Sul rapporto tra risoluzione contrattuale per inadempimento e risarcimento del danno: anche senza chiedere la prima, il secondo comprende l’interesse contrattuale positivo

Interessante motivazione in Cass. sez. III del 29/12/2023  n. 36.497, rel. Gorgoni, la quale, in un’azione di danno promossa dal paziente/cliente verso l’odontoiatra per inadempimento professionale, coglie un palese errore della corte di appello.

Premessa generale:

<<va innanzitutto considerato che la giurisprudenza di questa Corte ha in occasioni affermato che la domanda di risarcimento dei danni per inadempimento contrattuale può essere proposta congiuntamente o separatamente da quella di risoluzione, giacché l’art. 1453 c.c., facendo salvo in ogni caso il risarcimento del danno, esclude che l’azione risarcitoria presupponga il necessario esperimento dell’azione di risoluzione del contratto (Cass. 23/07/2002, n. 10741; Cass. 10/06/1998, n. 5774; Cass. 14/01/1998, n. 272);

la causa di risarcimento danni per inadempimento contrattuale non e’, infatti, accessoria rispetto alla causa di risoluzione del medesimo contratto per inadempimento, perché la decisione dell’una non presuppone, per correlazione logico-giuridica, la decisione dell’altra, né vi è subordinazione, essendo invece autonome tra loro (Cass. 25/07/2023, n. 22277; Cass. 23/05/2023, n. 14172; Cass. 19/04/2023, n. 10429; Cass., 31/03/2021, n. 8993; Cass. 12/06/2020, n. 11348);

tantomeno può dirsi che la domanda di risoluzione sia implicitamente compresa in quella risarcitoria (Cass. 10/07/2018, n. 18086);

vero e’, però, che il presupposto di entrambe è l’accertamento dell’inadempimento, pur incidendo lo stesso diversamente, dovendo essere di non scarsa importanza per accogliere la domanda di risoluzione e fungendo soltanto da parametro di valutazione per la domanda risarcitoria (Cass. 14/12/2000, n. 15779);

i tre rimedi – la risoluzione per inadempimento, la domanda di adempimento, il risarcimento del danno – hanno in comune gli stessi fatti costitutivi – l’obbligazione e l’inadempimento – benché consentano a chi se ne avvalga di conseguire utilità diverse (Cass. 12/10/2000, n. 13598; Cass. 11/05/2005, n. 9926; Cass. 09/09/2008, n. 22883);>>.

Nello specifico:

<<6.1) è evidente, dunque, che la Corte d’appello ha enunciato una regola di giudizio sbagliata, allorché ha affermato che, avendo la consulenza tecnica d’ufficio accertato solo la sussistenza di un inadempimento contrattuale, ciò avrebbe consentito quale unica conseguenza “la risoluzione del contratto e la restituzione dei corrispettivi versati, purché ovviamente detta domanda fosse stata proposta in giudizio e fosse stata dimostrata la gravità dell’inadempimento. Poiché però parte attrice ha agito solo per l’accertamento della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale della convenuta nella causazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali, Dental Care Advance Varedo Odontoiatria S.r.L. non può essere condannata alla restituzione di quanto già versato per inefficacia delle terapie attuate”;

6.2) per stabilire quali utilità l’odierna ricorrente potesse trarre dall’azione esperita occorre tener conto di due dati: è vero che, secondo l’orientamento prevalente di dottrina e giurisprudenza, in caso di risoluzione del contratto, le prestazioni eseguite risultano prive di causa e quindi devono essere restituite, ai sensi dell’art. 2033 c.c. (Cass. 30/11/2022, n. 35280), ma lo è altrettanto che l’inadempimento come fatto illecito può provocare concrete perdite di utilità da riattribuire al contraente fedele tendenzialmente nella loro integralità (Cass. 04/08/2000, n. 10263; Cass. 15/11/2013, n. 25775);

l’art. 1223 c.c., individua il danno nella perdita subita e nel mancato guadagno e “riflette una prospettiva differenzialista”, alla stregua della quale, il danno è “l’effettiva diminuzione del patrimonio, diminuzione data dalla differenza tra il valore attuale del patrimonio del creditore-danneggiato ed il valore che presenterebbe” se l’obbligazione fosse stata tempestivamente ed esattamente adempiuta” (o il fatto illecito non fosse stato realizzato): Cass. 20/10/2021, n. 29251; Cass. 18/07/1989, n. 3352;

va da sé, poi, che il patrimonio che costituisce la grandezza che deve essere reintegrata con l’obbligazione risarcitoria è l’insieme di beni, di valori, di utilità tra loro collegati mediante un criterio funzionale (Cass. 05/07/2002, n. 9740); per cui anche la teoria differenziale dianzi evocata va applicata considerando la diminuzione di utilità subita dal danneggiato proiettata sull’id quod interest e non già (e non più) sull’aestimatio rei;

dato l’inadempimento della società Dental Care, la Corte territoriale avrebbe dovuto stabilire se e quale danno alla persona e quale eventuale diminuzione patrimoniale detto inadempimento avesse comportato a fronte di quella destinata concretizzarsi in assenza dell’inadempimento; accertamento che invece è mancato, perché, come anticipato, il giudice a quo ha escluso che l’inadempimento consentisse alla odierna ricorrente di avvalersi della tutela risarcitoria;

una volta accertato l’inadempimento, la Corte d’appello avrebbe dovuto domandarsi se ne fossero derivati danni (risarcibili); va infatti precisato che il giudice a quo non ha assunto una statuizione reiettiva della domanda risarcitoria in ragione del fatto che non fosse stato soddisfatto, da parte della odierna ricorrente, l’onere di provare il nesso causale tra l’inadempimento e il danno né dell’esito dell’accertamento negativo della sussistenza di un qualsivoglia danno cagionato dall’intervento (cfr., a tal proposito, Cass. 11/11/2019, n. 28991); peraltro, un intervento che in ipotesi non abbia cagionato un peggioramento della condizione patologica della paziente, ma che non abbia prodotto alcun risultato di tipo terapeutico non per questo non ha prodotto alcun danno; può non aver prodotto un danno alla salute, ma non significa che non abbia determinato alcun altro danno risarcibile: cfr. Cass. 19/05/2017,. 12597; Cass. 13/04/2007, n. 8826 che hanno ritenuto un intervento rivelatosi inutile determinativo di “conseguenze di carattere fisico e psicologico (spese, sofferenze patite, conseguenze psicologiche dovute alla persistenza della patologia e alla prospettiva di subire una nuova operazione, ecc.);

il giudice a quo si è limitato, invece, a sostenere che la prospettazione di lesioni, integranti il danno alla persona, causate dalla convenuta, non attenesse in alcun modo all’inadempimento contrattuale (p. 8) e che “le considerazioni svolte dal consulente tecnico di ufficio circa l’inadempienza contrattuale per inefficacia delle cure effettuate non attengono conseguentemente all’oggetto del giudizio de quo, alla luce delle domande proposte da parte attrice” (p. 9);

l’iter logico-giuridico seguito dalla Corte d’appello non è intellegibile, posto che dopo aver affermato erroneamente che l’inadempimento contrattuale può giustificare, a certe condizioni, solo la domanda risolutoria che l’appellata non aveva formulato, ha aggiunto che il Ctu aveva accertato un inadempimento contrattuale, esorbitante dall’oggetto del contratto, ha sostenuto che non è stato accertato alcun danno alla salute della paziente inteso quale peggioramento dello stato anteriore (p. 9), ma non è chiaro né come sia giunta a tale conclusione, né come essa si concili con l’aver ritenuto che la prospettazione di lesioni integranti il danno alla persona non atteneva all’inadempimento contrattuale; resta, dunque, anche il dubbio che non abbia preso in considerazione la domanda risarcitoria avente ad oggetto il danno alla persona per la stessa ragione per cui ha ritenuto che nessun obbligo risarcitorio potesse essere posto a carico della parte inadempiente, cioè sol perché non era stata domandata la risoluzione del contratto e non per effetto dell’applicazione dei principi che regolano il risarcimento del danno alla salute per inadempimento di una prestazione professionale (cfr. Cass. n. 28991/2019, cit. e successiva giurisprudenza conforme);

in sostanza, la decisione reiettiva non si è basata sull’assenza di un danno provocato dall’inadempimento, ma sul convincimento che l’azione risarcitoria presupponesse la domanda di risoluzione del contratto per inadempimento; il che evidentemente è sbagliato ed ha prodotto come conseguenza che il professionista debitore della prestazione è stato posto in una situazione di indifferenza tra adempiere e non adempiere [giusto, conseguenza assurda !!],  quale conseguenza della svalutazione della valenza giuridica dell’obbligazione nata con il contratto, la quale “reca in pari data un comando primario rivolto al suo adempimento ma anche il rimedio, ove il comando non venga osservato”;

