Il preliminare di preliminare è valido ma non permette l’immediato trasferimento (ex art. 2932) e quindi non costituisce “conclusione dell’affare” per la maturazione della provvigine mediatoria

Cass. sez. 2 del 13.11.2023 n. 31.431 rel. Rolfi:

<<Si deve, tuttavia, rilevare che tale approdo è stato oggetto di un successivo ripensamento, a far tempo dalla sentenza Cass. Sez. 2 – n. 30083 del 19/11/2019, la quale ha invece affermato che, ai fini del riconoscimento del diritto del mediatore alla provvigione, l’affare deve ritenersi concluso quando, tra le parti poste in relazione dal mediatore medesimo, si sia costituito un vincolo giuridico che abiliti ciascuna di esse ad agire per la esecuzione specifica del negozio, nelle forme di cui all’art. 2932 c.c., ovvero per il risarcimento del danno derivante dal mancato conseguimento del risultato utile del negozio programmato, dovendosi, conseguentemente, escludere il diritto alla provvigione qualora tra le parti si sia soltanto costituito un vincolo idoneo a regolare le successive articolazioni del procedimento formativo dell’affare, come nel caso in cui sia stato stipulato un cd. “preliminare di preliminare”, in quanto quest’ultimo, pur essendo di per sé stesso valido ed efficace, ove sia configurabile un interesse delle parti meritevole di tutela, non legittima, tuttavia, la parte non inadempiente ad esercitare gli strumenti di tutela finalizzati a realizzare, in forma specifica o per equivalente, l’oggetto finale del progetto negoziale abortito, ma soltanto ad invocare la responsabilità contrattuale della parte inadempiente per il risarcimento dell’autonomo danno derivante dalla violazione, contraria a buona fede, della specifica obbligazione endoprocedimentale contenuta nell’accordo interlocutorio.

Detta decisione è stata seguita da una nutrita serie di decisioni che si sono poste sulla medesima scia (Cass. Sez. 6- 2, Ordinanza n. 8879 del 5/10/2022, massimata, e le decisioni non massimate Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 7781 del 2020; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 39377 del 2021; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 15559 del 2022; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 22012 del 2023, ma va anche richiamato il precedente “ante Sezioni Unite” costituito da Cass. Sez. 3, Sentenza n. 24445 del 21/11/2011), determinandosi, quindi, la formazione di un orientamento – ormai diventato essenzialmente uniforme – contrario al riconoscimento del diritto del mediatore alla provvigione nel caso di conclusione di un mero “preliminare di preliminare”.

7.4. Ritiene questo collegio che il secondo e più recente indirizzo giurisprudenziale appena sintetizzato meriti ulteriore conferma, dovendosi, quindi, ribadire il principio per cui il c.d. “preliminare di preliminare”, pur essendo vincolo valido ed efficace se rispondente ad un interesse meritevole di tutela delle parti, risulta idoneo unicamente a regolare le successive articolazioni del procedimento formativo dell’affare, senza abilitare le parti medesime ad agire per la esecuzione specifica del negozio, nelle forme di cui all’art. 2932 c.c., ovvero per il risarcimento del danno derivante dal mancato conseguimento del risultato utile del negozio programmato e, conseguentemente, non viene a costituire un “affare” idoneo, ex artt. 1754 e 1755 c.c., a fondare il diritto alla provvigione in capo al mediatore che abbia messo in contatto le parti medesime>>.

Poi:

<<Emerge, quindi, in modo univoco dall’arresto delle Sezioni Unite che il “preliminare di preliminare”, pur se valido ove fondato su interessi meritevoli di tutela, si presenta come mezzo per dilatare la fase temporale anteriore all’assunzione di un vincolo alla cui violazione possa reagirsi con l’azione ex art. 2932 c.c. – o, in alternativa, con una domanda risarcitoria volta ad ottenere il risarcimento del danno derivante dalla mancata conclusione del negozio programmato – e, quindi, come mezzo per procrastinare l’assunzione di un impegno pienamente vincolante.

Dal “preliminare di preliminare”, infatti, viene a scaturire il solo vincolo a non interrompere, violando la clausola generale di buona fede e correttezza, l’ulteriore trattativa finalizzata a pervenire alla definizione completa dell’operazione negoziale, pena l’insorgere di un obbligo meramente risarcitorio per violazione di un’obbligazione riconducibile alla terza delle categorie elencate dall’art. 1173 c.c..>>

Impugnazione della chiusura dell’account Youtube per misleading informazioni sanitarie (sul Covid19): non ci sono speranze per questo tipo di azioni

Eric Goldman nel suo blog segnala Northern District della California S. Francisco Div. del 4 settrmbre 2023 Case 3:22-cv-05567-LB, Mercola v. Google etc., decide l’istanza di riapetura dell’account , poi corretta in mero accesso per il recupero dei dati, proposta da medico no-vax.

