La violazione di norme fiscali comporta nullità civilistica (di trasferimento/licenza di marchio)? No, dice Trib. Milano (con un’applicazione della rivendica ex art. 118 c.1 cod. propr. ind.)

Trib. Milano dep. 16.06.2023 n° 5025/2023, RG 38556/2020, rel. Marangoni:

<<5.1 La questione relativa alla rilevanza di un intento elusivo di norme fiscali sulla validità dei contratti civilistici connessi è stabilmente pervenuta ad un principio di tendenziale non interferenza.
La giurisprudenza formatasi su tale questione – come ricostruita da Cass. SU 23601/17 – aveva rilevato come, in assenza di disposizioni che sancissero testualmente la nullità del negozio giuridico elusivo di una norma tributaria, non fosse nemmeno configurabile una nullità virtuale del contratto per frode alla
legge (art. 1344 c.c.) o per violazione di una norma imperativa (art. 1418, comma 1, c.c.). Ciò in quanto la norma fiscale non avrebbe carattere imperativo, tenuto conto della distinzione tra norme imperative e norme inderogabili, nonché del peculiare carattere settoriale dell’interesse sotteso. Le norme tributarie,
essendo poste a tutela di interessi pubblici di carattere settoriale e non ponendo, in linea di massima, divieti, pur essendo inderogabili, non possono qualificarsi imperative, presupponendo tale qualificazione che la norma abbia carattere proibitivo e sia posta a tutela di interessi generali che si collochino al vertice della gerarchia dei valori protetti dall’ordinamento giuridico.
Tale orientamento – ha rilevato ancora Cass. SU 23601/17 – è stato poi recepito dallo stesso legislatore tributario nell’art. 10, comma 3, I. 27 luglio 2000, n. 212 (cd. Statuto dei diritti del contribuente), a mente del quale “le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto” mentre il successivo art. 10 bis della stessa I. n. 212 del 2000 (articolo aggiunto legge dall’art. 1 del d.lgs. n. 128 del 5 agosto 2015, che ha abrogato e sostituito l’art. 37 bis del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600), stabilisce la mera inopponibilità all’amministrazione finanziaria dei fatti, degli atti e dei contratti che siano sprovvisti di “sostanza economica” e finalizzati, “pur nel
rispetto formale delle norme fiscali” a realizzare “essenzialmente vantaggi fiscali indebiti”.
In assenza di specifica disposizione di legge – nella fattispecie non sussistente – deve dunque confermarsi che le pattuizioni contenute in un contratto che siano dirette ad eludere, in tutto o in parte, la normativa fiscale, non implicano di per sé la nullità del contratto stesso, trovando nel sistema tributario le relative sanzioni (v. Cass. SU 23601/17 cit., Cass. 4785/07, Cass. 17475/20)>>

Suul’art. 118/1 cpi:

<<7. Ritiene il Collegio che le valutazioni innanzi espresse quanto all’inesistenza di diritti sorti in capo a GIADA s.p.a. rispetto alla presunta utilizzazione autonoma dei marchi JACOB COHËN debbano essere estese anche ai segni di fatto rappresentati dal cd “Baffo” e dalle cifre “688”, “613” e “622”, segni che sono stati oggetto di domande di registrazione comunitaria e nazionale da parte della stessa GIADA s.p.a.
Quanto al segno “Baffo”, deve rilevarsi che parte attrice ha depositato documenti dai quali si evince che l’utilizzazione di tale segno era precedente all’inizio della licenza con GIADA s.p.a. (v. docc. da 23 a 26 attr.), mentre per i segni costituiti dalle menzionate cifre risultano depositate fatture So.Ge.Tex s.r.l. – prima licenziataria dei marchi JACOB COHËN – risalenti agli anni 2003/04 che presentavano codici identificativi dei prodotti aventi come cifra iniziale il numero “6” (doc. 88 attr., documenti allegati alla dichiarazione Paolo Soncin).
Ritiene il Collegio che la funzione di marchi accessori e secondari rispetto ai marchi registrati JACOB COHËN che detti segni di fatto per concorde indicazione delle parti hanno rivestito nel corso del lungo rapporto di licenza intercorso tra le parti consenta di ritenere che anche su di essi sia individuabile un uso continuativo e rilevante riconducibile alla titolare dei marchi principali registrati. In effetti GIADA s.p.a. non ha motivato la sua decisione di procedere al deposito formale delle domande di registrazioni di tali marchi se non come conseguenza della sua tesi relativa alla presunta interruzione della catena delle cessioni dei marchi registrati cui sarebbe conseguita la decadenza per non uso degli stessi, situazione che avrebbe consentito ad essa di acquisire in autonomia tutti i diritti su di essi (e quindi anche sui marchi accessori e secondari).
La fondatezza di tale tesi è stata negata e dunque a tale proposito non si può che ritenere che l’uso dei segni di fatto rappresentati dal cd “Baffo” e dalle cifre “688”, “613” e “622” abbiano seguito la stessa  sorte dei marchi registrati, in quanto pacificamente utilizzati sui prodotti oggetto di licenza, realizzati
ed approvati dalla licenziataria e rispetto ai quali tutti i diritti devono ritenersi ad essa spettanti (v. contratto 20.6.2006, in doc. 18 attr.: art. 3.3, in cui il Concessionario si era impegnato a non registrare qualsiasi altro marchio del Concedente o con esso confondibile; contratto di licenza 1.8.2013, in doc. 1
attr.: art. 6.3 che impedisce alla licenziataria la commercializzazione di prodotti che non siano stati approvati dalla licenziante, art. 9.2 che impedisce alla licenziataria di apporre sui prodotti marchi d iversi da quelli licenziati) in quanto utilizzati con il suo consenso.
7.1 Deve dunque riconoscersi la fondatezza del richiamo al primo comma dell’art. 118 c.p.i. svolta da parte attrice per ciò che concerne le domande nazionali di registrazione del segno “Baffo”, rispetto alle quali va affermato che l’uso precedente e continuo di tale segno di fatto – realizzato mediante l’attività
della licenziataria – è riconducibile alla JACOB COHEN COMPANY s.p.a. e che ciò consente di ritenere l’insorgenza in favore della stessa del diritto di procedere alla sua registrazione, diritto che appare violato dai depositi del medesimo segno eseguiti dalla ex-licenziataria>>.

Discriminazione algoritmica da parte del marketplace di Facebook e safe harbour ex § 230 CDA

Il prof. Eric Goldman segnala l’appello del 9 circuito 20.06.2023, No. 21-16499, Vargas ed altri c. Facebook , in un caso di allegata discriminazione nel proporre offerte commerciali sul suo marketplace –

La domanda: <<The operative complaint alleges that Facebook’s “targeting methods provide tools to exclude women of color, single parents, persons with disabilities and other protected attributes,” so that Plaintiffs were “prevented from having the same opportunity to view ads for housing” that Facebook users who are not in a protected class received>>.

Ebbene, il safe harbour non si applica perchè Facebook non è estraneo ma coautore della condotta illecita, in quanto cretore dell’algoritmo utilizzato nella pratica discriminatoria:

<<2. The district court also erred by holding that Facebook is immune from liability pursuant to 47 U.S.C. § 230(c)(1). “Immunity from liability exists for ‘(1) a provider or user of an interactive computer service (2) whom a plaintiff seeks to treat, under a [federal or] state law cause of action, as a publisher or speaker (3) of information provided by another information content provider.’” Dyroff v. Ultimate Software Grp., 934 F.3d 1093, 1097 (9th Cir. 2019) (quoting Barnes v. Yahoo!, Inc., 570 F.3d 1096, 1100 (9th Cir. 2009)). We agree with Plaintiffs that, taking the allegations in the complaint as true, Plaintiffs’ claims challenge Facebook’s conduct as a co-developer of content and not merely as a publisher of information provided by another information content provider.
Facebook created an Ad Platform that advertisers could use to target advertisements to categories of users. Facebook selected the categories, such as sex, number of children, and location. Facebook then determined which categories applied to each user. For example, Facebook knew that Plaintiff Vargas fell within the categories of single parent, disabled, female, and of Hispanic descent. For some attributes, such as age and gender, Facebook requires users to supply the information. For other attributes, Facebook applies its own algorithms to its vast store of data to determine which categories apply to a particular user.
The Ad Platform allowed advertisers to target specific audiences, both by including categories of persons and by excluding categories of persons, through the use of drop-down menus and toggle buttons. For example, an advertiser could choose to exclude women or persons with children, and an advertiser could draw a boundary around a geographic location and exclude persons falling within that location. Facebook permitted all paid advertisers, including housing advertisers, to use those tools. Housing advertisers allegedly used the tools to exclude protected categories of persons from seeing some advertisements.
As the website’s actions did in Fair Housing Council of San Fernando Valley v. Roommates.com, LLC, 521 F.3d 1157 (9th Cir. 2008) (en banc), Facebook’s own actions “contribute[d] materially to the alleged illegality of the conduct.” Id. at 1168. Facebook created the categories, used its own methodologies to assign users to the categories, and provided simple drop-down menus and toggle buttons to allow housing advertisers to exclude protected categories of persons. Facebook points to three primary aspects of this case that arguably differ from the facts in Roommates.com, but none affects our conclusion that Plaintiffs’ claims challenge Facebook’s own actions>>.

Ed ecco le tre eccezioni di Facebook e relative motivazioni di rigetto del giudice:

<<First, in Roommates.com, the website required users who created profiles to self-identify in several protected categories, such as sex and sexual orientation. Id. at 1161. The facts here are identical with respect to two protected categories because Facebook requires users to specify their gender and age. With respect to other categories, it is true that Facebook does not require users to select directly from a list of options, such as whether they have children. But Facebook uses its own algorithms to categorize the user. Whether by the user’s direct selection or by sophisticated inference, Facebook determines the user’s membership in a wide range of categories, and Facebook permits housing advertisers to exclude persons in those categories. We see little meaningful difference between this case and Roommates.com in this regard. Facebook was “much more than a passive transmitter of information provided by others; it [was] the developer, at least in part, of that information.” Id. at 1166. Indeed, Facebook is more of a developer than the website in Roommates.com in one respect because, even if a user did not intend to reveal a particular characteristic, Facebook’s algorithms nevertheless ascertained that information from the user’s online activities and allowed advertisers to target ads depending on the characteristic.
Second, Facebook emphasizes that its tools do not require an advertiser to discriminate with respect to a protected ground. An advertiser may opt to exclude only unprotected categories of persons or may opt not to exclude any categories of persons. This distinction is, at most, a weak one. The website in Roommates.com likewise did not require advertisers to discriminate, because users could select the option that corresponded to all persons of a particular category, such as “straight or gay.” See, e.g., id. at 1165 (“Subscribers who are seeking housing must make a selection from a drop-down menu, again provided by Roommate[s.com], to indicate whether they are willing to live with ‘Straight or gay’ males, only with ‘Straight’ males, only with ‘Gay’ males or with ‘No males.’”). The manner of discrimination offered by Facebook may be less direct in some respects, but as in Roommates.com, Facebook identified persons in protected categories and offered tools that directly and easily allowed advertisers to exclude all persons of a protected category (or several protected categories).
Finally, Facebook urges us to conclude that the tools at issue here are “neutral” because they are offered to all advertisers, not just housing advertisers, and the use of the tools in some contexts is legal. We agree that the broad availability of the tools distinguishes this case to some extent from the website in Roommates.com, which pertained solely to housing. But we are unpersuaded that the distinction leads to a different ultimate result here. According to the complaint, Facebook promotes the effectiveness of its advertising tools specifically to housing advertisers. “For example, Facebook promotes its Ad Platform with ‘success stories,’ including stories from a housing developer, a real estate agency, a mortgage lender, a real estate-focused marketing agency, and a search tool for rental housing.” A patently discriminatory tool offered specifically and knowingly to housing advertisers does not become “neutral” within the meaning of this doctrine simply because the tool is also offered to others>>.

