere i figli con handicap grave, sia la parte di un’unione civile, sia il convivente di fatto). Resta da aggiungere che, come rimarcato dal Giudice delle leggi, pure nell’ambito della cornice normativa dettata dalla legge n. 76 del 2016 e dai provvedimenti legislativi settoriali successivi, restano ancora affidati alla spontaneità dei comportamenti tutti quegli aspetti che caratterizzano la gestione delle esigenze della coppia, quali coabitazione, collaborazione, contribuzione ai bisogni comuni, assistenza morale e materiale, determinazione dell’indirizzo familiare e fedeltà, durata della relazione>>.

Nell’appalto il ricocnoscimento dei vizi è altro dall’assunzione dell’impegno a rimuoverli

Cass. sez. II, ord. 18/12/2024  n. 33.053, rel. Varrone, con precisazione esatta anche se scontata:

<<Questa Corte, sul punto, ha già avuto modo di affermare il seguente principio di diritto cui il Collegio intende dare continuità: Il semplice riconoscimento dei vizi e delle difformità dell’opera da parte dell’appaltatore implica la superfluità della tempestiva denuncia da parte del committente, ma da esso non deriva automaticamente, in mancanza di un impegno in tal senso, l’assunzione in capo all’appaltatore dell’obbligo di emendare l’opera, che, ove configurabile, è una nuova e distinta obbligazione soggetta al termine di prescrizione decennale; ne consegue che il predetto riconoscimento non impedisce il decorso dei termini brevi della prescrizione previsti in tema di appalto (Sez. 2, Ordinanza n. 19343 del 16/06/2022, Rv. 664999-02).

In tale occasione, infatti, si è precisato che occorre tenere distinto il profilo del riconoscimento dei vizi dal ben diverso profilo dell’assunzione dell’impegno a rimuoverli e della conseguente assunzione di una obbligazione diversa ed autonoma rispetto a quella originaria, svincolata dal termine decadenziale e soggetta al solo termine prescrizionale ordinario. La Corte territoriale ha ritenuto sufficiente il riconoscimento dei vizi e irrilevante la mancata assunzione di responsabilità in ordine alla loro causa con il conseguente impegno a rimuoverli.

Deve dunque ribadirsi che anche in presenza di un riconoscimento dei vizi e delle difformità dell’opera da parte dell’appaltatore – riconoscimento che elide l’onere di effettuare la denuncia – non può farsi discendere automaticamente dal riconoscimento medesimo l’assunzione in capo all’appaltatore dell’obbligo di emendare l’opera, in assenza della prova di un impegno in tal senso, con la conseguenza che il predetto riconoscimento non impedisce il decorso dei termini brevi della prescrizione previsti in tema di appalto (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15283 del 21/07/2005 – Rv. 582730-01)>>.

Dannon non patrimoniale da illegittimo trattamenot sanitario obbligaqtorio dispostao a carico di persona psicologicamente fragile

Importante insegnamento (anche se pianamente discendente dalla tutela della dignità di ogni persona) in Cass. sez. III, ord.  19/12/2024 n. 33.290, rel. Rubino:

<<6.6. – Va a questo proposito puntualizzato che la illegittima privazione della libertà personale e la sottoposizione contro la propria volontà a trattamenti sanitari non consentiti ed indesiderati, consistendo in una ingiustificata compressione del diritto inviolabile alla libertà personale costituzionalmente tutelato, può essere causa di danno risarcibile anche a prescindere dal fatto che essa si associ ad un apprezzabile danno alla salute della persona. (…)

6.7. – Va ulteriormente aggiunto che la condizione di eventuale fragilità psicologica o psichica del paziente illegittimamente sottoposto a TSO non costituisce, come sembra ritenere la Corte d’Appello, una condizione ostativa alla apprezzabilità da parte del danneggiato e alla valutabilità da parte del giudice delle conseguenze pregiudizievoli dell’illecito, né quanto alla componente di sofferenza pura, né per quanto riguarda il pregiudizio nella sfera dinamico relazionale.

La condizione di eventuale fragilità del danneggiato rileva solo sotto il profilo della maggior complessità dell’accertamento ovvero della necessità di procedere ad un accertamento del danno che tenga conto, nelle sue modalità, della particolare condizione del potenziale danneggiato, al fine di indagare con mezzi adeguati, pur nei limiti dei fatti allegati e dei mezzi di prova proposti, e non di escludere a priori, se la privazione della libertà personale ridondi in una particolare sofferenza o se al contrario venga limitatamente o non apprezzabilmente percepita come tale dal soggetto, come pure a verificare se e in che misura il rapporto già eventualmente difficoltoso con gli altri della persona psicologicamente fragile sia stato negativamente intaccato, nell’immagine e nella considerazione sociale, dalla sottoposizione a TSO, rivelatasi a posteriori illegittima.

