Problem- solution approach in una valutazione veneziana di originalità dell’invenzione

Trib. Venezia 15.03.2024, RG 3212/2021, rel. Guzzo, Vem spa v. SACCARDO ELETTROMECCANICA s.r.l.u. :

<<Il metodo problem- solution approach, prevede che si debba procedere dopo l’
individuazione dell’arte nota più vicina (closest prior art) che nel caso di specie è
proprio l’elettromandrino EFL , all’identificazione del problema tecnico affrontato dal brevetto e alla valutazione circa il fatto se, partendo dall’anteriorità più prossima e dalla considerazione del problema tecnico, il trovato fatto oggetto del brevetto sarebbe risultato ovvio o meno per la persona esperta del ramo.

Quanto al problema tecnico le stesse linee Guida dell’EPO prevedono che debba essere individuato il problema tecnico che effettivamente l’invenzione risolve sulla base dell’effetto tecnico delle caratteristiche distintive del trovato; di tal che qualora emerga come nel caso di specie che l’ arte nota più vicina al brevetto non sia stata considerata nel brevetto, il problema tecnico non potrà essere confinato necessariamente al problema tecnico “soggettivamente” ivi indicato ma dovrà esser “riformulato” al fine di individuare il problema tecnico oggettivo che l’invenzione è idonea a risolvere sulla base delle sue caratteristiche distintive.
In tal senso è corretto e ben motivato l’operato del CTU che proprio in base alle caratteristiche distintive del trovato brevettuale già sopra illustrate ha individuato il problema tecnico oggettivo identificato “ in come montare in maniera semplice la testa  portautensile sull’albero motore 3 dell’elettromandrino con l’impiego di un inserto 10, il quale possa essere realizzato in materiale differente dal materiale, con il quale è realizzato l’albero motore 3, e possa preservare questo da possibili danneggiamenti legati all’uso dell’elettromandrino”.
Non è abbisognevole di ulteriori chiarimenti la individuazione del problema tecnico da risolvere effettuata dal CTU non essendo condivisibile il rilievo di parte attrice secondo cui le caratteristiche distintive non risolverebbero detto problema tecnico (che sarebbe dunque non correttamente formulato) stanti altri inconvenienti presenti (“il vincolo indiretto della testata all’albero motore tramite l’inserto” comporta lo svantaggio di richiedere “la rimozione dell’intera testata quando si deve rimuovere l’inserto in caso sia necessaria la sua sostituzione”) : invero non è raro che la soluzione al problema tecnico oggettivo, possa introdurre inconvenienti di diversa natura ma la presenza di altri inconvenienti- che potrà esser se del caso ovviata da altre soluzioni – non esclude
che le nuove caratteristiche trovate sia solutive di quel problema.
Infine è stato adeguatamente utilizzato il c.d. “could – would approach“, per verificare se alla luce dell’arte nota e della anteriorità più prossima l’esperto del ramo sarebbe stato spinto logicamente e quasi certamente (“would”), a risolvere il problema tecnico oggettivo come rivendicato in IT027 ovvero avrebbe solo potuto (“could”) giungere a detta soluzione>>.

Il nesso di causalità (“più probabile che non”) nella morte del lavoratore, provocata da tumore polmonare da esposizione prolungata all’amianto

Cass. sez. III, ord. 05/11/2024 n. 28.458, rel. Rubino:

<<Il ragionamento che fa la Corte d’Appello muove dall’accertamento delle circostanze di fatto indicate, tutte rilevanti, ma esclude, sulla base del parere dell’ultimo esperto consultato, che la patologia contratta dalla vittima fosse qualificabile come mesotelioma pleurico, e sulla base di ciò nega che sia stata fornita la prova, seppur sulla base di un ragionamento probabilistico, del nesso di causalità, concludendo nel senso che l’evento lesivo sia dovuto a causa incerta.

L’equazione che risolve la Corte d’Appello è errata, in quanto l’accertamento della non riconducibilità della patologia per cui è morto il Vi.St. alla tipologia del mesotelioma pleurico, la più frequente e caratteristica patologia derivante dall’esposizione all’amianto, qualificata pertanto come malattia professionale, non esclude che la morte per tumore ai polmoni del Vi.St. sia stata causata da una malattia contratta in ambito lavorativo, e non la esimeva dal dover verificare se, in presenza di quelle circostanze di fatto attestanti l’esposizione al rischio in ambito lavorativo, ed in assenza di altri fattori esterni di esposizione accentuata al rischio di patologia tumorale polmonare, si dovesse ritenere più probabile che non che la morte del Vi.St. fosse da porre in rapporto causale con l’attività lavorativa svolta e con l’esposizione al contatto e all’ingerimento della polvere di amianto.