L’ emoji thumbs up (pollice su) 👍 vale accettazione della proposta

la corte canadese del Saskatchewan, 8 giugno 2023, n° 2023 SKKB 116, SOUTH WEST TERMINAL LTD. v. ACHTER LAND & CATTLE LTD,   affronta il caso in oggetto (v. qui la pagina ministeriale ove il link e qui il linbk diretto al testio) .

Secondo la corte, in base alle circostranze il pollice su , di fronte alla richeristga del venditore di dare conferma della propostra (“Please confirm flax contract”) , non signicava solo attestazione di suo ricevimento ma anche sua accettazione.

<<[36] I am satisfied on the balance of probabilities that Chris okayed or approved the contract just like he had done before except this time he used a 👍 emoji. In my opinion, when considering all of the circumstances that meant approval of the flax contract and not simply that he had received the contract and was going to think about it. In my view a reasonable bystander knowing all of the background would come to the objective understanding that the parties had reached consensus ad item – a meeting of the minds – just like they had done on numerous other occasions>>.

e poi:

<[40] Counsel for Achter remonstrates that allowing a simple 👍 emoji to signify identity and acceptance would open up the flood gates to allow all sorts of cases coming forward asking for interpretations as to what various different emojis mean – for example what does a 👊 emoji mean or a 🤝 emoji mean, etc. Counsel argues the courts will be inundated with all kinds of cases if this court finds that the 👍 emoji can take the place of a signature. This appears to be a sort of public policy argument. I agree that this case is novel (at least in Saskatchewan) but nevertheless this Court cannot (nor should it) attempt to stem the tide of technology and common usage – this appears to be the new reality in Canadian society and courts will have to be ready to meet the new challenges that may arise from the use of emojis and the like.
[41] I acknowledge the defendant relies on Can-Am Farms Ltd. v Parkland Pulse Grain Co. Ltd., 2004 SKQB 58. However that case is distinguishable on the facts. In that case the grain buyer was waiting to hear back from a seller – nothing had been agreed upon and there was no consensus as idem. There was no contract signed. Justice Krueger held it was incumbent on the grain buyer to inquire with the seller subsequent to the parties’ telephone call to see what was going on. Here the 👍 emoji was Chris’s response to an offered flax contract. This is substantially different in my opinion.
[42] For the above reasons I find that the parties entered into a binding legal contract under the unique circumstances of this case. Therefore this issue does not require a trial>>.

Bisogna infatti distinguere bene le due questioni: – se un “pollice su” possa costituire accettazione nei contratti non formali: e la risposta è positiva (certo dipendendo dal contesto); – quale fosse l’oggetto della volontà adesiva espressa tramite pollice su : conferma di ricevimento della proposta oppure accettazione della stessa.

(notizia dal Guardian ove anche il link)

Di marchi numerici/alfabetici e di buona fede

Tre notazioni su Trib. Milano n. 6542/2021 del 27 luglio 2021, RG 32332/2016, rel. Fazzini E.:
1°)  <<. Il Collegio ritiene, comunque, che tale eccezione
sia anche infondata, atteso che essa si basa esclusivamente sul fatto che esso sarebbe formato da
semplici lettere dell’alfabeto, “senza alcuna caratteristica di fantasia”, dovendosi ritenere al riguardo
che i marchi numerici (o alfabetici) sono privi di tutela solo quando sono usati per esigenze di
comunicazione imprenditoriale, come per indicare la serie o il tipo di prodotto o la loro quantità, ma
non quando sono utilizzati, come nel caso di specie, in funzione distintiva, tenuto conto che l’art. 7
c.p.i. prevede espressamente che possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa
tutti i segni, in particolare, fra gli altri, le parole, compresi i nomi di persone, i disegni e le lettere. Si
ritiene, in particolare, che il marchio, rappresentato da lettere dell’alfabeto, non possa automaticamente
essere considerato nullo, o comunque debole, essendo, comunque, necessaria la prova contraria da
parte di chi ne contesti la validità come marchio, la quale, nel caso di specie, non è stata in alcun modo
fornita>>