6.3) che non debba confondersi il venir meno della causa delle prestazioni eseguite, quale effetto della caducazione del titolo, con il contenuto dell’obbligazione risarcitoria è vero; nondimeno, se il contraente fedele, senza chiedere la risoluzione del contratto, quindi ferma l’efficacia dello stesso, agisca per ottenere il risarcimento del danno, sarà necessario intendersi su ciò che costituisce l’oggetto del suo credito risarcitorio;

quest’ultimo dovrà intendersi esteso a tutto il suo interesse contrattuale positivo, cioè il contraente non inadempiente dovrà essere messo non nella situazione in cui si sarebbe trovato ove non avesse concluso il contratto (interesse contrattuale negativo), bensì nella stessa condizione in cui si sarebbe trovato ove avesse ricevuto la prestazione dovutagli (interesse contrattuale positivo), pur dovendosi sottolineare che: a) “interesse positivo” e “interesse negativo” non sono espressioni cui corrisponde un diverso significato tecnico-concettuale, ma solo formule descrittive del contenuto economico della pretesa risarcitoria; n) “in tema di inadempimento di obbligazioni di diligenza professionale sanitaria, il danno evento consta della lesione non dell’interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l’obbligazione (perseguimento delle “leges artis” nella cura dell’interesse del creditore) ma del diritto alla salute (interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato)”: Cass. n. 28991/2019, cit.;

6.4) autorevole dottrina ritiene che “strettamente parente” di detto interesse, “che può definirsi di affidamento, è l’interesse ad ottenere la reintegrazione dello stato quo ante (prima del contratto), ove questo stato abbia subito mutazioni, a seguito ad es. della esecuzione della prestazione da parte del contraente non inadempiente”, giacché anche chi “esegue anticipatamente la propria prestazione confida nella regolare esecuzione del contratto, così come colui che va incontro a spese per esso”, fermo restando che “la tutela dell’interesse alla restitutio in integrum non si basa più propriamente sulla perdita subita ma sul beneficio conseguito dall’accipiens, onde i due rimedi rimangono concettualmente distinti”;

6.4.1) nei sistemi come il nostro che ammettono la convivenza del risarcimento con la risoluzione del contratto, è da tenere in conto che il contraente, domandando la risoluzione, intende liberarsi dalla propria obbligazione, ma non intende invece rinunciare alla perdita subita a seguito del mancato conseguimento della prestazione corrispettiva, perciò esigerà di essere compensato di tale perdita, calcolando naturalmente il risparmio ottenuto per non aver dovuto sacrificare la propria prestazione; il danno che si accompagna alla richiesta di risoluzione si distingue dunque dal danno da affidamento, perché si rapporta più direttamente, come si è detto, all’interesse al contratto: interesse che la richiesta di risoluzione evidentemente non cancella o cancella solo parzialmente, secondo che si agisca chiedendo la risoluzione totale o parziale del contratto;

il che consente di affermare che la risoluzione per inadempimento è omogenea alla tutela risarcitoria, in quanto anch’essa costituisce reazione alla inattuazione dello scambio, pur essendo il danno risarcibile, in un caso, quello positivo, cioè quello derivante dalla lesione dell’interesse alla esecuzione del contratto, nell’altro, quello da lesione dell’interesse negativo (che si somma, eventualmente, alla obbligazione restitutoria);

6.5) allora, ferma la distinzione tra azione restitutoria e azione risarcitoria (anche sul piano processuale, nel senso che devono essere oggetto di domande separate), in considerazione del fatto che giocano su terreni non coincidenti (la caducazione del titolo, in un caso, la permanenza del vincolo, nell’altro) e che la restituzione è l’effetto del venir meno del titolo contrattuale e quindi della causa che aveva giustificato lo spostamento patrimoniale (peraltro, la restituzione coinvolge anche la parte fedele, tenuta, a sua volta, a restituire quanto eventualmente ricevuto, benché nessuna inadempienza possa esserle ascritta), non è escluso che la parte che domandi il risarcimento del danno, senza chiedere la risoluzione del contratto, possa in concreto ottenere risultati contenutisticamente analoghi a quelli che otterrebbe con la domanda restitutoria (cfr. infra);

alla base della tesi opposta vi è il convincimento, non condivisibile, che la risoluzione in qualche modo purghi l’inadempimento, non considerando, invece, che la liberazione dal vincolo e dall’obbligo di eseguire le prestazioni ancora non eseguite non ha effetto sanante; allora è vero che quando la parte con il suo inadempimento causa la risoluzione essa rende inutili (rectius: sine causa) le spese sostenute in esecuzione del contratto risolto, ma allo stesso risultato si giunge anche se le spese fatte per ottenere la prestazione che non si è ricevuta o che non è esatta sono oggetto di una richiesta di risarcimento dell’interesse contrattuale positivo; nel senso che “il riferimento alle spese sostenute invano costituisce un indice con il quale stimare l’interesse del creditore ad ottenere la prestazione attesa, idoneo a consentire al giudice una quantificazione del risarcimento, quando altri strumenti non siano utilizzabili”; nel senso che il valore della prestazione non eseguita o non esattamente eseguita è determinabile facendo riferimento al costo della stessa;

7) per concludere:

– deve essere confermata la differenza tra azione restitutoria ed azione risarcitoria;

– deve essere dato seguito al principio, più volte enunciato da questa Corte, secondo cui, qualora il committente non abbia chiesto la risoluzione per inadempimento, ma solo il risarcimento dei danni, il professionista mantiene il diritto al corrispettivo della prestazione eseguita, in quanto la domanda risarcitoria non presuppone lo scioglimento del contratto e le ragioni del committente trovano in essa adeguata tutela (Cass. 24/03/2014, n. 6886; Cass. 06/12/2017, n. 29218; Cass. 25/07/2023, n. 22254; Cass. 07/11/2023, n. 31026);

detto principio poggia sull’assunto che la parte non inadempiente non abbia chiesto la risoluzione del contratto, perché aveva interesse alla manutenzione dello stesso; il che, di conseguenza, non mette in discussione il credito del professionista per il compenso relativo all’attività espletata, della quale la parte adempiente intende comunque avvalersi, sia pure sollecitando il ristoro del pregiudizio subito per l’inesatto adempimento;

– “l’inadempimento” – insegna autorevole dottrina – “può presentarsi con mille volti diversi” e “nella situazione aperta dall’inadempimento, possono atteggiarsi in modi quanto mai differenziati le posizioni e gli interessi delle parti, e specialmente della parte che subisce l’inadempimento”;

deve ritenersi che, quando però il creditore non abbia più interesse alla prestazione e/o la prestazione non sia più possibile, subentra l’obbligo risarcitorio, cioè l’adempimento è sostituito dall’obbligazione risarcitoria, la cui caratteristica precipua risiede nel carattere succedaneo della prestazione mancata o inesattamente attuata; adempimento e risarcimento condividono la comune finalità di attuazione del contratto, sia pure in forme diverse; in altri termini l’art. 1453 c.c., quando individua i rimedi spettanti al contraente fedele – adempimento invito debitore e/o risoluzione – indicando l’adempimento implica che in esso si comprenda il risarcimento e che, spettando alla parte che ha subito l’inadempimento, l’integrale risarcimento del danno per aver fatto affidamento sulla corretta esecuzione della prestazione (secondo il principio dell’id quod interest), detto danno, dovendo reintegrare il patrimonio del leso mediante l’attribuzione di un equivalente pecuniario, deve comprendere anche le eventuali spese per procurarsi aliunde la prestazione ineseguita e che il compenso pagato inutilmente al professionista al fine di ottenerla possa costituire un parametro di valutazione di cui il giudice debba tener conto al fine di liquidare il danno nella sua integralità;

8) sulla scorta di tanto, devono accogliersi i motivi dal secondo al quinto, va dichiarato assorbito il primo motivo, la sentenza va cassata in relazione ai motivi accolti;

8.1) il giudice del rinvio, la Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, dovrà accertare se e quali conseguenze immediate e dirette abbia cagionato l’inadempimento della prestazione del professionista, sia sotto il profilo del danno alla persona, sia sotto il profilo del danno patrimoniale, sulla scorta del rilievo dell’id quod interest, cioè considerando che il contraente non inadempiente, attraverso il riconoscimento del danno, dovrà essere posto nella stessa condizione nella quale si sarebbe trovato ove la prestazione dovutagli fosse stata esattamente eseguita>>.

Ripasso sulla differenza tra termine essenziale e clausola risolutiva espressa

Ripasso in Cass. sez. II  del 21/11/2023 n. 32.277, rel. Oliva:

<<sul punto, va data continuità al principio secondo cui “Le fattispecie previste rispettivamente dall’art. 1456 c.c. (clausola risolutiva espressa) e art. 1457 (termine essenziale per una delle parti), ancorché riguardanti entrambe la risoluzione del contratto con prestazioni corrispettive, hanno propri e differenti presupposti di fatto, tra cui il diverso atteggiarsi della volontà della parte interessata al momento dell’inadempimento dell’altra verificandosi l’effetto risolutivo nella prima, con la dichiarazione dell’intenzione di avvalersi della facoltà potestativa attribuita dalla legge e nella seconda, con lo spirare di tre giorni a partire dalla scadenza dei termini senza che essa abbia dichiarato all’altra di volere l’esecuzione” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10102 del 26/11/1994, Rv. 488847; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8881 del 03/07/2000, Rv. 538187).