Alle medesime conclusioni è già giunta, peraltro, la Sezione Lavoro della Corte, che ha esaminato il ricorso degli eredi del Vi.St. avente ad oggetto le domande proposte iure hereditatis dagli attuali ricorrenti in relazione alla morte del padre: la Sezione lavoro della Corte, con ordinanza n. 18050/2024 (in R.G. 18847/2022), pubblicata il 1.7.2024, in accoglimento del ricorso di Gh.Pa. e Stefano Vi.St., ha cassato la sentenza n. 684/2021 della Corte d’Appello di Venezia, Sezione lavoro, rinviando alla medesima corte in diversa composizione “per l’accertamento del nesso causale in relazione al motivo accolto”, oltre che per le spese del giudizio.

La Corte d’Appello, infatti, ha erroneamente seguito il ragionamento dell’ausiliario nominato dal Tribunale, secondo cui l’unica diagnosi puntuale sarebbe stata quella fondata sull’esame istologico, nel caso concreto non eseguito. Orbene tale criterio valutativo è errato, perché incentrato sulla certezza causale, laddove il criterio da utilizzare è quello del “più probabile che non”, sicché il fattore causale è rilevante anche in termini di concausalità, in forza del principio di equivalenza delle cause posto dall’art. 41 c.p.

In particolare, questa Corte ha già affermato che, ai sensi dell’art. 41 c.p., il rapporto causale tra l’evento e il danno è governato dal principio di equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, potendo escludersi l’esistenza nel nesso eziologico richiesto dalla legge solo se possa essere ravvisato con certezza l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, di per sé sufficiente a produrre l’infermità e tale da far degradare altre evenienze a semplici occasioni (Cass. n. 27952/2018; Cass. n. 6105/2015). In applicazione di questo principio questa Corte ha coerentemente affermato che in tema di risarcimento del danno, il nesso causale tra l’esposizione ad amianto e il decesso intervenuto per tumore polmonare può ritenersi provato quando, sulla scorta delle risultanze scientifiche e delle evidenze già note al momento dei fatti e secondo il criterio del “più probabile che non”, possa desumersi che la non occasionale esposizione all’agente patogeno – in relazione alle modalità di esecuzione delle incombenze lavorative, alle mansioni svolte e all’assenza di strumenti di protezione individuale – abbia prodotto un effetto patogenico sull’insorgenza o sulla latenza della malattia (Cass. ord. n. 13512/2022). Quindi per affermare il nesso causale non occorre necessariamente identificare la patologia tumorale in termini di “mesotelioma”, come invece ha ritenuto la Corte d’Appello. Il nesso causale può sussistere anche rispetto ad un tumore polmonare di tipo diverso, purché ricorrano tutti gli altri elementi di valutazione causale sopra detti, in primo luogo la non occasionale esposizione all’agente patogeno, poi le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, l’assenza di strumenti di protezione individuale, l’assenza di fattori estranei all’attività lavorativa, di per sé sufficienti a produrre l’infermità e tale da far degradare gli altri fattori a semplici occasioni. Questi accertamenti e le correlate valutazioni sono stati completamente omessi dalla Corte territoriale, la cui decisione, dunque, si traduce in violazione dell’art. 41 c.p. e pertanto va cassata con rinvio per un nuovo apprezzamento dell’esposizione a polveri di amianto e della sua rilevanza causale o concausale nell’eziologia della patologia del de cuius e poi del suo decesso>>.

Il principio di diritto: “Accertata la presenza di uno di fattori di rischio (nel caso di specie l’esposizione all’amianto), che scientificamente si pongono come idonei antecedenti causali della malattia, prima, e del decesso, poi, va affermata la sussistenza del nesso di causalità tra quel fattore di rischio e la malattia e quindi il decesso, anche eventualmente in termini di concausalità, in presenza di non occasionale esposizione all’agente patogeno, determinate modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, assenza di strumenti di protezione individuale, salvo che sussista altro fattore, estraneo all’attività lavorativa e/o all’ambiente lavorativo, da solo idoneo a determinare la malattia e/o, poi, il decesso” .

