Mediaset c. Vivendi: le sentenze milanesi di aprile 2021 (ma ora pace è fatta, parrebbe)

Accenno prima alla ponderosa sentenza Trib. Milano 3227/2021 del 19.04.2021, RG 47205 (e 47575) /2016, Mediaset e RTI c. Vivendi.

Dopo all”altra di pari data, di minori dimensioni, la  n. 3228/2021, RG 30071/2017.

In entrambi i casi,  relatore Daniela Marconi

PRIMA SENTENZA

Prendiamo la prima, di cui riporterò solo pochi passaggi.

Causa petendi azionata da M. è stato l’indempimento di V. al preliminare di permuta di partecipazioni.

Sulla causa: <<La causa, come elemento costitutivo del contratto inteso nella sua accezione più evoluta di funzione individuale della singola e specifica convenzione risultante dalla sintesi degli interessi che il negozio è concretamente diretto a realizzare a prescindere dal modello astratto del tipo di negozio impiegato dai contraenti ( c.d. causa concreta), va scrutinata in relazione all’assetto impresso dalle parti agli interessi coinvolti nel regolamento negoziale al momento della stipulazione dell’accordo.
La mancanza di causa è, quindi, vizio attinente alla fase genetica del contratto che deve emergere dal contenuto dell’accordo attraverso l’esame del regolamento degli interessi che vi è cristallizzato, insensibile alla sopravvenuta inattuazione del programma negoziale, che attiene invece alla fase successiva dell’esecuzione del contratto, così come all’erronea valutazione della convenienza economica dell’affare in relazione al difetto di qualità supposte dell’oggetto della prestazione che attiene, invece, alla possibile esistenza di vizi del consenso o di vizi redibitori>>

Nel caso specifico: <<Nonostante la notevole complessità del regolamento contrattuale, infatti, la causa emerge evidente dal contenuto del testo dell’accordo con cui le parti hanno adottato lo schema causale astratto tipico del contratto preliminare di permuta di azioni, introducendo nella struttura causale commutativa dello scambio l’alea dell’oscillazione del valore delle azioni tra la stipulazione dell’accordo preliminare e la conclusione del contratto definitivo, con lo scopo pratico di “costituire una partnership strategica nel settore dei contenuti audiovisivi, mirante a realizzare idonee sinergie industriali per sfruttare qualsiasi opportunità di sviluppo nello scenario industriale dei nuovi media internazionali..”.
Si trae, infatti, proprio dal testo delle premesse dell’accordo che “Come una delle fasi per la realizzazione della partnership strategica… le Parti si sono impegnate ad effettuare un’operazione globale mediante la quale Vivendi acquisirà il 100% del capitale di Target e il 3,5% del capitale di Mediaset in cambio di azioni di Vivendi rappresentanti il 3,5% del capitale di Vivendi, secondo termini e condizioni del presente Accordo.” (v. doc. 1 di parte attrice a pag. 4).>>, p. 31-32.

Sulla finzione di avveramento della condizione ex art. 1359 (V. avrebbe bloccato il procedimento per ottenere le autorizzazioni europee: fatto a p. 9).: <<Nella situazione descritta l’inapplicabilità del meccanismo della fictio iuris previsto dall’art. 1359 c.c. – secondo cui la condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento – deriva: (i) dal carattere bilaterale della condizione, chiaramente apposta dai contraenti nell’interesse di entrambe le parti alla costituzione dell’alleanza strategica che costituisce la causa del contratto; (ii) dalla natura dell’evento dedotto in condizione, costituito dal rilascio di autorizzazioni amministrative, indispensabili a realizzare la finalità economica del contratto, che non possono essere sostituite dalla semplice finzione legale della loro effettiva emanazione.
Afferma, al riguardo, la giurisprudenza di legittimità che la previsione dell’art. 1359 c.c. “non è applicabile alla “condicio iuris” sospensiva non potendosi sostituire con una semplice finzione legale la effettiva emanazione dell’atto amministrativo di autorizzazione, richiesto dalla legge come requisito legale dell’efficacia del negozio e come tale, peraltro, eventualmente considerato dalle stesse parti private.” ( v. Cass. 22.3.2001 n. 4110 in motivazione; Cass. 2.6.1992 n. 6676; Cass. 5.2.1982 n. 675).
E’ evidente, infatti, che il mancato avveramento della condizione del rilascio dell’autorizzazione da parte dell’autorità preposta alla verifica della compatibilità della concentrazione con il mercato comune, prevista dall’art. 7 comma 1 del Regolamento 139/2004 CE, determina l’impossibilità dello scambio azionario che si risolva in concentrazione di dimensione comunitaria, e non può essere surrogata dalla finzione di avveramento.
In conclusione, alla stregua delle considerazioni appena svolte, deve essere accertata l’inefficacia dell’accordo dell’8 aprile 2016 soggetto a condizione sospensiva non avveratasi nel termine pattuito, con conseguente assorbimento di tutte le domande proposte in via subordinata dalla società convenuta>, p. 41.

Sul dolo omissivo dennciato da V.: <<In ogni caso, non può dirsi ricorrente, nella fattispecie descritta, neanche il dolo omissivo rilevante come vizio del consenso ai fini dell’applicazione del rimedio previsto dall’art. 1439 c.c. che, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità,
a) non è integrato dal mero silenzio o dalla reticenza anche su situazioni di interesse per l’altro contraente che non abbiano immutato la rappresentazione della realtà ma abbiano avuto il limitato effetto di non contrastare la percezione di essa alla quale dovesse essere pervenuto l’altro contraente, atteso che, per assumere rilevanza, il silenzio o la reticenza devono inserirsi in un comportamento complessivamente preordinato con astuzia a perpetrare l’inganno;
b) e deve, comunque, essere valutato in relazione alle particolari circostanze di fatto ed alle qualità e condizioni soggettive dell’altra parte, onde stabilire se il silenzio e la reticenza erano idonei a sorprendere una persona di normale diligenza, giacché l’affidamento non può ricevere tutela giuridica se fondato sulla negligenza (v. fra le molte Cass. 8.5.2018 n. 11009; Cass. 20.1.2017 n. 1585; Cass. 15.3.2005 n. 5549; Cass. 12.2.2003 n. 2104).>>, p. 35

Sul fatto che non era maturato il diritto di recedere dopo scoperta la situazione economcia di M.: <<In sintesi, quindi, l’aleatorietà del contratto e la tassatività delle ipotesi di risoluzione e recesso contemplate nell’accordo, in particolare con riferimento agli indicatori fondamenti di funzionamento delle imprese del comparto, inducono a ritenere che la rivelazione all’esito della due diligence dei dati taciuti da Mediaset nel corso delle trattative non possa rilevare quale ragione giustificatrice del rifiuto di dar corso all’operazione programmata, tanto più che nessuna garanzia era stata direttamente accordata a Vivendi sulla realizzabilità del business plan.
Le clausole liberamente accettate da Vivendi e interpretate nel loro complesso evidenziano essenzialmente l’intento comune delle parti di costituire l’alleanza strategica per l’espansione nello spazio europeo e internazionale anche a prescindere dall’effettivo valore di Mediaset Premium che sarebbe servita a Vivendi semplicemente quale “veicolo” per l’ingresso nel mercato italiano della televisione a pagamento.>>, p. 51

Sul danno all’immagine allegato da M.: <<Con riguardo al danno all’immagine della società e, in generale, degli enti la giurisprudenza di legittimità è consolidata nel ritenere che il pregiudizio non possa essere rinvenuto in re ipsa nella diffusione di notizie denigratorie non vere lesive del diritto all’immagine dell’ente ma richieda l’allegazione puntuale e la prova che abbia effettivamente pregiudicato la reputazione commerciale dell’impresa presso i consociati con cui interagisce nel settore di mercato ove opera, non potendo nel sistema della responsabilità civile ascriversi al risarcimento del danno una mera funzione punitiva della violazione dell’interesse tutelato.
Afferma, infatti, la suprema corte che “ In materia di responsabilità civile, anche nei confronti delle persone giuridiche ed in genere degli enti collettivi è configurabile il risarcimento del danno non patrimoniale, da identificare con qualsiasi conseguenza pregiudizievole della lesione – compatibile con l’assenza di fisicità del titolare – di diritti immateriali della personalità costituzionalmente protetti, ivi compreso quello all’immagine, il cui pregiudizio, non costituendo un mero danno-evento, e cioè “in re ipsa”, deve essere oggetto di allegazione e di prova, anche tramite presunzioni semplici” (Cass. 13.10.2016 n. 20643; Cass. 1.10.2013 n. 22396; Cass. 25.7.2013 n. 18082; Cass. 18.9.2009 n. 20120).
La società che lamenti un pregiudizio dalla lesione del suo diritto all’immagine per la diffusione di notizie denigratorie deve, pertanto, allegare e dimostrare elementi di fatto specifici che consentano di presumere il pregiudizio alla sua reputazione commerciale presso i fruitori dei suoi prodotti e servizi nel mercato in cui opera, fermo restando, come già rilevato, che l’illecito diffamatorio richiede, in ogni caso, la prova della diffusione di notizie non corrispondenti al vero.

