Sul diritto id visita dei nonni in caso di separazione dei genitori (che vanno ad abitare in città lontane)

Cass. Sez. I, Ord. 13/03/2025, n. 6658, rel. Tricomi, in un caso in cui il padre abitava a Genova e la madre era tornata a Bari:

<<Va premesso che, come più volte affermato da questa Corte, nella vigenza della disciplina successiva alla novella introdotta con il D.Lgs. n.154/2013, “Il diritto degli ascendenti a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni, previsto dall’art. 317-bis c.c., coerentemente con l’interpretazione dell’articolo 8 Cedu fornita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, non ha un carattere incondizionato, ma il suo esercizio è subordinato ad una valutazione del giudice avente di mira “l’esclusivo interesse del minore”. La sussistenza di tale interesse – nel caso in cui i genitori dei minori contestino il diritto dei nonni a mantenere tali rapporti -è configurabile quando il coinvolgimento degli ascendenti si sostanzi in una fruttuosa cooperazione con i genitori per l’adempimento dei loro obblighi educativi, in modo tale da contribuire alla realizzazione di un progetto educativo e formativo volto ad assicurare un sano ed equilibrato sviluppo della personalità del minore.” (Cass. n.15238/2018). Invero, il diritto degli ascendenti a mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni è funzionale all’interesse di questi ultimi e presuppone una relazione positiva, gratificante e soddisfacente per ciascuno di essi, pertanto il giudice non può disporre il mantenimento di tali rapporti dopo aver riscontrato semplicemente l’assenza di alcun pregiudizio per i minori, dovendo invece accertare il preciso vantaggio a loro derivante dalla partecipazione degli ascendenti al progetto educativo e formativo che li riguarda, senza imporre alcuna frequentazione contro la volontà espressa dei nipoti che abbiano compiuto i dodici anni o che comunque risultino capaci di discernimento, individuando piuttosto strumenti di modulazione delle relazioni, in grado di favorire la necessaria spontaneità dei rapporti (Cass. n. 2881/2023).

Una volta accertata la ricorrenza delle condizioni anzidette, il giudice, ove ritenga di consentire che la frequentazione tra gli ascendenti ed il nipote esclusivamente alla presenza del genitore ex parte, deve espressamente motivare sul punto; deve, inoltre, utilizzare tutti gli strumenti a disposizione, avvalendosi se del caso dei Servizi Sociali, al fine di contemperare la regolamentazione della frequentazione in modo proporzionato ed equilibrato con le altre esigenze di vita del minore (affettive, sociali, scolastiche e ludiche). L’esigenza di una regolamentazione chiara ed equilibrata della frequentazione con gli ascendenti, focalizzata sul superiore interesse del minore alla ricorrenza dei presupposti, è maggiormente avvertita laddove la situazione familiare sia connotata da una grave conflittualità, tale da impedire una gestione degli incontri attuata concordemente in autonomia da parte dei genitori, pur separati o divorziati, e dove si realizzino condizioni geografiche che tendenzialmente rendono più complesso l’incontro di persona.

Nel caso in esame, la Corte di appello ha ritenuto funzionale all’interesse del minore la frequentazione con i nonni, ma, nonostante la grave ed accertata conflittualità tra le parti e la distanza geografica delle rispettive residenze, non ha stabilito se gli incontri possano avvenire anche senza la presenza paterna e non ha proceduto a delinearne, anche avvalendosi dei Servizi Sociali, la concreta regolamentazione, di modo da definire in maniera più puntuale quale sia la modalità di incontro, di persona o mezzo apparati elettronici, tra nonni paterni e nipote: a tanto la Corte territoriale dovrà procedere in sede di rinvio, ove permanga all’attualità, la positiva valutazione dell’interesse del minore a mantenere i rapporti con i nonni paterni, utilizzando tutti gli strumenti a disposizione al fine di contemperare la relativa organizzazione con le altre esigenze di vita del minore in modo da rispettarne i tempi dedicati alla vita affettiva, sociale, scolastica e ludica e, nel contempo, inibire le potenziali occasioni di conflitto e favorire la necessaria spontaneità dei rapporti>>.

La creatività di un nuovo metodo espositivo/narrativo in un libro per bambini non è proteggibile col diritto di autore

Cass. sez. I, 10/02/2025 n.3.393, rel. Falabella:

fatto processuale:

<<1. – Fa.Ma. ha evocato in giudizio davanti al Tribunale di Firenze, Co.Ni. e EDIZIONI DEL BORGO Srl invocando la tutela del proprio diritto morale di autore in relazione ad alcuni cofanetti di libri per bambini, pubblicati tra il dal 1982 e il 1994 da altra casa editrice, Fatatrac Srl, di cui il medesimo era stato socio sino al 1994, nonché, amministratore fino al 1993.