Responsabilità del notaio verso terzi ma contrattuale per contatto sociale (a seguito di rogitazione di atto inefficace)

Cass. sez. II,  ord. 18/07/2024 , n. 19.849, rel. Carrato:

<<La questione che viene qui in rilievo consiste nel rispondere a se una
eventuale responsabilità del notaio possa aversi anche in danno di
possibili terzi pregiudicati dall’attività negligente del pubblico ufficiale
nel rogitare un atto inter alios, che sia risultato inefficace tra questi
ultimi (come, nel caso di specie, accertato con la sentenza di primo
grado, confermata sul punto da quella della Corte di appello).
E’ evidente che, ove lo fosse, la stessa – come già posto in risalto – si
atteggerebbe come responsabilità extracontrattuale.
Orbene, rileva il collegio che tale responsabilità si è venuta a
configurare nella fattispecie dedotta nella presente controversia, in cui
– per quanto detto e per effetto di una condotta colposa del notaio
causalmente connessa anche alla posizione del Ceruso – quest’ultimo
aveva risentito di danni conseguenti ricollegabili: – alla rilevante
conseguenza di non aver potuto stipulare l’atto pubblico di vendita –
successivo alla conclusione della relativa scrittura privata – del bene
acquistato dal Sica da parte dei germani De Bellis, privi di qualsiasi
titolo petitorio, con immediata trascrizione pregiudizievole dello stesso
per quanto innanzi evidenziato; – per non aver potuto godere del
possesso legittimo dello stesso in virtù della stipula dell’atto pubblico
confermativo della scrittura privata; – per essere stato costretto – oltre
a insistere, intervenendo volontariamente nel giudizio intentato dalla
proprietaria-venditrice, nell’azione di inefficacia dell’atto concluso tra i
De Bellis e il Sica – a intraprendere altra azione nei confronti della
Nuova Ceramica D’Agostino al fine di ottenere, poi, una sentenza di
accertamento degli effetti traslativi – quindi, in via giudiziale – dell’atto
di vendita (concluso, in precedenza, nella forma della scrittura privata)
in suo favore, al fine di dotarsi di un titolo idoneo alla trascrizione.
Del resto, la giurisprudenza di questa Corte ha precisato che la
cosiddetta responsabilità “da contatto sociale”, soggetta alle regole
della responsabilità contrattuale pur in assenza d’un vincolo negoziale
tra danneggiante e danneggiato, è configurabile non in ogni ipotesi in
cui taluno, nell’eseguire un incarico conferitogli da altri, rechi
nocumento a terzi, come conseguenza riflessa dell’attività così
espletata, ma – e a questo ulteriore principio di diritto dovrà
uniformarsi il giudice di rinvio – quando il danno sia derivato dalla
violazione di una o più precise regole di condotta (nella specie quelle
del notaio violatrici degli obblighi di controllo e di verifica tipiche della
diligenza qualificata esigibile da tale pubblico ufficiale), imposta dalla
legge allo specifico fine di tutelare i terzi potenzialmente esposti ai
rischi dell’attività svolta dal danneggiante, tanto più ove il fondamento
normativo della responsabilità si individui nel riferimento dell’art. 1173
c.c. agli altri atti o fatti idonei a produrre obbligazioni in conformità
dell’ordinamento giuridico (cfr. Cass. n. 11642/2012 e Cass. n.
29711/2020)>>.

Sulla quantificazione del danno:

<<Al giudice di rinvio è rimessa pure la valutazione di quantificazione dei
relativi danni risentiti dal Ceruso, tenendo conto del principio prima
ricordato – esportabile anche con riguardo alla sfera giuridica lesa del
terzo – alla stregua del quale la misura di detti danni va parametrata
alla situazione economica nella quale il medesimo si sarebbe trovato qualora il notaio avesse diligentemente adempiuto la propria
prestazione, in relazione alla cui valutazione lo stesso giudice di rinvio
potrà ricorrere anche al criterio equitativo di cui all’art. 1226 c.c.,
come richiamato dall’art. 2056 c.c., che attiene al risarcimento del
danno da illecito extracontrattuale>>

L’atto di vendita del proprietaio non interrompe il possesso dell’usucapiente

Cass.  sez. II, ord. 25/09/2024  n. 25.643, rel. Mondini, ricorda una  regola interessante, perchè fonte di dubbi nella pratica: però a ben vedere scontata, poichè il negozio di vendita in nulla incide sul (o limita il) potere di fatto dell’usucapiente.