L’equazione che si ricava dalla motivazione della sentenza impugnata, secondo la quale il fatto incontestato della forzata privazione della libertà personale della ricorrente, i trattamenti farmacologici subiti a forza, la destabilizzazione conseguente di un equilibrio già precario, la perdita di reputazione sociale fossero fatti sostanzialmente irrilevanti, proprio perché si trattava di una persona fragile e il cui rapporto con gli altri era comunque già problematico, prima che si verificassero i fatti per cui è causa, è errata e si traduce nella mancanza di una corretta verifica dell’esistenza e dell’entità dei danni conseguenza.

In altri termini, va ribadito, ove necessario, giacché la Corte d’Appello sembra non esserne stata consapevole, che i comportamenti illeciti possono rilevare sotto il profilo del danno conseguenza come danno non patrimoniale, nelle sue componenti della sofferenza pura e del danno dinamico relazionale, anche nei confronti di una persona psicologicamente fragile e che non goda di elevata considerazione sociale, perché ogni persona ha diritto a non essere coinvolta illegittimamente in episodi che mettano (ancor più) a repentaglio il suo equilibrio e la sua reputazione pubblica. Diversamente opinando si arriverebbe all’estrema, inaccettabile conseguenza, di affermare che gli episodi di violenza, di minaccia, di dileggio che si consumano a danno di persone psichicamente instabili o comunque che si collocano ai margini della società, e di illegittima privazione della libertà personale nei confronti di queste persone non producono mai alcun danno perché queste persone anche prima non godevano di elevata considerazione sociale o perché le stesse, avendo un equilibrio fragile e instabile, non sono in grado di avvertire il peso delle umiliazioni o di soffrire per la privazione della propria libertà.

È quindi del tutto errata e censurabile, perché priva di ogni riscontro e di una effettiva analisi dei fatti nonché della valutazione delle eventuali conseguenze subite dalla ricorrente, anche perché prescindente da ogni approfondimento clinico e psicologico, pur richiesti, l’affermazione (a pag. 15 della sentenza impugnata) secondo la quale, attesa la preesistente situazione di disagio psichico della signora, vissuta sia intimamente che nelle relazioni con il prossimo, non sia possibile “individuare un prima e un dopo rispetto a quanto accaduto nel maggio 2009”.

Ugualmente e correlatamente errata è, in siffatta situazione, la scelta di non ammettere la consulenza tecnica, pur richiesta, perché ritenuta meramente esplorativa, laddove nei casi in cui la comunicazione diretta con la parte e l’apprezzamento delle sue condizioni psicofisiche è problematica per il giudice, la consulenza tecnica (avvalendosi se del caso anche di specialisti in psicologia) diviene uno strumento istruttorio officioso necessario al fine di fornire il supporto tecnico adeguato per compiere la verifica delle conseguenze del fatto lesivo sul danneggiato; la sua richiesta non può, pertanto, essere ritenuta meramente esplorativa, dovendosi intendere come tale soltanto l’istanza rivolta a supplire le deficienze allegative ed istruttorie di parte, così da aggirare il regime dell’onere della prova sul piano sostanziale o i tempi di formulazione delle richieste istruttorie sul piano processuale>>.

Sottrazione sleale di clientela del concorrente tramite l’ex dipendente

Breve passaggio in Cass. sez. I, ord. 29/01/2024 n. 2.586, rel. Catallozzi:

<<- infatti, la concorrenza che si svolge mediante la distrazione di clienti da un altro imprenditore non è illecita, per cui non può essere preclusa al nuovo imprenditore, in assenza di un patto di non concorrenza, pena una menomazione della sua iniziativa imprenditoriale priva di fondamento normativo;

– ciò che è illecito è l’acquisizione sistematica di clientela di altro concorrente realizzata mediante l’uso diretto o indiretto di mezzi non conforme alla correttezza professionale, quale, ad esempio, l’utilizzo di notizie sui rapporti con i clienti di altro imprenditore, acquisite nel corso di una pregressa attività lavorativa svolta alle dipendenze di quest’ultimo, ove trattasi di notizie non destinate ad essere divulgate al di fuori dell’azienda, quando dal loro impiego consegua un vantaggio competitivo (cfr. Cass. 31 marzo 2016, n. 6274; Cass. 30 maggio 2007, n. 12681; Cass. 20 marzo 1991, n. 3011);>>