L’attore ha dedotto di essere autore dei testi e curatore del progetto iconografico del prodotto editoriale, la cui particolarità era data dalla rappresentazione di fiabe tradizionali tramite delle carte, recanti illustrazioni e brevi testi narrativi: la storia era quindi definita dalla sequenza di carte, attraverso le immagini e le parole.>>

Diritto

<<2. – La Corte di merito ha prestato adesione ai rilievi espressi dalla sentenza di primo grado quanto alla possibilità di qualificare Fa.Ma. come autore di un’opera dell’ingegno con riguardo al prodotto editoriale oggetto della controversia. Il Tribunale aveva ritenuto che la soluzione narrativa attuata attraverso “serie di schede sulla quali da un lato vi è il racconto della storia e, dall’altro, il disegno corrispondente, così che poi poggiando tutte le carte in sequenza emerge la rappresentazione in disegni dell’intera fiaba” fosse caratterizzata da innovazione ed originalità. Per parte sua, la Corte distrettuale ha osservato essere condivisibile l’affermazione del Giudice di primo grado, secondo cui l’opera “Carte in tavola” presentava un contenuto creativo, e ciò in quanto Fa.Ma. aveva “inteso rappresentare e narrare delle fiabe tramite una nuova metodologia comunicativa, ovvero quella della sequenza di carte contenenti delle illustrazioni, che nella loro successione raccontano la storia”. Si trova ancora scritto nella sentenza impugnata: “Tale metodologia di racconto si presenta… come innovativa rispetto alla tradizione, differenziandosi dalla narrazione tramite libri e manuali. L’innovazione creativa determinata dalla differente metodologia narrativa, pertanto, connota il Fa.Ma. quale autore dell’opera, in quanto tale legittimato a richiedere il riconoscimento della paternità della stessa”.

3. – La ricorrente, col primo motivo, ha contestato alla sentenza impugnata di aver riferito la tutela autorale a una semplice idea, in violazione del principio che accorda tutela solo alla trasposizione dell’idea stessa in una specifica opera compiuta ed identificabile.

4. – Per la giurisprudenza di questa Corte, la protezione del diritto d’autore postula l’originalità e della creatività: queste sussistono anche quando l’opera sia composta da idee e nozioni semplici, comprese nel patrimonio intellettuale di persone aventi esperienza nella materia propria dell’opera stessa, purché formulate ed organizzate in modo personale ed autonomo rispetto alle precedenti (Cass. 13 giugno 2014, n. 13524; cfr. pure: Cass. 2 dicembre 1993, n. 11953; Cass. 12 marzo 2004, n. 5089; Cass. 28 novembre 2011, n. 25173); la creatività, poi, consiste non già nell’idea che è alla base della sua realizzazione, ma nella forma della sua espressione, ovvero dalla sua soggettività, di modo che la stessa idea può essere alla base di diverse opere d’autore, come è ovvio nelle opere degli artisti, le quali tuttavia sono o possono essere diverse per la creatività soggettiva che ciascuno degli autori spende, e che in quanto tale rileva per l’ottenimento della protezione (Cass. 12 marzo 2004, n. 5089, cit.; Cass. 28 novembre 2011, n. 25173, cit.; Cass. 29 maggio 2020, n. 10300).

5. – Questi enunciati non sono difformi dai principi elaborati, in materia, dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Secondo detta Corte, la nozione di “opera” che figura nella dir. 2001/29/CE implica che esista un oggetto originale, nel senso che detto oggetto rappresenta una creazione intellettuale propria del suo autore, anche se la qualifica di opera è riservata agli elementi che sono espressione di tale creazione (Corte giust. UE 16 luglio 2009, Infopaq, C-5/08, punti 37 e 39; Corte giust. UE 13 novembre 2018, Levola Hengelo, C-310/17, punti 33 e da 35 a 37; Corte giust. UE 12 settembre 2019, Cofemel, C-683/17, punto 29). Perché un oggetto possa essere considerato originale, è necessario e sufficiente che rifletta la personalità del suo autore, manifestando le scelte libere e creative di quest’ultimo (Corte giust. UE 10 dicembre 2011, Painer, C 145/10, punti 88, 89 e 94; Corte giust. UE 7 agosto 2018, Renckhoff, C-161/17, punto 14; Corte giust. UE 12 settembre 2019, Cofemel, cit., punto 30); la nozione di “opera”, poi, importa necessariamente l’esistenza di un oggetto identificabile con sufficiente precisione e oggettività (Corte giust. UE 13 novembre 2018, Levola Hengelo, cit., punto 40; Corte giust. UE 12 settembre 2019, Cofemel, cit., punto 32).

6. – Nel caso in esame, la Corte di appello, come si è visto, ha apprezzato l’idea creativa senza considerarla nella sua declinazione espressiva, ma attribuendo valore al solo carattere innovativo della “metodologia narrativa” elaborata da Fa.Ma. Ha conseguentemente reputato “irrilevante che altri soggetti (fossero) gli autori del testo e delle illustrazioni”, finendo così con l’associare il diritto di paternità intellettuale non già a un’opera dell’ingegno ma a una semplice idea, separata dalla traduzione espressiva dei relativi contenuti, verbali e grafici. D’altro canto, se, sul versante del diritto unionale, la nozione di “opera” di cui alla direttiva 2001/29/CE va riferita ai soli elementi di espressione della creazione intellettuale, il metodo di rappresentazione di una storia non rientra in tale nozione: e ciò conferma l’erroneità della decisione impugnata>>.

Negato il copyright sulle Birkenstock modello “Madrid” e “Arizona”

Il BGH tedesco nega la tutela d’autore da disegno industriale (da noi art. 2.10 l. aut.) alle Birkenstock (modello e suola col suo particolare motivo.): si tratta di  BGH 20.20.2025 , I ZR 16/24.