2°)   <<Alla luce di tale motivazione, il Collegio ritiene, pertanto, tenuto conto della pluralità dei casi indicati
da parte attrice e non oggetto di specifica contestazione e del comportamento assunto dal Riva Faccio e
dalla società convenuta anche nelle more del giudizio, continuando a porre in essere atti in violazione
dell’accordo, che sia provata la reiterata violazione degli obblighi negoziali per la palese e insistita
inosservanza sia di quanto sancito specificatamente nel contratto, concluso tra le parti nel novembre
2012, sia del canone della buona fede nella sua esecuzione. Si ritiene, in particolare, alla luce del consolidato indirizzo interpretativo della Suprema Corte, che la buona fede nella esecuzione del
contratto si sostanzia in un generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in
modo tale da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali,
quanto dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo
limite precipuo unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto, pertanto, al compimento di tutti
gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte,
nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico (cfr. per tutte Cass. 4
maggio 2009, n. 10182). Si ritiene, pertanto, come già affermato anche da questo tribunale, che un
compromesso negoziale fondato anche su particolari piccoli impone alle parti di uniformare i propri
comportamenti a un livello molto elevato di correttezza, tale da evitare che anche in via indiretta si
possano generare o anche solo avallare fraintendimenti ed equivoci (cfr. tribunale di Milano, sentenza
6454/2016, pubblicata il 26.05.2016). La violazione continuata e duratura delle disposizioni
contrattuali, nonché del canone di lealtà costituisce inadempimento contrattuale di indubbia rilevanza e
oggettiva gravità, tale, quindi, da giustificare l’accoglimento della domanda di risoluzione. Trattandosi
di contratto a esecuzione continuata, in conformità della previsione di cui all’art. 1458 c.c., l’efficacia
della pronuncia retroagisce al momento della litispendenza, con conseguente cessazione degli effetti
dei contratti alla data della notificazione dell’atto di citazione introduttivo del presente giudizio,
effettuata in data 20.05.2016 (cfr. Cass. 20894/2014)>>.

3°)  danno da royalties ipotetiche: 15% del fatturato (ammontare assai diffuso)

Confermato l’obbligo di inserire la formula per il c.d. mark to market nei contratti derivati

App. Milano 1629/2023 del 19 maggio 2023, RG 19.05.2023, rel. Ferrari, cofnerma Cass. sez. un. 8779/2020 (su cui v. mio post), la quale chiede l’elemento conteutistico di cuinel titolo in oggetto per la determinabilità dell’oggetto:

<<va indicata la formula matematica per la determinazione del mark to market. In tale
contratto, a prescindere da quale sia la causa in concreto (se, cioè, sia una causa di
copertura dal rischio di rialzo dei tassi di interesse ovvero una causa speculativa),
devono necessariamente essere resi espliciti i cd. “scenari probabilistici”, necessari
perché le parti possano conoscere non solo il valore del mark to market, ma anche la
“misura dell’alea, calcolata secondo criteri scientificamente riconosciuti e oggettivamente condivisi”.
L’assenza di tali parametri, da ritenersi essenziali, determina la nullità dell’intero
contratto di interest rate swap, vuoi perché l’oggetto del contratto risulterebbe
indeterminato e indeterminabile, vuoi perché la causa, da ritenersi atipica, risulterebbe
immeritevole di tutela o, ancora, vuoi perché non risulterebbe raggiunto l’accordo tra
le parti su un aspetto essenziale del contratto. Nella fattispecie in esame, è pacifico
che nel contratto concluso tra le parti (operazione in derivati denominata Interest Rate
swap liability) non sia esplicitato alcun dato che possa ricondursi alla nozione di
“scenario probabilistico”; pertanto il contratto in questione deve ritenersi nullo, con
conseguente obbligo di restituzione delle somme versate. Né rivestono rilevanza ai
fini del decidere le prove orali offerte dall’appellante: i capitoli di prova orale sono
superflui, in quanto tendenti a confermare il contenuto dei documenti versati in atti>>.