REsponsabilità da prodotto difettoso per carente informazione

Cass. sez. III, ord. 23/12/2024  n. 33.984., rel. Gorgoni, circa la pasta pasta dentaria Polident Imbattibile di Glaxo:

<<Un tanto pur dovendosi ribadire che:

i) il prodotto non è difettoso solo perché pericoloso; nel senso che il verificarsi del danno non prova indirettamente, di per sé, la pericolosità del prodotto in condizioni normali di impiego, ma solo una sua più indefinita pericolosità di per sé insufficiente per evocare la responsabilità del produttore, se non sia anche in concreto accertato che quella specifica condizione di insicurezza del prodotto si pone al di sotto del livello di garanzia di affidabilità richiesto dalla utenza o dalle leggi in materia (Cass. 29/5/2013, n. 13458; Cass. 29/5/2013, n. 13458; Cass. 13/12/2010, n. 25116; Cass. 23/10/2023, n. 29837);

ii) non esiste un prodotto del tutto innocuo (Cass. 10/05/2021, n. 12225, cit., osserva che “anche assumendo come parametro integrativo di riferimento la nozione di prodotto “sicuro” contenuta nella disciplina sulla sicurezza generale dei prodotti di cui all’art. 103 Codice del consumo (e già al D.Lgs. n. 172 del 2004)(…) di sicurezza prescritto, al di sotto del quale il prodotto deve considerarsi difettoso, non corrisponde a quello della sua più rigorosa innocuità, dovendo farsi riferimento ai requisiti di sicurezza dall’utenza generalmente richiesti in relazione alle circostanze specificamente indicate all’art. 117 Codice del consumo (e già al D.P.R. n. 224 del 1988, art. 5), o ad altri elementi in concreto valutabili e concretamente valutati dal giudice di merito, nell’ambito dei quali debbono farsi rientrare gli standards di sicurezza eventualmente imposti dalle norme in materia (v. Cass. 20/11/2018, n. 29828; Cass. 29/5/2013, n. 13458)”) e che una certa dose di rischio può accettarsi purché sia ragionevole in relazione ad alcuni indici di valutazione proposti dal legislatore, i quali mediano tra i comportamenti esigibili dal produttore e le realistiche attese di sicurezza dell’utilizzatore, anche allo scopo di non imporre al produttore un costo elevato e inefficiente.

Un primo dato certo è allora che, come osservato dall’odierna ricorrente, la pasta adesiva solo perché conforme agli standard tecnici non è per ciò solo inidonea a provocare danni.

Nonostante il rilievo crescente attribuito alle norme tecniche emanate da organismi di normalizzazione (norme UNI e CEI in Italia), recepite o richiamate da provvedimenti legislativi, che il prodotto sia pienamente conforme agli standard tecnici – che siano espressamente prescritti dalle cosiddette normative verticali o che siano altrimenti desumibili dallo stato dell’arte – non implica che esso non sia potenzialmente dannoso (Cass. n. 12225/2021, cit.), quand’anche se ne possa presumere la sicurezza e, per converso, un prodotto difforme può risultare solo occasionalmente (ma non necessariamente) dannoso. Il prodotto conforme agli standard tecnici può risultare difettoso, perché dannoso, in considerazione del fatto che gli standard tecnici individuano una soglia minima di sicurezza il cui rispetto è indispensabile per ottenere la certificazione senza la quale non è possibile immettere in circolazione il prodotto, ma non esonera da responsabilità il produttore che non abbia fatto ricorso a misure precauzionali additive, purché fossero nella sua disponibilità (Corte di Giustizia CE, 29/05/1997, C-26/96, secondo cui le conoscenze scientifiche e tecniche di cui all’art. 7 lett. e) della Direttiva n. 85/374 non riguardano soltanto la prassi e gli standard di sicurezza in uso nel settore industriale nel quale opera il produttore, ma comprendono, senza alcuna restrizione, lo stato dell’arte inteso nel suo livello più avanzato, purché concretamente accessibile al momento della messa in circolazione del prodotto considerato).

Il ragionamento, in verità, non è dissimile da quello che si segue da parte di questa Corte quando si deve accertare la sussistenza di un comportamento colposo; il fatto che l’agente abbia osservato una norma cautelare esclude, di norma, la sua colpa specifica, ma tanto non esime dal verificare la sussistenza di una sua colpa generica [ottima precisazione].