Dal Syllabo iniziale le massime:

  1. Una creazione intellettuale personale ai sensi dell’art. 2 (2) UrhG è una creazione di carattere individuale il cui contenuto estetico ha raggiunto un grado tale che, secondo l’opinione di ambienti ricettivi all’arte e ragionevolmente familiari con le opinioni artistiche, può essere considerata una realizzazione L’effetto estetico del disegno può giustificare la tutela del diritto d’autore solo se si basa ed esprime una realizzazione artistica. Affinché la tutela del diritto d’autore sia concessa, è necessario che vi sia una libertà creativa utilizzata in modo artistico. La creazione intellettuale personale è esclusa quando non c’è spazio per il design artistico perché il design è predeterminato da requisiti tecnici. Una realizzazione artistica significa niente di più e niente di meno che una realizzazione creativa e originale nel campo dell’arte che riflette la personalità individuale del suo autore.
  2. Per la tutela del diritto d’autore di un’opera d’arte applicata ai sensi dell’art. 2 (1) n. 4 UrhG, come per tutti gli altri tipi di opere, il livello di design non deve essere troppo basso. Le creazioni puramente tecniche che utilizzano elementi formali di design non possono essere tutelate dal diritto d’autore. Per la tutela del diritto d’autore, invece, è necessario raggiungere un livello di design che consenta di riconoscere l’individualità.
  3. Nei procedimenti per violazione del diritto d’autore, l’attore ha l’onere di provare l’esistenza di una creazione intellettuale Deve quindi presentare non solo l’opera in questione, ma anche gli elementi specifici del design da cui derivare la protezione del diritto d’autore. Nel caso di oggetti di utilità, deve essere dimostrato con precisione e chiarezza in che misura essi siano stati progettati artisticamente al di là della forma dettata dalla loro funzione.

(traduzione automatica online)

La personalizzazione del danno da perdita del rapporto parentale è lecittima solo se eccede la determinazione già operata dal CTU

Cass. sez. III, 06/03/2025 n. 5.984, rel. Positano:

<<l motivo ha per oggetto la liquidazione del danno non patrimoniale da morte disposta in favore della madre della piccola Ho.An., Ho.So., alla quale la Corte territoriale ha riconosciuto una personalizzazione della componente biologica del danno in misura pari al 30%, sostanzialmente sulla scorta della sola considerazione delle “modalità di verificazione del sinistro” e della successiva insorgenza della patologia psichica di origine post-traumatica, senza dare in alcun modo conto delle eventuali “conseguenze anomale o del tutto peculiari”>>.

Risposta della SC:

<<Come rilevato correttamente anche dalla Corte territoriale, la liquidazione può essere incrementata dal giudice, in sede di personalizzazione del danno biologico, con motivazione analitica e non stereotipata, ma solo in presenza di conseguenze anomale e del tutto eccezionali (tempestivamente allegate e provate dal danneggiato).

In particolare, la Corte territoriale dopo avere dato atto della stima fatta dal c.t.u. di un danno psichico pari al 18%, fa presente che per fondare la richiesta di personalizzare il risarcimento del danno biologico (diverso da quello parentale) la danneggiata ha allegato: “tanto la tragicità della perdita dell’unica figlia, non avendone l’attrice, all’epoca del sinistro, altri dei quali occuparsi e sui quali riversare il proprio amore di madre, quanto la circostanza che il decesso sia avvenuto in maniera cruenta, con il corpo della piccola Ho.An. strascinato sul selciato per diversi metri dopo il violento impatto” (cfr. p. 3 dell’atto di citazione del 04.07.2017).

Il c.t.u. ha spiegato che la sintomatologia depressiva dell’attrice corrisponde ad almeno sette criteri di un Episodio Depressivo Maggiore quali sono: umore depresso, marcata diminuzione di interesse, perdita di peso (nel primo anno), insonnia/disturbi del sonno, rallentamento psicomotorio, mancanza di energia, pensieri di morte/ideazione suicidaria (nei primi mesi).

Questi sintomi tendenzialmente stabilizzati travalicano dal danno da perdita del rapporto parentale a quello psichico permanente “e vanno riferiti ad un episodio assolutamente traumatico rappresentato dalla perdita della figlia, e dal fatto di “vedere il corpicino pieno di sangue nell’elicottero, notare gli impegni dei sanitari durante il volo verso l’ospedale”, ciò determina un Disturbo post -traumatico da stress (DPTS) notevole”

Argomentando sui presupposti della personalizzazione e, quindi, della eccezionalità ed anomalia del danno, rispetto ad altro analogo pregiudizio di natura biologica, la Corte àncora l’incremento del 30% “all’intensità del dolore sofferto dalla madre, non solo per aver perduto la figlia di soli quattro anni, ma soprattutto per le modalità repentine e cruente con cui è avvenuto il suo decesso….Particolarmente significativi sono i tormenti che le procurano i reiterati incubi notturni durante i quali essa ripete l’esperienza dolorosa dell’agonia della figlia; dunque, l’evento tragico durato circa un’ora in cui dopo aver saputo che era stata investita da un’auto, l’ha assistita mentre, gravemente ferita, veniva elitrasportata in ospedale e, poco dopo l’arrivo, ha appreso che era spirata perché erano incurabili le lesioni provocate dall’incidente.

Tali circostanze e in particolare, dunque, l’intensità del dolore procurato dalle cruente e repentine modalità di accadimento dell’illecito giustificano il riconoscimento della personalizzazione del risarcimento. Tenuto conto delle descritte modalità che hanno contraddistinto il sinistro”.

Alla luce di quanto precede è evidente che la rilevanza psicogena del fatto è stata ricondotta dal giudice di appello proprio alle modalità traumatiche, improvvise e drammatiche.