<<Il motivo è invece fondato nella parte in cui viene dedotta l’erroneità della affermazione della Corte di Appello secondo cui “l’immobile risulta essere stato venduto con atto del 1983, data alla quale non era ancora maturata l’usucapione e l’atto di disposizione dei proprietari è incompatibile con il preteso possesso uti dominus del Di.Di. cosicché non può ritenersi maturato il diritto preteso dall’appellante”.

Come questa Corte ha avuto modo di precisare “Nel giudizio promosso dal possessore nei confronti del proprietario per far accertare l’intervenuto acquisto della proprietà per usucapione, l’atto di disposizione del diritto dominicale da parte del proprietario in favore di terzi, anche se conosciuto dal possessore, non esercita alcuna incidenza sulla situazione di fatto utile ai fini dell’usucapione, rappresentando, rispetto al possessore, “res inter alios acta”, ininfluente sulla prosecuzione dell’esercizio della signoria di fatto sul bene, non impedito materialmente, né contestato in modo idoneo” (Cass. n.2752 del 05/02/2018). La Corte di Appello avrebbe dovuto verificare se, dopo l’atto di vendita, il possesso del ricorrente fosse o non fosse stato ancora esercitato per il tempo mancante al perfezionarsi del termine ventennale di usucapione;>>

Muroo di confine, muro di contenimento e concetto di “costruzione” in relazione alle distanze legali

Cass. sez. II, ord. 16/09/2024 n. 24.842, rel. Falaschi

<<Questa Corte ha più volte affermato che l’esenzione dal rispetto delle distanze tra costruzioni, prevista dall’art. 878 c.c., si applica sia ai muri di cinta, qualificati dalla destinazione alla recinzione di una determinata proprietà, dall’altezza non superiore a tre metri, dall’emersione dal suolo nonché dall’isolamento di entrambe le facce da altre costruzioni, sia ai manufatti che, pur carenti di alcuni dei requisiti indicati, siano comunque idonei a delimitare un fondo ed abbiano ugualmente la funzione e l’utilità di demarcare la linea di confine e di recingere il fondo (Cass. n. 26713 del 2020; Cass. n. 3037 del 2015; Cass. n. 8671 del 2001).

Quindi è possibile fare riferimento anche alle altre caratteristiche del muro di cinta, che non necessariamente deve essere sul confine, potendosi trovare anche a ridosso dello stesso. Infatti, è sufficiente che il manufatto, pur carente di alcuni dei requisiti sopra illustrati, sia comunque idoneo a delimitare un fondo e abbia ugualmente la funzione e l’utilità di demarcare la linea di confine e di recingere il fondo, circostanza sulla quale la ricorrente neanche deduce elementi di giudizio di segno opposto, incontestato che nel caso di specie, il muro dista soltanto cm. 25 dal confine.

Per completezza espositiva, è il caso di rilevare che verosimilmente la differente altezza rispetto ai due lati del muro sia da ascrivere ad un dislivello tra i due fondi, ma tale circostanza non risulta neppure dedotta nel giudizio di merito.

E se anche si trattasse di muro di contenimento, opererebbe allora il principio secondo cui in tema di distanze legali, il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi “costruzione” agli effetti della disciplina di cui all’art. 873 c.c. per la parte che adempie alla sua specifica funzione di sostegno e contenimento, dalle fondamenta al livello del fondo superiore, qualunque sia l’altezza della parete naturale o della scarpata o del terrapieno cui aderisce, impedendone lo smottamento, dovendosi escludere la qualifica di costruzione anche se una faccia non si presenti come isolata e l’altezza possa superare i tre metri, qualora tale sia l’altezza del terrapieno o della scarpata (tra le tante, v. Sez. 2 – , Ordinanza n. 6766 del 19/03/2018). E nel caso di specie, quindi, non essendo stata mai dedotta la creazione di un dislivello artificiale (che invece è soggetta a diversa disciplina: v. tra le varie Sez. 2 – , Ordinanza n. 16975 del 14/06/2023), non vi sarebbe in ogni caso violazione di distanze per la parte del muro che sovrasta il livello del fondo superiore (parte attrice), alta metri 3,00 secondo gli accertamenti in fatto compiuti dal giudice di merito e quindi non computabile ai fini delle distanze>>.

