Squilibrio tra prestazioni e liceità della clausola atipica: sindacato delle volontà espresse in contratto?

Cass. sez. II, ord. 20/03/2024  n. 7.447, rel. Amato:

La clausola come riferita dalla SC:

<< “I venditori si obbligano nel caso in cui i lavori stessi non fossero, sia pure per motivi non dipendenti dalla loro volontà, completati per il 30 aprile 2003, a versare una penale di Euro100,00 al giorno per i primi 250 giorni di ritardo a partire dal 1° maggio 2003. A tal fine consegnano all’acquirente un assegno di Euro25.000,00 che l’acquirente metterà all’incasso immediatamente, autorizzandolo, in caso di ritardo nel completamento dei lavori, a trattenere la somma di Euro100,00 al giorno, con la restituzione della differenza ai venditori entro il periodo di 250 giorni di cui innanzi, salvi gli ulteriori danni in caso di ritardo superiore a 250 giorni nel completamento dei lavori medesimi“. La Corte distrettuale – correttamente riferendosi ad un orientamento consolidato di questa Corte che esclude l’applicabilità degli effetti specifici stabiliti dal legislatore per la clausola penale in assenza di inadempimento o ritardo imputabile al debitore (Cass. n. 4603 del 02/08/1984, cit. dalla Corte d’appello, confermata di recente da: Cass. n. 13956 del 2019; Cass. 10/05/2012, n. 7180; 30/01/1995, n. 1097) – ha escluso che la pattuizione in esame possa essere qualificata come clausola penale, trattandosi invece di clausola di contenuto atipico, come tale assoggettabile al vaglio di meritevolezza, ex art. 1322, comma 2, cod. civ>>.

Prosegue poi la SC:

<<2.2.1. Il Collegio non condivide, tuttavia, né l’opportunità di sottoporre al vaglio di meritevolezza una pattuizione lecita, né le ragioni in virtù delle quali la Corte distrettuale perviene ad un esito negativo di tale giudizio, laddove ritiene che il forte squilibrio dell’assetto negoziale, a tutto vantaggio dell’acquirente, implichi la mancanza di causa giustificatrice.

Deve innanzitutto rilevarsi che la questione relativa allo squilibrio originario nello scambio tra attribuzioni reciproche non è attratta nell’area della causa, poiché opera sul piano degli effetti, e quindi sul piano del rapporto negoziale e della sua esecuzione: eventuali squilibri nelle reciproche attribuzioni patrimoniali non comportano l’invalidità dell’atto di autonomia sotto il profilo della causa, ma postulano un concreto assetto di interessi eminentemente “privati” e, quindi, l’eventuale ricorso a strumenti di tutela di natura risolutoria [non necessariamente: l’abuso di dipendenza economica genera nullità e i vizi della volontà  annullabilità , e pure essi costituiscono lato sensu un abuso] . Quando, infatti, la prestazione reciproca conserva un significato trasparente e un contenuto lecito, non spetta ad un’autorità esterna alle parti – qual è quella giudiziale, priva dei poteri preventivi e generali del legislatore – il giudizio, singolare e a posteriori, sull’equilibrio dei valori scambiati. Del resto, l’interesse non meritevole di tutela si colloca tra il difetto di causa (anche per assenza di serietà di essa) e la causa illecita (per contrasto con norme imperative, con l’ordine pubblico, con il buon costume).

2.2.2. Venendo al caso di specie, i contenuti essenziali che emergono dalla pattuizione sopra riportata possono essere così riassunti: nel regolamento degli opposti interessi, l’obbligo di completamento dei lavori del giardino pertinenziale – assunto dalla parte venditrice anche con precise scadenze temporali, che giungono fino ad includere un maggior danno rispetto a quello forfettariamente pattuito – è sostenuto da un obbligo risarcitorio che assume connotazioni di garanzia nei confronti degli interessi della parte acquirente, tanto da essere onorato in parte in anticipo, e comunque dovuto anche nel caso in cui l’inadempimento, o il ritardo nell’adempimento, si verifichi a prescindere dalla sua imputabilità in capo agli obbligati.

2.2.3. Esclusa l’illiceità di tale pattuizione, un controllo in termini di meritevolezza si imporrebbe ove non risultasse con chiarezza la concreta ragione che induce le parti ad uno scambio [interessante: la illiceità ex 1322 cc è l’assenza di una -qualsiasi, aggiungerei- razionalità, che tale sia per l’opinione diffusa nella società] . Una volta emerse le ragioni lecite, il patto atipico si pone al di qua del confine con la nullità per difetto del titolo giustificativo dello scambio: solo varcato detto confine troviamo la regola dell’art. 1322 cod. civ. che meriti il costo di una coercizione giudiziale.

Quel che rende meritevole di tutela una situazione fondata su un patto atipico lecito né del tutto irrilevante è un canone di giudizio interno – che spetta al giudice del merito individuare – all’equilibrio complessivo fra i contrapposti interessi privati. Nel caso che ci occupa, la causa giustificatrice del patto atipico lecito sopra riportato non è assolutamente mancante: essa è, invece, rinvenibile nell’intento di garanzia rispetto a rischi (p.e.: la concessione in sanatoria da parte del Comune) dei quali parte acquirente si è del tutto spogliata, e dei quali si è fatta invece interamente carico parte venditrice>>.