Le due fattispecie, dunque, pur producendo il medesimo effetto finale, rappresentato dal venir meno del vincolo contrattuale, operano su piani distinti e con meccanismi di funzionamento diversi. Il termine essenziale, infatti, comporta la cessazione del contratto e delle obbligazioni da esso derivanti per il solo fatto del suo superamento, salvo che la parte che voglia comunque darvi esecuzione, non lo dichiari all’altra parte entro tre giorni previsto dall’art. 1457 c.c., comma 1. La clausola risolutiva espressa, invece, comporta la caducazione del vincolo negoziale, ai sensi dell’art. 1456 c.c., comma 2, soltanto qualora la parte interessata, al verificarsi dell’evento, dichiari all’altra parte di volersi avvalere della clausola. Nel primo caso, dunque, l’effetto caducatorio dell’impegno contrattuale è automatico, salvo che la parte nel cui interesse il termine è stato fissato non dichiari, entro tre giorni, di voler comunque esigere la prestazione, ancorché fuori termine; nel secondo caso, invece, l’effetto non è automatico, ma rimesso ad una manifestazione di volontà del soggetto nel cui interesse è stata prevista la clausola risolutiva.

Il comportamento delle parti è dunque diverso, nei due istituti in esame, e la loro volontà opera in modo diametralmente opposto, poiché la sua manifestazione al momento dell’inadempimento consente, nel caso del termine essenziale, la prosecuzione dell’efficacia del vincolo negoziale, mentre conduce, nel caso della clausola risolutiva espressa, al contrario risultato del venir meno della validità del detto vincolo. Di conseguenza, una volta invocata in giudizio l’applicabilità di un termine essenziale relativamente alla mancata stipulazione di un contratto definitivo entro una determinata data, non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità la configurabilità, nella medesima pattuizione, di una clausola risolutiva espressa (sul punto, cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5640 del 23/09/1983, Rv. 430588 e Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2762 del 11/07/1975, Rv. 376768).

Poiché nel caso di specie l’odierna parte ricorrente aveva dedotto, con il proprio appello incidentale, proprio la configurabilità della clausola negoziale in esame, alternativamente [nds: importante precisazione processuale],  come termine essenziale ovvero sub specie di clausola risolutiva espressa, riproponendo per intero la questione prospettata in prime cure, la Corte di Appello avrebbe dovuto esaminare ambedue i profili, non sussistendo in concreto alcun ostacolo, né di natura sostanziale, né di ordine processuale, all’esame della questione complessivamente proposta dalla difesa delle F..

Ne’, per altro verso, si configura alcun profilo di incompatibilità tra i due diversi istituti, dovendosi ribadire, al riguardo, che “La previsione di un termine essenziale in un contratto ad effetti obbligatori non è incompatibile con l’inserimento nel medesimo contratto di una clausola risolutiva espressa, né la scadenza del termine essenziale paralizza per contraddizione gli effetti della clausola, con la conseguenza che il creditore può tanto avvalersi di detta clausola, ai fini della dichiarazione della risoluzione di diritto del contratto, quanto rinunciare all’effetto risolutivo ed esigere l’adempimento” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5766 del 22/11/1985, Rv. 442951). Una volta escluso, quindi, che una determinata pattuizione contenga l’indicazione di un termine essenziale, nulla osta acché la stessa sia configurabile sub specie di clausola risolutiva espressa. [nds: utile pro memoria, pur se ovvia]

Ne’ rileva il fatto che l’evento dedotto nella clausola si risolva in una semplice scadenza temporale, poiché in tal caso il giudice di merito è chiamato a valutare se il dato cronologico assuma rilievo decisivo in sé, e dunque rivesta natura essenziale per la conclusione dell’accordo, ovvero se esso rilevi, piuttosto, in relazione ad una finalità pratica sottesa all’affare, ed adeguatamente esplicitata dai paciscenti.

Da tutto quanto precede discende che, in presenza della deduzione, da parte di uno dei contraenti, della configurabilità di una determinata clausola negoziale sub specie di termine essenziale o di clausola risolutiva espressa, l’indagine del giudice di merito non può limitarsi alla semplice esclusione del requisito dell’essenzialità del termine, ma deve estendersi anche alla seconda ipotesi interpretativa. Il riconoscimento della natura non essenziale del termine, infatti, non consente di escludere a priori la possibilità che esso possa valere quale evento dedotto in una clausola risolutiva espressa. Anzi, proprio l’assenza del requisito dell’essenzialità del dato cronologico indicato dalle parti “apre”, per così dire, la possibilità che esso possa valere non come determinazione del tempo necessario dell’adempimento, ma come momento entro il quale si debba verificare un evento condizionante l’efficacia del contratto, come ad esempio, nel caso del contratto preliminare, l’adempimento dell’obbligo di stipulare il rogito definitivo.

Ulteriore riprova della peculiarità della clausola risolutiva espressa va individuata nel fatto che essa “… attribuisce al contraente il diritto potestativo di ottenere la risoluzione del contratto per l’inadempimento di controparte senza doverne provare l’importanza e la risoluzione del contratto per il verificarsi del fatto considerato, come in genere la risoluzione per inadempimento, non può dunque essere pronunciata d’ufficio, ma solo se la parte nel cui interesse la clausola è stata inserita nel contratto dichiari di volersene avvalere. Differentemente, la risoluzione consensuale, o la sopravvenuta impossibilità della prestazione, che determinano automaticamente il venir meno del contratto, rappresentando fatti oggettivamente estintivi dei diritti nascenti da esso, possono essere accertati d’ufficio dal giudice” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10935 del 11/07/2003, Rv. 564990; nello stesso senso, cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 16993 del 01/08/2007, Rv. 600281; nonché Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10201 del 20/06/2012, Rv. 623126, secondo la quale “La risoluzione consensuale del contratto non costituisce oggetto di eccezione in senso proprio, essendo lo scioglimento per mutuo consenso un fatto oggettivamente estintivo dei diritti nascenti dal negozio bilaterale, desumibile dalla volontà in tal senso manifestata, anche tacitamente, dalle parti, che può essere accertato d’ufficio dal giudice pure in sede di legittimità, ove non vi sia necessità di effettuare indagini di fatto”; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6125 del 17/03/2014, Rv. 630517 e Cass. Sez. L, Sentenza n. 23586 del 28/09/2018, Rv. 650542). In altri termini, mentre la verificazione di un qualsiasi evento idoneo ad incidere sul sinallagma fissato dalle parti (come la scadenza del termine essenziale, ove previsto, o la risoluzione per mutuo dissenso, o l’impossibilità sopravvenuta della prestazione dedotta in contratto), può costituire oggetto di esame anche ufficioso da parte del giudice, ed implica una disamina complessiva del comportamento dei paciscenti, al fine di ricostruire la loro effettiva volontà negoziale e di apprezzare l’incidenza dell’evento di cui sopra sul complessivo regolamento di interessi previsto nel contratto, la clausola risolutiva espressa, al contrario, attribuisce sic et simpliciter ad una delle parti, al verificarsi dell’evento in essa dedotto, il diritto potestativo di procurare la cessazione degli effetti del rapporto negoziale, a prescindere da qualsiasi indagine in relazione all’importanza dell’inadempimento o dell’incidenza del fatto storico verificatosi, o non verificatosi, sull’equilibrio sinallagmatico, sempre che sussista inadempimento alla stregua del criterio della buona fede nell’esecuzione del contratto (su detto principio, cfr. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 8282 del 23/03/2023, Rv. 667427 e Cass. Sez. 1, Sentenza n. 23868 del 23/11/2015, Rv. 637690). Proprio in ragione di tale suo peculiare meccanismo di funzionamento, l’art. 1456 c.c., comma 2, prevede la necessità della manifestazione della volontà di avvalersene della parte nel cui interesse essa è posta.

Poiché nel caso di specie l’indagine sulla possibilità di configurare, nella pattuizione in esame, una clausola risolutiva espressa è mancata del tutto, non riscontrandosene traccia nella decisione impugnata, le censure sollevate con il secondo e terzo motivo di ricorso meritano di essere accolte.

Il giudice del rinvio dovrà procedere ad un nuovo apprezzamento della fattispecie concreta, al fine di verificare se, una volta escluso che la clausola negoziale in esame contenga la fissazione di un termine essenziale, sia possibile, o meno, ipotizzare la coesistenza, nell’ambito del medesimo regolamento negoziale, tra la previsione di un termine, evidentemente di natura non essenziale, e di una clausola risolutiva espressa, con riferimento ad un unico dato cronologico>>.