Inibitoria contro Cloudfare per coviolazione del diritto di autore

Interessante ordinanza cautelare (contumaciale) di Trib. Roma Sez. spec. in materia di imprese, Ord., 03/06/2024, n. 1569, Rg 14261/2024, RTI (gruppo Mediaset) v. Cloudfare, pubblicata in Altalex da Maurizio De Giorgi , ove link al testo.

Spunti principali:

1) la analitica descrizione del lato tecnico, in particolare del ruolo di Cloudfare, essenzialmente volto a dare l’anonimato ai suoi clienti ma non solo (piattaforma usata anche da Twitter in Brasile nella sua recente lite col governo )

2) l’esame delle questioni di giurisdizione e competenza;

3)  il rapporto tra concorso ex art. 2055 cc (affermato) ed esimente ex art. 14, 15, 16 d gls 70/2003 (non affrontata ma -direi- implicitamente negata):

<<Ciò posto, a prescindere dalla qualificazione della resistente come hosting provider e, quindi, dalla questione della responsabilità degli internet service providers anche alla luce della recente giurisprudenza comunitaria, peraltro posta in maniera implicita, l’attività da essa svolta così come  prospettata dalla ricorrente appare potersi configurare come un’attività di concorso nella realizzazione degli illeciti compiuti da terzi inquadrabile nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 2055 c.c..
In particolare, sussiste, prima facie, nella cognizione tipica della presente fase cautelare, la prova che attraverso i nomi a dominio “G.” in tutte le variate declinazioni sono stati posti a disposizione del pubblico i programmi su cui la R.T.s.p.a. detiene i diritti di sfruttamento economico per l’Italia, senza autorizzazione e, pertanto, in violazione del diritto d’autore della ricorrente.
Dall’analisi espletata dalla S. srl, su incarico della ricorrente, è emerso che il sito noto con il nome di G. ha variato decine di estensioni del nome a dominio e che si serve dei servizi di C..

E’ emerso, altresì, che il sito offre un catalogo indicizzato di prodotti audiovisivi e li rende accessibili e fruibili mediante la pubblicazione di collegamenti ipertestuali (link) a risorse terze (cd. file hosting o cyberlocker) per il download o per lo streaming e che l’aggiornamento dei contenuti viene svolto dalla sola amministrazione del sito mentre l’utente finale può fruire dei contenuti la cui ricerca viene agevolata  dalle funzioni del sito stesso.
E’ emerso che C. agisce, quindi, come un intermediario tra il visitatore del sito e il server di origine, migliorando le prestazioni, aumentando la sicurezza e fornendo una serie di servizi aggiuntivi per ottimizzare l’esperienza dell’utente e proteggere il sito dai rischi online. Tutti i domini sfruttati da G. hanno in comune l’uso di tali servizi, ciò è riscontrabile anche dalla consultazione dei registri pubblici ottenute dalle interrogazioni D. di tutti i nomi dominio oggi riferiti a G., il N. risulta essere il comune servizio di Registrar usato per l’acquisto dei nomi di dominio e C. risulta essere l’ intermediario dei servizi internet sfruttato da tutti i domini>>

Motivazione poco lineare: la non invocabilità dell’esimente (questione logicamente antecedente l’invocabilità dell’art. 2055cc) andava argomentata, non ritenuta irrilevante (“a prescidnere”).

La petizione ereditaria è implicita nella domanda di scioglimento della comunione

Cass. sez. II, Sent. 17/10/2024, n. 26.951, rel. Pirari:

<<Orbene, la questione proposta attiene, nella specie, agli effetti che conseguono alla proposizione di una domanda di scioglimento della comunione ereditaria e alla configurabilità dell’efficacia recuperatoria della stessa in assenza di relativa domanda, posto che, secondo il ricorrente, i giudici di merito non avrebbero potuto includere nella massa dividenda una somma di denaro in assenza di domanda di condanna e, correlatamente, di pronuncia in tal senso. A ben vedere, però, questa ricostruzione degli istituti non convince, poiché si pone in contrasto con il significato stesso del giudizio di divisione ereditaria e gli effetti da esso scaturenti. E’ ben noto, invero, che il recupero, da parte dell’erede, dei beni ereditari di cui sia nel possesso un terzo, sia in qualità di erede, sia senza titolo, avviene con l’esercizio dell’azione di petizione ereditaria ex art. 533 cod. civ., la quale, oltre ad avere natura reale e non contrattuale, è fondata sull’allegazione della qualità di erede con la finalità, giustappunto, di conseguire il rilascio dei beni compresi nell’asse ereditario al momento dell’apertura della successione da chi li possiede senza titolo o in base a titolo successorio che non gli compete, ma non quelli che, al momento dell’apertura della successione del de cuius, erano già fuoriusciti dal suo patrimonio e che, in ragione di ciò, non possono essere considerati quali beni ereditari (in tal senso, Cass., Sez. 2, 4/4/2024, n. 8942).