La SC poi dà per scontato che il 1322 cc, riferito ai contratti atipici, si applichi pure alle clausole atipiche: probabilmente è esatto, ma andava un poco motiovato.

Prova della simulazione e impugnabilità per simulazione di una donazione inserita tra le condizioni di separazione o divorzio congiunti

Cass. sez. II,  ord. 30/04/2024 n. 11.525, rel. Fortunato:

Sul primo punto:

<<Non può condividersi la conclusione cui è pervenuto il giudice di merito, secondo cui la prova della simulazione poteva esser data per testi o per presunzioni solo in caso di perdita incolpevole del documento contenente la controdichiarazione.

Secondo il costante insegnamento di questa Corte, nel caso di simulazione di contratti formali, la prova soggiace a limitazioni diverse a seconda che si tratti di simulazione assoluta o relativa.

Nel primo caso, l’accordo simulatorio, pur essendo riconducibile tra i patti per i quali opera il divieto di cui all’art. 2722 c.c., non rientra tra gli atti per i quali è richiesta la forma scritta “ad substantiam” o “ad probationem”, menzionati dall’art. 2725 c.c., avendo natura ricognitiva dell’inesistenza del contratto apparentemente stipulato, sicché la prova testimoniale (e per presunzioni: Cass. 5296/1981) è ammissibile in tutte e tre le ipotesi contemplate dal precedente art. 2724 cod. civ. e quindi 1) se vi sia un principio di prova per iscritto costituito da qualsiasi scritto, proveniente dalla persona contro la quale è diretta la domanda o dal suo rappresentante, che faccia apparire verosimile il fatto allegato; 2) quando il contraente è stato nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta; 3) quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova (Cass. 4339/1983; Cass. 850/1986; Cass. 2998/1988; Cass. 697/1997; Cass. Cass. 10240/2007).

Per contro, solo nel caso di simulazione relativa occorre distinguere, poiché se la domanda è proposta da creditori o da terzi – che, essendo estranei al negozio, non sono in grado di procurarsi le controdichiarazioni scritte – la prova per testi o per presunzioni non può subire alcun limite; qualora, invece, la domanda venga proposta dalle parti o dagli eredi, la prova per testi, essendo diretta a dimostrare l’esistenza del negozio dissimulato, del quale quello apparente deve rivestire il necessario requisito di forma, è ammessa soltanto nell’ipotesi di cui al n. 3 dell’art. 2724 c.c., cioè quando il contraente ha senza colpa perduto il documento, ovvero quando la prova è diretta fare valere l’illiceità del negozio (Cass. 697/1997; Cass. 10240/2007; cfr. Cass. 18204/2017 secondo cui, in caso di simulazione relativa di un contratto di donazione, non si richiede che la controdichiarazione sia contenuta in un atto pubblico, essendo sufficiente la produzione della scrittura privata).

L’errore della Corte distrettuale è consistito, quindi, nell’aver ritenuto indimostrata l’esistenza della simulazione in mancanza della dimostrazione della perdita incolpevole della controdichiarazione, potendo invece far ricorso alla prova testi o per presunzioni anche negli altri casi di cui all’art. 2724 c.c., trattandosi di provare l’inesistenza del contratto e non l’esistenza di un contratto diverso>>.

Sul secondo:

<<Sostenendo che i negozi contenenti attribuzioni patrimoniali tra i coniugi, ove recepite tra le condizioni della separazione coniugale omologata, non sarebbero impugnabili per simulazione, la sentenza si è conformata ad un indirizzo non più attuale, poiché, sviluppando le argomentazioni delle S.U (sentenza n. 21761/2021), in ordine alla valenza negoziale di detti accordi e alla natura dichiarativa della pronuncia che ne convalidi la conformità alla legge, all’interesse dei figli e all’ordine pubblico nell’ambito della separazione omologata o del divorzio congiunto, la successiva giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che tali pattuizioni sono soggette alle ordinarie impugnative negoziali a tutela delle parti o di terzi (Cass. 24687/2022; Cass. 15169/2022; Cass. 10443/2019).

In caso di separazione consensuale o divorzio congiunto (o su conclusioni conformi), la pronuncia giudiziale incide sul vincolo matrimoniale mentre, riguardo all’accordo tra i coniugi, realizza – in funzione di tutela dei diritti indisponibili del soggetto più debole e dei figli – un controllo esterno.

Ne consegue la possibilità di far accertare la simulazione dei negozi familiari attributivi di beni immobili, non ostandovi l’intervenuto recepimento tra le condizioni della separazione omologata o del divorzio congiunto>>.

Le norme europee sulle libertà fondamentali si applicano non solo agli Stati ma anche ai privati, quando abbiano di fatto un’importanza paragonabile (Conclusioni dell’AG Szpunar sulle regole FIFA in tema di trasferimento dei calciatori)

Il sempre ottimo AG SZpunar ha depositato le sue conclusioni 30.04.2024 , C-650-22, FIFA c. BZ .