Erra dunque il giudice a quo quando conferma la pronuncia del Tribunale che aveva “precisato come, in dipendenza della qualifica di presidio marcato CE, la parte adesiva era stata sottoposta ai controlli previsti dalla disciplina in materia” (p. 6 della sentenza), dopo avere osservato, atteggiandosi a giudice di legittimità, che l’appellante aveva riproposto la propria tesi difensiva, già disattesa dal giudice di primo grado, senza un effettivo confronto con la più ampia argomentazione presente nella sentenza impugnata (p. 6).

Ora, nel caso di specie la ricorrente per invocare la responsabilità del produttore ha fatto leva su uno dei tre difetti su cui è incentrata la definizione normativa di prodotto difettoso, vale a dire il difetto di informazione (gli altri sono i difetti di fabbricazione – uno o pochi esemplari della serie sono difettosi, per cattivo funzionamento dell’impianto di prodizione o per una svista di qualche operatore i difetti di costruzione – l’intera serie è difettosa a causa di inadeguata progettazione, mancanza di congegni di sicurezza, uso di componenti o materie prime inadatte, insufficiente sperimentazione ecc.) cioè la mancanza o l’insufficienza di informazioni date dal produttore per un uso corretto del prodotto e per evitare i rischi connessi al suo uso.

Detta informazione, sia quella tratta dalla presentazione del prodotto e dalle sue caratteristiche palesi, sia quella fornita dal produttore con istruzioni e avvertenze aggiuntive, ha un contenuto inversamente proporzionale alle ragionevoli attese di sicurezza del bene e deve essere contemperata con l’uso ragionevole del prodotto (secondo Cass. 15/03/2007, n. 6007, il riferimento normativo all’uso ragionevole del prodotto “delimita l’ambito del dovere di cautela del produttore, escludendo la garanzia di sicurezza in presenza di anormali condizioni di impiego le quali possono logicamente dipendere non solo dall’abuso e dall’uso non consentito, come potrebbe ritenersi ad una più sommaria lettura, ma anche da circostanze anomale che, ancorché non imputabili al consumatore, rendano il prodotto, altrimenti innocuo, veicolo di danno (alla salute)”)., nel senso che l’uso del bene per una finalità irragionevole esclude la difettosità del prodotto, mentre un uso non accorto potrà essere causa di riduzione del risarcimento dei danni (Cass. 14/06/2005, n. 12750), oltre che con il tempo in cui il prodotto è stato messo in circolazione.

Il principio è chiaramente desumibile dall’art. 104,2 comma, cod. cons., ai sensi del quale il produttore deve fornire al consumatore tutte le informazioni utili alla valutazione dei rischi derivanti dall’uso normale o ragionevolmente prevedibile del prodotto e alla prevenzione contro detti rischi, ma “la presenza di tali avvertenze non esenta, comunque, dal rispetto degli altri obblighi previsti nel presente titolo”, cioè in sostanza non esenta dall’obbligo di “immettere sul mercato solo prodotti sicuri”(art. 104,1 comma, cod. cons.).

Nell’applicazione di detti principi, il giudice è tenuto a mettere a confronto le condotte delle parti in causa per valutare se il danno poteva essere più facilmente (cioè con minor sacrificio) evitato dalla vittima o dal produttore, alla luce delle informazioni di cui ciascuno dei due poteva disporre nel momento in cui ha agito, in uno con il rilievo attribuito ad una distinzione inespressa tra: i) danni prevedibili ed evitabili; ii) danni astrattamente prevedibili, ma inevitabili; iii) danni imprevedibili ed inevitabili. Il tutto sotto l’egida del parametro della ragionevolezza, quale strumento di concretizzazione e di bilanciamento di una pluralità di valori.

Esaminando specificamente il profilo del difetto di informazione, ha ragione la ricorrente quando osserva che l’informazione che si traduca in una mera avvertenza circa il fatto che un determinato evento possa verificarsi non vale ad esonerare il produttore da responsabilità; conducente è solo la veicolazione di informazioni che, come osservato da attenta dottrina, contribuisca “a prevenire un rischio evitabile o a soppesare adeguatamente quello che… non lascia altra scelta che accettarlo o rinunziare alle utilità del prodotto pericoloso. Un’avvertenza che non operi in un senso o nell’altro, ma si limiti a ricordare che le cose possono andare male e, su questa base, intenda isolare il produttore da responsabilità, val quanto una clausola di esclusione da responsabilità; e ne condivide le sorti”.