Decide e rigetta, naturalmente. Il modulo contrattuale preparato da Youtube le permette di far cessare senza problemi il rapporto quando c’è vioalazione delle clausole (terms of service o guidelines ) regolanti i contenuti

Nemmeno la buona fede può operare, dato che c’è violazione di un patto specifico

<<The covenant of good faith and fair dealing is implied in every contract and prevents one party from “unfairly frustrating the other party’s right to receive the benefits” of the contract. Guz v. Bechtel Nat’l Inc., 24 Cal. 4th 317, 349 (2000). To allege a claim for breach of the covenant of good faith and fair dealing, a plaintiff must allege the following elements: (1) the plaintiff and the defendant entered into a contract; (2) the plaintiff did all or substantially all of the things that the contract required her to do or she was excused from having to do; (3) all conditions required for the defendant’s performance had occurred; (4) the defendant unfairly interfered with the plaintiff’s right to receive the benefits of the contract; and (5) the defendant’s conduct harmed the plaintiff. Qingdao Tang-Buy Int’l Import & Export Co. v. Preferred Secured Agents, Inc., No. 15-cv-00624-LB, 2016 WL 6524396, at *5 (N.D. Cal. Nov. 3, 2016) (citing Judicial Council of California Civil Jury Instructions § 325 (2011); Oculus Innovative Scis., Inc. v. Nofil Corp., No. C 06-01686 SI, 2007 WL 2600746, at *4 (N.D. Cal. Sept. 10, 2007)).
Again, YouTube’s actions were permitted by the Terms of Service. The implied-covenant claim fails for this reason>>.

I contitolari del bene promesso in vendita devono tutti partecipare al successivo rogito del definitivo

Affermazione esatta ma quasi ovvia di Cass. 29 agosto 2023 n. 25396, rel. Poletti, su ricorso contro una giuridicamente incredibile corte di appello romana: la quale , nonstante avesse stimato come un unicum il bene oggetto del preliminare, ne aveva fatto discendere la solidarietà (anzichè la collettività stante la indivisibilità) circa il dovere dei contitolari di prestare il consenso al definitivo.

<<Reiterati precedenti di questa Corte hanno coordinato il
principio della indivisibilità del bene con quello della negozialità
dell’adempimento del contratto preliminare, sancendo che “La
promessa di vendita di un bene in comunione è, di norma,
considerata dalle parti attinente al bene medesimo come
un unicum inscindibile e non come somma delle singole quote
che fano capo ai singoli comproprietari, di guisa che questi ultimi
– salvo che l’unico documento predisposto per il detto negozio
venga redatto in modo tale da farne risultare la volontà di
scomposizione in più contratti preliminari in base ai quali ognuno
dei comproprietari si impegna esclusivamente a vendere la
propria quota al promissario acquirente, con esclusione di forme
di collegamento negoziale o di previsione di condizioni idonee a
rimuovere la reciproca insensibilità dei contratti stessi
all’inadempimento di uno di essi – costituiscono un’unica parte
complessa e le loro dichiarazioni di voler vendere si fondono in
un’unica volontà negoziale. Ne consegue che, quando una di tali
dichiarazioni manchi (o sia invalida), non si forma (o si forma
invalidamente) la volontà di una delle parti del contratto
preliminare, escludendosi, pertanto, in toto la possibilità del
promissario acquirente di ottenere la sentenza costitutiva di cui
all’art. 2932 cod. civ. nei confronti dei soli comproprietari
promittenti, sull’assunto di una mera inefficacia del contratto
stesso rispetto a quelli rimasti estranei” (Cass. S.U. n.
7481/1993; Cass. S.U. n. 239/1999.

E ancora: “in tema di promessa di vendita di un bene immobile
indiviso, appartenente a più comproprietari, allorché nell’unico
documento predisposto per il negozio non risulti la volontà dei
comproprietari di stipulare più contratti preliminari relativi
esclusivamente alle singole quote di cui ciascuno di essi è
titolare, le dichiarazioni dei promittenti venditori, che
costituiscono un’unica parte complessa, danno luogo a un’unica
volontà negoziale, sicché sono parti necessarie del giudizio ex
art. 2932 cod. civ. tutti coloro che, concorrendo a formare la
volontà negoziale della parte promittente,si sono obbligati a
prestare il consenso necessario per il trasferimento del bene
considerato come un unicum inscindibile e nei cui confronti deve
spiegare effetto la sentenza costitutiva” (Cass. n. 6162/2006; e
cfr. Cass. n. 1866/2015 per l’affermazione che nel caso di
preliminare di vendita di un bene oggetto di comproprietà
indivisa le singole manifestazioni di volontà provenienti da
ciascuno dei comproprietari sono prive di una specifica
autonomia e destinate a fondersi in un’unica manifestazione
negoziale)>>

Poi la SC aggiunge di suo:

<<Se è vero che l’obbligazione di trasferire la proprietà di un
immobile oggetto di comunione, considerato come unicum
inscindibile, con la pattuizione di un solo prezzo, dà luogo
all’indivisibilità dell’obbligazione, è altrettanto vero che da tale
affermazione non possono derivare le conseguenze che ne ha
tratto il giudice di seconde cure, ossia l’irrilevanza della
mancanza di partecipazione di un coerede all’atto, stante la
natura obbligatoria del preliminare e l’estensione al suo
adempimento, tramite l’esecuzione dell’obbligo a contrarre,
della disciplina delle obbligazioni solidali.