Nel caso in esame, a prescindere dal fatto che, come già detto, non vi è prova della diffusione da parte di Vivendi di notizie non veritiere sulla vicenda, Mediaset non ha neanche dedotto di aver subito per effetto dell’offuscamento della sua immagine un pregiudizio alla sua reputazione presso i committenti di pubblicità o gli utenti dei servizi che offre nell’esercizio della sua attività di impresa nel settore della diffusione di contenuti su canali televisivi in chiaro. Si è limitata, infatti, genericamente a sostenere, tramite il suo consulente di parte, che la violazione del suo diritto all’immagine avrebbe compromesso la sua “capacità di realizzare a favorevoli condizioni le operazioni straordinarie finalizzate alla gestione strategica della complessa fase di ristrutturazione” senza neanche indicare quali specifiche operazioni straordinarie programmate in quel periodo le sarebbero state in concreto precluse dal discredito.
L’andamento al ribasso del prezzo di borsa del titolo per il c.d. effetto annuncio costituisce, poi, un riflesso sul mercato finanziario della notizia della rottura dell’accordo che non necessariamente sottintende la lesione della reputazione dell’impresa sul mercato economico in cui opera e che non crea di per sé danno al patrimonio della società quotata emittente, strutturalmente esposta alla fluttuazione del valore di borsa delle sue azioni, limitandosi a costituire indice del momentaneo volgere del rischio dell’investimento a sfavore della platea dei suoi azionisti.
L’ipotesi accademica del pregiudizio derivante dalla penalizzazione della capacità della società quotata di realizzare a condizioni favorevoli le operazioni straordinarie di ristrutturazione, per costituire danno risarcibile, avrebbe dovuto essere supportata dalla prova in giudizio della perdita effettiva, a seguito del ribasso del titolo, della possibilità di concludere specifiche operazioni già programmate alle condizioni attese.
Anche questa domanda risarcitoria è, pertanto, priva di fondamento.>> p. 72-73

Sul danno lamentato dalla controllatne di M. e cioè dall’intervenuta Fininvest: <<La questione si risolve, a questo punto, nel verificare l’esistenza di un diritto soggettivo o di un’aspettativa giuridicamente tutelata della socia controllante all’adempimento del contratto concluso dalla società controllata con un terzo che possano essere lesi dal comportamento inadempiente di quest’ultimo, dando luogo ad un danno ingiusto risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c.
Per escludere l’esistenza di una qualsiasi posizione giuridica soggettiva del socio che tuteli il suo interesse economico all’adempimento dei contratti conclusi dalla società con i terzi nell’esercizio dell’attività di impresa è sufficiente evidenziare che, in forza del contratto sociale e del rapporto che ne deriva, il socio è tenuto a sopportare, nella misura corrispondente all’entità della partecipazione sociale di cui è titolare, il rischio dell’attività economica comune entro cui è ricompreso anche lo specifico rischio dell’inadempimento dei soggetti con cui la società partecipata ha stretto vincoli negoziali.
Il danno derivato dall’inadempimento del contratto fra la società ed un terzo, giuridicamente riferibile solo alla società lambisce il socio di riflesso, colpendolo nel suo interesse meramente economico al successo delle iniziative intraprese nell’esercizio dell’attività comune di impresa, la cui lesione non può configurare il danno ingiusto, elemento costitutivo dell’illecito aquiliano secondo la previsione dell’art. 2043 c.c.
Diversamente si finirebbe per affiancare ad ogni ipotesi di inadempimento dei contratti stipulati dalla società con i terzi,>>, p. 79

Sul danno da oscillazione borsistica: <<A prescindere dalle aspre critiche mosse alla prospettazione sotto il profilo tecnico dai consulenti della società convenuta (v. doc. 242 di parte convenuta), tutta la ricostruzione teorica sottesa alla prospettazione del danno fornita da Fininvest nel corso del giudizio poggia su un evidente equivoco di fondo: assume, cioè, per scontato il fatto che dall’andamento al ribasso del prezzo del titolo quotato in borsa derivi necessariamente ed immediatamente una corrispondente perdita di valore economico della partecipazione del socio della società emittente e, quindi, un danno risarcibile.
Che l’assioma sia fuorviante è evidente anche solo notando che nessuno considera perduto o pregiudicato l’investimento dell’azionista per il momentaneo ribasso del prezzo di borsa dei titoli sino a che rimangono nel suo portafoglio in attesa del momento di rialzo propizio per la vendita.
Nella stima del valore della partecipazione sociale in una società quotata si accentua, indubbiamente, la sua natura di investimento del socio, soggetto oltre che al comune rischio derivante dall’ esercizio dell’attività di impresa anche all’oscillazione del prezzo del titolo in borsa dovuto ai fattori più svariati, non necessariamente connessi alla situazione patrimoniale economico e finanziaria della società emittente, che lo espone ad un rischio di perdita dell’investimento inversamente proporzionale alla curva di ribasso del titolo.

L’oscillazione del valore di borsa del titolo è, però, una componente fisiologica del rischio gravante sul socio di una società quotata che, anche se dovuto ad un evento anomalo, non determina di per sé alcun danno effettivo all’azionista ma resta a livello di indicatore della misura del rischio che l’investimento sta correndo in un determinato momento, per tradursi in perdita economica effettiva solo quando la partecipazione dovesse essere dismessa a prezzo inferiore rispetto a quello a cui è stata acquistata.
L’andamento al ribasso del prezzo di borsa del titolo rappresenta, quindi, per l’azionista un pregiudizio meramente potenziale che può tradursi in una perdita economica effettiva e attuale solo con la dismissione della partecipazione.
L’esistenza di un danno risarcibile per l’azionista richiede, quindi, che l’illecito prospettato abbia determinato l’assestarsi durevole e senza prospettive di risalita della tendenza al ribasso del titolo che lo abbia costretto alla dismissione della partecipazione a prezzo deteriore.
La situazione non muta per il socio titolare di una partecipazione rilevante, cioè di consistenza quantitativa tale da consentigli di esercitare un’influenza dominante o il controllo sulla società emittente.
In questo caso alla variazione del rischio di perdita dell’investimento comune alla platea degli azionisti può aggiungersi, a seconda della quantità e composizione del flottante, l’aumento del rischio della perdita del controllo della società emittente, rendendo possibili a costo contenuto acquisizioni c.d. ostili, cioè non concordate, finalizzate alla sostituzione del governo dell’impresa.
Anche questo è un rischio tipico del socio titolare di una partecipazione rilevante in una società quotata, connesso alla struttura stessa della sua compagine sociale, indistintamente aperta a chiunque intenda investire nell’impresa comune, che non gli consente di nutrire alcuna aspettativa alla conservazione dell’assetto proprietario che gli assicura il governo dell’impresa, meno che mai in un mercato che attraverso la disciplina della trasparenza degli assetti proprietari e dell’OPA tende ad incentivare la “contendibilità” del governo delle società quotate per assicurare una gestione quanto più efficiente possibile dell’impresa comune, finanziata attingendo alle risorse di azionisti di minoranza tendenzialmente inerti.
In ogni caso, anche questo rischio specifico del socio titolare di una partecipazione rilevante rappresenta un pregiudizio solo a livello potenziale che non può dirsi venuto ad effettiva esistenza ove, nel periodo di ribasso del titolo, il pacchetto azionario di controllo o la partecipazione rilevante siano rimasti saldamente nelle mani del socio di maggioranza.>>, p. 81-82.

A questo punto è chiaro, conclude il Tribunale, <<che il danno lamentato da Fininvest per la perdita di valore della sua partecipazione in Mediaset a seguito del momentaneo crollo di borsa del titolo derivato dal fallimento dell’operazione di creazione dell’alleanza strategica non sussiste in mancanza dell’avvenuta dismissione della partecipazione sociale a condizioni deteriori o dell’effettiva perdita del controllo della società emittente in ragione del ribasso del titolo, mai prospettate dalla società attrice nel corso del giudizio e, notoriamente, mai avvenute.
Del resto la società attrice si è ben guardata dall’allegare di aver proceduto alla svalutazione in bilancio della sua partecipazione in Mediaset in misura corrispondente all’ingente perdita di valore lamentata nel presente giudizio.
Anche in questo caso il consulente di parte della società attrice ha fornito una configurazione accademica delle potenzialità di danno a cui il valore della partecipazione di Fininvest in Mediaset sarebbe stata esposta nel periodo successivo al naufragio dell’operazione programmata, in alcun modo utile alla prova dell’esistenza effettiva del pregiudizio economico lamentato>>.,p. 82-83