Non bisogna, nondimeno, trascurare il fatto che la responsabilità del produttore non è regolata alla stregua di una responsabilità oggettiva pura (o assoluta) e che perciò il comportamento dell’utente non è affatto irrilevante: esso deve essere improntato al principio di autoresponsabilità (codificato dall’art. 122 cod. cons., ai sensi del quale “Il risarcimento non è dovuto quando il danneggiato sia stato consapevole del difetto del prodotto e del pericolo che ne derivava e nondimeno vi si sia volontariamente esposto”) e deve essere valutato dal giudice, il quale dovrà accertare se vi sono i presupposti per ritenere che proprio l’utilizzatore si sia trovato nella condizione migliore per evitare o contenere il danno>>.

Il risultato tecnico ostativo alla registrazione del marchio di forma

Eleonora Rosati in IPKat ci notizia di (e ci linka ad) una assai interessante decisione del 4 Board of appeal EUIPO sull’effetto tecnico ostativo alla registrazione dei marchi di forma (6 dicembre 2024, proc. R 12/2024-4, Tetra Laval v. Lami Packaging), tema sempre  un poco complesso.

La norma è l’art. 7.1.e.ii) del reg. 2017/1001.

Il marchio sub iudice è costituito dalla seguente forma del noto contenitore Tetrapack:

Ebbene il Board dice che l’effetto tecnico, oltre a dover concernere tutte le caratteristiche, deve poi essere percepibile dall’utente. Mi pare il punto più interessante.

E’ vero che il parametro sogettivo è dato da quest’ultimo (l’utente medio), secondo la filosofia concorrenziuale alla base della privativa di marchio, Ma perchè mai la privativa va conessa (cioè l’ostacolo noramtivo citato non opera) quando la scelta della forma è dettata solo da ragioni tecniche, anche se a fini di più efficiente produzione e trasporto, ciò di cui l’utente di riferimento non è in grado di avvedersi? Eppure così decide il Board.

<<59 In conclusione, l’articolo 7, paragrafo 1, lettera e), sub ii), RMC si applica quando la forma in questione ha un effetto diretto sull’utilità che il prodotto in questione è destinato ad avere dal punto di vista del pubblico di riferimento. L’articolo 7, paragrafo 1, lettera e), sub ii), RMC non trova applicazione nel caso di specie perché il risultato tecnico ottenuto dalle prime tre caratteristiche individuate al punto 30 che precede si riferisce semplicemente al processo di fabbricazione del prodotto stesso, senza incidere sulla funzione svolta da tale prodotto.
60 Pertanto, l’articolo 7, paragrafo 1, lettera e), sub ii), RMC deve essere escluso in casi come quello di specie, in cui la forma in questione non è la causa di un risultato tecnico che influisce sul modo in cui il prodotto è utilizzato, bensì la conseguenza dell’ingegneria industriale sulla sua progettazione eproduzione.
61 Pertanto, il fatto che il marchio contestato consenta un efficace rapporto volumetrico rispetto alla superficie conservando nel contempo la staffabilità, l’immagazzinamento e la manipolazione del prodotto non riguarda un risultato tecnico ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera e), punto ii), RMC. Infatti, la capacità di una forma di contenere più liquidi o prodotti alimentari o di essere facilmente imballata e captata non è un risultato tecnico raggiunto dal prodotto nel normale corso del suo uso. La forma in questione non svolge una funzione intrinseca, né in relazione ad altri prodotti” >>(qui l’originale in inglese stante l’incerta traduzione -forse automatica.- italiana).

Rigettata pure la contestazione di malafede basata sul fatto che il richiedente sarebbe stato consapevole della non registrabilità.

Requisiti oggettivi per il diritto agli alimenti (stato di bisogno e incapacità di provvedere al proprio mantenimento)

Cass. sez. I, ord.  09/12/2024 n. 31.555, rel. Parise:

<<2.1. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte che il Collegio condivide, il diritto agli alimenti è legato alla prova non solo dello stato di bisogno, ma anche della impossibilità di provvedere, in tutto o in parte, al proprio sostentamento mediante l’esplicazione di un’attività lavorativa, sicché, ove l’alimentando non provi la propria invalidità al lavoro per incapacità fisica o l’impossibilità, per circostanze a lui non imputabile, di trovarsi un’occupazione confacente alle proprie attitudini e alle proprie condizioni sociali, la relativa domanda deve essere rigettata (Cass.21572/2006). È stato altresì precisato (Cass. 11889/2015; Cass. 33789/2022) che lo stato di bisogno deve essere connotato da una oggettiva impossibilità di soddisfare i bisogni primari con proprie fonti o attingendo anche da una rete solidale, per quanto non giuridicamente vincolante e però sostanzialmente fruibile e continuativa [NB: è il passaggio più ibnteressnte] e deve essere valutato in relazione alle effettive condizioni dell’alimentando, tenendo conto di tutte le risorse economiche di cui il medesimo disponga, compresi i redditi ricavabili dal godimento di beni immobili in proprietà o in usufrutto, e della loro idoneità a soddisfare le sue necessità primarie (così anche Cass.25248/2013).