La prestazione di trasferire la proprietà di un bene in
comproprietà non è stata infatti considerata avente natura
solidale ma collettiva, “non potendo operare il principio stabilito
dall’articolo 1292 c.c., secondo cui ciascuno degli obbligati in solido
puo’ adempiere per l’intero e l’adempimento dell’uno libera gli altri,
atteso che i promittenti sono in grado di manifestare il consenso
relativo alla propria quota e non quello concernente le quote
spettanti agli altri” (Cass. n. 2613/2021).
Diversamente dai corollari desunti dal giudice di appello, la
domanda di adempimento deve essere rivolta nei confronti di tutti
i promittenti venditori (in aggiunta alle decisioni già citate cfr. Cass.
n. 1050/1999), determinando un litiscorsorzio necessario, che si
genera nei confronti di tutti gli eredi anche quando, promosso il
giudizio ex art. 2932 cod. civ. per l’esecuzione specifica
dell’obbligo a contrarre, sopravvenga il decesso di uno dei
promittenti venditori, trattandosi di cause inscindibili (Cass. n.
8225/2011).
Ad ulteriore comprova delle linea interpretativa che nel caso
de quo avrebbe dovuto adottare la Corte distrettuale si possono
ricordare le decisioni che hanno preso specificamente in
considerazione il caso – come quello in esame – di apertura della
successione dopo la stipulazione del preliminare: “Deceduto il
promittente-venditore e apertasi – secondo la disciplina degli artt
566 e 581 cod civ (nel testo anteriore alla legge 19 maggio 1975
n. 151) – la successione legittima nei confronti del medesimo in
favore dell’unica figlia e del coniuge, la domanda di esecuzione
specifica del preliminare, tendendo al conseguimento della piena
proprieta del bene oggetto del contratto, deve essere proposta,
affinche la relativa sentenza sia utiliter data, non solo nei
confronti della figlia del de cuius, di tale bene divenuta piena proprietaria per la meta e nuda proprietaria per l’altra, ma anche
nei confronti del coniuge superstite, divenutone usufruttuario
dell’altra metà” (Cass. n. 1320/1980; e v. Cass. n. 2969/1967).
I precedenti invocati nella sentenza impugnata, molto risalenti
nel tempo, non attengono allo specifico caso di specie o risultano
superati dagli indirizzi interpretativi di cui si è dato conto>>

(link dal Sole 24 Ore)

Quid iuris in caso di contrapposti inadempimenti (ad un contratto di licenza di marchio)? Va accertato il tacito venir meno della volontà negoziale , dice Trib. Venezia

Trib. Venezia sent. 1308/2023 del 17.07.2023, RG 4971/2021, rel. Tosi:

<<Venendo al bilanciamento concreto fra gli opposti inadempimenti, va osservato innanzitutto che la vicenda si è dipanata in tempi assai lunghi, e che agli inadempimenti rispettivi non sono seguite iniziative coerenti e tempestive: parte attrice, a fronte della registrazione in malafede del 2014, ha continuato ad usare il marchio licenziato, ha corrisposto royalties fino a giugno 2017, agendo poi solo nel 2017 per la nullità del marchio avversario, ma continuando anche oltre ad usare il suo marchio (in abbinamento al “proprio” grifone); nel contempo ha rallentato lo sviluppo dei prodotti, quale concordato in contratto, e ha cessato di corrispondere royalties con il giugno 2017. Il convenuto, per parte sua, pur avendo lamentato il rallentamento dello sviluppo dei prodotti, e pur avendo ritenuto risolto il contratto a tenore della sua lettera del 6/4/2017, ancora in missive del 2019 lamentava l’inadempimento di controparte per il fatto che essa non trasmetteva rapporti di vendita né corrispondeva royalties; e solo nel 2021 agiva per il pagamento delle royalties fino a settembre 2017, non affatto a titolo di risarcimento (come fa ora) ma a titolo di compenso. L’attrice poi, dopo l’esito favorevole della sentenza sul marchio nel 2019, ha atteso il 2021 per agire con l’intento di inficiare il contratto. Si è avuto dunque un trascinamento del rapporto “a  basso regime” dopo la violazione, con tolleranze reciproche, sì che non può dirsi che alcuno degli inadempimenti opposti sia stato prevalente e determinante.
Ciò detto, la conseguenza che il Collegio ne trae non è comunque quello del semplice rigetto delle opposte domande risolutorie per inadempimento – secondo una giurisprudenza pur attestata in Cass. 18320/2015 – ma, in omaggio ad una linea giurisprudenziale più recente (Cass. 6675/2018, 19706/2020) quello della presa d’atto della non volontà delle parti – ambedue – di proseguire il rapporto. Si tratta di un approdo – costruito da Cass. 6675/2018 come accertamento della risoluzione per impossibilità sopravvenuta, altrove come accertamento del mutuo dissenso – che rispondente alla realtà del sopravvenuto disinteresse delle parti all’adempimento, e per la quale non ha senso né è foriero di utilità alcuna persistere a ritenere astrette le parti ad un insieme di patti che possono essere adempiuti solo nella collaborazione, ma nel quale nessuna delle due crede e dal quale nessuna delle due ritiene di ricavare utilità.   La risoluzione ha solitamente effetto dal maturare del fatto che impedisce la prosecuzione del rapporto (impossibilità sopravvenuta o dissenso, o inadempimento). Poiché però la domanda risolutoria della attrice è stata proposta in via subordinata ad una principale che includeva la tesi della nullità parziale e per il resto la prosecuzione del rapporto, la risoluzione deve operare dalla data della pronuncia, perché solo da questa l’attrice apprende del rigetto della sua domanda principale, e può condursi di conseguenza.>>

Giudizio di buon senso.   REsta da capire come si concili col principio  dispositivo (Iudex iuxta alligata et probata iudicare debet) se nessuna parte aveva avanzato simile domanda (come di solito capita).