Sintesi:

– esamina il rapporto tra i due settori disciplinari Ue: concorrenza e libertà fondamentali (spt. quella di circolazione del lavoratrori)

– le regole FIFA li violano entrambi

– alle regole FIFA si applicano le regole sulle libertà fondametnali, pur se dettate per gli Stati (come detto espressamente per l’art. 15 Carta dir. fondam. -v. art. 51-  ma non per l’art. 45 TFUe).   Punto non da poco, affermato in modo veloce (pur citando un precedente CG del 1974) , che avrebbe meritato maggior svolgimento.

Ne riporto i passaggi:

<<32  Secondo la logica dei Trattati, tanto le libertà fondamentali quanto le norme sulla concorrenza sono funzionali all’obiettivo di garantire il funzionamento del mercato interno (14). A tal proposito, il Protocollo (n. 27) sul mercato interno e sulla concorrenza chiarisce espressamente che il mercato interno ai sensi dell’articolo 3 TUE comprende un sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata (15). L’idea originaria dei Trattati era che le libertà fondamentali fossero rivolte agli Stati membri in quanto soggetti pubblici, mentre le norme sulla concorrenza dovevano vincolare le imprese private.

33. Nel corso degli anni, tuttavia, la separazione di cui trattasi è divenuta più sfumata. Spesso è difficile negare che alcuni soggetti privati agiscono in modo simile a quello di uno Stato, per mera forza del loro potere economico o per il modo in cui emanano «norme», mentre vi sono altre situazioni in cui gli atti di uno Stato sono più simili a quelli di un’impresa privata. Pertanto, la Corte deve (o ha dovuto) stare al passo con siffatti sviluppi e la giurisprudenza si è evoluta: da un lato, in talune situazioni alcune delle libertà del mercato interno sono state applicate a soggetti privati (16), mentre, dall’altro, in altre situazioni, si è ritenuto che le azioni degli Stati membri rientrassero nell’ambito di applicazione del diritto della concorrenza (17). Una valutazione esaustiva e definitiva del tema di cui trattasi eccederebbe la portata delle presenti conclusioni>>.

Poi:

<< 75Tuttavia, come ho spiegato altrove, in una situazione come quella della presente causa, i soggetti privati come la FIFA sono funzionalmente paragonabili non già a un’istituzione dell’Unione, ma a uno Stato membro che cerca di giustificare una restrizione di una libertà fondamentale (51). La Corte ha costantemente affermato, a partire dalla sentenza Walrave e Koch (52), che le disposizioni del Trattato si applicano a un soggetto come la FIFA. Un siffatto soggetto è trattato come se fosse uno Stato membro che cerca di giustificare una restrizione di una libertà fondamentale (o, a seconda dei casi, una restrizione della concorrenza). Di conseguenza, è semplicemente logico che, in un’ipotesi del genere, le disposizioni della Carta si applichino a detto soggetto nel senso che esso è vincolato dalle stesse. In altri termini, se la Corte non ha avuto problemi ad applicare l’articolo 45 TFUE orizzontalmente a un soggetto come la FIFA, lo stesso deve valere per l’applicazione della Carta >>.

Sulla diferenza tra caparra confirmatoria e clausola penale

Cass. sez. II ord. 18/04/2024 n. 10.541, rel. Amato:

fatto processuale:

<<7.1. Nel caso di specie, la sentenza d’appello – confermando la sentenza di prime cure – ha ritenuto che la promittente alienante avesse inteso esercitare il recesso dal contratto preliminare in forza di una caparra confirmatoria versata solo in parte; essendo prevista in contratto preliminare cumulativamente alla caparra una penale a carico della parte inadempiente, la stessa Corte ha confermato la condanna dell’appellante – ritenuto inadempiente per non aver corrisposto né l’integrale ammontare della caparra convenuta, né l’intero prezzo di vendita – al pagamento della penale, sebbene ridotta dal 30 al 15% del prezzo di vendita dell’immobile>>.

Valutazione della SC:

<<7.1.1. Questa Corte ha già avuto modo di precisare che, ferma la possibilità di prevedere congiuntamente nel contratto una caparra confirmatoria e una clausola penale, i due istituti mantengono comunque funzioni diverse.

7.1.2. La caparra confirmatoria, oltre a dimostrare esteriormente la conclusione del contratto e ad integrare un’anticipata, parziale esecuzione della prestazione convenuta, ha la funzione di rappresentare un anticipato risarcimento del danno in caso di mancato adempimento. Sotto tale aspetto, essa si accosta alla clausola penale stipulata per il caso d’inadempimento, per il fine che essa rivela di indurre l’obbligato ad eseguire la prestazione.

Tuttavia, l’accostamento tra caparra confirmatoria e clausola penale stipulata per il caso d’inadempimento non può andare oltre il rilievo del comune intento che esse rivelano di indurre l’obbligato all’adempimento, in quanto esse hanno un diverso ambito di applicazione. Mentre la prima è applicabile al caso che il contratto non debba essere più adempiuto per l’avvenuto esercizio del diritto di recesso; la seconda è, invece, applicabile al caso in cui il diritto di recesso non sia stato esercitato: in tale ultima ipotesi, la clausola penale ha la funzione di limitare preventivamente il risarcimento del danno nel caso in cui la parte che non è inadempiente preferisca, anziché recedere dal contratto, domandarne l’esecuzione o la risoluzione (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10953 del 28/06/2012; Sez. 1, Sentenza n. 925 del 09/05/1962; Sez. 2, Sentenza n. 4274 del 20/11/1954). Siffatta discriminazione tra caparra confirmatoria e clausola penale resta ferma anche nell’ipotesi di specie, in cui – con riferimento alla caparra confirmatoria – è stato previsto il suo pagamento prima della stipula del contratto definitivo (Cass. n. 35068 del 2022, cit.).