SECONDA SENTENZA

La seconda sentenza decide le domande relative alla scalata di Mediaset asseritamente contrastante sia coi patti preliminari sia col divieto ex art. 43 TUSMAR: <<Le tre società attrici Fininvest, Mediaset e RTI per sostenere l’illiceità della scalata ostile a Mediaset tentata da Vivendi nel mese di dicembre 2016 acquistandone le azioni quotate in borsa sino a detenere una partecipazione di “ blocco” pari al 28,8 % del capitale sociale, hanno lamentato, innanzitutto, la violazione da parte della società convenuta dell’accordo preliminare di scambio azionario dell’ 8 aprile 2016, stipulato con Mediaset e RTI, per la creazione di un’alleanza strategica nel settore dei media a livello internazionale e del patto parasociale accessorio che avrebbe dovuto sottoscrivere con Fininvest al momento del trasferimento reciproco delle azioni.
Con il tentativo di scalata Vivendi avrebbe violato, in particolare, la previsione implicita nel regolamento contrattuale e sottesa allo scopo della realizzazione di un’alleanza strategica paritetica, dell’obbligo di mantenere invariata “ la situazione di partenza” dell’azionariato di Mediaset implicante la preclusione a Vivendi dell’ingresso nella compagine sociale prima dell’esecuzione dello scambio azionario programmato, quando, con la sottoscrizione del patto parasociale sarebbero divenuti vincolanti i limiti quantitativi degli ulteriori acquisti di azioni Mediaset pattuiti per evitare l’OPA obbligatoria.
In particolare, nello scopo della complessa operazione negoziale mirante alla creazione tra i due gruppi imprenditoriali di un’alleanza paritetica e nel contenuto complessivo del regolamento contrattuale doveva ritenersi implicita, secondo l’interpretazione ed esecuzione di buona fede del contratto, la previsione di una vera e propria clausola di standstill che vietava a Vivendi di acquistare azioni Mediaset prima del closing.>>, p. 19.

La domanda è respinta: <<In sintesi il fatto storico che, secondo la prospettazione delle società attrici avrebbe configurato l’inadempimento ad un’obbligazione di standstill implicita nel regolamento del contratto sospensivamente condizionato e nel dovere di comportamento secondo buona fede in pendenza della condizione, si è verificato quando il mancato avveramento della condizione era divenuto definitivo a seguito della scadenza del termine pattuito ed ogni effetto del vincolo negoziale condizionato era cessato per espressa previsione contrattuale, e, dunque, quando non era più neanche ipotizzabile la persistenza di un simile impegno.>>, p. 24.

Circa la violazione dell’art. 43 TUSMAR, dopo la nota sentenza della Corte di Giustizia 03.09.2020, C-719/18, la soluzione giudiziale era scontata, dovendosi disapplicare la norma invocata da Mediaset, p. 27/8.

Interessanti, per concludere, sono le considerazioni sulla concorrenza sleale ex art. n. 3 dell’art. 2598 cc.

Per il giucice non c’è rapporto di concorrenza (alla luce di una valorizzazione dell’inziaitiva economica privata ex 41 Cost.).

Precisamente: <<Così delineati i contorni essenziali dell’illecito civile di concorrenza sleale è escluso che la norma possa essere invocata con riferimento a relazioni di concorrenza, in senso lato, riferite alla competizione fra gruppi imprenditoriali per la realizzazione di un medesimo progetto industriale o alla gara per l’acquisizione sul mercato di uno stesso bene, avulse dalla contesa della clientela che ne costituisce l’essenza.
Né la norma, chiaramente riferita al mercato dei prodotti, può essere traslata ad operare sul mercato dei capitali, riconducibile al mercato dei fattori produttivi, o la slealtà derivante dalla clausola generale della violazione dei “ principi di correttezza professionale” invocata per tacciare di illiceità una qualsiasi competizione fra imprenditori che, in mancanza di specifiche violazioni di norme a tutela del dinamismo del mercato, corrisponde all’esercizio di una libertà costituzionalmente garantita>>, p. 31.

<<A prescindere dall’estrema genericità nella delimitazione del perimetro anche geografico del mercato comune individuato da Fininvest nella formulazione del suo addebito verso Vivendi, prioritaria e dirimente è la questione della configurabilità del mercato del controllo societario come possibile scenario della concorrenza sleale delineata dall’art. 2598 comma 1 n. 3 c.c.>, p. 32.

E la risposta è negativa: <<L’avvicendamento nella posizione di controllo è, infatti, lecito a prescindere dal consenso del soggetto che la detiene e dalla strategia impiegata per l’acquisizione, purché l’operazione sia compiuta nell’osservanza del complesso apparato di norme che, nel preminente interesse generale degli azionisti investitori, regola l’acquisizione di partecipazioni rilevanti in modo tale da assicurarne la trasparenza, funzionale a consentire loro di operare consapevolmente le proprie scelte, eventualmente anche di disinvestimento, in occasione del mutamento del governo dell’impresa.
Non solo la scalata ostile non è illecita nell’ambito della disciplina speciale sottesa al richiamo da parte della società attrice al “ mercato del controllo societario” ma la tutela giuridica dell’interesse a conservare il controllo dell’emittente da parte del socio di maggioranza non è affatto assicurata, e sarebbe, peraltro, in contrasto con la struttura stessa della società quotata che è, per definizione, aperta all’ingresso indiscriminato nella sua compagine sociale di chiunque acquisti le azioni sul mercato dei capitali e all’avvicendarsi nel suo governo di chiunque abbia la forza economica di conquistare la posizione di controllo nell’osservanza delle norme che regolano il mercato.
Nel contesto dei principi ispiratori della disciplina speciale del trasferimento del controllo societario, in estrema sintesi richiamati, appare chiaro che nessuno spazio applicativo potrebbe trovare l’art. 2598 c.c. essendo la “contesa” del pacchetto di controllo di una società quotata sul mercato dei capitali completamente estranea alla fattispecie della concorrenza sleale fondata sulla contesa della clientela nel mercato dei beni e servizi.
Nè la norma che tutela l’interesse privato dell’imprenditore alla correttezza della contesa della clientela all’interno del mercato economico di beni e servizi, può essere invocata a disciplinare la competizione tra due imprenditori che si contendono la partecipazione di controllo della stessa società quotata sul mercato dei capitali, soggetto alla disciplina pubblicistica specifica che lo regola.>>, p. 34.

<<Nel presente giudizio risulta, invece, acquisito un elemento che stride irrimediabilmente con la ricostruzione della vicenda offerta dalla società attrice a supporto della tesi dell’illecito civile da concorrenza sleale: il fatto che le azioni Mediaset sono state acquistate da Vivendi sul mercato, nel mese di dicembre 2016, ad un prezzo medio superiore alla quotazione del giorno antecedente l’accordo dell’8 aprile 2016, come risulta dalla documentazione non contestata prodotta dalla società convenuta (doc. da 155 a 162 di parte convenuta) e dalla nota tecnica della Consob del 20 dicembre 2016 anteriore all’ultima trance di acquisti, ove si legge “ la maggior parte ( il 17% circa del capitale sociale dell’emittente) delle azioni costituenti la partecipazione acquisita da Vivendi è stata acquistata a valori prossimi ai prezzi massimi di periodo; pertanto appare scarsamente verosimile un’ipotesi di manipolazione da parte di Vivendi con l’obiettivo di determinare un ribasso del prezzo del titolo strumentale ad acquisire una partecipazione rilevante in Mediaset a condizioni favorevoli.” (v. doc. All. G.5 di parte convenuta allegato alla nota depositata il 9.2.2021)>>, p. 35

Nemmeno esiste un mercato europeo delle pay tv, a causa delle barriere linguistiche: <<Al di là della confusione generata, anche sotto questo profilo, dalla stratificazione delle difese di Mediaset è palese l’insussistenza dell’elemento costitutivo dell’illecito di concorrenza sleale attesa la mancata delineazione del mercato merceologico e geografico ove le due società sarebbero in condizioni di contendersi la clientela e l’estraneità alla fattispecie invocata della competizione fra imprenditori avente ad oggetto la realizzazione di uno stesso progetto industriale.
Sotto il primo aspetto l’esistenza del mercato europeo della pay tv ove, secondo Mediaset, si sarebbe consumato l’illecito di concorrenza sleale addebitato a Vivendi presuppone la configurabilità di un’utenza europea del servizio televisivo che le barriere, soprattutto linguistiche, impediscono ancora di concepire così che deve escludersi sotto questo profilo la possibilità che si attui fra imprenditori del settore la contesa della clientela che esprima una vera e propria “nazionalità” europea.
Ed è appena il caso di rilevare che non opera su un mercato di dimensioni europee nel senso descritto, l’imprenditore del settore che sia semplicemente attivo, con le sue emittenti, all’interno di una pluralità di singole nazioni degli Stati membri dell’UE, potendo, in tal caso, la contesa dell’utenza essere concepita solo all’interno del mercato di ogni singola nazione.
Tanto è vero che la difesa di Mediaset, nella prospettazione originaria, aveva accennato all’esistenza di un rapporto di concorrenza con Vivendi, a livello quantomeno potenziale, all’interno del mercato italiano della pay tv, in ragione dell’intento preannunciato dalla società convenuta di realizzare, tramite la società controllata Telecom, un progetto di ingresso nel settore anche mediante la partecipazione alle aste per l’acquisto del diritto di trasmissione di contenuti sportivi.>>, p. 37.