Interessante la precisazione successiva:

<<Va ora ricordato che rimane pur sempre operativo fra le parti l’art. 12 del contratto, che regolava l’esaurimento degli effetti dello stesso “in caso di risoluzione… per qualunque motivo” e segnatamente quella parte di esso (A) che autorizzava l’adempimento degli ordini e la produzione a ciò finalizzata, e la vendita delle scorte. Tale articolo si applica avuto riguardo alla data della risoluzione, e dunque dalla pronuncia.
Esaurito magazzino e ordini, dovranno cessare produzione e commercializzazione. Si dà dunque ordine inibitorio (con effetto dall’esaurimento di scorte e ordini) quanto alla produzione e commercializzazione dei prodotti a marchio, con congrua penale, che si stima in euro 100 al giorno, in caso di inottemperanza.
La esistenza di tale patto preclude invece la pronuncia di ritiro di quanto è già stato immesso in commercio, giacché ciò è avvenuto legittimamente.
Alla realizzazione da parte del licenziatario, per la durata del rapporto, di fatturato con uso del marchio licenziato (e così per quel fatturato che sarà realizzato anche ex art. 12 lett. A) del contratto, come prevede il comma 2 dell’articolo) consegue il diritto del licenziante al pagamento delle royalties a termini di contratto.

Stante il pari inadempimento, non spetta al convenuto ristoro per il mancato sviluppo del programma di promozione convenuto.
Parte attrice invece chiede il pagamento della indennità ex art. 13 del contratto.
L’articolo prevede che “in ogni caso di cessazione del presente contratto…” il licenziante indennizzi il licenziatario per il lavoro svolto per aumentare il valore dei marchi, subordinatamente al raggiungimento di un fatturato cumulativo di euro 1.000.000. tale indennità è prevista in misura pari al 50% del valore del
marchio “da determinarsi da parte di un esperto indipendente incaricato dalle parti. Nel caso in cui non si trovasse un accordo in merito alla scelta dell’esperto entro 30 giorni, si procederà secondo la logica dell’arbitrato. Tale indennità verrà erogata in forma di pagamento” .
La clausola è valida, essendo contenuta in contratto che per quanto risulta fu redatto espressamente per il caso, ed ha contenuto determinato, riconoscendo l’indennità in ragione dell’oggettivo apporto della licenziataria al valore del marchio, una volta raggiunta una certa soglia di fatturato; e non si vede squilibrio contrattuale in tale previsione (fermo che un generico “squilibrio” non può inficiare una clausola pattuita) dato che l’indennità si ancora all’effettivo valore raggiunto dal marchio, e dunque all’effettivo apporto dato dalla licenziataria ad un marchio che il licenziante può ulteriormente mettere a reddito. Solo, stante la previsione secondo cui le parti convengono di rimettersi, quanto al valore del marchio, alla decisione di un terzo, qualificabile come arbitratore ex art. 1349 c.c., e dunque ad una determinazione contrattuale, il fatto che nella specie tale determinazione non sia intervenuta né risulta le parti abbiano chiesta (in verità non risulta neanche che si siano confrontate sulla scelta dell’esperto) impedisce che il giudice possa riconoscere la indennità; non impedisce però che il giudice possa verificare la sussistenza del presupposto per il riconoscimento dell’indennità, ossia il raggiungimento del limite di fatturato>>.

La violazione di norme fiscali comporta nullità civilistica (di trasferimento/licenza di marchio)? No, dice Trib. Milano (con un’applicazione della rivendica ex art. 118 c.1 cod. propr. ind.)

Trib. Milano dep. 16.06.2023 n° 5025/2023, RG 38556/2020, rel. Marangoni:

<<5.1 La questione relativa alla rilevanza di un intento elusivo di norme fiscali sulla validità dei contratti civilistici connessi è stabilmente pervenuta ad un principio di tendenziale non interferenza.
La giurisprudenza formatasi su tale questione – come ricostruita da Cass. SU 23601/17 – aveva rilevato come, in assenza di disposizioni che sancissero testualmente la nullità del negozio giuridico elusivo di una norma tributaria, non fosse nemmeno configurabile una nullità virtuale del contratto per frode alla
legge (art. 1344 c.c.) o per violazione di una norma imperativa (art. 1418, comma 1, c.c.). Ciò in quanto la norma fiscale non avrebbe carattere imperativo, tenuto conto della distinzione tra norme imperative e norme inderogabili, nonché del peculiare carattere settoriale dell’interesse sotteso. Le norme tributarie,
essendo poste a tutela di interessi pubblici di carattere settoriale e non ponendo, in linea di massima, divieti, pur essendo inderogabili, non possono qualificarsi imperative, presupponendo tale qualificazione che la norma abbia carattere proibitivo e sia posta a tutela di interessi generali che si collochino al vertice della gerarchia dei valori protetti dall’ordinamento giuridico.
Tale orientamento – ha rilevato ancora Cass. SU 23601/17 – è stato poi recepito dallo stesso legislatore tributario nell’art. 10, comma 3, I. 27 luglio 2000, n. 212 (cd. Statuto dei diritti del contribuente), a mente del quale “le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto” mentre il successivo art. 10 bis della stessa I. n. 212 del 2000 (articolo aggiunto legge dall’art. 1 del d.lgs. n. 128 del 5 agosto 2015, che ha abrogato e sostituito l’art. 37 bis del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600), stabilisce la mera inopponibilità all’amministrazione finanziaria dei fatti, degli atti e dei contratti che siano sprovvisti di “sostanza economica” e finalizzati, “pur nel
rispetto formale delle norme fiscali” a realizzare “essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”.
In assenza di specifica disposizione di legge – nella fattispecie non sussistente – deve dunque confermarsi che le pattuizioni contenute in un contratto che siano dirette ad eludere, in tutto o in parte, la normativa fiscale, non implicano di per sé la nullità del contratto stesso, trovando nel sistema tributario le relative sanzioni (v. Cass. SU 23601/17 cit., Cass. 4785/07, Cass. 17475/20)>>