7.1.3. Qualora la parte non inadempiente (La. Srl nel caso che ci occupa) avesse manifestato la volontà di optare per l’esercizio del rimedio ordinario della risoluzione del negozio, anziché il recesso ex art. 1385, comma 2, cod. civ., la prova incombente sulla parte adempiente avrebbe riguardato esclusivamente l’eventuale maggior danno subìto in conseguenza dell’inadempimento dell’altra parte: per il caso di previsione cumulativa di caparra e penale nello stesso contratto, tale ulteriore danno è automaticamente determinato nel quantum previsto a titolo di clausola penale che ha la funzione di limitare il risarcimento del danno nel caso in cui la parte che non è inadempiente preferisca, anziché recedere dal contratto, domandarne la risoluzione (Sez. 2, Sentenza n. 10953 del 28/06/2012, Rv. 623124-01)>>.

Applicando al caso de quo:

<<7.2. In applicazione dei suddetti principi, nel caso che ci occupa l’esercizio del recesso richiesto da La. Srl già in primo grado con domanda riconvenzionale, ritenuto legittimo da entrambi i giudici del merito con conseguente ritenzione della somma versata in parte dal promissario acquirente a titolo di caparra, esclude che La. Srl – quale parte non inadempiente – possa ottenere anche il versamento della penale, non potendo essa comunque dimostrare alcun maggior danno (determinato nel quantum previsto a titolo di clausola penale), nel rispetto della richiamata duplice funzione – propria della caparra confirmatoria – di anticipazione della prestazione dovuta come del risarcimento del danno in caso di mancato adempimento.

7.3. La sentenza impugnata non ha correttamente applicato i suddetti principi in tema di stipulazione congiunta di caparra confirmatoria e clausola penale, nell’ipotesi di esercizio del recesso. Pertanto, essa merita di essere cassata; decidendo nel merito, sulla base dei fatti accertati nelle fasi pregresse, la Corte esclude la condanna di Iu.Ma. al pagamento della penale di Euro 28.663,35>>.

Swap, (in-)validità del contratto e costi impliciti

Cass. sez. I,  ord. 19/03/2024 n. 7.368, rel. Falabella:

<<2.3. -Il dibattito sugli swap si è addensato, negli ultimi decenni, intorno a vari temi, ma quello di maggior rilievo è probabilmente legato ai cosiddetti costi impliciti del derivato (costi che integrano, in buona sintesi, il margine di remunerazione dell’intermediario) e alla conoscenza, da parte dell’investitore, dei predetti costi. Il presupposto è che gli swap, che hanno un contenuto non eteroregolamentato e che non sono standardizzati, siano normalmente caratterizzati da un disallineamento tra il prezzo teorico che lo strumento finanziario ha sul mercato e il prezzo di negoziazione del prodotto finanziario.

Tale disallineamento trova ragione nel fatto che l’intermediario che negozia per conto proprio è in grado di conoscere con maggior precisione le caratteristiche del prodotto (e quindi, essenzialmente, gli scenari probabilistici che sono associati ai flussi monetari che il contratto programma). Il rilievo dei costi impliciti – espressione di conio giurisprudenziale (anche se di “costi (…) che gravano (…) implicitamente sul cliente” parla anche la comunicazione Consob 9019104 del 2 marzo 2009, su cui infra) – non nasce però dall’esigenza che lo swap, al momento della sua stipula, dia origine a prestazioni di contenuto equivalente, giacché come è stato osservato, in dottrina, non vi è necessità che vi sia proporzione (o addirittura piena corrispondenza) tra i flussi di pagamento: il rapporto di valore tra le prestazioni di un negozio patrimoniale oneroso è estraneo alla causa di quel negozio e la giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di precisare che nei contratti di scambio lo squilibrio economico originario delle prestazioni delle parti non può comportare la nullità del contratto per mancanza di causa, perché nel nostro ordinamento prevale il principio dell’autonomia negoziale, che opera anche con riferimento alla determinazione delle prestazioni corrispettive (Cass. 4 novembre 2015, n. 22567; in tema di vendita si reputa, così, che solo l’indicazione di un prezzo assolutamente privo di valore, meramente apparente e simbolico, possa determinare la nullità del contratto per difetto di uno dei suoi requisiti essenziali, mentre la pattuizione di un prezzo, notevolmente inferiore al valore di mercato della cosa venduta, ma non del tutto privo di valore, ponga solo un problema concernente l’adeguatezza e la corrispettività delle prestazioni ed afferisca, quindi, all’interpretazione della volontà dei contraenti e all’eventuale configurabilità di una causa diversa del contratto: Cass. 19 aprile 2013, n. 9640).