<<In particolare, l’ostacolo alla realizzazione del progetto industriale di costituzione di “ un gruppo pan-europeo nel settore dei media” perseguito da Mediaset che Vivendi avrebbe frapposto attraverso l’occupazione “ abusiva” nella compagine sociale di Mediaset della “ casella” del partner strategico non è materia riconducibile all’illecito di concorrenza sleale per due ordini di ragioni:
– la competizione fra imprenditori in relazione alla realizzazione dei rispettivi progetti industriali non implica necessariamente la contesa della clientela sul mercato dei beni e servizi, tanto più se il progetto prevede la “creazione” di un nuovo mercato di sbocco dell’offerta dei propri servizi;
– l’occupazione “ abusiva” della “ casella” del partner nella compagine sociale di una società quotata in borsa, strutturalmente aperta all’ingresso nell’azionariato di chiunque acquisti il titolo sul mercato dei capitali a cui si rivolge per il finanziamento dell’attività di impresa e, dunque, naturalmente esposta all’eventualità della presenza di soci “sgraditi” finanche “ ostili” o addirittura concorrenti, è un’immagine difficilmente traducibile in termini giuridici di illiceità.
Tanto più se si considera che il divieto di concorrenza legalmente stabilito dall’art. 2390 c.c. riguarda gli amministratori e non i soci a cui neanche è precluso, in linea di principio, perseguire politiche economico- commerciali in contrasto o divergenti rispetto a quelle della società partecipata, salvo i limiti, in concreto, derivanti dal conflitto di interessi, come operante ai sensi dell’art. 2373 c.c., o dall’abuso o eccesso di potere nell’esercizio del diritto di voto (v. sulla questione l’ampia ed esaustiva motivazione di Tribunale di Milano 28 novembre 2014 in RG 35766/2014).
L’art. 2598 comma 1 n. 3 c.c. non si presta, in altri termini, a sanzionare con l’eliminazione dalla compagine sociale l’imprenditore concorrente che semplicemente vi abbia fatto ingresso né a reprimere la condotta del socio concorrente che persegua la realizzazione di un proprio progetto industriale in contrasto con l’interesse della società, trattandosi di situazione che trova rimedio, ove ne ricorrano in concreto i presupposti, nella disciplina del conflitto di interessi tra la società ed il socio nell’esercizio delle sue prerogative assembleari.>>, p. 38-39.

Però il 3 maggio 2021 è uscito un comunicato congiunto Fininvest, Mediaset e Vivendi di transazione delle liti.

Sintesi della transazione e degli scenari economici in Preta, lavoce.info.

Sezioni Unite sui contratti derivati dei Comuni ( del tipo interest rate swap, IRS)

Rimessa alle sezioni unite ex art. 374/2 cpc la causa sui contratti derivati stipulati dai comuni (del tipo interest rate swap, IRS), le quali hanno  deciso con sentenza Cass. s.u. 12.05.2020 n. 8770, rel. Genovese F.A..

Le questioni erano :  << a) “se lo swap, in particolare quello che preveda un upfront – e non sia disciplinato ratione temporis dalla L. n. 133 del 2008, di conversione del D.L. n. 112 del 2008 -, costituisca per l’ente locale un’operazione che generi un indebitamento per finanziare spese diverse da quelle di investimento, a norma della L. n. 289 del 2002, art. 30, comma 15″; b) “se la stipula del relativo contratto rientri nella competenza riservata al Consiglio comunale, implicando una Delibera di spesa che impegni i bilanci per gli esercizi successivi, giusta l’art. 42, comma 2, lett. i), T.u.e.l.”.>>, § 4.2 FATTI DICAUSA

Ma per affrontare le questioni , le SU affrontano prima la natura degli IRS in generale.

Nel caso specifico si trattava di IRS nella forma base, c.d plain vanilla, § 4.2 RAGIONI DELLA DECISIONE (come per le successive indicazioni del §).

L’IRS è definito come <<un derivato cd. over the counter (OTC) ossia un contratto: a) in cui gli aspetti fondamentali sono dati dalle parti e il contenuto non è eteroregolamentato come, invece, accade per gli altri derivati, cd. standardizzati o uniformi, essendo elaborato in funzione delle specifiche esigenze del cliente (per questo, detto bespoke); b) perciò non standardizzato e, quindi, non destinato alla circolazione; c) consistente in uno strumento finanziario rispetto al quale l’intermediario è tendenzialmente controparte diretta del proprio cliente>> § 4.3.

Non essendo standardizzato ma tailorizzato sulla specifica controparte, non è negoziabile, § 4.4

Gli elementi essenziali di tale contratto sono così descritti: <<Posto che l’interest rate swap è il contratto derivato che prevede l’impegno reciproco delle parti di pagare l’una all’altra, a date prestabilite, gli interessi prodotti da una stessa somma di denaro, presa quale astratto riferimento e denominato nozionale, per un dato periodo di tempo, gli elementi essenziali di un interest rate swap sono stati individuati, dalla stessa giurisprudenza di merito, ne:

a) la data di stipulazione del contratto (trade date);

b) il capitale di riferimento, detto nozionale (notional principal amount), che non viene scambiato tra le parti, e serve unicamente per il calcolo degli interessi;

c) la data di inizio (effective date), dalla quale cominciano a maturare gli interessi (normalmente due giorni lavorativi dopo la trade date);

d) la data di scadenza (maturity date o termination date) del contratto;

e) le date di pagamento (payment dates), cioè quelle in cui sono scambiati i flussi di interessi;

f) i diversi tassi di interesse (interest rate) da applicare al detto capitale.>>, § 4.5

Quanto alla causa negoziale, di fatto è una scommessa, anche se distinta dalla sua nozione comune per la complessità della vicenda, § 5.1 – 5.3.

E’ contratto con causa meritevole di tutela , §  6.1 ?

Appare necessario verificare – ai fini della liceità dei contratti – se si sia in presenza di un <<accordo tra intermediario ed investitore sulla misura dell’alea, calcolata secondo criteri scientificamente riconosciuti ed oggettivamente condivisi, perchè il legislatore autorizza questo genere di “scommesse razionali” sul presupposto dell’utilità sociale delle scommesse razionali, intese come specie evoluta delle antiche scommesse di pura abilità. E tale accordo non deve limitarsi [1] al mark to market, ma investire, altresì, [2] gli scenari probabilistici, poichè il primo è semplicemente un numero che comunica poco in ordine alla consistenza dell’alea. Esso dovrebbe concernere [3] la misura qualitativa e quantitativa dell’alea e, dunque, la stessa misura dei costi pur se impliciti.  6.3. – Sotto tale ultimo profilo, va rilevato che le obbligazioni pecuniarie nascenti dal derivato non sono mere obbligazioni omogenee di dare somme di denaro fungibile, perchè in relazione alla loro quantificazione va data la giusta rilevanza ai parametri di calcolo delle stesse, che sono determinati in funzione delle variazioni dei tassi di interesse (nell’IRS) e di cambio nel tempo. Sicchè l’importanza dei menzionati parametri di calcolo consegue alla circostanza che tramite essi si può realizzare la funzione di gestione del rischio finanziario, con la particolarità che il parametro scelto assume alla scadenza l’effetto di una molteplicità di variabili.>>, § 6.2-6.3 (i tre numeri in parentesi quadra sono stati da me aggiunti)

Rilevano i c.d costi impliciti, <<riconducendosi ad essi lo squilibrio iniziale dell’alea, misurato in termini probabilistici.>>, § 6.6; qui assume rilievo la questione del conflitto di interesse, dato che l’intermediario è sia offerente (controparte diretta) che consulente del Comune, § 6.6.1

In breve gli swap sarebbero <<negozi a causa variabile, perchè suscettibili di rispondere ora ad una finalità assicurativa ora di copertura di rischi sottostanti; così che la funzione che l’affare persegue va individuata esaminando il caso concreto e che, perciò, in mancanza di una adeguata caratterizzazione causale, detto affare sarà connotato da una irresolutezza di fondo che renderà nullo il relativo contratto perchè non caratterizzato da un profilo causale chiaro e definito (o definibile)>>, § 6.7.

Per un  primo commento v. ad es. Poli T. N. , Le Sezioni Unite della Cassazione invalidanoi contratti finanziari derivati, Corr. giur., 2020/1, 1490 ss

L’algoritmo di Deliveroo (per l’assegnazione degli slot delle consegne ai riders) è discriminatorio?

 Interessante sentenza del tribunale del lavoro di Bologna sul software di Deliveroo per l’assegnazione degli slot e delle zone di consegna ai riders, leggibile qui:    https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/algoritmo-discriminatorio-deliveroo-condannata-risarcire-sindacati-ADGYrbBB

Si tratta di Trib. bologna sez. lavoro RG 2949/2019 , ord. 31.12.2020, attori FILCAMS CGIL BOLOGNA-NIDIL CGIL BOLOGNA-FILT CGIL BOLOGNA.

Si applica la normativa del lavoro subordinato pur con lavori formalmente autonomi, quanto meno per le discriminazioni, se si tratta di <rapporti le cui modalità di esecuzione sono organizzati dal committente>> (decreto legislativo 81 del 2015 articolo 2, novellato dalla legge 2 novembre 19 n 128) (§ 2).