Suul’art. 118/1 cpi:

<<7. Ritiene il Collegio che le valutazioni innanzi espresse quanto all’inesistenza di diritti sorti in capo a GIADA s.p.a. rispetto alla presunta utilizzazione autonoma dei marchi JACOB COHËN debbano essere estese anche ai segni di fatto rappresentati dal cd “Baffo” e dalle cifre “688”, “613” e “622”, segni che sono stati oggetto di domande di registrazione comunitaria e nazionale da parte della stessa GIADA s.p.a.
Quanto al segno “Baffo”, deve rilevarsi che parte attrice ha depositato documenti dai quali si evince che l’utilizzazione di tale segno era precedente all’inizio della licenza con GIADA s.p.a. (v. docc. da 23 a 26 attr.), mentre per i segni costituiti dalle menzionate cifre risultano depositate fatture So.Ge.Tex s.r.l. – prima licenziataria dei marchi JACOB COHËN – risalenti agli anni 2003/04 che presentavano codici identificativi dei prodotti aventi come cifra iniziale il numero “6” (doc. 88 attr., documenti allegati alla dichiarazione Paolo Soncin).
Ritiene il Collegio che la funzione di marchi accessori e secondari rispetto ai marchi registrati JACOB COHËN che detti segni di fatto per concorde indicazione delle parti hanno rivestito nel corso del lungo rapporto di licenza intercorso tra le parti consenta di ritenere che anche su di essi sia individuabile un uso continuativo e rilevante riconducibile alla titolare dei marchi principali registrati. In effetti GIADA s.p.a. non ha motivato la sua decisione di procedere al deposito formale delle domande di registrazioni di tali marchi se non come conseguenza della sua tesi relativa alla presunta interruzione della catena delle cessioni dei marchi registrati cui sarebbe conseguita la decadenza per non uso degli stessi, situazione che avrebbe consentito ad essa di acquisire in autonomia tutti i diritti su di essi (e quindi anche sui marchi accessori e secondari).
La fondatezza di tale tesi è stata negata e dunque a tale proposito non si può che ritenere che l’uso dei segni di fatto rappresentati dal cd “Baffo” e dalle cifre “688”, “613” e “622” abbiano seguito la stessa  sorte dei marchi registrati, in quanto pacificamente utilizzati sui prodotti oggetto di licenza, realizzati
ed approvati dalla licenziataria e rispetto ai quali tutti i diritti devono ritenersi ad essa spettanti (v. contratto 20.6.2006, in doc. 18 attr.: art. 3.3, in cui il Concessionario si era impegnato a non registrare qualsiasi altro marchio del Concedente o con esso confondibile; contratto di licenza 1.8.2013, in doc. 1
attr.: art. 6.3 che impedisce alla licenziataria la commercializzazione di prodotti che non siano stati approvati dalla licenziante, art. 9.2 che impedisce alla licenziataria di apporre sui prodotti marchi d iversi da quelli licenziati) in quanto utilizzati con il suo consenso.
7.1 Deve dunque riconoscersi la fondatezza del richiamo al primo comma dell’art. 118 c.p.i. svolta da parte attrice per ciò che concerne le domande nazionali di registrazione del segno “Baffo”, rispetto alle quali va affermato che l’uso precedente e continuo di tale segno di fatto – realizzato mediante l’attività
della licenziataria – è riconducibile alla JACOB COHEN COMPANY s.p.a. e che ciò consente di ritenere l’insorgenza in favore della stessa del diritto di procedere alla sua registrazione, diritto che appare violato dai depositi del medesimo segno eseguiti dalla ex-licenziataria>>.

Discriminazione algoritmica da parte del marketplace di Facebook e safe harbour ex § 230 CDA

Il prof. Eric Goldman segnala l’appello del 9 circuito 20.06.2023, No. 21-16499, Vargas ed altri c. Facebook , in un caso di allegata discriminazione nel proporre offerte commerciali sul suo marketplace –

La domanda: <<The operative complaint alleges that Facebook’s “targeting methods provide tools to exclude women of color, single parents, persons with disabilities and other protected attributes,” so that Plaintiffs were “prevented from having the same opportunity to view ads for housing” that Facebook users who are not in a protected class received>>.