Orbene, la petizione dell’eredità, che consente, ai sensi dell’art. 533 cod. civ., di chiedere sia la quota dell’asse ereditario sia il suo valore, potendo così assumere tanto natura di azione di accertamento o funzione recuperatoria (Cass., Sez. 6-2, 24/9/2020, n. 20024 ), quanto di condanna al rilascio dei beni ereditari posseduti dal convenuto a titolo di erede (Cass., Sez. 2, 19/1/1980, n. 461), si configura anche quando sia proposta domanda di divisione dell’asse ereditario, in quanto quest’ultima, al pari della prima, postula l’accertamento dell’esistenza, nell’attivo ereditario, del credito di cui il de cuius era titolare nei confronti di altro coerede per le somme da questi illegittimamente prelevate dal conto cointestato prima della sua morte (Cass., Sez. 6-2, 24/9/2020, n. 20024; Cass., Sez. 2, 2004, n. 24034). Ciò comporta che nell’azione di scioglimento della comunione ereditaria può dirsi insita l’azione di petizione ereditaria allorché si chieda la ricostruzione dell’asse relitto e l’inclusione, in esso, di beni sottratti da altro erede o da un terzo, ivi compresi, dunque, i crediti vantati dal de cuius o le somme di denaro illecitamente prelevate da altro erede, come nella specie, tanto più che la sentenza contenente l’assegnazione dei beni ai condividenti costituisce titolo esecutivo, idoneo a consentire a ciascuno di costoro di acquistare non soltanto la piena proprietà dei beni facenti parte della quota toccatagli, ma anche la potestà di esercitare tutte le azioni inerenti al godimento del relativo dominio, ivi compresa quella diretta ad ottenere, in via esecutiva, il rilascio dei beni in essa inclusi, rispetto ai quali gli altri condividenti non hanno più alcun titolo giustificativo per protrarre ulteriormente la detenzione proprio per effetto della compiuta divisione (sull’efficacia di titolo esecutivo dello scioglimento della comunione vedi Cass., Sez. 2, 22/8/2018, n. 20961; Cass., Sez. 2, 27/12/2013, n. 28697).

E’ allora evidente come nessuna ultrapetizione possa dirsi verificata nella specie, derivando dall’accertamento dell’esatta consistenza del patrimonio relitto prima e dall’attribuzione delle quote poi, presupponente evidentemente l’accertamento della qualità di erede, gli stessi effetti sostanziali che derivano dalla petizione ereditaria, che, in ragione di ciò, può dirsi insita nella domanda di scioglimento della comunione>>.

Il punto della Cassazione sull’amministrazione di sostegno

Cass. sez. I, ord. 17/09/2024  n. 24.878, rel. Russo R. E. A.:

<<Deve qui ricordarsi che l’amministrazione di sostegno è uno strumento volto a proteggere la persona in tutto o in parte priva di autonomia, in ragione di disabilità o menomazione di qualunque tipo e gravità, senza mortificarla e senza limitarne la capacità di agire se non -e nella misura in cui- è strettamente indispensabile; la legge chiama il giudice all’impegnativo compito di adeguare la misura alla situazione concreta della persona e di variarla nel tempo, così da assicurare all’amministrato la massima tutela possibile con il minor sacrificio della sua capacità di autodeterminazione (Cass. sez. un., 30/07/2021, n.21985Cass., sez. I 27 settembre 2017, n. 22602, Cass. sez. I, 11 maggio 2017, n. 11536; Cass. civ. sez. I 26 ottobre 2011, n. 22332; Cass. civ. sez. I 29 novembre 2006, n. 25366; Cass. civ. sez. I 12 giugno 2006, n. 13584; Cass. civ, sez. I, 11 settembre 2015, n. 17962).