Viene poi al paragrafo 3 precisata la legittimazione dei sindacati attori

Entra nel merito al paragrafo 4  precisando l’onere della prova in tema di antidiscriminazione: incombe sul datore di lavoro , una volta che dalla domanda attorea si può presumere in base a dati statistici l’esistenza di condotte discriminatorie (articolo 28 comma 4 del decreto 150/2011).

Sempre nel medesimo paragrafo 4 è spiegato dove sta la discriminazione: sta nel fatto che, da un lato,  i primi riders a prenotarsi le fasce orarie penalizzano i successivi e, dall’altro, che il tempo a disposizione per la prenotazione è così ridotto che impedisce o pregiudica la posssibilità di svolgere attività sindacali. Quindi in pratica eventuali scioperi che cadessero nel periodo in cui vanno prenotati gli slot , penalizzano pesantemente i Riders che intendono parteciparvi.

Del resto la piattaforma Deliveroo non è riuscita a ribaltrea l’onere della  prova: <<sul punto anzitutto si osserva che la mancata allegazione e prova, da parte della società resistente, del concreto meccanismo di funzionamento dell’algoritmo che elabora le statistiche dei rider preclude in radice una più approfondita disamina della questione. Ed invero, in corso di causa la società – sulla quale evidentemente gravava l’onere della relativa prova, se non altro sulla base del generale principio di vicinanza della stessa – non ha mai chiarito quali specifici criteri di calcolo vengano adottati per determinare le statistiche di ciascuna rider, né tali specifici criteri vengono pubblicizzati sulla piattaforma, laddove si rinviene unicamente un generico riferimento agli ormai noti parametri della affidabilità e partecipazione>>

Pertanto <<ne discende logicamente che il rider che aderisca ad uno sciopero, e dunque non cancelli almeno 24 ore prima del suo inizio la sessione prenotata, può quindi subire un trattamento discriminatorio, giacché rischia di veder peggiorare le sue statistiche e di perdere la posizione eventualmente ricoperta nel gruppo prioritario, con i relativi vantaggi… Il sistema di profilazione dei rider adottato dalla piattaforma (…), basato sui due parametri della affidabilità e della partecipazione, nel trattare nello stesso modo chi non partecipa alla sessione prenotata per futili motivi e chi non partecipa perché sta scioperando (o perché è malato, è portatore di un handicap, o assiste un soggetto portatore di handicap o un minore malato, ecc.) in concreto discrimina quest’ultimo, eventualmente emarginandolo dal gruppo prioritario e dunque riducendo significativamente le sue future occasioni di accesso al lavoro.>>

Il tribunale quindi,  applicando la speciale regola di onere della prova vigente in materia, non ha avuto modo di ispezionare le istruzioni algoritmiche (che costituisce -il punto teoricametne più interessante sugli algoritmi guidanti l’attività dele piattatforme digitali). I due parametri decisivi (c.d. indice di affidabilità + c.d. indice di partecipazione nei picchi cioè nelle fascie orarie di maggior lavoro) sono infatti stati ammessi dalla convenuta.

C’è però da vedere se penalizzare il rider, quando intenda aderire a scioperi casualmente fissati proprio nelle ore in cui deve prenotarsi i turni, costituisca discriminazione. Spulciando l’art. 2 del d. lgs. 216 del 2003, potrebbe rientrare nel concetto di discrminazione basata su <convinzioni personali>.  Forse è un’intepretazione un pò tirata (ad es. già lo contestano Tosi P.-Puccenti E., Rider, fuori luogo invocare la disciplina antidiscriminatoria, Il sole 24 ore, 06.01.2021, p. 22), ma potrebbe starci. Mi domando se non sia più problematica l’assenza di qualunque intenzionalità: la tesi infatti presuppone che lo sciopero venga fissato proprio in quella fascia oraria (la quale è determinata a priori, a prescindere dalla collocazione temporale degli scioperi eventuali futuri): in tutte le altre fasce non vale. Per cui , mancando ogni intenzionalità “ostacolante”, è da vedere se si possa ravvisare “discrminzione” : può rispondersi positivamente, se si concorda che valga l’elemento oggettivo e non quello soggettivo. Mi domando se allora potrebbe dirsi che discriminazione non ci fosse quando l’ostacolo/pregiudizio è  minimo: nel caso specifico,  solo in quella ristretta fascia oraria del lunedì in cui il rider deve prenotare i propri slot .

Infine, potrebbe essere condotta antisindacale ex art. 28 Statuto lav.?

Gravità dell’inadempimento nella risoluzione del contratto di locazione

Cass. 07.12.2020 n. 27955, rel. Gorgoni, si pronuncia sul tema in oggetto, dando alcuni insegnamenti (parrebbe trattarsi di locazione commerciale, venendo richiamato l’art. 41 l. 392/78).

 1) il fatto che l’art. 41 cit. non richiami l’art. 5 L. 392/78 sui parametri per determinare la gravità dell’inadempmento del cobnduttore,  e che dunque imponga l’applicazione dell’art. 1455 cc, non esclude che la prima norma un qualche rilievo possa averlo in sede interpretativo-determinativa del grave inadampimento ai sensi della seconda norma

2) quanto al profilo soggetivo/oggettivo del giudizio di gravità, la SC osserva:  <<Il fatto che, con riferimento alla fattispecie in esame, il legislatore non abbia predeterminato ex lege i caratteri dell’inadempimento solutoriamente rilevante, impone di tener conto che la gravità dell’inadempimento sotto il profilo oggettivo –per la cui determinazione il giudice può ben avvalersi orientativamente dei parametri valevoli per sciogliere il contratto di locazione ad uso abitativo: la tipizzazione normativa contribuisce a dare concretezza ed oggettività alla valutazione del giudice che, altrimenti, in un ambito nel quale il suo potere discrezionale appare singolarmente ampio e la dialettica tra regole e principi si rivela particolarmente complessa, rischierebbe di restare pericolosamente priva di coordinamento con le direttive del sistema– non è sufficiente, occorrendo parametrarla all’interesse del contraente deluso, e che il fatto che quest’ultimo abbia agito per chiedere la risoluzione del contratto per l’altrui inadempimento o l’aver diffidato l’inadempiente non basterebbero; diversamente si otterrebbe il risultato di rimettere la risoluzione alla scelta dell’adempiente (per Cass. 13/02/1990, n. 1046, “l’interesse dell’altro contraente (…) non deve essere tanto inteso in senso subiettivo, in relazione alla stima che il creditore avrebbe potuto fare del proprio interesse violato, quanto in senso obiettivo in relazione all’attitudine dell’inadempimento a turbare l’equilibrio contrattuale ed a reagire sulla causa del contratto e sul comune interesse>>;

Poi si legge <<Il punto di rottura del rapporto che giustifica la cancellazione del vincolo è dato dall’incrocio tra il grave inadempimento e l’intollerabile prosecuzione del rapporto>>: non chiarissimo il signficato, anche perchè il primo dei due concetti è subito dopo spiegato, mentre il secondo è solo enunciato ma senza spiegazione.

Il primo dunque (grave inadempimento) va sì applicato in base alle circostanze del caso [così come rappresentate alla controparte in trattatia o come documentate nel contratto], ma con parametro oggettivo (ciò che sarebbe “grave” per l’uomo medio: in quella stessa condizione, aggiungerei).

Nulla invece dice sulla intollerabilità della prosecuzione del rapporto.

Poi precisa che:

i) non è necessaria la previa intimazione in mora,

ii) la regola della cristallizzazione delle posizioni delle parti non è applicabile ai rapporti di durata,

iii) va valutata anche la condotta successiva ala proposizione della domanda,  <<giacchè in tal caso, come in tutti quelli di contratto di durata in cui la parte che abbia domandato la risoluzione non è posta in condizione di sospendere a sua volta l’adempimento della propria obbligazione, non è neppure ipotizzabile, diversamente dalle ipotesi ricadenti nell’ambito di applicazione della regola generale posta dall’art. 1453 c.c. (secondo cui la proposizione della domanda di risoluzione del contratto per inadempimento comporta la cristallizzazione, fino alla pronunzia giudiziale definitiva, delle posizioni delle parti contraenti, nel senso che, come è vietato al convenuto di eseguire la sua prestazione, così non è consentito all’attore di pretenderla), il venir meno dell’interesse del locatore all’adempimento da parte del conduttore inadempiente, il quale, senza che il locatore possa impedirlo, continua nel godimento della cosa locata consegnatagli dal locatore ed è tenuto, ai sensi dell’art. 1591 c.c., a dare al locatore il corrispettivo convenuto (salvo l’obbligo di risarcire il maggior danno) fino alla riconsegna>>

Risoluzione del contratto e contrapposti inadempimenti

Su questo caso , frequente nella pratica, ecco cosa (sinteticamente) dice Cass. 14.12.2020 n. 28391, rel. Abete:

<<Ed in pari tempo questa Corte spiega, sia ai fini della decisione circa la fondatezza della domanda di risoluzione ex art. 1453 c.c. (cfr. Cass. 20.4.1982, n. 2454; Cass. 30.3.1989, n. 1554; Cass. 16.9.1991, n. 9619; Cass. 9.6.2010, n. 13840; Cass. 30.3.2015, n. 6401), sia ai fini della decisione circa la fondatezza della domanda di accertamento della legittimità del recesso ex art. 1385 c.c. (cfr. Cass. (ord.) 8.8.2019, n. 22209), che, in caso di inadempienze reciproche, non solo si impone un giudizio di comparazione in ordine ai comportamenti delle parti, allo scopo di stabilire quale di esse si sia resa responsabile delle trasgressioni che, per numero o per gravità ovvero per entrambe le cause, si rivelino idonee a turbare il sinallagma contrattuale, e si impone ancora la verifica dell’importanza dell’inadempimento, tenuto conto della sua efficacia causale rispetto alla finalità economica complessiva.