Ebbene, il safe harbour non si applica perchè Facebook non è estraneo ma coautore della condotta illecita, in quanto cretore dell’algoritmo utilizzato nella pratica discriminatoria:

<<2. The district court also erred by holding that Facebook is immune from liability pursuant to 47 U.S.C. § 230(c)(1). “Immunity from liability exists for ‘(1) a provider or user of an interactive computer service (2) whom a plaintiff seeks to treat, under a [federal or] state law cause of action, as a publisher or speaker (3) of information provided by another information content provider.’” Dyroff v. Ultimate Software Grp., 934 F.3d 1093, 1097 (9th Cir. 2019) (quoting Barnes v. Yahoo!, Inc., 570 F.3d 1096, 1100 (9th Cir. 2009)). We agree with Plaintiffs that, taking the allegations in the complaint as true, Plaintiffs’ claims challenge Facebook’s conduct as a co-developer of content and not merely as a publisher of information provided by another information content provider.
Facebook created an Ad Platform that advertisers could use to target advertisements to categories of users. Facebook selected the categories, such as sex, number of children, and location. Facebook then determined which categories applied to each user. For example, Facebook knew that Plaintiff Vargas fell within the categories of single parent, disabled, female, and of Hispanic descent. For some attributes, such as age and gender, Facebook requires users to supply the information. For other attributes, Facebook applies its own algorithms to its vast store of data to determine which categories apply to a particular user.
The Ad Platform allowed advertisers to target specific audiences, both by including categories of persons and by excluding categories of persons, through the use of drop-down menus and toggle buttons. For example, an advertiser could choose to exclude women or persons with children, and an advertiser could draw a boundary around a geographic location and exclude persons falling within that location. Facebook permitted all paid advertisers, including housing advertisers, to use those tools. Housing advertisers allegedly used the tools to exclude protected categories of persons from seeing some advertisements.
As the website’s actions did in Fair Housing Council of San Fernando Valley v. Roommates.com, LLC, 521 F.3d 1157 (9th Cir. 2008) (en banc), Facebook’s own actions “contribute[d] materially to the alleged illegality of the conduct.” Id. at 1168. Facebook created the categories, used its own methodologies to assign users to the categories, and provided simple drop-down menus and toggle buttons to allow housing advertisers to exclude protected categories of persons. Facebook points to three primary aspects of this case that arguably differ from the facts in Roommates.com, but none affects our conclusion that Plaintiffs’ claims challenge Facebook’s own actions>>.

Ed ecco le tre eccezioni di Facebook e relative motivazioni di rigetto del giudice:

<<First, in Roommates.com, the website required users who created profiles to self-identify in several protected categories, such as sex and sexual orientation. Id. at 1161. The facts here are identical with respect to two protected categories because Facebook requires users to specify their gender and age. With respect to other categories, it is true that Facebook does not require users to select directly from a list of options, such as whether they have children. But Facebook uses its own algorithms to categorize the user. Whether by the user’s direct selection or by sophisticated inference, Facebook determines the user’s membership in a wide range of categories, and Facebook permits housing advertisers to exclude persons in those categories. We see little meaningful difference between this case and Roommates.com in this regard. Facebook was “much more than a passive transmitter of information provided by others; it [was] the developer, at least in part, of that information.” Id. at 1166. Indeed, Facebook is more of a developer than the website in Roommates.com in one respect because, even if a user did not intend to reveal a particular characteristic, Facebook’s algorithms nevertheless ascertained that information from the user’s online activities and allowed advertisers to target ads depending on the characteristic.
Second, Facebook emphasizes that its tools do not require an advertiser to discriminate with respect to a protected ground. An advertiser may opt to exclude only unprotected categories of persons or may opt not to exclude any categories of persons. This distinction is, at most, a weak one. The website in Roommates.com likewise did not require advertisers to discriminate, because users could select the option that corresponded to all persons of a particular category, such as “straight or gay.” See, e.g., id. at 1165 (“Subscribers who are seeking housing must make a selection from a drop-down menu, again provided by Roommate[s.com], to indicate whether they are willing to live with ‘Straight or gay’ males, only with ‘Straight’ males, only with ‘Gay’ males or with ‘No males.’”). The manner of discrimination offered by Facebook may be less direct in some respects, but as in Roommates.com, Facebook identified persons in protected categories and offered tools that directly and easily allowed advertisers to exclude all persons of a protected category (or several protected categories).
Finally, Facebook urges us to conclude that the tools at issue here are “neutral” because they are offered to all advertisers, not just housing advertisers, and the use of the tools in some contexts is legal. We agree that the broad availability of the tools distinguishes this case to some extent from the website in Roommates.com, which pertained solely to housing. But we are unpersuaded that the distinction leads to a different ultimate result here. According to the complaint, Facebook promotes the effectiveness of its advertising tools specifically to housing advertisers. “For example, Facebook promotes its Ad Platform with ‘success stories,’ including stories from a housing developer, a real estate agency, a mortgage lender, a real estate-focused marketing agency, and a search tool for rental housing.” A patently discriminatory tool offered specifically and knowingly to housing advertisers does not become “neutral” within the meaning of this doctrine simply because the tool is also offered to others>>.

L’ emoji thumbs up (pollice su) 👍 vale accettazione della proposta

la corte canadese del Saskatchewan, 8 giugno 2023, n° 2023 SKKB 116, SOUTH WEST TERMINAL LTD. v. ACHTER LAND & CATTLE LTD,   affronta il caso in oggetto (v. qui la pagina ministeriale ove il link e qui il linbk diretto al testio) .

Secondo la corte, in base alle circostranze il pollice su , di fronte alla richeristga del venditore di dare conferma della propostra (“Please confirm flax contract”) , non signicava solo attestazione di suo ricevimento ma anche sua accettazione.