Nullità ed annullamento di delibera societaria tra rilevabilità di ufficio da parte del giudice e potere dispositivo della parte

Cass. sez. I del 18.04.2023 n. 10.233, rel. Dongiacomo:

<<4.11. Vanno, dunque, affermati i seguenti principi:

– il giudice, se investito dell’azione di nullità di una delibera assembleare, ha sempre il potere (e il dovere), in ragione della natura autodeterminata del diritto cui tale domanda accede, di rilevare e di dichiarare in via ufficiosa, e anche in appello, la nullità della stessa per un vizio diverso da quello denunciato;

– se, invece, la domanda ha per oggetto l’esecuzione o l’annullamento della delibera, la rilevabilità d’ufficio della nullità di quest’ultima da parte del giudice nel corso del processo e fino alla precisazione delle conclusioni dev’essere coordinata con il principio della domanda per cui il giudice, da una parte, può sempre rilevare la nullità della delibera, anche in appello, trattandosi di eccezione in senso lato, in funzione del rigetto della domanda ma, dall’altra parte, non può dichiarare la nullità della delibera impugnata ove manchi una domanda in tal senso ritualmente proposta, anche nel corso del giudizio che faccia seguito della rilevazione del giudice, dalla parte interessata;

– nell’uno e nell’altro caso, tuttavia, tale potere (e dovere) di rilevazione non può essere esercitato dal giudice oltre il termine di decadenza, la cui decorrenza è rilevabile d’ufficio e può essere impedita solo dalla formale rilevazione del vizio di nullità ad opera del giudice o della parte, pari a tre anni dall’iscrizione o dal deposito della delibera stessa nel registro delle imprese ovvero dalla sua trascrizione nel libro delle adunanze dell’assemblea>>.

Si noti poi la negazione della contrattualità (parrebbe, anche se solo in relazione al processo) dei rapporti societari:

<<4.5. In effetti, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, il principio per cui il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità contrattuale deve rilevare in via ufficiosa, ove emergente dagli atti, l’esistenza di un diverso vizio di nullità, è suscettibile di applicazione estensiva anche nel sottosistema societario, e, precisamente, nell’ambito delle azioni di impugnazione delle deliberazioni assembleari, benché non assimilabili ai contratti, trattandosi, tanto nell’uno, quanto nell’altro caso, di domanda pertinente ad un diritto autodeterminato (cfr., sul primo punto, Cass. SU n. 26242 del 2014, in motiv., punti 6.13.3. e ss. e, in particolare, 6.13.6., lì dove di evidenzia che “il giudizio di nullità/non nullità del negozio… sarà, così, definit(iv)o e a tutto campo indipendentemente da quali e quanti titoli di nullità siano stati fatti valere dall’attore”, e, sul secondo punto, Cass. n. 8795 del 2016), e cioè individuata a prescindere dallo specifico vizio (rectius, titolo) dedotto in giudizio: come, in effetti, accade per la proprietà e gli altri diritti reali di godimento, individuati, appunto, sulla base della sola indicazione del relativo contenuto, con la conseguenza che, per un verso, la causa petendi delle relative azioni giudiziarie si identifica con i diritti stessi e non con il relativo titolo (contratto, successione ereditaria, usucapione, ecc.) che ne costituisce la fonte, la cui eventuale deduzione non ha, per l’effetto, alcuna funzione di specificazione della domanda, e, per altro verso, non viola il divieto dello ius novorum in appello la deduzione da parte dell’attore ovvero il rilievo ex officio iudicis di un fatto costitutivo del tutto diverso da quello prospettato in primo grado a sostegno della domanda introduttiva del giudizio (Cass. n. 23565 del 2019)>>.

