Chi paga le spese condominiali per un appartamento di proprietà di un trust? Il trustee , dice la Cassazione

Cass.  n° 3.190 del 02.02.2023, sez. 2, rel. Scarpa:

<<l’unità immobiliare compresa nel Condominio di , alla quale si riferiscono i contributi oggetto del decreto ingiuntivo per cui è causa, è stata conferita in un “trust” traslativo, denominato “GP Trust”, sicché la “trustee” … s.r.l. è divenuta titolare della proprietà della stessa ed è tenuta, in quanto tale, a sostenerne le spese, non assumendo rilevanza, a tali fini, i limiti ai relativi poteri e doveri imposti dal disponente nell’atto istitutivo e l’effetto segregativo proprio dell’istituto, in vista del successivo ed eventuale trasferimento della titolarità dei beni vincolati ai soggetti beneficiari. Pur conferendo l’operazione al “trustee” una proprietà limitata nell’esercizio alla realizzazione del programma stabilito dal disponente nell’atto istitutivo a vantaggio del o dei beneficiari, i tre centri di imputazione della vicenda sono il disponente, il “trustee” e il beneficiario, mentre il “trust” non rileva quale soggetto giuridico dotato di una distinta individualità. A ciò consegue altresì che il “trustee” è il titolare dei diritti conferiti nel patrimonio vincolato ed è l’unico soggetto di riferimento nei rapporti con i terzi, operando non quale rappresentante del “trust” o del beneficiario, ma quale titolare della legittimazione dispositiva del diritto (ex multis, Cass. 26 maggio 2020, n. 9648; Cass. 20 giugno 2019, n. 16550; Cass. 30 maggio 2018, n. 13626; Cass. 19 maggio 2017, n. 12718; Cass. 27 gennaio 2017, n. 2043).
Questa interpretazione trae fondamento dall’art. 2 della Convenzione sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento, adottata a L’Aja il 1° luglio 1985 e ratificata dalla legge 16 ottobre 1989, n. 364, secondo la quale “per trust s’intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il costituente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico. Il trust presenta le seguenti caratteristiche: a) i beni del trust costituiscono una massa distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee; b) i beni del trust sono intestati a nome del trustee o di un’altra persona per conto del trustee; c) il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre beni secondo i termini del trust e le norme particolari impostegli dalla legge (…)”.
Del tutto diversa dal trust, e dunque estranea alla fattispecie per cui è causa, per come in fatto ricostruita dai giudici del merito, è la disciplina posta dalla legge 23 novembre 1939, n. 1966, la quale riguarda la mera amministrazione di beni per conto di terzi, conferita a società fiduciarie mediante mandato, salva rimanendo la proprietà effettiva di questi in capo ai mandanti (cfr. Cass. Sez. Unite 27 aprile 2022, n. 13143)>>.

Interviene la Cassazione a sezioni unite sulla forma del patto di intestazione fiduciaria (n. 6459 del 6 marzo 2020)

la Cassazione a sezioni unite del 6 marzo 2020 n. 6459, relatore Giusti, interviene sul tema in oggetto.

In particolare affronta due questioni: – la forma nel patto obbligatorio di ritrasferimento; – la valenza giuridica della dichiarazione di riconoscimento dell’obbligo di (ri-)trasferire al fiduciante rilasciata dal fiduciario

Nella parte motiva (a partire da <<Ragioni della decisione>>), i paragrafi 31-33 danno un resoconto delle principali questioni in tema di negozio fiduciario. Si tratta però di obiter dicta, visto che non rilevano per la soluzione delle questioni sottoposte alla Ccorte (ne dà atto anche il relatore, § 4).

Al paragrafo 5 ricorda gli orientamenti principali circa il problema della forma da dare al pactum fiduciae e in particolare dell’obbligo di successivo trasferimento.

Un  primo indirizzo giurisprudenziale (dominante) lo assimila al contratto preliminare e quindi applica articolo 1351 cc : stessa forma  del successivo negozio di trasferimento e dunque la forma scritta, paragrafo 5.1

Un altro indirizzo afferma invece la non necessità  di forma scritta, bastando anche l’impegno orale al pactum fiduciae, paragrafo 5.2

Ci sono infine altre due posizioni espresse da due Cassazioni del 2005 e del 2012, di ciascuna delle quali è riportato un passaggio: qui le tralascio, non essendovi ragionamenot su di esse,  paragrafo 5.3

Al paragrafo 6 il collegio affronta l’indirizzo dominante e ricorda che questo muove dalla equiparazione del pactum fiduciae al contratto preliminare, ma dice che va rimeditato, paragrafo 6.1. E’ infatti preferibile l’assimilazione del pactum fiduciae al mandato senza rappresentanza (ad acquistare) invece che al preliminare, dal momento che si tratta sempre di figure di interposizione reale di persona