Ripasso sulla atipicità contrattuale ex art. 1322 c. 2 c.c. in tema di canoni leasing indicizzati a parametro mobile

Puntuali osservazioni da Cass. sez. III  18 Ottobre 2023, n. 28.998, rel. Dell’Utri, in un caso di canone leasing pattuito indicizzato al cambio euro/yen:

<< osserva il Collegio come, secondo il recente orientamento fatto proprio dalle Sezioni Unite di questa Corte, il giudizio di “immeritevolezza” di cui all’art. 1322 c.c., comma 2, va compiuto avendo riguardo allo scopo perseguito dalle parti, e non alla sua convenienza, né alla sua chiarezza, né alla sua aleatorietà (Sez. U., Sentenza n. 5657 del 23/02/2023);

al riguardo, non costituisce di per sé un patto immeritevole di tutela ex art. 1322 c.c., né uno strumento finanziario derivato implicito – con conseguente inapplicabilità delle disposizioni del D.Lgs. n. 58 del 1998 – la clausola di un contratto di leasing che preveda a) il mutamento della misura del canone in funzione sia delle variazioni di un indice finanziario, sia delle fluttuazioni del tasso di cambio tra la valuta domestica ed una valuta straniera, b) l’invariabilità nominale dell’importo mensile del canone con separata regolazione dei rapporti dare/avere tra le parti in base alle suddette fluttuazioni (Sez. U., Sentenza n. 5657 del 23/02/2023, Rv. 667188 – 02);

a sostegno di tali asserzioni, le Sezioni Unite hanno rimarcato come il giudizio di “meritevolezza” di cui all’art. 1322 c.c., comma 2, non coincida col giudizio di liceità del contratto, del suo oggetto o della sua causa [cosa assai dubbia!]; secondo la Relazione al Codice civile, infatti, la meritevo-lezza è un giudizio che deve investire non il contratto in sé, ma il risultato con esso avuto di mira dalle parti, cioè lo scopo pratico o causa concreta che dir si voglia (ex aliis, Sez. U., Sentenza n. 4222 del 17/02/2017; Sez. U., Sentenza n. 4223 del 17/02/2017; Sez. U., Sentenza n. 4224 del 17/02/2017; Sez. 3, Sentenza n. 10506 del 28/04/2017);

il risultato del contratto dovrà dirsi immeritevole solo quando sia contrario alla coscienza civile, all’economia, al buon costume od all’ordine pubblico (così la Relazione al Codice, p. 603, II capoverso) [quindi coincide con l’illiceità, essendo da ravvisare in tali casi];

tale principio, se pur anteriore alla promulgazione della Carta costituzionale, è stato da questa ripreso e consacrato nell’art. 2 Cost., secondo periodo; art. 4 Cost., comma 2, e art. 41 Cost., comma 2;

un contratto, dunque, non può dirsi diretto a realizzare interessi “immeritevoli” di tutela sol perché poco conveniente per una delle parti; l’ordinamento garantisce il contraente il cui consenso sia stato stornato o prevaricato, ma non quello che, libero e informato, abbia compiuto scelte contrattuali non pienamente satisfattive dei propri interessi economici;

affinché dunque un patto atipico possa dirsi diretto a realizzare interessi “immeritevoli”, ai sensi dell’art. 1322 c.c., è necessario accertare la contrarietà (non del patto, ma) del risultato cui esso mira con i principi di solidarietà, parità e non prevaricazione che il nostro ordinamento pone a fondamento dei rapporti privati;

nel caso di specie, la corte territoriale ha ritenuto che la clausola di “rischio cambio” inserita nel contratto oggetto dell’odierno esame presentasse “una formulazione particolarmente astrusa e una macchinosa articolazione di calcolo”, risolvendosi in un patto di natura “sicuramente atipica” caratterizzato da “ampia aleatorietà e squilibrio delle prestazioni” (cfr. pag. 14 della sentenza impugnata);

tale clausola, ad avviso del giudice a quo, prevederebbe un accordo squilibrato nei rischi, “che vengono posti tutti a carico dell’utilizzatore”, con una base di calcolo del rischio cambio superiore all’importo del canone (perché maggiorato dell’Iva), con la conseguenza che, avendo la clausola di rischio cambio una finalità aleatoria ed eminentemente speculativa incoerente all’effettiva necessità di un contratto di leasing, ne va dichiarata l’invalidità ai sensi dell’art. 1322 c.c. (cfr. pag. 14-15);

in contrasto con tali argomentazioni, varrà richiamare quanto decisamente obiettato dal richiamato orientamento delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, nella parte in cui hanno evidenziato come il carattere “astruso” o “macchinoso” dei calcoli previsti dal contratto non possa ritenersi tale da determinarne la nullità o l’immeritevolezza di tutela, poiché “dinanzi a clausole contrattuali oscure il giudice deve ricorrere agli strumenti legali di ermeneutica (artt. 1362-1371 c.c.), e non ad un giudizio di immeritevolezza. La clausola oscura andrà dunque interpretata, in mancanza di altri criteri, almeno in modo che le si possa dare un senso (art. 1371 c.c.), oppure contra proferentem (art. 1370 c.c.)”;

allo stesso modo, neppure il carattere “macchinoso” dei calcoli vale a pregiudicare la meritevolezza di tutela del negozio stipulato dalle parti: “da un punto di vista epistemologico, non esistono concetti “facili” e concetti “difficili”. Esistono concetti noti e concetti ignoti: i primi sono comprensibili ed i secondi no, se non vengano spiegati. Una clausola contrattuale non può dirsi dunque mai “macchinosa” in senso assoluto. Può esserlo in senso relativo, ad es. se contenuta in un testo contrattuale predisposto unilateralmente e sottoposto a persona priva delle necessarie competenze per comprenderlo. Ma in quest’ultima ipotesi non si dirà che quel contratto è “immeritevole”: si dirà, piuttosto, che il contratto è annullabile poiché il consenso del contraente è stato dato per errore o carpito con dolo. Oppure si dirà che il proponente è tenuto al risarcimento del danno per non avere fornito alla controparte le necessarie informazioni precontrattuali, ove imposte dalla legge o dal dovere di buona fede. Molti contratti contengono per necessità clausole assai articolate e complesse: ad esempio i contratti di handling aeroportuale, le assicurazioni dei rischi agricoli, il noleggio di piattaforme off-shore, il project financing di opere pubbliche, ma anche i contratti di massa come quelli di somministrazione di energia elettrica; ma non constano precedenti che abbiano dichiarate nulle tali clausole soltanto a causa della loro complessità. L’equazione stabilita dalla corte d’appello, per cui “macchinosità della clausola = immeritevolezza” e’, dunque, erronea in punto di diritto”;

parimenti priva di consistenza, sotto il profilo del giudizio di meritevolezza degli interessi disposti dalle parti, deve ritenersi la valutazione del giudice a quo circa la pretesa aleatorietà e lo squilibrio delle prestazioni;

da un lato, infatti, non ogni contratto aleatorio e’, per ciò solo, immeritevole di tutela ex art. 1322 c.c.; dall’altro, deve escludersi che sia inibito alle parti stipulare contratti aleatori atipici: questa Corte, infatti, ha già affermato la liceità e la meritevolezza di contratti aleatori non espressamente previsti dalla legge: ad esempio, in materia di c.d. vitalizio atipico (ex multis, Sez. 2, Sentenza n. 8209 del 22/04/2016; Sez. 3, Sentenza n. 2629 del 27/04/1982). Neppure è vietato inserire elementi di aleatorietà in un contratto commutativo. Le parti d’un contratto infatti, nell’esercizio del loro potere di autonomia negoziale, ben possono prefigurarsi la possibilità di sopravvenienze che incidono o possono incidere sull’equilibrio delle prestazioni, ed assumerne, reciprocamente o unilateralmente, il rischio, modificando in tal modo lo schema tipico del contratto commutativo e rendendolo per tale aspetto aleatorio, con l’effetto di escludere, nel caso di verificazione di tali sopravvenienze, l’applicabilità dei meccanismi riequilibratorii previsti nell’ordinaria disciplina del contratto (artt. 1467 e 1664 c.c.). E l’assunzione del suddetto rischio, come già stabilito da questa Corte, può risultare anche per implicito dal regolamento convenzionale che le parti hanno dato al rapporto e dal modo in cui hanno strutturato le loro obbligazioni (Sez. 1, Sentenza n. 948 del 26/01/1993, Rv. 480454 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 17485 del 12/10/2012, Rv. 624088-01; Sez. 3, Ordinanza n. 8881 del 13/05/2020; Sez. 2, Sentenza n. 2622 del 4.2.2021 (in motivazione)) (Sez. U., Sentenza n. 5657 del 23/02/2023, cit.);

quanto al dedotto squilibrio delle prestazioni, varrà sottolineare come la corte territoriale mostri implicitamente (ma inequivocamente) di ritenere che:

a) il concetto di “equilibrio delle prestazioni” di un contratto sinallagmatico consista in una paritaria e perfetta equipollenza tra le contrapposte obbligazioni;

b) ogni minimo disallineamento tra questa perfetta parità possa essere sindacato dal giudice, amputando parti del contratto per ricondurlo all’equità;

entrambe tali asserzioni, tuttavia, devono ritenersi erronee, stante:

a) il diritto di ciascuna parte di pianificare in piena libertà le proprie strategie imprenditoriali e commerciali, come già ripetutamente affermato da questa Corte (da ultimo, con ampiezza di motivazioni, Sez. 1, Sentenza n. 1184 del 21.1.2020; nello stesso senso, Sez. 3, Ordinanza n. 28022 del 14/10/2021);