Ma spiega altresì che siffatta indagine – in entrambe le direzioni – costituisce accertamento “di fatto” demandato al giudice del merito, censurabile in sede di legittimità solo se viziato nei principi di diritto applicabili e nella logica del ragionamento, recte, a tal ultimo proposito, al cospetto del novello disposto dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame circa fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti>>.

Lascia perplessi l’affermazione per cui  costituisce giudizio di fatto la comparazione tra inadempimenti.

Norme civili e norme fiscali: il caso del canone locatizio “sottodichiarato”

Cass. 13.10.2020 n. 22.126 interviene sul caso del canone dichiarato inferiore al canone reale (la fattispecie concreta è più complessa, implicando pure una novazione)

Qui ricordo solo due passaggi: 1) prova della simulazione relativa (sull’ammontare del canone); e 2) effetti civilsitici della violazione di norme tributarie.

Sul punto 1) il panorama è abbastanza pacifico; il punto 2) spesso solleva dubbi per gli operatori.

1)    PROVA DELLA SIMULAZIONE (§ 10.2) – In tema di prova della simulazione nei rapporti tra le parti , <<(arg. a contrario dall’art. 1417 c.c., che la prova per testi senza limiti ammette solo se la domanda è proposta da creditori o da terzi ovvero quando essa, anche se proposta dalle parti, sia diretta a far valere l’illiceità del contratto), se il negozio è stato redatto per iscritto vale la regola generale della limitazione dell’ammissibilità delle prove testimoniali (e dunque anche di quella per presunzioni, giusta il disposto dell’art. 2729 c.c., comma 2), onde, sia per la simulazione assoluta che per quella relativa, la prova può essere data – ove, come nella specie, si assuma che si tratti di patto coevo -soltanto in base a controdichiarazioni (art. 2722 c.c.; v., in tema di simulazione relativa del contratto di locazione, con riferimento al canone, Cass. 15/01/2003, n. 471)>>.  e poi circa il <principio di prova scritta> ex art. 2724 n. 1 cc: <Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, in tema di simulazione del contratto, il principio di prova scritta che, ai sensi dell’art. 2724 c.c., n. 1, consente eccezionalmente la prova per testi (e, quindi, presuntiva) deve consistere in uno scritto, proveniente dalla persona contro la quale la domanda è diretta, diverso dalla scrittura le cui risultanze si intendono così sovvertire e contenente un qualche riferimento al patto che si deduce in contrasto con il documento (Cass. 03/06/2016, n. 11467; 22/03/1990, n. 2401).>

2) EFFETTI CIVILI DELLA VIOLAZIONE TRIBUTARIA (§ 10.3.1, lett. g-l) :

<<  g) ne consegue che “se tale norma tributaria si ritiene essere stata elevata a “rango di norma imperativa“, come sembra suggerire l’evoluzione normativa e giurisprudenziale più recente e come precisato dalla stessa Corte costituzionale, deve concludersi che la convenzione negoziale sia intrinsecamente nulla, oltre che per essere stato violato parzialmente nel quantum l’obbligo di (integrale) registrazione, anche perchè ab origine caratterizzata da una causa illecita per contrarietà a norma imperativa (ex art. 1418 c.c., comma 1) tale essendo costantemente ritenuto lo stesso art. 53 Cost., la cui natura di norma imperativa (come tale, direttamente precettiva) è stata, già in tempi ormai risalenti, riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 5 del 1985; Cass. ss. uu. n. 6445 del 1985)”;

h) ne discende ulteriormente che, “trattandosi di un vizio riconducibile al momento genetico del contratto, e non (soltanto) ad un mero inadempimento successivo alla stipula… deve allora ravvisarsi la diversa ipotesi di una nullità virtuale, secondo la concezione tradizionale di tale categoria – e, quindi, tradizionalmente insanabile ex art. 1423 c.c.: in tal caso, infatti, la nullità deriva non dalla mancata registrazione (situazione suscettibile di essere sanata con il tardivo adempimento), ma, a monte, dall’illiceità della causa concreta del negozio, che una tardiva registrazione non appare idonea a sanare”;

i) se in caso di omessa registrazione del contratto contenente la previsione di un canone non simulato ci si trova di fronte ad una nullità testuale n. 311 del 2004, ex art. 1, comma 346, sanabile con effetti ex tunc a seguito del tardivo adempimento all’obbligo di registrazione, nel caso di simulazione relativa del canone di locazione, e di registrazione del contratto contenente la previsione di un canone inferiore per finalità di elusione fiscale, si è in presenza, quanto al c.d. “accordo integrativo”, di una nullità virtuale insanabile, ma non idonea a travolgere l’intero rapporto – compreso, quindi, il contratto reso ostensibile dalle parti a seguito della sua registrazione (v. sentenza citata, par. 25);

l) in tale contesto ricostruttivo n. 392 del 1978, art. 79, assume rilievo di norma speculare a quella di cui alla L. n. 431 del 1998, art. 13, comma 1, previa analoga revisione dell’esegesi tradizionale (secondo cui la sanzione di nullità in essa prevista ha riguardo alle sole vicende funzionali del rapporto, colpendo, pertanto, le sole maggiorazioni del canone previste in itinere e diverse da quelle consentite ex lege, e non anche quelle convenute al momento della conclusione dell’accordo) nel senso che il patto di maggiorazione del canone è nullo anche se la sua previsione attiene al momento genetico, e non soltanto funzionale, del rapporto>> .

Dichiarazioni urbanistiche nell’azione di adempimento ex art. 2932 cc

Interessanti precisazioni di Cass. 25.06.2020 n. 12654 sull’azione di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di contrarre

DICHIARAZIONE SUGLI ESTREMI DI DELLA CONCESSIONE EDILIZIA:

<<34.1 Dal principio enunciato nel paragrafo precedente discende che, …, la presenza della dichiarazione sugli estremi della concessione edilizia integra una condizione dell’azione ex art. 2932 c.c. e non un presupposto della domanda, cosicchè la produzione di tale dichiarazione può intervenire anche in corso di causa e altresì nel corso del giudizio d’appello, purchè prima della relativa decisione, giacchè essa è sottratta alle preclusioni che regolano la normale attività di deduzione e produzione delle parti (in termini, con specifico riferimento alla dichiarazione sostitutiva di atto notorio di cui alla L. n. 47 del 1985, art. 40, attestante l’inizio dell’opera in data anteriore al 2 settembre 1967, Cass. 6684/19)>>

Può provvedervi pure il promissario acquirente:

<< (34.3) ….  ed ha, conseguentemente, fatto corretta applicazione del principio, fissato dalla Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 23825/09, che, in tema di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto di compravendita di un immobile, nel caso in cui il promittente alienante, resosi inadempiente, si rifiuti di produrre i documenti attestanti la regolarità edilizia ed urbanistica dell’immobile ovvero di rendere la dichiarazione sostitutiva di atto notorio di cui alla L. 28 febbraio 1985, n. 47, art. 40, deve essere consentito al promissario acquirente di provvedere a tale produzione o di rendere detta dichiarazione al fine di ottenere la sentenza ex art. 2932 c.c., dovendo prevalere la tutela di quest’ultimo a fronte di un inesistente concreto interesse pubblico di lotta all’abusivismo, sussistendo di fatto la regolarità edilizia ed urbanistica dell’immobile oggetto del preliminare di compravendita>>

DICHIARAZIONE DI COERENZA CATASTALE EX L. 52 DEL 1985 ART .29 C-1 BIS

il giudizio è analogo:

<§ 35.5.1 : Il Collegio ritiene quindi di dover dare attuazione, nell’interpretazione della L. n. 52 del 1985, art. 29, comma 1 bis, al principio che la pronuncia giudiziale, avendo funzione sostitutiva di un atto negoziale dovuto, non può realizzare un effetto maggiore e diverso da quello che sarebbe stato possibile alle parti, nè, comunque, un effetto che eluda le norme di legge che governano, nella forma e nel contenuto, l’autonomia negoziale delle parti; in altri termini, non può accogliersi una lettura del sistema che consenta alle parti di eludere la disposizione dettata L. n. 52 del 1985, art. 29, comma 1 bis, mediante la stipula di un contratto preliminare di immobile catastalmente non regolare seguita dalla introduzione di un giudizio che si concluda con sentenza di trasferimento dell’immobile medesimo.>