Al contrario, soltanto in presenza di circostanze specifiche ed eccezionali allegate dalla danneggiata, che rendano il danno più grave rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età, è consentito al giudice, con motivazione analitica e non stereotipata, incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione.

Orbene, il nucleo motivazionale della personalizzazione è ricondotto dalla Corte territoriale al seguente dato fattuale: “l’ha assistita mentre, gravemente ferita, veniva elitrasportata in ospedale e, poco dopo l’arrivo, ha appreso che era spirata perché’ erano incurabili le lesioni provocate dall’incidente. Tali circostanze e in particolare, dunque, l’intensità’ del dolore procurato dalle cruente e repentine modalità’ di accadimento dell’illecito giustificano il riconoscimento della personalizzazione del risarcimento…”.

Nel caso di specie i profili che la Corte territoriale individua quali “gravi sofferenze” patite dalla madre per la perdita della figlioletta consistono si sovrappongono agli stessi profili ritenuti rilevanti nella valutazione fatta dal CTU al fine di giungere al riconoscimento della patologia psichica post traumatica in capo al soggetto.

Da ciò una duplicazione delle conseguenze risarcitorie in quanto, nonostante la oggettiva gravità della vicenda, le conseguenze descritte dal consulente e valorizzate dalla Corte territoriale, sono proprio quelle fisiologicamente e tristemente derivanti da pregiudizi dello stesso (elevato) grado, sofferte da persone della stessa età e con il medesimo ruolo genitoriale rispetto alla vittima primaria.

Pertanto, le allegazioni del presente giudizio non giustificano la “personalizzazione” in aumento.>>

La Cassazione sul danno cagionato al lavoratore tramite più che trentennale esposizione all’amianto

Il dipendente subisce un mesiotelioma pleurico a seguito di esposizione più che trentennale all’amianto, senza che fosse stata predisposta alcuna cautela o protezione.

La SC conferma la condanna ai danni del datore di lavoro già emessa dal secondo gouidice.  Si tratta di Cass. 06/03/2025 n. 5.984, rel. Positano, provvedimento analitico sulla normativa in tema, che si ocupa di difese dell’azienda, molte delle quali per vero inverosimilmente deboli.

I punti principali:

  •  §§ 15-17 sul concorso di cause: basta un concorso anche minimo.
  • non conta dove sia stata eseguita la pretaizone: cioè anche presso terzi, § 18-
  • sull’art. 2087 cc: perciò adottare “tutte le misure” significa che il datore non può ometterne nessuna tra quelle previste dall’ordinamento (siano esse misure oggettive o dispositivi personali di protezione; misure relative all’ambiente o obblighi strumentali riferiti al controllo o alla formazione dei lavoratori); e significa, inoltre, che per giudicare della completezza della protezione occorra servirsi del criterio della “massima sicurezza tecnologicamente possibile” in base al quale il datore deve adoperarsi per evitare o ridurre l’esposizione al rischio dei dipendenti aldilà delle specifiche previsioni dettate dalla normativa prevenzionale, conformando il proprio operato ad una diligenza particolarmente qualificata, che tenga conto delle caratteristiche del lavoro, dell’esperienza e della tecnica“.
  • la conoscenza della nocività dell’amianto risale all’inizio del 1900, § 28.
  • la concreta  dannosità dell’esposizione è  cosa diversa dalla pericolosità dell’attività, § 34;
  • la potenziale pericolosità della condotta va valutata in base all’agente modello: “42.- Anche qui dovendosi ribadire che a tal fine occorre fare riferimento al concetto di “agente modello” (homo ejusdem professionis et condicionis), sul presupposto che se un soggetto intraprende una attività, soprattutto se pericolosa, ha il dovere di informarsi preventivamente dei rischi ed ha l’obbligo di acquisire le conoscenze necessarie per svolgerla senza pericoli.
  • è rilevante anche l’effetto acceleratore della latenza, § 44.

Tutto giusto , anche se sostanzialmente ovvio. Spiace che si debba arrivare alla SC per accettarlo: fa pensare…

ll medico convenzionato col SSN, che interviene su un turista fuori sede, non perde la qualità di medico convenzionato, sicchpè del suo operato risponde l’ASL ex art. 1228 cc

Cass. sez. III, 04/03/2025 n. 5.673, rel. Rubino:

Premessa generale:

<<Va premesso che è principio ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che la ASL è responsabile, ai sensi dell’art. 1228 c.c., del fatto colposo del medico di base, convenzionato con il SSN, essendo tenuta per legge – nei limiti dei livelli essenziali di assistenza – ad erogare l’assistenza medica generica e la relativa prestazione di cura, avvalendosi di personale medico alle proprie dipendenze o in rapporto di convenzionamento (Cass. n. 14846 2024, Cass. n. 6243 2015).

L’affermazione si fonda sulla norma fondamentale di cui all’art. 25, comma 3, legge n. 833 del 1978 (“l’assistenza medicogenerica e pediatrica è prestata dal personale dipendente o convenzionato del servizio sanitario nazionale operante nelle unità sanitarie locali o nel comune di residenza del cittadino”).

Il soggetto pubblico, per l’adempimento dell’obbligazione di fornire l’assistenza medico-generica cui per legge è obbligato, si vale dell’opera del terzo, cioè di un esercente la professione sanitaria il quale non è dipendente del soggetto obbligato, ma costituisce personale “convenzionato” (in alternativa a quello “dipendente”, secondo l’indicazione fornita dall’art. 25, comma 3, legge n. 833 del 1978).