b) l’impossibilità di far coincidere lo squilibrio delle prestazioni con la convenienza del contratto: chi ha fatto un cattivo affare non può retendere di sciogliersi dal contratto invocando “lo squilibrio delle prestazioni”. L’intervento del giudice sul contratto non può che essere limitato a casi eccezionali, pena la violazione del fondamentale principio di libertà negoziale (così, ex multis, Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 36740 del 25/11/2021, Rv. 663148 – 01);

c) l’evocabilità, in caso di squilibrio (economico) tra prestazioni, del rimedio della rescissione per lesione (ove lo squilibrio sia genetico) o della risoluzione per eccessiva onerosità (in caso di sopravvenienze), con la conseguenza che proprio l’esistenza di tali rimedi esclude la necessità stessa di ricorrere a fantasiose invenzioni circa l’immeritevolezza d’un contratto che preveda “prestazioni squilibrate” (Sez. U., Sentenza n. 5657 del 23/02/2023, cit.);

in conclusione, la corte d’appello ha formulato in iure un giudizio di “immeritevolezza” del contratto, ex art. 1322 c.c., comma 2, dopo avere accertato in facto circostanze irrilevanti ai fini del suddetto giudizio (aleatorietà, difficoltà di interpretazione, asimmetria delle prestazioni) procedendo, in tal modo, alla falsa applicazione del richiamato art. 1322 c.c.;

converrà, da ultimo, limitarsi a richiamare, nel loro insieme, le considerazioni illustrate dalle Sezioni Unite di questa Corte a fondamento del principio che esclude l’immeritevolezza di tutela ex art. 1322 c.c., o la natura di strumento finanziario derivato implicito (con conseguente inapplicabilità delle disposizioni del D.Lgs. n. 58 del 1998), della clausola di un contratto di leasing che preveda: a) il mutamento della misura del canone in funzione sia delle variazioni di un indice finanziario, sia delle fluttuazioni del tasso di cambio tra la valuta domestica ed una valuta straniera; b) l’invariabilità nominale dell’importo mensile del canone con separata regolazione dei rapporti dare/avere tra le parti in base alle suddette fluttuazioni (Sez. U., Sentenza n. 5657 del 23/02/2023, Rv. 667188 – 02): considerazioni alle quali questo Collegio si richiama integralmente, condividendone l’ispirazione, al fine di assicurare una continuità;

alle argomentazioni che precedono – una volta rilevata la complessiva inidoneità delle giustificazioni poste a fondamento del giudizio espresso dal giudice a quo circa l’immeritevolezza di tutela della clausola di “rischio cambio” oggetto dell’odierno esame – segue la corrispondente cassazione della sentenza impugnata con l’attribuzione, alla Corte d’appello di Trieste, quale giudice del rinvio, del compito di procedere alla corretta riformulazione del giudizio di meritevolezza (ex art. 1322 c.c.) degli interessi disposti dalle odierne parti attraverso le pattuizioni dalle stesse concluse, avendo cura di evidenziare gli aspetti eventualmente idonei a giustificare la negazione di tale meritevolezza sulla base di una valutazione da condurre “in concreto”, e non già puramente in astratto, degli scopi pratici (c.d. causa concreta) perseguiti dai contraenti;>>

M;ediazione e preliminare di preliminare: nessun diritto alla provvigione

Cass. sent. sez. 2 del 13-12-2023 n. 34.850, rel. Chieca:

<<Anche il secondo motivo è infondato.
In base all’orientamento ormai consolidato di questa Corte, al quale
si intende dare continuità, il diritto del mediatore alla provvigione
sorge allorché la conclusione dell’affare abbia avuto luogo per
effetto del suo intervento, come si ricava dal chiaro letterale
dell’art. 1755, comma 1, c.c.
Al fine di poter ritenere concluso l’affare è necessario che fra le
parti poste in relazione dal mediatore si sia costituito – in relazione ad un’eventuale futura stipula di un contratto preliminare – un
vincolo giuridico che abiliti ciascuna di loro ad agire per
l’esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c., ovvero per il
risarcimento del danno derivante dal mancato conseguimento del
risultato utile del negozio programmato.
Non basta, invece, accertare la sottoscrizione di una proposta
irrevocabile da parte dell’aspirante compratore, il quale offra un
certo corrispettivo per l’acquisto del bene, né riscontrare che vi sia
stata la conforme accettazione del proprietario, che pur abbia dato
luogo a una puntuazione vincolante sui profili in ordine ai quali
l’accordo è irrevocabilmente raggiunto e valga, perciò, a
configurare un ”preliminare di preliminare“, secondo quanto
chiarito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 4628/2015 (cfr. Cass.
n. 22012/2023, Cass. n. 17919/2023, Cass. n. 28879/2022, Cass.
n. 30083/2019).
Ciò premesso, nel caso in esame è pacifico che nessun contratto
preliminare sia stato stipulato dal Piccolini con il Billè per effetto
dell’attività di mediazione svolta dalla Davì, la quale, in contrasto
con il surriferito insegnamento della giurisprudenza di legittimità,
pretende di vedersi riconosciuto il diritto alla provvigione per il solo
fatto che le parti da lei messe in contatto avrebbero raggiunto un
accordo su alcuni punti di un ipotetico futuro contratto preliminare
o definitivo di compravendita, poi giammai concluso>.

Il preliminare di preliminare è valido ma non permette l’immediato trasferimento (ex art. 2932) e quindi non costituisce “conclusione dell’affare” per la maturazione della provvigine mediatoria

Cass. sez. 2 del 13.11.2023 n. 31.431 rel. Rolfi:

<<Si deve, tuttavia, rilevare che tale approdo è stato oggetto di un successivo ripensamento, a far tempo dalla sentenza Cass. Sez. 2 – n. 30083 del 19/11/2019, la quale ha invece affermato che, ai fini del riconoscimento del diritto del mediatore alla provvigione, l’affare deve ritenersi concluso quando, tra le parti poste in relazione dal mediatore medesimo, si sia costituito un vincolo giuridico che abiliti ciascuna di esse ad agire per la esecuzione specifica del negozio, nelle forme di cui all’art. 2932 c.c., ovvero per il risarcimento del danno derivante dal mancato conseguimento del risultato utile del negozio programmato, dovendosi, conseguentemente, escludere il diritto alla provvigione qualora tra le parti si sia soltanto costituito un vincolo idoneo a regolare le successive articolazioni del procedimento formativo dell’affare, come nel caso in cui sia stato stipulato un cd. “preliminare di preliminare”, in quanto quest’ultimo, pur essendo di per sé stesso valido ed efficace, ove sia configurabile un interesse delle parti meritevole di tutela, non legittima, tuttavia, la parte non inadempiente ad esercitare gli strumenti di tutela finalizzati a realizzare, in forma specifica o per equivalente, l’oggetto finale del progetto negoziale abortito, ma soltanto ad invocare la responsabilità contrattuale della parte inadempiente per il risarcimento dell’autonomo danno derivante dalla violazione, contraria a buona fede, della specifica obbligazione endoprocedimentale contenuta nell’accordo interlocutorio.

Detta decisione è stata seguita da una nutrita serie di decisioni che si sono poste sulla medesima scia (Cass. Sez. 6- 2, Ordinanza n. 8879 del 5/10/2022, massimata, e le decisioni non massimate Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 7781 del 2020; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 39377 del 2021; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 15559 del 2022; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 22012 del 2023, ma va anche richiamato il precedente “ante Sezioni Unite” costituito da Cass. Sez. 3, Sentenza n. 24445 del 21/11/2011), determinandosi, quindi, la formazione di un orientamento – ormai diventato essenzialmente uniforme – contrario al riconoscimento del diritto del mediatore alla provvigione nel caso di conclusione di un mero “preliminare di preliminare”.

7.4. Ritiene questo collegio che il secondo e più recente indirizzo giurisprudenziale appena sintetizzato meriti ulteriore conferma, dovendosi, quindi, ribadire il principio per cui il c.d. “preliminare di preliminare”, pur essendo vincolo valido ed efficace se rispondente ad un interesse meritevole di tutela delle parti, risulta idoneo unicamente a regolare le successive articolazioni del procedimento formativo dell’affare, senza abilitare le parti medesime ad agire per la esecuzione specifica del negozio, nelle forme di cui all’art. 2932 c.c., ovvero per il risarcimento del danno derivante dal mancato conseguimento del risultato utile del negozio programmato e, conseguentemente, non viene a costituire un “affare” idoneo, ex artt. 1754 e 1755 c.c., a fondare il diritto alla provvigione in capo al mediatore che abbia messo in contatto le parti medesime>>.

Poi:

<<Emerge, quindi, in modo univoco dall’arresto delle Sezioni Unite che il “preliminare di preliminare”, pur se valido ove fondato su interessi meritevoli di tutela, si presenta come mezzo per dilatare la fase temporale anteriore all’assunzione di un vincolo alla cui violazione possa reagirsi con l’azione ex art. 2932 c.c. – o, in alternativa, con una domanda risarcitoria volta ad ottenere il risarcimento del danno derivante dalla mancata conclusione del negozio programmato – e, quindi, come mezzo per procrastinare l’assunzione di un impegno pienamente vincolante.