Ne segue  che: <35.5.3: Deve quindi conclusivamente affermarsi che la presenza delle menzioni catastali (l’identificazione catastale, il riferimento alle planimetrie depositate in catasto e la dichiarazione, resa in atti dagli intestatari, della conformità allo stato di fatto dei dati catastali e delle planimetrie, quest’ultima sostituibile da un’attestazione di conformità rilasciata da un tecnico abilitato alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale) deve considerarsi, al pari della presenza delle menzioni edilizie ed urbanistiche, condizione dell’azione di adempimento in forma specifica dell’obbligo di contrarre, cosicchè essa deve sussistere al momento della decisione e, per converso, la produzione di tali menzioni può intervenire anche in corso di causa ed è sottratta alle preclusioni che regolano la normale attività di deduzione e produzione delle parti.>

CIRCA LA MODALITà DOCUMENTATIVA IN SENTENZA DELLE MENZIONI/DICHIARAIZONI:

<§ 35.6 :Sulla scorta delle conclusioni enunciate nel paragrafo precedente, va ora esaminata l’ulteriore questione se dette menzioni catastali debbano semplicemente essere introdotte nel compendio delle risultanze processuali sottoposte all’esame del giudice o debbano essere riportate nella sentenza di trasferimento; detto altrimenti, se le menzioni richieste dalla L. n. 52 del 1985, art. 29, comma 1 bis, costituiscano un requisito di contenuto-forma della sentenza di trasferimento, oppure se la loro presenza rappresenti un fatto che debba formare oggetto dell’accertamento del giudice.

E la conclusione è nel secondo senso:

<§ 35.6.4 : Deve quindi, conclusivamente, affermarsi, che il mancato riscontro, da parte del giudice investito di una domanda di adempimento del contratto in forma specifica ex art. 2932 c.c., della sussistenza della condizione dell’azione costituita dalla presenza in atti delle menzioni catastali di cui della L. n. 52 del 1985, art. 29, comma 1 bis, costituisce un error in judicando censurabile in cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e non un vizio di contenuto-forma produttivo di nullità della sentenza; con la conseguenza che gli effetti di tale errore si esauriscono all’interno del processo e non producono alcuna conseguenza sul piano della idoneità della sentenza ad essere trascritta nei registri immobiliari>>.

Ai § 36 ss poi la SC  affronta la questione posta dalla sentenza impugnata: quella relativa alla disciplina di diritto transitorio relativament alla dichiarazione di coerenza ex L. 52/1985 art. 29 bis

Interviene la Cassazione a sezioni unite sulla forma del patto di intestazione fiduciaria (n. 6459 del 6 marzo 2020)

la Cassazione a sezioni unite del 6 marzo 2020 n. 6459, relatore Giusti, interviene sul tema in oggetto.

In particolare affronta due questioni: – la forma nel patto obbligatorio di ritrasferimento; – la valenza giuridica della dichiarazione di riconoscimento dell’obbligo di (ri-)trasferire al fiduciante rilasciata dal fiduciario

Nella parte motiva (a partire da <<Ragioni della decisione>>), i paragrafi 31-33 danno un resoconto delle principali questioni in tema di negozio fiduciario. Si tratta però di obiter dicta, visto che non rilevano per la soluzione delle questioni sottoposte alla Ccorte (ne dà atto anche il relatore, § 4).

Al paragrafo 5 ricorda gli orientamenti principali circa il problema della forma da dare al pactum fiduciae e in particolare dell’obbligo di successivo trasferimento.

Un  primo indirizzo giurisprudenziale (dominante) lo assimila al contratto preliminare e quindi applica articolo 1351 cc : stessa forma  del successivo negozio di trasferimento e dunque la forma scritta, paragrafo 5.1

Un altro indirizzo afferma invece la non necessità  di forma scritta, bastando anche l’impegno orale al pactum fiduciae, paragrafo 5.2

Ci sono infine altre due posizioni espresse da due Cassazioni del 2005 e del 2012, di ciascuna delle quali è riportato un passaggio: qui le tralascio, non essendovi ragionamenot su di esse,  paragrafo 5.3

Al paragrafo 6 il collegio affronta l’indirizzo dominante e ricorda che questo muove dalla equiparazione del pactum fiduciae al contratto preliminare, ma dice che va rimeditato, paragrafo 6.1. E’ infatti preferibile l’assimilazione del pactum fiduciae al mandato senza rappresentanza (ad acquistare) invece che al preliminare, dal momento che si tratta sempre di figure di interposizione reale di persona

Sempre al paragrafo 6.1 è ricordata la differenza tra preliminare e contratto fiduciario.  Si legge così: <<Nel preliminare, infatti, l’effetto obbligatorio è strumentale all’effetto reale, e lo precede; nel contratto fiduciario l’effetto reale viene prima, e su di esso s’innesta l’effetto obbligatorio, la cui funzione non è propiziare un effetto reale già prodotto, ma conformarlo in coerenza con l’interesse delle parti. Ne consegue che, mentre l’obbligo di trasferire inerente al preliminare di vendita immobiliare è destinato a realizzare la consueta funzione commutativa, la prestazione traslativa stabilita nell’accordo fiduciario serve, invece, essenzialmente per neutralizzare il consolidamento abusivo di una situazione patrimoniale vantaggiosa per il fiduciario a danno del fiduciante>>.

Che la commutatività sia diversa (sempre che ci sia nel mandato) è vero. Ma che nel contratto fiduciario l’effetto obbligatorio segua quello reale è errato: l’effetto reale segue sempre il patto fiduciario. Prima di far procedere il fiduciario con l’acquisto, o meglio prima di dotarlo delle ricorse economiche necessarie, il fiduciante avrà concordato le condizioni del’operazione tramite un pactum fiduciae.

La Corte prosegue sempre al § 6.1: <<Inoltre, l’obbligo nascente dal contratto preliminare si riferisce alla prestazione del consenso relativo alla conclusione di un contratto causale tipico (quale la vendita), con la conseguenza che il successivo atto traslativo è qualificato da una causa propria ed è perciò improntato ad una funzione negoziale tipica; diversamente, nell’atto di trasferimento del fiduciario – analogamente a quanto avviene nel mandato senza rappresentanza (art. 1706 c.c., comma 2) – si ha un’ipotesi di pagamento traslativo, perchè l’atto di trasferimento si identifica in un negozio traslativo di esecuzione, il quale trova il proprio fondamento causale nell’accordo fiduciario e nella obbligazione di dare che da esso origina.>>. Il che escluderebbe <<la possibilità di equiparare le due figure ai fini di un eguale trattamento del regime formale.>>

Anche qui la Corte è un pò  frettolosa.

Che il contratto definitivo abbia causa propria non è da tutti ammesso. In particolare è contestato dal maggior studioso del preliminare (Gazzoni), per il quale trattasi di pagamento traslativo. Va però detto che questa tesi alla fine risulta non del tutto persuasiva: per cui la soluzione dipenderà, direi, dal regolamento del caso specifico, non esistendone una sola sempre valida (v. il mio saggio https://www.academia.edu/10267514/Esecuzione_del_preliminare_di_vendita_con_atto_unilaterale_e_tutela_del_promissario_acquirente_contro_i_vizi_del_bene_acquistato).

Del resto le ragioni  a favore del controllo del bene prima dell’acquisto possono sussistere anche per il mandato (non quella del reperimento delle risorse, tipica dei preliminari ad esecuzione anticipata, essendo già state date al fiduciario al momento della stipula del pactum per il successivo acquisto dal terzo; anche se, a ben pensare, una dilazione non è totalmente impensabile, per cui potrebbe tornare l’equiparazione al preliminare).

Di conseguenza può ricorrere anche qui l’esigenza di un rinnovo dell’espressione della volontà, alla luce dell’esito di tale controllo: il che indurrebbe in tal caso ad attribuirle natura negoziale.

Una volta preso l’abbrivio della riconducibilità al mandato senza rappresentanza, la Corte applica la relativa disciplina della forma: la quale, stante il principio di libertà delle forme, potrà essere anche la forma orale, paragrafo 6.3

Qui è interessante esaminare le ragioni addotte dalla giurisprudenza per questa conclusione (come riportate in sentenza, § 6.3). Le quali sostanzialmente consistono: i) nel fatto che le esigenze di responsabilizzazione del consenso e di certezza dell’atto, proprie della forma scritta per i trasferimenti immobiliari, non ricorrono nel mandato senza rappresentanza, dal quale sorgono effetti solo obbligatori; ii) nel fatto che la articolo 1351 +è norma eccezionale.

Sub i) , il ragionamento non è persuasivo, dal momento che nel mandato l’effetto è sì obbligatorio ma azionabile poi tramite l’esecuzione in forma specifica ex articolo 2932 e dunque suscettibile di portare all’effetto traslativo.  Per cui le esigenze ivi indicate paiono rimanere.