2.2. Nel caso di specie la Corte di merito, sulla scorta dell’accertamento peritale effettuato in primo grado e degli elementi probatori acquisiti, ha fatto corretta applicazione dei suesposti principi, e, dopo aver dato conto delle complesse patologie fisiche da cui era affetta la controricorrente e della situazione anche psicologica in cui si trovava, ha affermato che la Bo.Ma. non era, allo stato, “concretamente in grado di attivarsi per reperire (e per mantenere) una occupazione lavorativa, seppur astrattamente compatibile con la propria formazione universitaria e con le proprie condizioni e limitazioni fisiche (ad esempio riprendendo le traduzioni a domicilio)”. In particolare la Corte di merito ha condiviso la valutazione effettuata dal Tribunale, secondo cui la malattia rara (“displasia neuronale viscerale, interessante il tubo digerente, con sintomatologia insorta nell’infanzia, con stipsi ostinata”) da cui è affetta la figlia del ricorrente aveva comportato, a partire dal 2013, interventi chirurgici e cure costanti. Era inoltre emersa «, pur a fronte di una pregressa istruzione universitaria ed attività lavorativa come traduttrice per alcune case editrici e privati, una attuale (dal 2013 ad oggi) situazione di ritiro sociale, assenza di occupazione, continua necessità di dedicarsi a specifiche manovre fisiologiche derivanti dalla patologia, con impossibilità di uscire di casa se non per poco tempo ed in dipendenza dalle condizioni fisiche del momento; la signora è risultata di umore deflesso, con note ansiose, affetta da “attendibile disturbo alimentare in magrezza grave”. Il consulente ha riconosciuto alla stessa una riduzione della capacità lavorativa generica, in rapporto ai quadri morbosi coesistenti, del 67%»>>.

Interessanti le circostanze fattuali, come sempre in casi del genere:

<<Sulla base di tali risultanze, la Corte di merito ha quindi concluso ritenendo “sussistente, quantomeno ad oggi, di fatto, uno stato di bisogno dovuto ad una incolpevole capacità di provvedere al proprio sostentamento”.

A fronte di tale congruo percorso motivazionale, la censura espressa con il primo motivo non coglie nel segno, poiché con la locuzione “incolpevole incapacità di provvedere al proprio sostentamento” la Corte di merito non ha affatto inteso, contrariamente a quanto si sostiene in ricorso, valorizzare un elemento soggettivo, ma proprio, invece, l’impossibilità concreta dell’alimentanda, allo stato, “di attivarsi per reperire (e per mantenere) una occupazione lavorativa” , così come previsto dall’art. 438 c.c.

2.3. Le doglianze espresse con gli altri motivi sono inammissibili perché non si confrontano compiutamente con la motivazione della sentenza impugnata o sollecitano impropriamente il riesame del merito.

Nello specifico, la Corte d’Appello ha dato atto che la controricorrente non ha più lavorato, come traduttrice a domicilio, solo da quando le sue condizioni di salute sono peggiorate e ha subito una serie ravvicinata di interventi chirurgici (e non da venti anni come si assume in ricorso) e non ha affatto basato il proprio convincimento sulla sola sussistenza di una riduzione parziale della capacità lavorativa generica (secondo motivo), ma sulla complessiva situazione fisica e psichica riscontrata dal C.T.U. e valutata all’attualità, ed anzi ha auspicato che l’alimentanda trovi un supporto “in quelle difficoltà collaterali (ad esempio nell’alimentazione, che la stessa ha riferito essere attualmente solo liquida), anche di natura verosimilmente psicologica, che le hanno reso sino ad oggi concretamente non spendibile neppure quella residua capacità lavorativa alla stessa riconosciuta dal consulente”.

I motivi terzo (ingenti disponibilità economiche della controricorrente), quarto (CTU “referente” ) e quinto (convincimento basato su mere deduzioni) denunciano la violazione degli artt. 428 c.c. e 115 e 116 c.p.c., ma in realtà si tratta di doglianze impropriamente dirette al riesame dei fatti. La Corte d’Appello ha preso in considerazione la situazione economica della controricorrente, in particolare l’aiuto anche economico consistente datole negli anni dallo zio materno, ma ne ha escluso motivatamente la rilevanza ai fini che qui interessano, così affermando “Il lodevole aiuto, di carattere materiale e non solo, fornito alla sig.ra Bo.Ma., da circa 20 anni (sostanzialmente dal decesso della madre) dallo zio materno non può essere utilizzato né per escludere lo stato di bisogno dell’appellata (atteso che le somme erogate sono ovviamente soggette ad inevitabile erosione in assenza di redditi periodici) né per esonerare il padre dal proprio onere di solidarietà familiare”.