Sempre al paragrafo 6.1 è ricordata la differenza tra preliminare e contratto fiduciario.  Si legge così: <<Nel preliminare, infatti, l’effetto obbligatorio è strumentale all’effetto reale, e lo precede; nel contratto fiduciario l’effetto reale viene prima, e su di esso s’innesta l’effetto obbligatorio, la cui funzione non è propiziare un effetto reale già prodotto, ma conformarlo in coerenza con l’interesse delle parti. Ne consegue che, mentre l’obbligo di trasferire inerente al preliminare di vendita immobiliare è destinato a realizzare la consueta funzione commutativa, la prestazione traslativa stabilita nell’accordo fiduciario serve, invece, essenzialmente per neutralizzare il consolidamento abusivo di una situazione patrimoniale vantaggiosa per il fiduciario a danno del fiduciante>>.

Che la commutatività sia diversa (sempre che ci sia nel mandato) è vero. Ma che nel contratto fiduciario l’effetto obbligatorio segua quello reale è errato: l’effetto reale segue sempre il patto fiduciario. Prima di far procedere il fiduciario con l’acquisto, o meglio prima di dotarlo delle ricorse economiche necessarie, il fiduciante avrà concordato le condizioni del’operazione tramite un pactum fiduciae.

La Corte prosegue sempre al § 6.1: <<Inoltre, l’obbligo nascente dal contratto preliminare si riferisce alla prestazione del consenso relativo alla conclusione di un contratto causale tipico (quale la vendita), con la conseguenza che il successivo atto traslativo è qualificato da una causa propria ed è perciò improntato ad una funzione negoziale tipica; diversamente, nell’atto di trasferimento del fiduciario – analogamente a quanto avviene nel mandato senza rappresentanza (art. 1706 c.c., comma 2) – si ha un’ipotesi di pagamento traslativo, perchè l’atto di trasferimento si identifica in un negozio traslativo di esecuzione, il quale trova il proprio fondamento causale nell’accordo fiduciario e nella obbligazione di dare che da esso origina.>>. Il che escluderebbe <<la possibilità di equiparare le due figure ai fini di un eguale trattamento del regime formale.>>

Anche qui la Corte è un pò  frettolosa.

Che il contratto definitivo abbia causa propria non è da tutti ammesso. In particolare è contestato dal maggior studioso del preliminare (Gazzoni), per il quale trattasi di pagamento traslativo. Va però detto che questa tesi alla fine risulta non del tutto persuasiva: per cui la soluzione dipenderà, direi, dal regolamento del caso specifico, non esistendone una sola sempre valida (v. il mio saggio https://www.academia.edu/10267514/Esecuzione_del_preliminare_di_vendita_con_atto_unilaterale_e_tutela_del_promissario_acquirente_contro_i_vizi_del_bene_acquistato).

Del resto le ragioni  a favore del controllo del bene prima dell’acquisto possono sussistere anche per il mandato (non quella del reperimento delle risorse, tipica dei preliminari ad esecuzione anticipata, essendo già state date al fiduciario al momento della stipula del pactum per il successivo acquisto dal terzo; anche se, a ben pensare, una dilazione non è totalmente impensabile, per cui potrebbe tornare l’equiparazione al preliminare).

Di conseguenza può ricorrere anche qui l’esigenza di un rinnovo dell’espressione della volontà, alla luce dell’esito di tale controllo: il che indurrebbe in tal caso ad attribuirle natura negoziale.

Una volta preso l’abbrivio della riconducibilità al mandato senza rappresentanza, la Corte applica la relativa disciplina della forma: la quale, stante il principio di libertà delle forme, potrà essere anche la forma orale, paragrafo 6.3

Qui è interessante esaminare le ragioni addotte dalla giurisprudenza per questa conclusione (come riportate in sentenza, § 6.3). Le quali sostanzialmente consistono: i) nel fatto che le esigenze di responsabilizzazione del consenso e di certezza dell’atto, proprie della forma scritta per i trasferimenti immobiliari, non ricorrono nel mandato senza rappresentanza, dal quale sorgono effetti solo obbligatori; ii) nel fatto che la articolo 1351 +è norma eccezionale.

Sub i) , il ragionamento non è persuasivo, dal momento che nel mandato l’effetto è sì obbligatorio ma azionabile poi tramite l’esecuzione in forma specifica ex articolo 2932 e dunque suscettibile di portare all’effetto traslativo.  Per cui le esigenze ivi indicate paiono rimanere.