L’importanza dei costi impliciti nasce, piuttosto, dal fatto che l’occultamento del reale valore dello strumento finanziario è stato alternativamente considerato, nelle diverse prospettive ricostruttive che hanno trovato espressione in dottrina e in giurisprudenza, ora come un risultato non coerente con la causa del contratto, ora, come una condizione che rende indeterminabile l’oggetto di questo, ora come un inadempimento dell’intermediario agli obblighi informativi nei confronti dell’investitore: sicché la presenza dei detti costi potrebbe alternativamente rilevare sul piano genetico, determinando la nullità del contratto, oppure sulla dinamica attuativa del rapporto obbligatorio, traducendosi nella mancata osservanza, da parte dell’intermediario, dell’obbligo, posto dall’art. 23, lett. a), t.u.f., di “comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza per servire al meglio l’interesse del cliente”: con conseguente applicazione dell’apparato rimediale operante per il caso di inadempimento>>.

Poi la SC richiama Cass. sez. un. 8770/2020 (anche qui postata)

Poi ancora:

<< 2.5. – Come è stato rilevato in altra occasione da questa Corte, la nullità che viene qui in discorso non è quella, virtuale (art. 1418, comma 1, c.c.), di cui si sono occupate in passato due ben note pronunce delle Sezioni Unite (Cass. Sez. U. 19 dicembre 2007, nn. 26724 e 26725) per escludere che essa abbia a prospettarsi in caso di inosservanza degli obblighi informativi da parte dell’intermediario; la nullità in esame è, invece, una nullità strutturale (art. 1418, comma 2, c.c.) inerente ad elementi essenziali del contratto (Cass. 10 agosto 2022, n. 24654, in motivazione, punto 5). (…)

2.6. – Quel che conta, nella presente sede, è che il contratto per cui è lite non recasse menzione del mark to market e dei costi impliciti (pag. 13 della sentenza impugnata) e mancasse in conseguenza di esplicitare il fair value (e cioè il valore) negativo del derivato (ivi, pag. 14). La Corte di appello avrebbe dovuto considerare che le richiamate carenze erano incidenti sulla validità del contratto e tali da determinarne la nullità>>.

V. anche Trib. Roma 04.04.2024  n. 5912/2024, RG 64516/2018 per un caso di nullità di un IRS interest rate swap sostanzialmente per mancanza di causa: <<La domanda di nullità, sufficientemente specifica ed ancorata al ragionamento diffusamente proposto dalla difesa attorea circa lo sbilanciamento dell’alea contrattuale, l’assenza ab origine di convenienza per il cliente e l’inidoneità originaria dello swap a svolgere la dichiarata funzione di copertura, è fondata ed il suo accoglimento rende superfluo l’esame delle altre domande formulate>> (presente in Banca dati del merito e in ilcaso.it).

Il richiamo delle clausole vessatorie per la seconda firma ex art. 1341 cc

Cass. sez. III, ord. 15/02/2024 n. 4.126, rel. Condello:

<<La doglianza incentrata sulla pretesa inefficacia della doppia sottoscrizione della clausola di tacita rinnovazione del contratto è infondata, risultando, nella specie, la clausola correttamente richiamata, in conformità al principio affermato da Cass. n. 22984/2015, secondo cui, nel caso di condizioni generali di contratto, l’obbligo della specifica approvazione per iscritto a norma dell’art. 1341 cod. civ. della clausola vessatoria è rispettato anche nel caso di richiamo numerico a clausole, onerose e non, purché non cumulativo, salvo che quest’ultimo non sia accompagnato da un’indicazione, benché sommaria, del loro contenuto, ovvero che non sia prevista dalla legge una forma scritta per la valida stipula del contratto.

La Corte d’appello, con accertamento di fatto, ha rilevato che nel contratto di installazione di gioco lecito la clausola in esame risultava evidenziata mediante una indicazione sommaria del contenuto, così risultando rispettata l’esigenza di tutela codificata nell’art. 1341 cod. civ., dovendo reputarsi essere stata l’attenzione del contraente, ai cui danni le clausole sono state predisposte, adeguatamente sollecitata e la sua sottoscrizione in modo consapevole rivolta specificamente proprio anche al contenuto a lui sfavorevole (Cass., sez. 6 -3, 02/04/2015, n. 6747). Deve, infatti, negarsi l’idoneità di un mero richiamo cumulativo, a clausole vessatorie e non, ma soltanto se si esaurisca nella mera indicazione del numero e non anche, benché sommariamente, del contenuto (ex multis, Cass., 29/02/2008, n. 5733; Cass., 11/06/2012, n. 9492; Cass., sez. 6 – 3, 09/07/2018, n. 17939)>>.

Identificabilità dell’immobile: differenza tra preliminare di vendita e sentenza ex art. 2932 cc

Cass.  Sez. II, Ord. 01/03/2024 n. 5.536, rel. Mondini:

<<Questa Corte ha affermato che, ai tali fini, con riguardo ai contratti ad effetti reali o obbligatori, relativi ad immobili non è indispensabile l’indicazione dei confini e dei dati catastali, essendo sufficiente qualunque criterio idoneo ad identificare il bene in modo univoco (Cass. Sez. 2, Sentenza n.7079 del 22/06/1995 secondo cui “Il requisito della determinatezza o determinabilità dell’oggetto di un contratto preliminare relativo a bene immobile non postula la necessaria indicazione dei numeri del catasto o delle mappe censuarie e di tre almeno dei suoi confini – che sono indicazioni rilevanti ai fini della trascrizione (art. 2659 n. 4 e 2826 cod. civ.) – quando, pur in mancanza delle dette indicazioni, l’oggetto del contratto può essere determinato in base alle altre clausole del contratto medesimo”).