<<[36] I am satisfied on the balance of probabilities that Chris okayed or approved the contract just like he had done before except this time he used a 👍 emoji. In my opinion, when considering all of the circumstances that meant approval of the flax contract and not simply that he had received the contract and was going to think about it. In my view a reasonable bystander knowing all of the background would come to the objective understanding that the parties had reached consensus ad item – a meeting of the minds – just like they had done on numerous other occasions>>.

e poi:

<[40] Counsel for Achter remonstrates that allowing a simple 👍 emoji to signify identity and acceptance would open up the flood gates to allow all sorts of cases coming forward asking for interpretations as to what various different emojis mean – for example what does a 👊 emoji mean or a 🤝 emoji mean, etc. Counsel argues the courts will be inundated with all kinds of cases if this court finds that the 👍 emoji can take the place of a signature. This appears to be a sort of public policy argument. I agree that this case is novel (at least in Saskatchewan) but nevertheless this Court cannot (nor should it) attempt to stem the tide of technology and common usage – this appears to be the new reality in Canadian society and courts will have to be ready to meet the new challenges that may arise from the use of emojis and the like.
[41] I acknowledge the defendant relies on Can-Am Farms Ltd. v Parkland Pulse Grain Co. Ltd., 2004 SKQB 58. However that case is distinguishable on the facts. In that case the grain buyer was waiting to hear back from a seller – nothing had been agreed upon and there was no consensus as idem. There was no contract signed. Justice Krueger held it was incumbent on the grain buyer to inquire with the seller subsequent to the parties’ telephone call to see what was going on. Here the 👍 emoji was Chris’s response to an offered flax contract. This is substantially different in my opinion.
[42] For the above reasons I find that the parties entered into a binding legal contract under the unique circumstances of this case. Therefore this issue does not require a trial>>.

Bisogna infatti distinguere bene le due questioni: – se un “pollice su” possa costituire accettazione nei contratti non formali: e la risposta è positiva (certo dipendendo dal contesto); – quale fosse l’oggetto della volontà adesiva espressa tramite pollice su : conferma di ricevimento della proposta oppure accettazione della stessa.

(notizia dal Guardian ove anche il link)

Di marchi numerici/alfabetici e di buona fede

Tre notazioni su Trib. Milano n. 6542/2021 del 27 luglio 2021, RG 32332/2016, rel. Fazzini E.:
1°)  <<. Il Collegio ritiene, comunque, che tale eccezione
sia anche infondata, atteso che essa si basa esclusivamente sul fatto che esso sarebbe formato da
semplici lettere dell’alfabeto, “senza alcuna caratteristica di fantasia”, dovendosi ritenere al riguardo
che i marchi numerici (o alfabetici) sono privi di tutela solo quando sono usati per esigenze di
comunicazione imprenditoriale, come per indicare la serie o il tipo di prodotto o la loro quantità, ma
non quando sono utilizzati, come nel caso di specie, in funzione distintiva, tenuto conto che l’art. 7
c.p.i. prevede espressamente che possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa
tutti i segni, in particolare, fra gli altri, le parole, compresi i nomi di persone, i disegni e le lettere. Si
ritiene, in particolare, che il marchio, rappresentato da lettere dell’alfabeto, non possa automaticamente
essere considerato nullo, o comunque debole, essendo, comunque, necessaria la prova contraria da
parte di chi ne contesti la validità come marchio, la quale, nel caso di specie, non è stata in alcun modo
fornita>>

2°)   <<Alla luce di tale motivazione, il Collegio ritiene, pertanto, tenuto conto della pluralità dei casi indicati
da parte attrice e non oggetto di specifica contestazione e del comportamento assunto dal Riva Faccio e
dalla società convenuta anche nelle more del giudizio, continuando a porre in essere atti in violazione
dell’accordo, che sia provata la reiterata violazione degli obblighi negoziali per la palese e insistita
inosservanza sia di quanto sancito specificatamente nel contratto, concluso tra le parti nel novembre
2012, sia del canone della buona fede nella sua esecuzione. Si ritiene, in particolare, alla luce del consolidato indirizzo interpretativo della Suprema Corte, che la buona fede nella esecuzione del
contratto si sostanzia in un generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in
modo tale da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali,
quanto dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo
limite precipuo unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto, pertanto, al compimento di tutti
gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte,
nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico (cfr. per tutte Cass. 4
maggio 2009, n. 10182). Si ritiene, pertanto, come già affermato anche da questo tribunale, che un
compromesso negoziale fondato anche su particolari piccoli impone alle parti di uniformare i propri
comportamenti a un livello molto elevato di correttezza, tale da evitare che anche in via indiretta si
possano generare o anche solo avallare fraintendimenti ed equivoci (cfr. tribunale di Milano, sentenza
6454/2016, pubblicata il 26.05.2016). La violazione continuata e duratura delle disposizioni
contrattuali, nonché del canone di lealtà costituisce inadempimento contrattuale di indubbia rilevanza e
oggettiva gravità, tale, quindi, da giustificare l’accoglimento della domanda di risoluzione. Trattandosi
di contratto a esecuzione continuata, in conformità della previsione di cui all’art. 1458 c.c., l’efficacia
della pronuncia retroagisce al momento della litispendenza, con conseguente cessazione degli effetti
dei contratti alla data della notificazione dell’atto di citazione introduttivo del presente giudizio,
effettuata in data 20.05.2016 (cfr. Cass. 20894/2014)>>.