Trattasi, come precisa Cass. n. 14846 del 2024, di una fattispecie di responsabilità, identificata in sede interpretativa dalla giurisprudenza, che è stata poi recepita dal legislatore con l’art. 7 legge n. 24 del 2017 (“1. La struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose. 2. La disposizione di cui al comma 1 si applica anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero nell’ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina”), secondo una linea di continuità fra l’interpretazione giurisprudenziale dell’ordinamento ed il successivo intervento legislativo, quale argomento ex post a sostegno della detta interpretazione (il primo comma del citato articolo 7 stabilisce chiaramente la correlazione fra la collocazione lavorativa dell’esercente ed il titolo di responsabilità per il dipendente vale l’art. 1218, per il non dipendente l’art. 1228).

Trattasi quindi di una ipotesi di responsabilità diretta della ASL, per fatto del proprio ausiliario>>.

Andando alla fattispecie de qua:

<<La peculiarità della fattispecie in esame è che il comportamento del medico denunciato come fonti di danni per la paziente non è stato tenuto dal medico di base della defunta signora Mo..   Sono queste le ipotesi che, finora, hanno condotto alla affermazione della responsabilità della ASL nei termini predetti, in cui cioè il rapporto tra paziente che fruisce del SSN e medico convenzionato, è un rapporto di durata che si instaura a mezzo della libera scelta del proprio medico di base, effettuata dall’utente iscritto al S.S.N. in un novero di medici già selezionati nell’accesso al rapporto di convenzionamento e in un ambito territoriale delimitato, rapporto inquadrato nell’ambito dei rapporti di lavoro autonomo “parasubordinati”.

Nel caso di specie, invece, il dottor Ch.Se. non era il medico di base della defunta signora Mo., che si trovava, ospite di una struttura alberghiera, a centinaia di chilometri dal suo luogo di residenza.

L’inquadrabilità del rapporto svolto nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale, e di conseguenza la configurabilità anche in questo caso di una responsabilità, diretta, della struttura sanitaria per il fatto del medico convenzionato suo ausiliario ha un suo autonomo fondamento normativo, che si rinviene nel quarto comma dell’art. 19 della legge n. 833 del 1978, che prevede “Gli utenti hanno diritto di accedere, per motivate ragioni o in casi di urgenza o di temporanea dimora in luogo diverso da quello abituale, ai servizi di assistenza di qualsiasi unità sanitaria locale.”

Come poi previsto dagli Accordi Collettivi nazionali di categoria, il medico convenzionato non è obbligato a prestare la propria opera in regime di assistenza diretta ai cittadini non residenti (che non siano suoi assistiti), ma se accetta di prestarla, in favore appunto dei cittadini che si trovino eccezionalmente al di fuori del proprio Comune di residenza, eroga una prestazione che si inquadra nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale, per la quale peraltro può ricevere anche un compenso, tariffato dall’accordo collettivo e in relazione alla quale la Ausl è responsabile per l’attività svolta dal medico, che si inquadra nell’ambito delle prestazioni del SSN erogate da medico con esso convenzionato in favore dei pazienti.

Tutto ciò premesso, e ritenuto che emergesse pacificamente che la signora Mo. si trovava ospite della struttura alberghiera per un soggiorno turistico e termale, che la stessa ebbe un malore, che fu chiamato un medico convenzionato con la ASL che visitò in due diverse occasioni la paziente prescrivendo una terapia, cioè l’astratta riconducibilità della situazione all’ipotesi di cui all’art. 19, quarto comma della legge n. 833 del 1978, cui consegue come in tutti i casi di prestazione erogata dal medico del Servizio Sanitario nazionale con conseguente instaurazione di un contatto sociale tra medico e paziente la responsabilità della ASL ex art. 1228 c.c., deve ritenersi che incombesse sulla ASL provare il fatto estintivo dell’altrui pretesa, ovvero che il medico intervenne non quale medico convenzionato ma puramente come libero professionista, del quale l’albergo intendeva avvalersi a favore della ospite che ne aveva necessità. Non può invece ritenersi che gravi sulla paziente – o sui suoi congiunti, come in questo caso – provare che non esistessero elementi atti a dimostrare che la prestazione erogata, riconducibile in una prestazione sanitaria a carico del Servizio sanitario nazionale non fosse stata invece resa ad altro titolo>>.

Sulle prove illecite: è inutilizzabile l’informazione acquisita dai social nel telefono del coniuge, in mancanza di sua autorizzazione

Cass. sez. I, 20/02/2025 n. 4.530, rel. Garri, sulla irrilevanza della testimonianza c.d. de relato ex parte actoris circa l’allegato consenso espresso da un coniuge all’altro per l’accesso ai rispettivi telefoni:

<<Il ricorrente contesta l’utilizzo della testimonianza de relato ex parte actoris da parte della Corte di appello al fine di dimostrare la esistenza di una relazione extraconiugale del signor Sa. con tale signora Ce..