Dal “preliminare di preliminare”, infatti, viene a scaturire il solo vincolo a non interrompere, violando la clausola generale di buona fede e correttezza, l’ulteriore trattativa finalizzata a pervenire alla definizione completa dell’operazione negoziale, pena l’insorgere di un obbligo meramente risarcitorio per violazione di un’obbligazione riconducibile alla terza delle categorie elencate dall’art. 1173 c.c..>>

Impugnazione della chiusura dell’account Youtube per misleading informazioni sanitarie (sul Covid19): non ci sono speranze per questo tipo di azioni

Eric Goldman nel suo blog segnala Northern District della California S. Francisco Div. del 4 settrmbre 2023 Case 3:22-cv-05567-LB, Mercola v. Google etc., decide l’istanza di riapetura dell’account , poi corretta in mero accesso per il recupero dei dati, proposta da medico no-vax.

Decide e rigetta, naturalmente. Il modulo contrattuale preparato da Youtube le permette di far cessare senza problemi il rapporto quando c’è vioalazione delle clausole (terms of service o guidelines ) regolanti i contenuti

Nemmeno la buona fede può operare, dato che c’è violazione di un patto specifico

<<The covenant of good faith and fair dealing is implied in every contract and prevents one party from “unfairly frustrating the other party’s right to receive the benefits” of the contract. Guz v. Bechtel Nat’l Inc., 24 Cal. 4th 317, 349 (2000). To allege a claim for breach of the covenant of good faith and fair dealing, a plaintiff must allege the following elements: (1) the plaintiff and the defendant entered into a contract; (2) the plaintiff did all or substantially all of the things that the contract required her to do or she was excused from having to do; (3) all conditions required for the defendant’s performance had occurred; (4) the defendant unfairly interfered with the plaintiff’s right to receive the benefits of the contract; and (5) the defendant’s conduct harmed the plaintiff. Qingdao Tang-Buy Int’l Import & Export Co. v. Preferred Secured Agents, Inc., No. 15-cv-00624-LB, 2016 WL 6524396, at *5 (N.D. Cal. Nov. 3, 2016) (citing Judicial Council of California Civil Jury Instructions § 325 (2011); Oculus Innovative Scis., Inc. v. Nofil Corp., No. C 06-01686 SI, 2007 WL 2600746, at *4 (N.D. Cal. Sept. 10, 2007)).
Again, YouTube’s actions were permitted by the Terms of Service. The implied-covenant claim fails for this reason>>.

I contitolari del bene promesso in vendita devono tutti partecipare al successivo rogito del definitivo

Affermazione esatta ma quasi ovvia di Cass. 29 agosto 2023 n. 25396, rel. Poletti, su ricorso contro una giuridicamente incredibile corte di appello romana: la quale , nonstante avesse stimato come un unicum il bene oggetto del preliminare, ne aveva fatto discendere la solidarietà (anzichè la collettività stante la indivisibilità) circa il dovere dei contitolari di prestare il consenso al definitivo.

<<Reiterati precedenti di questa Corte hanno coordinato il
principio della indivisibilità del bene con quello della negozialità
dell’adempimento del contratto preliminare, sancendo che “La
promessa di vendita di un bene in comunione è, di norma,
considerata dalle parti attinente al bene medesimo come
un unicum inscindibile e non come somma delle singole quote
che fano capo ai singoli comproprietari, di guisa che questi ultimi
– salvo che l’unico documento predisposto per il detto negozio
venga redatto in modo tale da farne risultare la volontà di
scomposizione in più contratti preliminari in base ai quali ognuno
dei comproprietari si impegna esclusivamente a vendere la
propria quota al promissario acquirente, con esclusione di forme
di collegamento negoziale o di previsione di condizioni idonee a
rimuovere la reciproca insensibilità dei contratti stessi
all’inadempimento di uno di essi – costituiscono un’unica parte
complessa e le loro dichiarazioni di voler vendere si fondono in
un’unica volontà negoziale. Ne consegue che, quando una di tali
dichiarazioni manchi (o sia invalida), non si forma (o si forma
invalidamente) la volontà di una delle parti del contratto
preliminare, escludendosi, pertanto, in toto la possibilità del
promissario acquirente di ottenere la sentenza costitutiva di cui
all’art. 2932 cod. civ. nei confronti dei soli comproprietari
promittenti, sull’assunto di una mera inefficacia del contratto
stesso rispetto a quelli rimasti estranei” (Cass. S.U. n.
7481/1993; Cass. S.U. n. 239/1999.

E ancora: “in tema di promessa di vendita di un bene immobile
indiviso, appartenente a più comproprietari, allorché nell’unico
documento predisposto per il negozio non risulti la volontà dei
comproprietari di stipulare più contratti preliminari relativi
esclusivamente alle singole quote di cui ciascuno di essi è
titolare, le dichiarazioni dei promittenti venditori, che
costituiscono un’unica parte complessa, danno luogo a un’unica
volontà negoziale, sicché sono parti necessarie del giudizio ex
art. 2932 cod. civ. tutti coloro che, concorrendo a formare la
volontà negoziale della parte promittente,si sono obbligati a
prestare il consenso necessario per il trasferimento del bene
considerato come un unicum inscindibile e nei cui confronti deve
spiegare effetto la sentenza costitutiva” (Cass. n. 6162/2006; e
cfr. Cass. n. 1866/2015 per l’affermazione che nel caso di
preliminare di vendita di un bene oggetto di comproprietà
indivisa le singole manifestazioni di volontà provenienti da
ciascuno dei comproprietari sono prive di una specifica
autonomia e destinate a fondersi in un’unica manifestazione
negoziale)>>

Poi la SC aggiunge di suo:

<<Se è vero che l’obbligazione di trasferire la proprietà di un
immobile oggetto di comunione, considerato come unicum
inscindibile, con la pattuizione di un solo prezzo, dà luogo
all’indivisibilità dell’obbligazione, è altrettanto vero che da tale
affermazione non possono derivare le conseguenze che ne ha
tratto il giudice di seconde cure, ossia l’irrilevanza della
mancanza di partecipazione di un coerede all’atto, stante la
natura obbligatoria del preliminare e l’estensione al suo
adempimento, tramite l’esecuzione dell’obbligo a contrarre,
della disciplina delle obbligazioni solidali.

La prestazione di trasferire la proprietà di un bene in
comproprietà non è stata infatti considerata avente natura
solidale ma collettiva, “non potendo operare il principio stabilito
dall’articolo 1292 c.c., secondo cui ciascuno degli obbligati in solido
puo’ adempiere per l’intero e l’adempimento dell’uno libera gli altri,
atteso che i promittenti sono in grado di manifestare il consenso
relativo alla propria quota e non quello concernente le quote
spettanti agli altri” (Cass. n. 2613/2021).
Diversamente dai corollari desunti dal giudice di appello, la
domanda di adempimento deve essere rivolta nei confronti di tutti
i promittenti venditori (in aggiunta alle decisioni già citate cfr. Cass.
n. 1050/1999), determinando un litiscorsorzio necessario, che si
genera nei confronti di tutti gli eredi anche quando, promosso il
giudizio ex art. 2932 cod. civ. per l’esecuzione specifica
dell’obbligo a contrarre, sopravvenga il decesso di uno dei
promittenti venditori, trattandosi di cause inscindibili (Cass. n.
8225/2011).
Ad ulteriore comprova delle linea interpretativa che nel caso
de quo avrebbe dovuto adottare la Corte distrettuale si possono
ricordare le decisioni che hanno preso specificamente in
considerazione il caso – come quello in esame – di apertura della
successione dopo la stipulazione del preliminare: “Deceduto il
promittente-venditore e apertasi – secondo la disciplina degli artt
566 e 581 cod civ (nel testo anteriore alla legge 19 maggio 1975
n. 151) – la successione legittima nei confronti del medesimo in
favore dell’unica figlia e del coniuge, la domanda di esecuzione
specifica del preliminare, tendendo al conseguimento della piena
proprieta del bene oggetto del contratto, deve essere proposta,
affinche la relativa sentenza sia utiliter data, non solo nei
confronti della figlia del de cuius, di tale bene divenuta piena proprietaria per la meta e nuda proprietaria per l’altra, ma anche
nei confronti del coniuge superstite, divenutone usufruttuario
dell’altra metà” (Cass. n. 1320/1980; e v. Cass. n. 2969/1967).
I precedenti invocati nella sentenza impugnata, molto risalenti
nel tempo, non attengono allo specifico caso di specie o risultano
superati dagli indirizzi interpretativi di cui si è dato conto>>

(link dal Sole 24 Ore)

Quid iuris in caso di contrapposti inadempimenti (ad un contratto di licenza di marchio)? Va accertato il tacito venir meno della volontà negoziale , dice Trib. Venezia

Trib. Venezia sent. 1308/2023 del 17.07.2023, RG 4971/2021, rel. Tosi:

<<Venendo al bilanciamento concreto fra gli opposti inadempimenti, va osservato innanzitutto che la vicenda si è dipanata in tempi assai lunghi, e che agli inadempimenti rispettivi non sono seguite iniziative coerenti e tempestive: parte attrice, a fronte della registrazione in malafede del 2014, ha continuato ad usare il marchio licenziato, ha corrisposto royalties fino a giugno 2017, agendo poi solo nel 2017 per la nullità del marchio avversario, ma continuando anche oltre ad usare il suo marchio (in abbinamento al “proprio” grifone); nel contempo ha rallentato lo sviluppo dei prodotti, quale concordato in contratto, e ha cessato di corrispondere royalties con il giugno 2017. Il convenuto, per parte sua, pur avendo lamentato il rallentamento dello sviluppo dei prodotti, e pur avendo ritenuto risolto il contratto a tenore della sua lettera del 6/4/2017, ancora in missive del 2019 lamentava l’inadempimento di controparte per il fatto che essa non trasmetteva rapporti di vendita né corrispondeva royalties; e solo nel 2021 agiva per il pagamento delle royalties fino a settembre 2017, non affatto a titolo di risarcimento (come fa ora) ma a titolo di compenso. L’attrice poi, dopo l’esito favorevole della sentenza sul marchio nel 2019, ha atteso il 2021 per agire con l’intento di inficiare il contratto. Si è avuto dunque un trascinamento del rapporto “a  basso regime” dopo la violazione, con tolleranze reciproche, sì che non può dirsi che alcuno degli inadempimenti opposti sia stato prevalente e determinante.
Ciò detto, la conseguenza che il Collegio ne trae non è comunque quello del semplice rigetto delle opposte domande risolutorie per inadempimento – secondo una giurisprudenza pur attestata in Cass. 18320/2015 – ma, in omaggio ad una linea giurisprudenziale più recente (Cass. 6675/2018, 19706/2020) quello della presa d’atto della non volontà delle parti – ambedue – di proseguire il rapporto. Si tratta di un approdo – costruito da Cass. 6675/2018 come accertamento della risoluzione per impossibilità sopravvenuta, altrove come accertamento del mutuo dissenso – che rispondente alla realtà del sopravvenuto disinteresse delle parti all’adempimento, e per la quale non ha senso né è foriero di utilità alcuna persistere a ritenere astrette le parti ad un insieme di patti che possono essere adempiuti solo nella collaborazione, ma nel quale nessuna delle due crede e dal quale nessuna delle due ritiene di ricavare utilità.   La risoluzione ha solitamente effetto dal maturare del fatto che impedisce la prosecuzione del rapporto (impossibilità sopravvenuta o dissenso, o inadempimento). Poiché però la domanda risolutoria della attrice è stata proposta in via subordinata ad una principale che includeva la tesi della nullità parziale e per il resto la prosecuzione del rapporto, la risoluzione deve operare dalla data della pronuncia, perché solo da questa l’attrice apprende del rigetto della sua domanda principale, e può condursi di conseguenza.>>

Giudizio di buon senso.   REsta da capire come si concili col principio  dispositivo (Iudex iuxta alligata et probata iudicare debet) se nessuna parte aveva avanzato simile domanda (come di solito capita).

Interessante la precisazione successiva:

<<Va ora ricordato che rimane pur sempre operativo fra le parti l’art. 12 del contratto, che regolava l’esaurimento degli effetti dello stesso “in caso di risoluzione… per qualunque motivo” e segnatamente quella parte di esso (A) che autorizzava l’adempimento degli ordini e la produzione a ciò finalizzata, e la vendita delle scorte. Tale articolo si applica avuto riguardo alla data della risoluzione, e dunque dalla pronuncia.
Esaurito magazzino e ordini, dovranno cessare produzione e commercializzazione. Si dà dunque ordine inibitorio (con effetto dall’esaurimento di scorte e ordini) quanto alla produzione e commercializzazione dei prodotti a marchio, con congrua penale, che si stima in euro 100 al giorno, in caso di inottemperanza.
La esistenza di tale patto preclude invece la pronuncia di ritiro di quanto è già stato immesso in commercio, giacché ciò è avvenuto legittimamente.
Alla realizzazione da parte del licenziatario, per la durata del rapporto, di fatturato con uso del marchio licenziato (e così per quel fatturato che sarà realizzato anche ex art. 12 lett. A) del contratto, come prevede il comma 2 dell’articolo) consegue il diritto del licenziante al pagamento delle royalties a termini di contratto.

Stante il pari inadempimento, non spetta al convenuto ristoro per il mancato sviluppo del programma di promozione convenuto.
Parte attrice invece chiede il pagamento della indennità ex art. 13 del contratto.
L’articolo prevede che “in ogni caso di cessazione del presente contratto…” il licenziante indennizzi il licenziatario per il lavoro svolto per aumentare il valore dei marchi, subordinatamente al raggiungimento di un fatturato cumulativo di euro 1.000.000. tale indennità è prevista in misura pari al 50% del valore del
marchio “da determinarsi da parte di un esperto indipendente incaricato dalle parti. Nel caso in cui non si trovasse un accordo in merito alla scelta dell’esperto entro 30 giorni, si procederà secondo la logica dell’arbitrato. Tale indennità verrà erogata in forma di pagamento” .
La clausola è valida, essendo contenuta in contratto che per quanto risulta fu redatto espressamente per il caso, ed ha contenuto determinato, riconoscendo l’indennità in ragione dell’oggettivo apporto della licenziataria al valore del marchio, una volta raggiunta una certa soglia di fatturato; e non si vede squilibrio contrattuale in tale previsione (fermo che un generico “squilibrio” non può inficiare una clausola pattuita) dato che l’indennità si ancora all’effettivo valore raggiunto dal marchio, e dunque all’effettivo apporto dato dalla licenziataria ad un marchio che il licenziante può ulteriormente mettere a reddito. Solo, stante la previsione secondo cui le parti convengono di rimettersi, quanto al valore del marchio, alla decisione di un terzo, qualificabile come arbitratore ex art. 1349 c.c., e dunque ad una determinazione contrattuale, il fatto che nella specie tale determinazione non sia intervenuta né risulta le parti abbiano chiesta (in verità non risulta neanche che si siano confrontate sulla scelta dell’esperto) impedisce che il giudice possa riconoscere la indennità; non impedisce però che il giudice possa verificare la sussistenza del presupposto per il riconoscimento dell’indennità, ossia il raggiungimento del limite di fatturato>>.

La violazione di norme fiscali comporta nullità civilistica (di trasferimento/licenza di marchio)? No, dice Trib. Milano (con un’applicazione della rivendica ex art. 118 c.1 cod. propr. ind.)

Trib. Milano dep. 16.06.2023 n° 5025/2023, RG 38556/2020, rel. Marangoni:

<<5.1 La questione relativa alla rilevanza di un intento elusivo di norme fiscali sulla validità dei contratti civilistici connessi è stabilmente pervenuta ad un principio di tendenziale non interferenza.
La giurisprudenza formatasi su tale questione – come ricostruita da Cass. SU 23601/17 – aveva rilevato come, in assenza di disposizioni che sancissero testualmente la nullità del negozio giuridico elusivo di una norma tributaria, non fosse nemmeno configurabile una nullità virtuale del contratto per frode alla
legge (art. 1344 c.c.) o per violazione di una norma imperativa (art. 1418, comma 1, c.c.). Ciò in quanto la norma fiscale non avrebbe carattere imperativo, tenuto conto della distinzione tra norme imperative e norme inderogabili, nonché del peculiare carattere settoriale dell’interesse sotteso. Le norme tributarie,
essendo poste a tutela di interessi pubblici di carattere settoriale e non ponendo, in linea di massima, divieti, pur essendo inderogabili, non possono qualificarsi imperative, presupponendo tale qualificazione che la norma abbia carattere proibitivo e sia posta a tutela di interessi generali che si collochino al vertice della gerarchia dei valori protetti dall’ordinamento giuridico.
Tale orientamento – ha rilevato ancora Cass. SU 23601/17 – è stato poi recepito dallo stesso legislatore tributario nell’art. 10, comma 3, I. 27 luglio 2000, n. 212 (cd. Statuto dei diritti del contribuente), a mente del quale “le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto” mentre il successivo art. 10 bis della stessa I. n. 212 del 2000 (articolo aggiunto legge dall’art. 1 del d.lgs. n. 128 del 5 agosto 2015, che ha abrogato e sostituito l’art. 37 bis del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600), stabilisce la mera inopponibilità all’amministrazione finanziaria dei fatti, degli atti e dei contratti che siano sprovvisti di “sostanza economica” e finalizzati, “pur nel
rispetto formale delle norme fiscali” a realizzare “essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”.
In assenza di specifica disposizione di legge – nella fattispecie non sussistente – deve dunque confermarsi che le pattuizioni contenute in un contratto che siano dirette ad eludere, in tutto o in parte, la normativa fiscale, non implicano di per sé la nullità del contratto stesso, trovando nel sistema tributario le relative sanzioni (v. Cass. SU 23601/17 cit., Cass. 4785/07, Cass. 17475/20)>>

Suul’art. 118/1 cpi:

<<7. Ritiene il Collegio che le valutazioni innanzi espresse quanto all’inesistenza di diritti sorti in capo a GIADA s.p.a. rispetto alla presunta utilizzazione autonoma dei marchi JACOB COHËN debbano essere estese anche ai segni di fatto rappresentati dal cd “Baffo” e dalle cifre “688”, “613” e “622”, segni che sono stati oggetto di domande di registrazione comunitaria e nazionale da parte della stessa GIADA s.p.a.
Quanto al segno “Baffo”, deve rilevarsi che parte attrice ha depositato documenti dai quali si evince che l’utilizzazione di tale segno era precedente all’inizio della licenza con GIADA s.p.a. (v. docc. da 23 a 26 attr.), mentre per i segni costituiti dalle menzionate cifre risultano depositate fatture So.Ge.Tex s.r.l. – prima licenziataria dei marchi JACOB COHËN – risalenti agli anni 2003/04 che presentavano codici identificativi dei prodotti aventi come cifra iniziale il numero “6” (doc. 88 attr., documenti allegati alla dichiarazione Paolo Soncin).
Ritiene il Collegio che la funzione di marchi accessori e secondari rispetto ai marchi registrati JACOB COHËN che detti segni di fatto per concorde indicazione delle parti hanno rivestito nel corso del lungo rapporto di licenza intercorso tra le parti consenta di ritenere che anche su di essi sia individuabile un uso continuativo e rilevante riconducibile alla titolare dei marchi principali registrati. In effetti GIADA s.p.a. non ha motivato la sua decisione di procedere al deposito formale delle domande di registrazioni di tali marchi se non come conseguenza della sua tesi relativa alla presunta interruzione della catena delle cessioni dei marchi registrati cui sarebbe conseguita la decadenza per non uso degli stessi, situazione che avrebbe consentito ad essa di acquisire in autonomia tutti i diritti su di essi (e quindi anche sui marchi accessori e secondari).
La fondatezza di tale tesi è stata negata e dunque a tale proposito non si può che ritenere che l’uso dei segni di fatto rappresentati dal cd “Baffo” e dalle cifre “688”, “613” e “622” abbiano seguito la stessa  sorte dei marchi registrati, in quanto pacificamente utilizzati sui prodotti oggetto di licenza, realizzati
ed approvati dalla licenziataria e rispetto ai quali tutti i diritti devono ritenersi ad essa spettanti (v. contratto 20.6.2006, in doc. 18 attr.: art. 3.3, in cui il Concessionario si era impegnato a non registrare qualsiasi altro marchio del Concedente o con esso confondibile; contratto di licenza 1.8.2013, in doc. 1
attr.: art. 6.3 che impedisce alla licenziataria la commercializzazione di prodotti che non siano stati approvati dalla licenziante, art. 9.2 che impedisce alla licenziataria di apporre sui prodotti marchi d iversi da quelli licenziati) in quanto utilizzati con il suo consenso.
7.1 Deve dunque riconoscersi la fondatezza del richiamo al primo comma dell’art. 118 c.p.i. svolta da parte attrice per ciò che concerne le domande nazionali di registrazione del segno “Baffo”, rispetto alle quali va affermato che l’uso precedente e continuo di tale segno di fatto – realizzato mediante l’attività
della licenziataria – è riconducibile alla JACOB COHEN COMPANY s.p.a. e che ciò consente di ritenere l’insorgenza in favore della stessa del diritto di procedere alla sua registrazione, diritto che appare violato dai depositi del medesimo segno eseguiti dalla ex-licenziataria>>.

Discriminazione algoritmica da parte del marketplace di Facebook e safe harbour ex § 230 CDA

Il prof. Eric Goldman segnala l’appello del 9 circuito 20.06.2023, No. 21-16499, Vargas ed altri c. Facebook , in un caso di allegata discriminazione nel proporre offerte commerciali sul suo marketplace –

La domanda: <<The operative complaint alleges that Facebook’s “targeting methods provide tools to exclude women of color, single parents, persons with disabilities and other protected attributes,” so that Plaintiffs were “prevented from having the same opportunity to view ads for housing” that Facebook users who are not in a protected class received>>.

Ebbene, il safe harbour non si applica perchè Facebook non è estraneo ma coautore della condotta illecita, in quanto cretore dell’algoritmo utilizzato nella pratica discriminatoria:

<<2. The district court also erred by holding that Facebook is immune from liability pursuant to 47 U.S.C. § 230(c)(1). “Immunity from liability exists for ‘(1) a provider or user of an interactive computer service (2) whom a plaintiff seeks to treat, under a [federal or] state law cause of action, as a publisher or speaker (3) of information provided by another information content provider.’” Dyroff v. Ultimate Software Grp., 934 F.3d 1093, 1097 (9th Cir. 2019) (quoting Barnes v. Yahoo!, Inc., 570 F.3d 1096, 1100 (9th Cir. 2009)). We agree with Plaintiffs that, taking the allegations in the complaint as true, Plaintiffs’ claims challenge Facebook’s conduct as a co-developer of content and not merely as a publisher of information provided by another information content provider.
Facebook created an Ad Platform that advertisers could use to target advertisements to categories of users. Facebook selected the categories, such as sex, number of children, and location. Facebook then determined which categories applied to each user. For example, Facebook knew that Plaintiff Vargas fell within the categories of single parent, disabled, female, and of Hispanic descent. For some attributes, such as age and gender, Facebook requires users to supply the information. For other attributes, Facebook applies its own algorithms to its vast store of data to determine which categories apply to a particular user.
The Ad Platform allowed advertisers to target specific audiences, both by including categories of persons and by excluding categories of persons, through the use of drop-down menus and toggle buttons. For example, an advertiser could choose to exclude women or persons with children, and an advertiser could draw a boundary around a geographic location and exclude persons falling within that location. Facebook permitted all paid advertisers, including housing advertisers, to use those tools. Housing advertisers allegedly used the tools to exclude protected categories of persons from seeing some advertisements.
As the website’s actions did in Fair Housing Council of San Fernando Valley v. Roommates.com, LLC, 521 F.3d 1157 (9th Cir. 2008) (en banc), Facebook’s own actions “contribute[d] materially to the alleged illegality of the conduct.” Id. at 1168. Facebook created the categories, used its own methodologies to assign users to the categories, and provided simple drop-down menus and toggle buttons to allow housing advertisers to exclude protected categories of persons. Facebook points to three primary aspects of this case that arguably differ from the facts in Roommates.com, but none affects our conclusion that Plaintiffs’ claims challenge Facebook’s own actions>>.

Ed ecco le tre eccezioni di Facebook e relative motivazioni di rigetto del giudice:

<<First, in Roommates.com, the website required users who created profiles to self-identify in several protected categories, such as sex and sexual orientation. Id. at 1161. The facts here are identical with respect to two protected categories because Facebook requires users to specify their gender and age. With respect to other categories, it is true that Facebook does not require users to select directly from a list of options, such as whether they have children. But Facebook uses its own algorithms to categorize the user. Whether by the user’s direct selection or by sophisticated inference, Facebook determines the user’s membership in a wide range of categories, and Facebook permits housing advertisers to exclude persons in those categories. We see little meaningful difference between this case and Roommates.com in this regard. Facebook was “much more than a passive transmitter of information provided by others; it [was] the developer, at least in part, of that information.” Id. at 1166. Indeed, Facebook is more of a developer than the website in Roommates.com in one respect because, even if a user did not intend to reveal a particular characteristic, Facebook’s algorithms nevertheless ascertained that information from the user’s online activities and allowed advertisers to target ads depending on the characteristic.
Second, Facebook emphasizes that its tools do not require an advertiser to discriminate with respect to a protected ground. An advertiser may opt to exclude only unprotected categories of persons or may opt not to exclude any categories of persons. This distinction is, at most, a weak one. The website in Roommates.com likewise did not require advertisers to discriminate, because users could select the option that corresponded to all persons of a particular category, such as “straight or gay.” See, e.g., id. at 1165 (“Subscribers who are seeking housing must make a selection from a drop-down menu, again provided by Roommate[s.com], to indicate whether they are willing to live with ‘Straight or gay’ males, only with ‘Straight’ males, only with ‘Gay’ males or with ‘No males.’”). The manner of discrimination offered by Facebook may be less direct in some respects, but as in Roommates.com, Facebook identified persons in protected categories and offered tools that directly and easily allowed advertisers to exclude all persons of a protected category (or several protected categories).
Finally, Facebook urges us to conclude that the tools at issue here are “neutral” because they are offered to all advertisers, not just housing advertisers, and the use of the tools in some contexts is legal. We agree that the broad availability of the tools distinguishes this case to some extent from the website in Roommates.com, which pertained solely to housing. But we are unpersuaded that the distinction leads to a different ultimate result here. According to the complaint, Facebook promotes the effectiveness of its advertising tools specifically to housing advertisers. “For example, Facebook promotes its Ad Platform with ‘success stories,’ including stories from a housing developer, a real estate agency, a mortgage lender, a real estate-focused marketing agency, and a search tool for rental housing.” A patently discriminatory tool offered specifically and knowingly to housing advertisers does not become “neutral” within the meaning of this doctrine simply because the tool is also offered to others>>.