Sub ii) , si apre un discorso molto ampio dato che l’eccezionalità dell’art. 2351 è sì affermata da molti ma anche seriamente contrastata da altri.

Comunque in sede interpretativa va tenuto conto di quanto appena detto e cioè che l’obbligo può diventare anche trasferimento e alla luce di ciò ampliare l’area semantica del concetto di “contratto preliminare”.

In altre parole si potrebbe pensare ad un’interpretazione estensiva nel senso di riferire la regola posta dal  1351 a tutti i negozi preparatori, che poi possono portare all’effetto traslativo tramite un obbligo giuridicamente sanzionato

La Corte non si confronta con simili riflessioni e al paragrafo 6.4 applica questa disciplina al negozio fiduciario: precisa infatti che per la validità del pactum fiduciae concernente i trasferimenti immobiliari non è necessaria ad substantiam la forma scritta.

A conferma di ciò, aggiunge, starebbe la prassi contrattuale: nel senso -se ben capisco- che le ragioni (di opportunità, di lealtà e di fiducia), che stanno alla base della scelta della fiducia cum amico, sarebbero incompatibili con l’onere della documentazione scritta. Il che può anche essere vero a livello fattuale, ma allora il discorso andrebbe probabilmente esteso a molte altre negoziazioni; la sua rilevanza in sede ermeneutica è però dubbia, anche per l’incertezza che genera (e senza appigli  normativi, quale ad es. una clausola generale). Valorizza invece il passaggio Lipari N., Oltre la fiducia, Per una teoria della prassi, nota alla sentenza, Il foro it., 2020/6, 1951 ss, favorevole al recepimento delle istanze della prassi , propositore di un’ottica degli <atti di ricoscimento> invece che solo degli <atti di posizione>.

Al paragrafo 7 la Corte affronta il secondo problema e cioè quale sia la rilevanza della dichiarazione del fiduciario in cui si riconosce debitore dell’obbligo di trasferire l’immobile al fiduciante. La Corte parla di <<posteriore dichiarazione scritta>> e sembra di capire che la intenda come <<posteriore all’acquisto che il fiduciario ha fatto dal terzo>>.

Le sezioni unite ritengono che si tratti di una dichiarazione solo ricognitiva, priva di  valore costitutivo. Infatti una volta ammessa la validità del patto fiduciario immobiliare verbale, l’obbligo di trasferire è già sorto, per cui la documentazione scritta di questi impegno, rilasciata successivamente, non può che essere ricognitiva.

Su questo punto il pensiero della Corte non è contestabile, alla luce della soluzione data alla prima questione.

La Corte precisa al § 7.3 che si tratta di promessa di pagamento ai sensi dell’articolo 1988 cc e che -cosa di non poco conto-  che la dichiarazione è valida anche se non titolata: cioè non è richiesto il riferimento al titolo dell’obbligazione (non è necessaria la c.d. l’expressio causae).

La Corte infine ricorda che, anche se fosse titolata, non diventerebbe una confessione, rimanendo invece una promessa di pagamento.

l’atto esecutivo (divisionale/apporzionativo) di trust costituisce atto tra vivi e non mortis causa

La Corte di Casszione in sede di regolamento di giurisdizione insegna che l’atto apporzionativo di trust tra trustee e beneficiari è atto inter vivos, non mortis causa (Cass. sez. un., 18.831 del 12 luglio 2019, rel. Giusti)

Nel caso specifico tale atto fu stipulato nella forma di  Deed of agreement, indemnity, release and covenant not to sue tra il trustee e le due figlie del settlor, che erano state nominate beneficiaries in sede istitutiva (anche se in via successiva rispetto al primo beneficario, che era lo stesso disponente) . La legge del trust era neozelandese.

dopo la firma di detto deed, una delle due sorelle citò l’altra in giudizio cheidendo l’annullamneot per dolo ex art. 761 c.c. e ub subordine la rescisione pe lesione ultrea dimidiume ex art. 763.

Venne eccepita la mancanza di giursdizione italiana per clausola di arbitrato estero (svizzero) e proposto dalla concvenuta ricroso per giurisdizione.