Introducendo l’amministrazione di sostegno, il legislatore ha dotato l’ordinamento di una misura che può essere modellata dal giudice tutelare in relazione allo stato personale e alle circostanze di vita di ciascun beneficiario e in vista del concreto e massimo sviluppo delle sue effettive abilità. Così l’ordinamento mostra una maggiore sensibilità alla condizione delle persone con disabilità, è più attento ai loro bisogni e allo stesso tempo più rispettoso della loro autonomia e della loro dignità di quanto non fosse in passato, quando il codice civile si limitava a stabilire una netta distinzione tra soggetti capaci e soggetti incapaci, ricollegando all’una o all’altra qualificazione rigide conseguenze predeterminate. Nell’assolvere a questi compiti di protezione della persona, non è la gravità della malattia o menomazione che deve orientare il giudice, ma piuttosto la idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa (Corte Cost. 10/05/2019 n.114; Cass. civ. sez. I 4/03/ 2020, n. 6079; Cass. sez. I del 12 /06/ 2006 n. 13584).

La flessibilità è il tratto distintivo di questa misura di protezione, che non ha una disciplina legale predeterminata in ogni suo aspetto, posto che la normativa lascia ampi spazi di regolamentazione e di adattamento della misura al caso concreto (il c.d. vestito su misura). Il giudice verifica, da un lato, le competenze della persona e cioè le sue capacità e abilità, e, dall’altro, le sue carenze, muovendo dal presupposto che la persona potrebbe essere in grado di autodeterminarsi e di esercitare con sufficiente avvedutezza taluni diritti, ovvero operare in taluni ambiti della vita sociale ed economica, mentre potrebbe non essere abile e competente in altri settori. In esito a tale verifica il giudice, oltre a decidere l’an della misura, deve anche definire e perimetrare i compiti e i poteri dell’amministratore, in termini direttamente proporzionati all’incidenza degli accertati deficit sulla capacità del beneficiario di provvedere ai suoi interessi, di modo che la misura risulti specifica e funzionale agli obiettivi individuali di tutela, altrimenti implicando un’ingiustificata limitazione della capacità di agire della persona (Cass. 02/11/2022, n.32321).

La disciplina legale della misura, come si è detto, si caratterizza per una maggiore attenzione alla dignità della persona, il che significa che la sua volontà, nei limiti del possibile, deve essere rispettata. L’opinione del beneficiario non può essere considerata minusvalente solo perché espressa da un soggetto fragile, disabile, affetto da malattia psichica, poiché in tal modo si riproporrebbe uno schema rigido fondato su regole predeterminate, spesso desunte da dogmi indimostrati e talora discriminatori; invece di valutare, come richiede un approccio orientato al rispetto dei diritti umani, se nel caso concreto è possibile ed in quale misura rispettare la volontà dell’interessato senza pregiudizio per i suoi interessi (Cass. n. 7414 del 20/03/2024, in motivazione).

3.- In sintesi, la misura si giustifica in quanto, in primo luogo, si accerti un deficit e cioè che la persona non è in grado di provvedere, da sola o eventualmente con il supporto della rete familiare, ai suoi interessi, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica (art 404 c.c.), tenendo conto, nei limiti del possibile, della volontà del beneficiario, ovvero, se deve disporsi diversamente, motivando adeguatamente sul punto.

La misura può avere finalità di mero supporto, oppure, ove il giudice tutelare ritenga di estendere al beneficiario le limitazioni e decadenze previste per l’interdetto o l’inabilitato (art 411 c.c.) comportare il conferimento all’amministratore di specifici poteri di rappresentanza o di assistenza, analoghi rispettivamente a quelli del tutore o del curatore, e nei limiti strettamente necessari a proteggere gli interessi del beneficiario, ma non può essere essa stessa un mezzo istruttorio e di monitoraggio, poiché l’accertamento del deficit di competenze deve precedere e non seguire la misura>>.