Solo laddove l’identificazione dell’oggetto del preliminare afferisca ad una pronuncia giudiziale ex art. 2932 cod. civ., occorre che, nel preliminare stesso, l’immobile sia esattamente precisato con indicazione dei relativi confini e dati catastali, dovendo la sentenza corrispondere esattamente al contenuto del contratto, senza poter attingere da altra documentazione i dati necessari alla specificazione del bene oggetto del trasferimento” (Cass. 952/2013)>>.

 

Locazione dissimulata da comodato accertabile sia verso il locatore che il terzo acquirente

Cass. sez. III, ord. 04/12/2023 n. 33.727, rel. Sestini:

<<il ricorrente assume che, quando venga stipulato un contratto di comodato dissimulante un contratto di locazione, deve trovare applicazione la norma dell’art. 1599 c.c., comma 1 e il requisito della data certa del contratto di locazione (dissimulato) deve essere accertato e valutato in relazione al contratto simulato di comodato (scritto e registrato); sostiene altresì che, ai sensi dell’art. 1417 c.c., comma 3, è sempre ammissibile la prova per testi (e, quindi, anche quella presuntiva) quando si intenda far valere la illiceità del contratto dissimulato (nel caso di specie, perché in violazione del canone legale);

orbene, l’assunto che il contratto di comodato dissimulasse una locazione con canone difforme da quanto consentito dalla legislazione sui patti in deroga deve intendersi certamente come volto ad evidenziare un profilo di illiceità per contrasto con normativa imperativa della locazione dissimulata e, dunque, la prova testimoniale era ammissibile (al pari di quella presuntiva);

il rilievo di cui al punto 11 della motivazione, circa il non essersi dedotto in iure che il canone era eccedente il dovuto non è condivisibile, in quanto si riferisce ad una questione che è logicamente successiva alla prova del contratto locativo e della sua opponibilità agli acquirenti;

peraltro, fissando la legge una durata del contratto locativo e le modalità di rinnovazione, la deduzione della simulazione del contratto di comodato e della dissimulazione di un contratto locativo evidenzia comunque un profilo di illiceità del comodato quale contratto dissimulato, la cui prova sarebbe contraddittorio vincolare alla regola dettata per la forma stessa della stipula del contratto di locazione: la contraddizione è resa evidente dal fatto che pretendere la forma del contratto dissimulato per la stipula di quello simulato e sottrarre la prova di quest’ultimo alla regola normale dettata per la prova della simulazione servirebbe a “coprire” l’illiceità;

deve dunque ritenersi che, se il contratto effettivo è quello di locazione (benché “mascherato” come comodato), non c’e’ ragione per non applicare dell’art. 1599 c.c. il comma 1 e che, quando è dedotta l’illiceità del contratto dissimulato di locazione per violazione di norme imperative, deve essere consentito alla parte conduttrice di provare la simulazione (nei confronti sia della originaria parte locatrice, che degli aventi causa) con prove testimoniali e per presunzioni;

nello specifico, è la stessa Corte di Appello che, pur affermando (al punto 9) che le limitazioni alla prova testimoniale e a quella presuntiva non operano quando si tratti di far valere l’illiceità del contratto dissimulato e pur richiamando (al punto 10) Cass. n. 11017/2005 -che dichiara ammissibili dette prove quando siano dirette a far valere l’illiceità dell’accordo simulatorio-, afferma contraddittoriamente che la prova della simulazione avrebbe potuto essere fornita soltanto mediante controdichiarazione (sull’ammissibilità della p.t. e delle presunzioni, fra tante, anche Cass. n. 1288/2001, Cass. n. 11611/2010 e Cass. n. 9672/2020);>>

Doveri del sindaco di società ed eccezione di inadempimento sollevata dalla società fallita di fronte alla sua richiesta di ammissione al passivo per il compenso

Cass. ord. Sez. 1 n. 3459 del 07.02.2024, rel. DONGIACOMO GIUSEPPE:

Il giudice a quo:

<<Il tribunale, infatti, ha ritenuto la fondatezza
dell’eccezione d’inadempimento sollevata dal Fallimento sul
duplice rilievo per cui, da un lato, gli addebiti posti a fondamento
della stessa, vale a dire l’“omessa vigilanza della rilevazione
della causa di scioglimento della società amministrata, a causa
della perdita del capitale sociale … occultata tramite la falsa
esposizione nei bilanci … di valori fittizi degli assets immobiliari
…”, “risultano compiutamente descritti e trovano riscontro nella
abbondante documentazione prodotta in atti” e, dall’altro lato,
che l’opponente, a fronte di tale eccezione, non aveva
adempiuto all’onere di provare “l’esatto e completo
adempimento delle prestazioni contrattualmente dedotte”>>.