Le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio hanno consentito di accertare la reale condizione fisica e psichica dell’alimentanda e le conclusioni peritali sono state condivise dalla Corte d’Appello e, prima, dal Tribunale in quanto basate su riscontri oggettivi e documentati. La motivazione della sentenza impugnata è congrua e pienamente comprensibile, nonché ancorata a dati di riscontro e sorretta da un ragionamento logicamente argomentato>>.

Trasferimento titoli di credito tra adempimento (valido) di obbligazione naturale, liberalità indiretta e donazione nulla per macanza di forma

Cass. sez. II, ord. 05/12/2024 n. 31.170, rel. Falaschi:

fatto:

<<con atto di citazione notificato il 25 maggio 2004 , De.Al. evocava, innanzi al Tribunale di Ravenna, Mu.Ma., chiedendo di accertare e dichiarare la nullità per vizio di forma di n. 124 atti di liberalità, sotto forma di trasferimento di titoli di credito, per una somma totale pari a Euro 144.607,93, elargiti durante la vita dall’anziano padre, De.Gi., in favore della convenuta, madre della loro figlia, riconosciuta solo dopo l’introduzione di un contenzioso, sostenendo che tali elargizioni configuravano donazioni nulle, poiché effettuate in assenza della forma prescritta ad substantiam, non al fine di contribuire al mantenimento della nipote, come sostenuto dalla Mu.Ma., ma in virtù della relazione affettiva che lo stesso De.Gi. aveva instaurato con Mu.Ma.;>>

Poi in diritto:

<< Con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione o la falsa applicazione degli artt. 769,782 e 2034 c.c., oltre che degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., per aver la Corte d’Appello ritenuto che le dazioni di De.Gi. integrassero donazioni nulle ex art. 769 c.c. sulla sola base del quantum dell’attribuzione e delle modalità adottate per il loro trasferimento, piuttosto che un’obbligazione naturale per l’adempimento di doveri morali ex art. 2034 c.c., derivanti dalla solidarietà familiare e, come tali, impassibili di restituzione ai sensi dell’art. 2033 c.c. Secondo la ricorrente, il giudice avrebbe omesso di compiere indagini necessarie ai fini della verifica della proporzionalità ed adeguatezza del valore delle dazioni rispetto alla situazione di ampia e diffusa disponibilità patrimoniale di De.Gi.. Inoltre, il giudice di seconde cure avrebbe giudicato in contraddizione con le prescrizioni dell’art. 115 c.p.c, non ponendo a fondamento delle sue argomentazioni le risultanze istruttorie decisive, come la risultanza istruttoria decisiva del CTP nelle proprie osservazioni del 31 dicembre 2009, formulate in sede di CTU per la sola valutazione del quantum delle dazioni.

Il motivo è privo di pregio.

Occorre preliminarmente rilevare che la consolidata giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente ribadito che il trasferimento di dossier titoli da parte del beneficiante nei confronti di un beneficiario non configura una liberalità atipica, riconducibile alla disposizione di cui all’art. 809 c.c., per ragioni quali l’entità degli importi, le modalità di trasferimento e la stabilità dell’attribuzione patrimoniale, che presuppongono la stipulazione dell’atto pubblico di donazione, predisposto dall’ordinamento al fine di tutelare il donante e assicurarsi che abbia effettiva contezza del compimento di atti di disposizione del proprio patrimonio, onde evitare scelte affrettate e conseguenze potenzialmente pregiudizievoli, integrando una donazione diretta ad esecuzione indiretta, suscettibile come tale di impugnazione per mancanza del requisito formale dell’atto pubblico (Cass., Sez. Un., n. 18725 del 2017; Cass. n. 23127 del 2021; Cass. n. 527 del 1973).

Orbene, di questo principio ha fatto corretta applicazione la Corte di merito, qualificando l’atto in questione come una donazione diretta ma nulla, poiché sprovvista del requisito di forma scritta ad substantiam, ritenendo che la volontà del nonno fosse quella di attribuire alla nipote risorse adeguate alle sue esigenze di vita futura>>.

Purtroppo mancano dettagli sul tipo di titoli e di trasferimento (124 atti in tale senso!!!).