Con la deposizione resa in primo grado all’udienza del 14/06/2022 la teste Sa., amica della signora Ch., dichiarava: “sono a conoscenza dei fatti di causa in quanto sono amica della convenuta da tantissimi anni. Posso dire che nel settembre del 2020 Lu.Ch. mi chiamò al telefono e disse che voleva parlarmi di una cosa importante. Ci siamo incontrate. Lu.Ch. mi raccontò che qualche mese prima era a casa con il marito, ad un certo punto lui spense la televisione e le disse che doveva dirle una cosa, le disse che lui aveva una relazione con un’altra donna, con la quale si incontrava. Lei mi raccontò che dopo la confessione del marito aveva trovato delle chat sul telefono del marito, tra il marito e una donna, di contenuto inequivocabile, da cui si capiva che c’era una relazione. Lu.Ch. mi riferì che lei e il marito condividevano le password dei rispettivi telefoni”.

Orbene, la Corte distrettuale utilizza tale testimonianza unitamente alle chat versate in atti per ritenere accertata la relazione extraconiugale del Sa. quale motivo scatenante della crisi coniugale ai fini dell’addebito della separazione.

L’utilizzo delle chat da parte del giudice di merito si rivela illegittimo con conseguente inutilizzabilità delle stesse ai fini di riscontro di quanto dichiarato dalla teste.

Ciò in quanto non vi è prova idonea per ritenere acquisite in modo legittimo le conversazioni tramite Whattsapp e Telegram dal telefono del Sa., atteso che la circostanza che i coniugi avessero accesso ai rispettivi telefoni ed in particolare alle password è riferita dalla teste Sa. per averlo appreso dalla parte, ossia dalla signora Ch.

A tal proposito va premesso che in tema di prova testimoniale, i testimoni “de relato actoris” sono quelli che depongono su fatti e circostanze di cui sono stati informati dal soggetto che ha proposto il giudizio, così che la rilevanza del loro assunto è sostanzialmente nulla, in quanto vertente sul fatto della dichiarazione di una parte e non sul fatto oggetto dell’accertamento, fondamento storico della pretesa; i testimoni “de relato” in genere, invece, depongono su circostanze che hanno appreso da persone estranee al giudizio, quindi sul fatto della dichiarazione di costoro, e la rilevanza delle loro deposizioni, pur attenuata perché indiretta, è idonea ad assumere rilievo ai fini del convincimento del giudice, nel concorso di altri elementi oggettivi e concordanti che ne suffragano la credibilità. (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 569 del 15/01/2015; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 8358 del 03/04/2007).

Orbene, sulla scorta dei superiori principi non può che ritenersi erronea la pronuncia impugnata nella parte in cui ha ritenuto non provata l’acquisizione illecita delle conversazioni (e quindi provata la disponibilità reciproca delle password dei dispositivi cellulari) in virtù di quanto riferito dalla teste Sa., per come appreso dalla signora Ch., ossia che i coniugi avevano accesso ai rispettivi telefoni. Tale circostanza risulta decisiva ai fini di ritenere utilizzabili le chat versate in atti che sono state poste a fondamento del giudizio circa l’esistenza di “una relazione sentimentale del Sa. anteriormente al suo allontanamento dalla casa coniugale ed al deposito del ricorso per separazione”. Ad avviso della corte territoriale le chat hanno costituito un elemento probatorio decisivo atteso che “il contenuto delle chat evidenzia il carattere “riservato” della relazione di cui le frasi sono inequivoca espressione in un periodo in cui l’appellante (il Sa.) conviveva ancora con la moglie”.

Conseguentemente, la censura risulta fondata avendo la corte erroneamente ritenuto provata la decisiva circostanza dell’accesso ai rispettivi telefoni come riferita de relato ex parte actoris e conseguentemente ritenuto utilizzabili le chat versate in atti dalla signora Ch.>>

Decisione esatta.

Contribuisce alla capacità di provvedere a sè stesso, rendendo così non necessaria l’amministrazione di sostegno, anche l’esistenza di aiuti familiari stabili

Cass. sez. I, 26/02/2025 n. 5.088, rel. Tricomi:

In generale:

<<L’amministrazione di sostegno, introdotta dalla legge n. 6 del 2004, art. 3 innovando il sistema delle tutele previste in favore dei soggetti deboli, persegue la finalità di offrire, a chi si trovi – all’attualità – nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi per una qualsiasi “infermità” o “menomazione fisica” non necessariamente di ordine mentale (Cass. n. 12998/2019), uno strumento di assistenza che ne sacrifichi nella minor misura possibile la “capacità di agire” e che – a differenze dell’interdizione e dell’inabilitazione – sostenga la libertà decisionale delle persone deboli, aiutandole a svolgere i compiti quotidiani senza sostituire la loro volontà, sulla base di un decreto adottato da un giudice, e sia idoneo a adeguarsi alle esigenze del beneficiario, in ragione della sua flessibilità e della maggiore agilità della relativa procedura applicativa.

Secondo principi consolidati “In tema di amministrazione di sostegno, nel caso in cui l’interessato sia persona pienamente lucida che rifiuti il consenso o, addirittura, si opponga alla nomina dell’amministratore, e la sua protezione sia già di fatto assicurata in via spontanea dai familiari o dal sistema di deleghe (attivato autonomamente dall’interessato), il giudice non può imporre misure restrittive della sua libera determinazione, ove difetti il rischio una adeguata tutela dei suoi interessi, pena la violazione dei diritti fondamentali della persona, di quello di autodeterminazione e la dignità personale dell’interessato.” (Cass. n. 22602/2017), ciò perché “L’amministrazione di sostegno, ancorché non esiga che la persona versi in uno stato di vera e propria incapacità di intendere o di volere, nondimeno presuppone una condizione attuale di menomata capacità che la ponga nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi mentre è escluso il ricorso all’istituto nei confronti di chi si trovi nella piena capacità di autodeterminarsi, pur in condizioni di menomazione fisica, in funzione di asserite esigenze di gestione patrimoniale, in quanto detto utilizzo implicherebbe un’ingiustificata limitazione della capacità di agire della persona, tanto più a fronte della volontà contraria all’attivazione della misura manifestata da un soggetto pienamente lucido.” (Cass. n. 29981/2020) opposizione che deve essere opportunamente considerata, a meno che non sia provocata da una grave patologia psichica tale da rendere l’interessato inconsapevole del bisogno di assistenza (Cass. n. 325421/2022).