La SC:
<<4.3. Il tribunale, così ragionando, si è attenuto ai principi
ripetutamente esposti da questa Corte, e cioè che il curatore del
fallimento della società committente, nel giudizio di
verificazione conseguente alla domanda di ammissione del
credito vantato dal professionista (come il sindaco della società
poi fallita) al compenso asseritamente maturato nei confronti
della stessa, è legittimato a sollevare l’eccezione
d’inadempimento (anche nel caso in cui si fosse prescritta la
corrispondente azione: art. 95, comma 1°, l.fall.) secondo i
canoni diretti a far valere la responsabilità contrattuale: vale a
dire con il (solo) onere di contestare, in relazione alle
circostanze del caso (come “la falsa esposizione nei bilanci … di
valori fittizi degli assets immobiliari …” e il conseguente
l’occultamento “della perdita del capitale sociale”, che ha
specificamente dedotto e altrettanto doverosamente
documentato in giudizio quali fatti storici che avrebbero imposto
al sindaco la condotta che, in relazione al mandato ricevuto,
avrebbe dovuto tenere e non ha, invece, tenuto, e cioè la
tempestiva “rilevazione della causa di scioglimento della società
amministrata”), la negligente o incompleta esecuzione, ad
opera del professionista istante, della prestazione di vigilanza
dovuta, restando, per contro, a carico di quest’ultimo l’onere di
dimostrare, a fronte delle circostanze dedotte e provate dal
curatore, di aver, invece, esattamente adempiuto per la
rispondenza della sua condotta al modello professionale e
deontologico richiesto in concreto dalla situazione su cui è
intervenuto con la propria opera (cfr. Cass. SU n. 42093 del
2021).
4.4. In tema di prova dell’inadempimento di
un’obbligazione, infatti, il creditore che agisca per
l’adempimento (oltre che per la risoluzione contrattuale ovvero
per il risarcimento del danno) deve soltanto provare la fonte del
suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla
mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della
controparte [incongfruenza: poche righe sopra aveva detto “dedotte e provate”], mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere
della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito
dall’avvenuto adempimento (Cass. SU n. 13533 del 2001).
4.5. Si tratta, peraltro, di un criterio di riparto dell’onere
della prova applicabile anche al caso in cui il debitore convenuto
si avvalga, com’è accaduto nel caso in esame, dell’eccezione
d’inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. poiché il debitore
eccipiente può limitarsi ad allegare l’altrui inadempimento o
l’inesatto adempimento alle obbligazioni assunte dal creditore
(di cui deve dedurre e dimostrare il fatto costitutivo), spettando,
per contro, a chi ha agito in giudizio l’onere di provare di aver
esattamente adempiuto alle stesse (Cass. SU n. 13533 del
2001; Cass. n. 3373 del 2010; Cass. n. 826 del 2015; Cass. n.
3527 del 2021).
4.6. Pertanto, ove il preteso creditore (come il sindaco
della società fallita) proponga opposizione allo stato passivo,
dolendosi dell’esclusione di un credito (al compenso maturato)
del quale aveva chiesto l’ammissione, il Fallimento, dinanzi alla
pretesa creditoria azionata nei suoi confronti, può sollevare, per
paralizzarne l’accoglimento in tutto o in parte, l’eccezione di
totale o parziale inadempimento o d’inesatto adempimento da
parte dello stesso ai propri obblighi contrattuali (e cioè, com’è
accaduto nel caso in esame, l’“omessa vigilanza della
rilevazione della causa di scioglimento della società
amministrata, a causa della perdita del capitale sociale …
occultata tramite la falsa esposizione nei bilanci … di valori fittizi
degli assets immobiliari …”), con, appunto, il solo onere di
allegare, in relazione alle circostanze di fatto del caso (che ha
l’onere di provare), l’inadempimento del sindaco istante (al suo
dovere di vigilanza sull’attività di gestione della società: art.
2403, comma 1°, c.c.); spetta poi a quest’ultimo il compito di
provare il fatto estintivo di tale dovere, costituito dall’avvenuto
esatto adempimento, e cioè di aver adeguatamente vigilato
sulla condotta degli amministratori, attivando, con la diligenza
professionale dallo stesso esigibile in relazione alla situazione
concreta, i poteri-doveri inerenti alla carica (art. 2407, comma
1°, c.c.)>>.

Prosegue la SC:

<<4.7. I sindaci, in effetti, non esauriscono l’adempimento
dei proprio compiti con il mero e burocratico espletamento delle
attività specificamente indicate dalla legge avendo, piuttosto,
l’obbligo di adottare (ed, anzi, di ricercare lo strumento di volta
in volta più consono ed opportuno di reazione, vale a dire) ogni
altro atto (del quale il sindaco deve fornire la dimostrazione)
che, in relazione alle circostanze del caso (ed, in particolare,
degli atti o delle omissioni degli amministratori che, in ipotesi,
non siano stati rispettosi della legge, dello statuto o dei principi
di corretta amministrazione) fosse utile e necessario ai fini di
un’effettiva ed efficace (e non meramente formale) vigilanza
sull’amministrazione della società e le relative operazioni
gestorie (cfr., al riguardo, Cass. n. 18770 del 2019, in motiv.,
per cui “l’onere di allegazione e di prova nelle azioni di
responsabilità avverso l’organo sindacale si atteggia nel senso
che spetta all’attore allegare l’inerzia del sindaco e provare il
fatto illecito gestorio, accanto all’esistenza di segnali d’allarme
che avrebbero dovuto porre i sindaci sull’avviso; assolto tale
onere, l’inerzia del sindaco integra di per sé la responsabilità,
restando a carico del medesimo l’onere di provare di non aver
avuto nessuna possibilità di attivarsi utilmente, ponendo in
essere tutta la gamma di atti, sollecitazioni, richieste, richiami,
indagini, sino alle denunce alle autorità civile e penale”)>>