3°)  danno da royalties ipotetiche: 15% del fatturato (ammontare assai diffuso)

Confermato l’obbligo di inserire la formula per il c.d. mark to market nei contratti derivati

App. Milano 1629/2023 del 19 maggio 2023, RG 19.05.2023, rel. Ferrari, cofnerma Cass. sez. un. 8779/2020 (su cui v. mio post), la quale chiede l’elemento conteutistico di cuinel titolo in oggetto per la determinabilità dell’oggetto:

<<va indicata la formula matematica per la determinazione del mark to market. In tale
contratto, a prescindere da quale sia la causa in concreto (se, cioè, sia una causa di
copertura dal rischio di rialzo dei tassi di interesse ovvero una causa speculativa),
devono necessariamente essere resi espliciti i cd. “scenari probabilistici”, necessari
perché le parti possano conoscere non solo il valore del mark to market, ma anche la
“misura dell’alea, calcolata secondo criteri scientificamente riconosciuti e oggettivamente condivisi”.
L’assenza di tali parametri, da ritenersi essenziali, determina la nullità dell’intero
contratto di interest rate swap, vuoi perché l’oggetto del contratto risulterebbe
indeterminato e indeterminabile, vuoi perché la causa, da ritenersi atipica, risulterebbe
immeritevole di tutela o, ancora, vuoi perché non risulterebbe raggiunto l’accordo tra
le parti su un aspetto essenziale del contratto. Nella fattispecie in esame, è pacifico
che nel contratto concluso tra le parti (operazione in derivati denominata Interest Rate
swap liability) non sia esplicitato alcun dato che possa ricondursi alla nozione di
“scenario probabilistico”; pertanto il contratto in questione deve ritenersi nullo, con
conseguente obbligo di restituzione delle somme versate. Né rivestono rilevanza ai
fini del decidere le prove orali offerte dall’appellante: i capitoli di prova orale sono
superflui, in quanto tendenti a confermare il contenuto dei documenti versati in atti>>.

Nullità ed annullamento di delibera societaria tra rilevabilità di ufficio da parte del giudice e potere dispositivo della parte

Cass. sez. I del 18.04.2023 n. 10.233, rel. Dongiacomo:

<<4.11. Vanno, dunque, affermati i seguenti principi:

– il giudice, se investito dell’azione di nullità di una delibera assembleare, ha sempre il potere (e il dovere), in ragione della natura autodeterminata del diritto cui tale domanda accede, di rilevare e di dichiarare in via ufficiosa, e anche in appello, la nullità della stessa per un vizio diverso da quello denunciato;

– se, invece, la domanda ha per oggetto l’esecuzione o l’annullamento della delibera, la rilevabilità d’ufficio della nullità di quest’ultima da parte del giudice nel corso del processo e fino alla precisazione delle conclusioni dev’essere coordinata con il principio della domanda per cui il giudice, da una parte, può sempre rilevare la nullità della delibera, anche in appello, trattandosi di eccezione in senso lato, in funzione del rigetto della domanda ma, dall’altra parte, non può dichiarare la nullità della delibera impugnata ove manchi una domanda in tal senso ritualmente proposta, anche nel corso del giudizio che faccia seguito della rilevazione del giudice, dalla parte interessata;

– nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, tale potere (e dovere) di rilevazione non può essere esercitato dal giudice oltre il termine di decadenza, la cui decorrenza è rilevabile d’ufficio e può essere impedita solo dalla formale rilevazione del vizio di nullità ad opera del giudice o della parte, pari a tre anni dall’iscrizione o dal deposito della delibera stessa nel registro delle imprese ovvero dalla sua trascrizione nel libro delle adunanze dell’assemblea>>.

Si noti poi la negazione della contrattualità (parrebbe, anche se solo in relazione al processo) dei rapporti societari:

<<4.5. In effetti, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, il principio per cui il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità contrattuale deve rilevare in via ufficiosa, ove emergente dagli atti, l’esistenza di un diverso vizio di nullità, è suscettibile di applicazione estensiva anche nel sottosistema societario, e, precisamente, nell’ambito delle azioni di impugnazione delle deliberazioni assembleari, benché non assimilabili ai contratti, trattandosi, tanto nell’uno, quanto nell’altro caso, di domanda pertinente ad un diritto autodeterminato (cfr., sul primo punto, Cass. SU n. 26242 del 2014, in motiv., punti 6.13.3. e ss. e, in particolare, 6.13.6., lì dove di evidenzia che “il giudizio di nullità/non nullità del negozio… sarà, così, definit(iv)o e a tutto campo indipendentemente da quali e quanti titoli di nullità siano stati fatti valere dall’attore”, e, sul secondo punto, Cass. n. 8795 del 2016), e cioè individuata a prescindere dallo specifico vizio (rectius, titolo) dedotto in giudizio: come, in effetti, accade per la proprietà e gli altri diritti reali di godimento, individuati, appunto, sulla base della sola indicazione del relativo contenuto, con la conseguenza che, per un verso, la causa petendi delle relative azioni giudiziarie si identifica con i diritti stessi e non con il relativo titolo (contratto, successione ereditaria, usucapione, ecc.) che ne costituisce la fonte, la cui eventuale deduzione non ha, per l’effetto, alcuna funzione di specificazione della domanda, e, per altro verso, non viola il divieto dello ius novorum in appello la deduzione da parte dell’attore ovvero il rilievo ex officio iudicis di un fatto costitutivo del tutto diverso da quello prospettato in primo grado a sostegno della domanda introduttiva del giudizio (Cass. n. 23565 del 2019)>>.

Il punto andava spiegato un poco, dato che in linea di principio il rapporto di società è pienamente contrattuale: anche se l’esito non sarebbe cambiato, valorizzando i giudici il comune profilo dell’autodeterminazione.