Inoltre, ove ricorrano i presupposti per disporre l’amministrazione di sostegno, la valutazione della congruità e conformità del contenuto dell’amministrazione di sostegno alle specifiche esigenze del beneficiario, riservata all’apprezzamento del giudice di merito, richiede che questi tenga essenzialmente conto, secondo criteri di proporzionalità e di funzionalità, del tipo di attività che deve essere compiuta per conto dell’interessato, della gravità e durata della malattia o della situazione di bisogno in cui versa l’interessato, nonché di tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie, in modo da assicurare che il concreto supporto sia adeguato alle esigenze del beneficiario senza essere eccessivamente penalizzante (v. Cass. n. 13584/2006, n. 22332/2011; Cass. n. 18171/2013; Cass. n. 6079/2020; nel senso che l’ambito dei poteri dell’amministratore debba puntualmente correlarsi alle caratteristiche del caso concreto, v. Corte Cost. n. 4 del 2007)>>.

Andando al punto specifico:

<<Ciò rende evidente che la censura, da un lato prospetta erroneamente, alla luce dei principi ricordati, una sovrapponibilità immediata e diretta tra una condizione di infermità e la sottoponibilità ad amministrazione di sostegno, sulla scorta della quale insiste a dolersi della mancata attivazione di poteri officiosi volti ad accertare la prospettata infermità, nonostante il Tribunale congruamente escluso la sussistenza di elementi da cui desumere la ricorrenza di una patologia; dall’altro – e ciò risulta decisivo per disattendere la doglianza – omette di considerare l’altro polo su cui si fonda la ratio decidendi, e cioè l’accertata insussistenza della impossibilità per Ve.Fr. a provvedere ai propri interessi, perché questi ha dimostrato di gestire i suoi interessi avvalendosi dell’assistenza di una rete familiare e professionale di sostegno da lui stesso individuata, in maniera non pregiudizievole per i suoi interessi. Questa specifica e decisiva ratio non viene presa in alcuna considerazione nella censura, con evidenti ricadute anche in termini di inammissibilità del motivo, atteso che, in assenza del pregiudizio per la possibilità di poter curare i propri interessi, non può trovare ingresso la misura di protezione.>>

Presunzione di danno nel caso di restrizione illegittima della libertà personale: il caso dei migranti sulla nave Diciotti c. la Presidenza del Consiglio dei Ministri

Cass. sez. un.  06/03/2025 n.5992, rel. Iannello, è la sentenza che tanto ha adirato il governo in carica e di cui hanno parlato tutti i media.

La sentenza è interessante per più aspetti, tra cui:

1) l’applicabilità diretta di norme costituzionali (art. 13 Cost.; art. 5.1.f, CEDU), non dichiarata  ma implicita;

2) la individuazione della colpa nella condotta di una PA:

<< 2.1. È noto che, perché un evento dannoso sia imputabile a responsabilità della p.a., tale imputazione non potrà avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità del provvedimento amministrativo, richiedendo, invece, una più penetrante indagine in ordine alla valutazione della colpa, che, unitamente al dolo, costituisce requisito essenziale della responsabilità aquiliana.

La sussistenza di tale elemento sarà riferita non al funzionario agente, ma alla p.a. come apparato, e sarà configurabile qualora l’atto amministrativo sia stato adottato ed eseguito in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione alle quali deve ispirarsi l’esercizio della funzione amministrativa, e che il giudice ordinario ha il potere di valutare, in quanto limiti esterni alla discrezionalità amministrativa.

Sia pure con riferimento non al singolo funzionario, ma alla p.a. come apparato, e quindi come unità (quanto meno nei singoli settori), va valutata la colpa, nei termini sopradetti>>.

3) la legittimità della presunzione del danno , che poi non determina rinviando al giduce del merito:

<<È anche vero però che tale prova ben può essere offerta anche a mezzo di presunzioni gravi, precise e concordanti.

In particolare, in ipotesi, quale quella di specie, di restrizione della libertà personale, i margini di un ragionamento probatorio di tipo presuntivo, ferma restando la non predicabilità di un danno in re ipsa, risultano particolarmente forti, tanto più per una vicenda dai contorni fattuali chiari come quelli di cui si tratta.

Ciò tanto più ove si consideri la dimensione eminentemente soggettiva e interiore del pregiudizio che si tratta di risarcire (danno morale), all’esistenza del quale non corrisponde sempre una fenomenologia suscettibile di percezione immediata e, quindi, di conoscenza ad opera delle parti contrapposte al danneggiato.

In tali casi ad un puntuale onere di allegazione – la cui latitudine riflette la complessità e multiformità delle concrete alterazioni in cui può esteriorizzarsi il danno non patrimoniale che, a sua volta, deriva dall’ampiezza contenutistica dei diritti della persona investiti dalla lesione ingiusta – non corrisponde, pertanto, un onere probatorio parimenti ampio.