E subito dopo:

<<.Il decreto impugnato ha fatto corretta applicazione
degli esposti principi, dal momento che il Fallimento ha dedotto
un circostanziato inesatto adempimento (e cioè la mancata
“rilevazione della causa di scioglimento della società
amministrata, a causa della perdita del capitale sociale …
occultata tramite la falsa esposizione nei bilanci … di valori fittizi
degli assets immobiliari …”) ai compiti della carica, laddove, per
contro, il sindaco opponente (senza contestare l’insussistenza
di tali presupposti e i doveri giuridici che se conseguono), come
accertato in fatto dal tribunale, non ha, a sua volta, fornito la
prova di aver correttamente adempiuto.
4.9. Non può, in effetti, seriamente dubitarsi che i
sindaci (i quali, infatti, in caso d’inadempimento da parte degli
amministratori, sono legittimati ad agire in giudizio innanzi al
tribunale: artt. 2485, comma 2°, e 2487, comma 2°, c.c.)
abbiano (anche se si tratta di società quotate: cfr. l’art. 154,
comma 1, del d.lgs. n. 58/1998) il dovere di vigilare sul corretto
e tempestivo adempimento da parte degli amministratori
all’obbligo di rilevare tempestivamente la verificazione di una
causa di scioglimento della società, come la perdita del capitale
sociale (art. 2484, n. 4, c.c.), e di procedere alla relativa
iscrizione nel registro delle imprese (art. 2485, comma 1°, c.c.),
e che, in difetto, a prescindersi dalla dannosità o meno di tale
inosservanza, la società (o, in caso di fallimento, il suo curatore)
sia legittimata ad eccepire l’inadempimento a tale dovere per
escludere l’obbligo (e l’insinuazione al passivo del relativo
credito) al pagamento del compenso, in ipotesi, maturato.
4.10. Nelle società quotate, anzi, il dovere di vigilanza
sancito dall’art. 2403 c.c. non è circoscritto all’operato degli
amministratori ma si estende al regolare svolgimento dell’intera
gestione dell’ente in modo ancora più stringente, considerata
l’esigenza di garantire l’equilibrio del mercato (Cass. n. 1601 del
2021).
4.11. L’eccezione d’inadempimento, che può essere
dedotta anche in caso di adempimento solo inesatto, (salvo il
limite della buona fede: Cass. n. 1690 del 2006) non è, del
resto, subordinata alla presenza degli stessi presupposti
richiesti per la risoluzione del contratto e l’azione di risarcimento
dei danni conseguentemente arrecati, e cioè, rispettivamente la gravità e la dannosità dell’inadempimento dedotto (cfr. Cass.
n. 12719 del 2021).
4.12. Quanto al resto, non può che ribadirsi come la
violazione dell’art. 2697 c.c. si configura solo nell’ipotesi in cui
il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte
diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta
norma e non anche quando la censura abbia avuto ad oggetto,
com’è accaduto nel caso in esame, la valutazione che il giudice
abbia svolto delle prove proposte dalle parti lì dove ha ritenuto
(in ipotesi erroneamente) assolto (o non assolto) tale onere ad
opera della parte (e cioè, nel caso in esame, il creditore
opponente) che ne era gravata in forza della predetta norma,
che è sindacabile, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti
previsti dall’art. 360 n. 5 c.p.c. (cfr. Cass. n. 17313 del 2020;
Cass. n. 13395 del 2018)>>.

Finzione di avveramento della condizione in un preliminare di vendita, sottoposto alla condizione (mista) sospensiva di mutamento della condizione urbanistica dell’immobile

Cass. sez.2, ord. 6 marzo 2024, n. 5.976, rel. Mocci:

“Nel caso in cui le parti subordinino gli effetti di un
contratto preliminare di compravendita immobiliare alla condizione
che il promissario acquirente ottenga da un ente pubblico la
necessaria autorizzazione amministrativa, la relativa condizione è
qualificabile come “mista”, dipendendo la concessione dei titoli
abilitativi urbanistici non solo dalla volontà della P.A., ma anche dal
comportamento del promissario acquirente nell’approntare la
relativa pratica, sicché la mancata concessione del titolo comporta
le conseguenze previste in contratto, senza che rilevi, ai sensi
dell’art. 1359 c.c., un eventuale comportamento omissivo del
promissario acquirente, sia perché tale disposizione è inapplicabile
nel caso in cui la parte tenuta condizionatamente ad una data
prestazione abbia anch’essa interesse all’avveramento della
condizione, sia perché l’omissione di un’attività in tanto può
ritenersi contraria a buona fede e costituire fonte di responsabilità,
in quanto l’attività omessa costituisca oggetto di un obbligo giuridico, e la sussistenza di un siffatto obbligo deve escludersi per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo in una condizione mista, con conseguente esclusione dell’obbligo di considerare avverata la condizione”.