Onere impossibile o illecito, nullità del legato e pluralità di motivi alla base di questo (art. 647.3 cc)

Cass. sez. II sent.  24/10/2024 n. 27.606, rel. Fortunato:

In diritto:

<<L’art. 647 c.c., comma terzo, c.c. dispone che l’onere impossibile o illecito si considera non apposto, ma rende nulla la disposizione se ne ha costituito il solo motivo determinante.

Affinché la nullità del modus possa invalidare l’intero lascito e necessario accertare se esso sia stato ispirato da un motivo senza il quale la volontà testamentaria sarebbe stata diversa e il legato non sarebbe stato disposto.

In presenza di una pluralità di motivi, uno solo di essi può essere considerato determinante ai fini della validità del legato, prevedendo la norma in ogni caso che l’errore sul motivo deve cadere su quello che risulti causam dans.

Più in particolare, se di due o più motivi ognuno ha pari efficienza, nessuno dei due isolatamente può essere considerato causam dans. Basta che uno dei due sia lecito o possibile perché la disposizione sia salva.

Se invece, di più motivi, uno solo sia determinante, l’errore su questo travolge la disposizione (cfr., testualmente, Cass. 1380/1955; Cass. 2071/1964; in tema di errore, di recente, Cass. 7056/2023)>>.

Applicato al caso sub iudice:

<<Ciò posto, anche a ritenere ormai acquisito e non più confutabile che il vincolo destinazione gravasse non solo sulla villa ma sull’intero compendio, non appare superabile l’accertamento in concreto svolto dal giudice circa il fatto che la disposizione era sorretta anzitutto da una molteplicità di motivi, tra cui lo svolgimento di attività benefiche, di pari rilevanza e che, invece, l’unico motivo tra i tanti che poteva considerarsi preminente e determinante risiedeva nella volontà di Carla Pontoni di ottenere l’intitolazione della casa di riposo alla memoria dei genitori, volontà che, come ha evidenziato la sentenza, era stata esplicitamente manifestata nel testamento.

A tale conclusione il giudice è pervenuto sulla base del dato letterale e di una lettura coordinata delle altre disposizioni, rilevando l’autonomia degli altri e diversi oneri e la determinante volontà di onorare la memoria degli ascendenti, in ossequio al principio per cui nell’interpretazione del testamento occorre privilegiare gli elementi intrinseci alla scheda e, solo ove il loro impiego non approdi a risultati appaganti, è possibile far ricorso ad elementi estrinseci (Cass. 10882/2018; Cass. 23393/2017).

La sentenza ha inoltre spiegato che le finalità di assistenza non potevano considerarsi le uniche che avevano indotto a testare e che, invece, l’aver beneficiato del legato proprio la Casa di Cura di C era coerente con lo scopo primario di onorare la memoria dei genitori, che solo l’Istituto avrebbe potuto realizzare.

Essendo tale motivo sicuramente lecito e determinante, era esclusa l’invalidità del lascito.

L’asserita strumentalità di molti degli oneri (e della stessa intitolazione della casa di riposo) rispetto alla destinazione non trova avallo nella sentenza, né appare autoevidente. Taluni pesi erano certamente compatibili con finalità estranee agli scopi benefici, ben potendo essere soddisfatti quale che fosse l’ulteriore scopo dell’attribuzione (costituzione dell’usufrutto, corresponsione di una somma una tantum ai coloni, pagamento delle imposte etc.), non assumendo valenza confermativa della perpetuità del vincolo di destinazione come unica ragione determinante del legato; la clausola che prevedeva la perdita dei diritti successori da parte dei chiamati che avessero impugnato il testamento rivelava invece – come ha spiegato la sentenza – l’equivalenza e la pari influenza dei diversi motivi del legato.

Lo scopo di onorare la memoria dei genitori della Po.In. non poteva considerarsi collegata alla destinazione dei beni a finalità benefiche, nel senso di esplicitare e integrare il reale movente della de cuius (come sostenuto in ricorso), potendo valere come autonoma ragione giustificativa, sul piano soggettivo, del lascito in sé, che la Po.In. avrebbe comunque disposto in favore dell’ente, essendo quella intitolazione rispondente ad un preciso interesse morale della de cuius, rispetto al quale anche la stessa perpetuità della destinazione (e del vincolo di alienabilità) poteva in astratto risultare funzionale.

I motivi di censura, nel professare il carattere unico e determinante del vincolo di destinazione, sconfinano nel perimetro degli accertamenti di merito circa il contenuto della volontà testamentaria, incensurabile in cassazione sotto i profili dedotti in ricorso>>.