Sub ii) , si apre un discorso molto ampio dato che l’eccezionalità dell’art. 2351 è sì affermata da molti ma anche seriamente contrastata da altri.

Comunque in sede interpretativa va tenuto conto di quanto appena detto e cioè che l’obbligo può diventare anche trasferimento e alla luce di ciò ampliare l’area semantica del concetto di “contratto preliminare”.

In altre parole si potrebbe pensare ad un’interpretazione estensiva nel senso di riferire la regola posta dal  1351 a tutti i negozi preparatori, che poi possono portare all’effetto traslativo tramite un obbligo giuridicamente sanzionato

La Corte non si confronta con simili riflessioni e al paragrafo 6.4 applica questa disciplina al negozio fiduciario: precisa infatti che per la validità del pactum fiduciae concernente i trasferimenti immobiliari non è necessaria ad substantiam la forma scritta.

A conferma di ciò, aggiunge, starebbe la prassi contrattuale: nel senso -se ben capisco- che le ragioni (di opportunità, di lealtà e di fiducia), che stanno alla base della scelta della fiducia cum amico, sarebbero incompatibili con l’onere della documentazione scritta. Il che può anche essere vero a livello fattuale, ma allora il discorso andrebbe probabilmente esteso a molte altre negoziazioni; la sua rilevanza in sede ermeneutica è però dubbia, anche per l’incertezza che genera (e senza appigli  normativi, quale ad es. una clausola generale). Valorizza invece il passaggio Lipari N., Oltre la fiducia, Per una teoria della prassi, nota alla sentenza, Il foro it., 2020/6, 1951 ss, favorevole al recepimento delle istanze della prassi , propositore di un’ottica degli <atti di ricoscimento> invece che solo degli <atti di posizione>.

Al paragrafo 7 la Corte affronta il secondo problema e cioè quale sia la rilevanza della dichiarazione del fiduciario in cui si riconosce debitore dell’obbligo di trasferire l’immobile al fiduciante. La Corte parla di <<posteriore dichiarazione scritta>> e sembra di capire che la intenda come <<posteriore all’acquisto che il fiduciario ha fatto dal terzo>>.

Le sezioni unite ritengono che si tratti di una dichiarazione solo ricognitiva, priva di  valore costitutivo. Infatti una volta ammessa la validità del patto fiduciario immobiliare verbale, l’obbligo di trasferire è già sorto, per cui la documentazione scritta di questi impegno, rilasciata successivamente, non può che essere ricognitiva.

Su questo punto il pensiero della Corte non è contestabile, alla luce della soluzione data alla prima questione.

La Corte precisa al § 7.3 che si tratta di promessa di pagamento ai sensi dell’articolo 1988 cc e che -cosa di non poco conto-  che la dichiarazione è valida anche se non titolata: cioè non è richiesto il riferimento al titolo dell’obbligazione (non è necessaria la c.d. l’expressio causae).

La Corte infine ricorda che, anche se fosse titolata, non diventerebbe una confessione, rimanendo invece una promessa di pagamento.

l’atto esecutivo (divisionale/apporzionativo) di trust costituisce atto tra vivi e non mortis causa

La Corte di Casszione in sede di regolamento di giurisdizione insegna che l’atto apporzionativo di trust tra trustee e beneficiari è atto inter vivos, non mortis causa (Cass. sez. un., 18.831 del 12 luglio 2019, rel. Giusti)

Nel caso specifico tale atto fu stipulato nella forma di  Deed of agreement, indemnity, release and covenant not to sue tra il trustee e le due figlie del settlor, che erano state nominate beneficiaries in sede istitutiva (anche se in via successiva rispetto al primo beneficario, che era lo stesso disponente) . La legge del trust era neozelandese.

dopo la firma di detto deed, una delle due sorelle citò l’altra in giudizio cheidendo l’annullamneot per dolo ex art. 761 c.c. e ub subordine la rescisione pe lesione ultrea dimidiume ex art. 763.

Venne eccepita la mancanza di giursdizione italiana per clausola di arbitrato estero (svizzero) e proposto dalla concvenuta ricroso per giurisdizione.

Secondo l’attrice (controricorrente in Cassazione) si trattava di materia ereditaria e non di invalidazione del Deed, così sfuggendo [parrebbe] all’ambuto applictivo della clausola arbitrale_: <<ad avviso della controricorrente, la materia del contendere verte (…) non sulla caducazione del Deed, ma sull’attuazione della divisione della massa ereditaria secondo il criterio dell’eguale beneficio dettato dal de cuius P.S., cittadino italiano, deceduto a (OMISSIS). Le singole attribuzioni dei cespiti ereditari non infirmerebbero la natura successoria della controversia di scioglimento della comunione tra coeredi: la clausola per arbitrato estero (..) inerente all’attribuzione di un singolo cespite che compone l’asse ereditario, non osterebbe alla giurisdizione italiana in materia successoria, quale sancita dalla L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 50. Difatti il Deed avrebbe assolto la sola funzione di attribuire un cespite dell’asse da dividere, nel quadro e nel contesto del complessivo scioglimento della comunione ereditaria ancora in corso sotto le cure dell’esecutore testamentario M.C.; la lesione subita da P.E. attraverso il Deed ben potrebbe e dovrebbe essere conosciuta incidenter tantum in funzione del complesso oggetto successorio e divisionale della controversia di cui il Deed costituirebbe soltanto una singola parte; e sussisterebbe controversia divisionale ereditaria anche quando, come nella specie, ferme le quote testamentarie fissate dal de cuius, si controverta sui valori dei beni rispettivamente attribuiti, qui manifestamente distanti rispetto alla volontà del testatore di ripartire il suo patrimonio tra le due figlie in eguale misura>>. (§ 4 Fatti di causa).

Il punto non è chiaro, poichè la difesa svolta dalla controricorrente pare confondere due piani che invece sono distinti: i) se la materia sia o meno ereditaria per decidere quale sia la norma regolatrice la giurisdizione (art. 3 o art. 50 L. 218/1995); ii) se le domande proposte rientrino o meno nella sfera aplicativa della clausola arbitrale (a prescindere dal fatto che, in caso negativo, la questione sia o meno successoria a fini giurisdizionali).

la SC così imposta la qyuestione: << si tratta di stabilire, innanzitutto, se vi siano criteri di collegamento che consentano di ricondurre alla giurisdizione dello Stato italiano la controversia riguardante l’apporzionamento tra i beneficiari del bene conferito in trust e, in particolare, se la detta controversia sia suscettibile di essere ricompresa tra quelle concernenti la divisione ereditaria, per le quali la giurisdizione del giudice italiano è regolata dalla L. n. 218 del 1995, art. 50.>> (§ 2 Reg. della decis.).

Forse però la SC avrebbe anche dovuto porsi a monte la questione della devolvibilità in arbitrato delle liti sucessorie, che è il prius logico. Se la risposta fosse positiva, infatti, domandarsi se fosse o meno materia successoria a fini giusridionali non servirebbe a nulla: qualunque fosse la risposta, opererebbe sempre la clausola arbitrale (se la domanda vi rientrasse ratione materiae).

La risposta è stata nel senso che non si tratta di materia ereditaria, dato che il trasferimento, contenuto nel deed, tra trustee e beneficiarie, in esecuzione dell’atto istitutivo, è atto tra vivi , come tra vivi era l’atto istitutivo di cui il deed  è l’attuaizone. Nè l’uno nè l’altro corrono dunque il rischio di essere interpretati come patto successorio (nelle due fasi obbligatoria ed esecutiva) ex art. 458 cc

infatti <<deve tuttavia escludersi che il consenso espresso dalle beneficiarie all’apporzionamento tra le stesse, ad opera del trustee, dei beni conferiti in vita dal disponente P.S. nel Pale Trust (il Gruppo P.), integri un atto avente ad oggetto un bene caduto in successione ereditaria. Invero, sotto quest’ultimo profilo, va rilevato – in conformità delle conclusioni alle quali è pervenuto il pubblico ministero con la requisitoria depositata il 13 maggio 2019 – che con il Pale Trust non si è realizzata una devoluzione mortis causa di sostanze del disponente P.S..>> (§ 5.1 Rag. della dec.)

Del resto <<tali beni non sono caduti in successione perchè essi si trovavano, al tempo dell’apertura della stessa, già fuori del patrimonio del disponente, avendone costui trasferito la proprietà in via definitiva e per atto inter vivos al trustee; i beneficiari finali – le figlie E. e P. hanno acquistato i beni direttamente dal trustee e non già per successione mortis causa dal de cuius.>> (ivi)

Il Colelgio condivide il giudizio sull’atto attributivo/apporzionativo di trust come avente natura di donazione indiretta : <<Va quindi esclusa la natura mortis causa del trasferimento dal trustee ai beneficiari finali, che costituisce il secondo segmento dell’operazione, perchè – come è stato rilevato – tale atto traslativo ha investito ormai sfere giuridiche diverse da quelle dell’originario disponente: rispetto a tale trasferimento, la morte del settlor non ha alcuna rilevanza causale, potendo al più individuare il momento di esecuzione dell’attribuzione finale>>.

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