Sempre sul mantenimento del figlio maggiorenne ma economicamente non autosufficiente

Cass. sez. I, ord. 28/10/2024 n. 27.818, rel. Tricomi:

<<4.1.- In materia di mantenimento del figlio maggiorenne e non autosufficiente, i presupposti su cui si fonda l’esclusione del relativo diritto, oggetto di accertamento da parte del giudice del merito e della cui prova è gravato il genitore che si oppone alla domanda, sono integrati: dall’età del figlio, destinata a rilevare in un rapporto di proporzionalità inversa per il quale, all’età progressivamente più elevata dell’avente diritto si accompagna, tendenzialmente e nel concorso degli altri presupposti, il venir meno del diritto al conseguimento del mantenimento; dall’effettivo raggiungimento di un livello di competenza professionale e tecnica del figlio e dal suo impegno rivolto al reperimento di una occupazione nel mercato del lavoro (Cass. n. 38366 /2021). Inoltre, ove il figlio dei genitori separati abbia ampiamente superato la maggiore età, e non abbia reperito una occupazione lavorativa stabile o che, comunque, lo remuneri in misura tale da renderlo economicamente autosufficiente, adeguata alle sue competenze, non può soddisfare l’esigenza ad una vita dignitosa, alla cui realizzazione ogni giovane adulto deve aspirare, mediante l’attuazione dell’obbligo di mantenimento del genitore, bensì attraverso i diversi strumenti di ausilio, ormai di dimensione sociale, che sono finalizzati ad assicurare sostegno al reddito, ferma restando l’obbligazione alimentare da azionarsi nell’ambito familiare per supplire ad ogni più essenziale esigenza di vita dell’individuo bisognoso (Cass. n.29264/2022; Cass. n. 12123/2024)>>.

Due osservazioni:

1) si noti l’onere della prova, erroneamente posto sul genitore;

2) l’assenza di diritto all’assegno, se il figlio è ampiamente (quanto?) maggiorenne: insegnamento diffuso, ma privo di base testuale e con base logico giuridica alquanto incerta, qualora egli abbia attuato seri sforzi per “emanciparsi”.

Il diritto di riproduzione dei beni culturali è una privativa pubblicistica e non privatistica: per cui non è avvicinabile al diritto di autore

Gilberto Cavagna ci informa di un’interessante sentenza di appello, App. Bologna , Aceto Balsamico del Duca di Adriano Grosoli srl c. Min. Beni culturali, RG 162/2020, rel. Donofrio, relativo all’ormai importante tema dello sfruttamento commerciale (non autorizzato)  della riproduzione di beni culturali (art. 106 ss TU 42/2004).

Si trattava dell’inserimento in un marchio della riproduzione del quadro di Velasquez, raffigurante il Duca Francesco I di Este.

In primo grado la domanda di danno del Ministero era stata accolta e la srl aveva appellato.

In appello la sentenza viene in sostanza confermata, anche se per alcuni anni viene affermata la prescrizione (quinquennale) del credito per canoni omessi.

I punti più importanti :

i) la privativa cit. è pubblicistica , per cui non avvicinabile a quelle privatistiche tipiche (autore, marchi etc.). Ne segue che non sottosta alla necessità di pubblico dominio confermata dall’art. 14 Dir. Copyright (nella stessa ottica la disposizione nazionale attuativa, art. 32 quater l. aut.,  esenta ilcod. beni culturali).

Ci si potrebbe naturalmente chiedere se la disciplina nazionale fosse compatibile con la cit. norma UE.

ii) la sua disciplina non contrasta con alcuna disposizione costituizionale interna (“Si deve inoltre ritenere totalmente infondata la questione di costituzionalità come prospettata dall’appellante in rapporto all’asserito contrasto tra la normativa in materia di beni culturali e gli articoli 3, 9 10, 41,76 e 77 della Costituzione, giacchè, come già sopra evidenziato, i beni sottoposti a vincolo culturale ricevono dall’ordinamento una tutela pubblicistica in quanto espressione di un’identità collettiva che l’ordinamento intende preservare. Pertanto, la durata temporale illimitata dei diritti relativi ai beni culturali non appare irragionevole, ma risponde a prevalenti ragioni costituzionali di valorizzazione e fruizione collettiva degli stessi, escludendo, di conseguenza, una qualsiasi disparità di trattamento tra enti pubblici e privati nella gestione di tali beni, poiché soltanto i primi possono assicurarne un uso compatibile con le esigenze dell’ordinamento“).

iii) essa è avvicianabile invece al diritto al nome e al ritratto, per cui è ammessa l’inibitoria.

Il punto iii) è però assai dubbio ed anzi errato: parificare un diritto sulla res (seppur per ragioni di pubblica utilità) ad un diritto personalissimo come nome ed immagine non ha fondamento. L’insistere sulla sua ratio pubblicistica impedisce di (e contasta col) ravvisare l’eadem ratio, necessaria per invocare l’analogia coi citt. diritto a nomne e immagine.

Grazie a Gilberto per l’utile aggiornamento.