Come è stato condivisibilmente rimarcato (v. in motivazione Cass. 10/11/2020, n. 25164), “esiste, difatti, nel territorio della prova dei fatti allegati, un ragionamento probatorio di tipo presuntivo, in forza del quale al giudice è consentito di riconoscere come esistente un certo pregiudizio in tutti i casi in cui si verifichi una determinata lesione – sovente ricorrendosi, a tal fine, alla categoria del fatto notorio per indicare il presupposto di tale ragionamento inferenziale, mentre il riferimento più corretto ha riferimento alle massime di esperienza (i fatti notori essendo circostanze storiche concrete ed inoppugnabili, non soggette a prova e pertanto sottratte all’onere di allegazione) ….

La massima di esperienza, difatti, non opera sul terreno dell’accadimento storico, ma su quello della valutazione dei fatti, è regola di giudizio basata su leggi naturali, statistiche, di scienza o di esperienza, comunemente accettate in un determinato contesto storico-ambientale, la cui utilizzazione nel ragionamento probatorio, e la cui conseguente applicazione, risultano doverose per il giudice, ravvisandosi, in difetto, illogicità della motivazione, volta che la massima di esperienza può da sola essere sufficiente a fondare il convincimento dell’organo giudicante.

Tanto premesso, non solo non si ravvisano ostacoli sistematici al ricorso al ragionamento probatorio fondato sulla massima di esperienza specie nella materia del danno non patrimoniale, e segnatamente in tema di danno morale, ma tale strumento di giudizio consente di evitare che la parte si veda costretta, nell’impossibilità di provare il pregiudizio dell’essere, ovvero della condizione di afflizione fisica e psicologica in cui si è venuta a trovare in seguito alla lesione subita, ad articolare estenuanti capitoli di prova relativi al significativo mutamento di stati d’animo interiori da cui possa inferirsi la dimostrazione del pregiudizio patito”.

L’affermazione della Corte circa la mancanza di allegazione e prova del danno, non dando conto di tali margini di valutazione, appare pertanto applicare un paradigma in contrasto da quello dettato dal ricordato principio.

Mutuo solutorio e consegna delle somme con contestuale loro riappropriazione da parte della banca

Cass. sez. un., 05/03/2025 n. 5.841, rel. Iannello, sull’operazine frequente nella pratica e sulla distinzione (ovvia peraltro) dal mutuo di scopo:

<<La questione posta si concentra, in buona sostanza, nella domanda se il c.d. mutuo solutorio – vale a dire, secondo un minimale approccio definitorio che può dirsi comunemente accettato, il mutuo seguito dalla contestuale o comunque immediata destinazione delle somme a ripianare debiti pregressi – possa oppure no effettivamente considerarsi un vero e proprio contratto di mutuo o se vada piuttosto diversamente qualificato e, nel primo caso, se possa anche considerarsi valido.

Ai sensi dell’art. 1813 cod. civ. “il mutuo è il contratto col quale una parte consegna all’altra una determinata quantità di danaro o di altre cose fungibili, e l’altra si obbliga a restituire altrettante cose della stessa specie e qualità”.

Secondo l’opinione prevalente in dottrina e pacifica in giurisprudenza il mutuo è un contratto reale, che si perfeziona, cioè, con la consegna (traditio) della cosa data a mutuo (res), la quale però, per essere tale, deve essere idonea a consentire il conseguimento della “disponibilità giuridica” della res da parte del mutuatario, per effetto della creazione, da parte del mutuante, di un autonomo titolo di disponibilità, tale da determinare l’uscita della somma dal proprio patrimonio e l’acquisizione della medesima al patrimonio della controparte, a prescindere da ogni successiva manifestazione di volontà del mutuante.

Non è dunque necessaria la consegna materiale, ma è sufficiente che la res sia messa nella “disponibilità giuridica” del mutuatario, il che avviene quando il mutuante crea un autonomo titolo di disponibilità a favore del primo, fermo restando l’altro elemento costitutivo rappresentato dall’assunzione da parte del mutuatario dell’obbligazione – univoca, espressa ed incondizionata – di restituire il tantundem.

3. Proprio sul concetto di “disponibilità giuridica” delle somme erogate a titolo di mutuo si concentra, però, il problema giuridico da risolvere nel caso del mutuo solutorio.

In particolare, è dall’immediata riappropriazione da parte della banca delle somme mutuate (carattere distintivo dell’operazione) che si origina il dubbio se possa dirsi realizzata la messa a disposizione della somma mutuata, presupposto indispensabile della stessa qualificazione dell’operazione alla stregua di mutuo.>>

Principo di diritto:

“Il perfezionamento del contratto di mutuo, con la conseguente nascita dell’obbligo di restituzione a carico del mutuatario, si verifica nel momento in cui la somma mutuata, ancorché non consegnata materialmente, sia posta nella disponibilità giuridica del mutuatario medesimo, attraverso l’accredito su conto corrente, non rilevando in contrario che le somme stesse siano immediatamente destinate a ripianare pregresse esposizioni debitorie nei confronti della banca mutuante, costituendo tale destinazione frutto di atti dispositivi comunque distinti ed estranei alla fattispecie contrattuale.

Anche ove si verifichi tale destinazione, il contratto di mutuo (c.d. mutuo solutorio), in presenza dei requisiti previsti dall’art. 474 cod. proc. civ., costituisce valido titolo esecutivo”.