Secondo l’attrice (controricorrente in Cassazione) si trattava di materia ereditaria e non di invalidazione del Deed, così sfuggendo [parrebbe] all’ambuto applictivo della clausola arbitrale_: <<ad avviso della controricorrente, la materia del contendere verte (…) non sulla caducazione del Deed, ma sull’attuazione della divisione della massa ereditaria secondo il criterio dell’eguale beneficio dettato dal de cuius P.S., cittadino italiano, deceduto a (OMISSIS). Le singole attribuzioni dei cespiti ereditari non infirmerebbero la natura successoria della controversia di scioglimento della comunione tra coeredi: la clausola per arbitrato estero (..) inerente all’attribuzione di un singolo cespite che compone l’asse ereditario, non osterebbe alla giurisdizione italiana in materia successoria, quale sancita dalla L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 50. Difatti il Deed avrebbe assolto la sola funzione di attribuire un cespite dell’asse da dividere, nel quadro e nel contesto del complessivo scioglimento della comunione ereditaria ancora in corso sotto le cure dell’esecutore testamentario M.C.; la lesione subita da P.E. attraverso il Deed ben potrebbe e dovrebbe essere conosciuta incidenter tantum in funzione del complesso oggetto successorio e divisionale della controversia di cui il Deed costituirebbe soltanto una singola parte; e sussisterebbe controversia divisionale ereditaria anche quando, come nella specie, ferme le quote testamentarie fissate dal de cuius, si controverta sui valori dei beni rispettivamente attribuiti, qui manifestamente distanti rispetto alla volontà del testatore di ripartire il suo patrimonio tra le due figlie in eguale misura>>. (§ 4 Fatti di causa).

Il punto non è chiaro, poichè la difesa svolta dalla controricorrente pare confondere due piani che invece sono distinti: i) se la materia sia o meno ereditaria per decidere quale sia la norma regolatrice la giurisdizione (art. 3 o art. 50 L. 218/1995); ii) se le domande proposte rientrino o meno nella sfera aplicativa della clausola arbitrale (a prescindere dal fatto che, in caso negativo, la questione sia o meno successoria a fini giurisdizionali).

la SC così imposta la qyuestione: << si tratta di stabilire, innanzitutto, se vi siano criteri di collegamento che consentano di ricondurre alla giurisdizione dello Stato italiano la controversia riguardante l’apporzionamento tra i beneficiari del bene conferito in trust e, in particolare, se la detta controversia sia suscettibile di essere ricompresa tra quelle concernenti la divisione ereditaria, per le quali la giurisdizione del giudice italiano è regolata dalla L. n. 218 del 1995, art. 50.>> (§ 2 Reg. della decis.).

Forse però la SC avrebbe anche dovuto porsi a monte la questione della devolvibilità in arbitrato delle liti sucessorie, che è il prius logico. Se la risposta fosse positiva, infatti, domandarsi se fosse o meno materia successoria a fini giusridionali non servirebbe a nulla: qualunque fosse la risposta, opererebbe sempre la clausola arbitrale (se la domanda vi rientrasse ratione materiae).

La risposta è stata nel senso che non si tratta di materia ereditaria, dato che il trasferimento, contenuto nel deed, tra trustee e beneficiarie, in esecuzione dell’atto istitutivo, è atto tra vivi , come tra vivi era l’atto istitutivo di cui il deed  è l’attuaizone. Nè l’uno nè l’altro corrono dunque il rischio di essere interpretati come patto successorio (nelle due fasi obbligatoria ed esecutiva) ex art. 458 cc

infatti <<deve tuttavia escludersi che il consenso espresso dalle beneficiarie all’apporzionamento tra le stesse, ad opera del trustee, dei beni conferiti in vita dal disponente P.S. nel Pale Trust (il Gruppo P.), integri un atto avente ad oggetto un bene caduto in successione ereditaria. Invero, sotto quest’ultimo profilo, va rilevato – in conformità delle conclusioni alle quali è pervenuto il pubblico ministero con la requisitoria depositata il 13 maggio 2019 – che con il Pale Trust non si è realizzata una devoluzione mortis causa di sostanze del disponente P.S..>> (§ 5.1 Rag. della dec.)

Del resto <<tali beni non sono caduti in successione perchè essi si trovavano, al tempo dell’apertura della stessa, già fuori del patrimonio del disponente, avendone costui trasferito la proprietà in via definitiva e per atto inter vivos al trustee; i beneficiari finali – le figlie E. e P. hanno acquistato i beni direttamente dal trustee e non già per successione mortis causa dal de cuius.>> (ivi)

Il Colelgio condivide il giudizio sull’atto attributivo/apporzionativo di trust come avente natura di donazione indiretta : <<Va quindi esclusa la natura mortis causa del trasferimento dal trustee ai beneficiari finali, che costituisce il secondo segmento dell’operazione, perchè – come è stato rilevato – tale atto traslativo ha investito ormai sfere giuridiche diverse da quelle dell’originario disponente: rispetto a tale trasferimento, la morte del settlor non ha alcuna rilevanza causale, potendo al più individuare il momento di esecuzione dell’attribuzione finale>>.

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