Il punto andava spiegato un poco, dato che in linea di principio il rapporto di società è pienamente contrattuale: anche se l’esito non sarebbe cambiato, valorizzando i giudici il comune profilo dell’autodeterminazione.

Nullità parziale e dovere del giudice di indicare la norma sostitutiva della clausola invalida

Cass. n° 9616 dell’ 11.04.2023, rel. Graziosi:

<< 5.1.3 È evidente la discrasia che così emerge. La clausola viene dichiarata
nulla, ma il contratto “rimane in piedi”: si dovrebbe pertanto ritenere che la
corte territoriale abbia applicato l’articolo 1419, secondo comma, c.c., per cui il
contratto si salva qualora contenga clausole nulle ma queste siano “sostituite
di diritto da norme imperative”. Quali norme imperative siano state applicate
dalla corte territoriale non è evincibile dalla sua, a questo punto palesemente
incompleta, motivazione e/o valutazione con essa illustrata. L’articolo 1419,
secondo comma, c.c. si riferisce infatti, ictu ocu/i, a norme che regolino
imperativamente il contenuto negoziale, giacché esso presidia i limiti così
inferiti dall’ordinamento al loro opposto, id est all’autonomia negoziale:
l’imperio (democraticamente legittimo) del legislatore prevale quindi sul potere
dispositivo sostanziale cioè sulla libertà negoziale delle parti, per tutelare valori
superiori – il che sovente significa tutelare una parte debole, la cui potenziale
inferiorità condiziona appunto il sinallagma -. Radicalmente diversa è invece
una norma relativa alla prescrizione, non alla costituzione dei diritti; e non a
caso la corte territoriale si è astenuta dal menzionarla.
Il giudice d’appello, dunque, più che incorrere in un vizio motivazionale (a
prescindere dal fatto che si sta vagliando anche il quarto motivo, il primo
motivo proposto ben può essere riqualificato: sulla non vincolatività per il
giudicante della configurazione formale offerta dalla rubrica del motivo se
questo è tuttavia riconducibile nel paradigma dell’articolo 360 c.p.c. è noto
l’insegnamento di S.U. 24 luglio 2013 n. 17931, seguito, tra gli arresti
massimati, da Cass. sez. 3, 29 agosto 2013 n. 19882, Cass. sez. 1, 31 ottobre
2013 n. 24553, Cass. sez. 6-3, ord. 20 febbraio 2014 n. 4036, Cass. sez. L, 17
dicembre 2015 n. 25386, Cass. sez. 2, 29 novembre 2016 n. 24247, Cass. sez.
5, ord. 6 ottobre 2017 n. 23381, Cass. sez. 6-5, ord. 27 ottobre 2017 n.
25557, Cass. sez. 2, ord. 7 maggio 2018 n. 10862, Cass. sez. 5, ord. 23
maggio 2018 n. 12690 e Cass. sez. 6-5, ord. 19 giugno 2018 n. 16170), ha
violato – e il primo motivo in realtà denuncia, come appunto il quarto il cui
vaglio è stato perciò congiunto, tale violazione in forza dell’articolo 360, primo
comma, n.3 c.p.c. in tal senso dovendo essere riqualificato – la norma che 5
regola la nullità parziale, consentendo di sostituire ex lege l’illegittima volontà
delle parti, con effetto conservativo del resto.
La corte territoriale, invero, non ha rispettato l’articolo 1419, secondo comma,
c.c., in quanto ha omesso di identificare la norma imperativa con cui supplire la
clausola concreta di claims made presente nella polizza, come pretende
appunto tale norma>>.

pertanto la corte di rinvio << dovrà procedere alla relativa individuazione e, nel caso in cui non rinvenga la “norma protesi” che il capoverso dell’articolo 1419 c.c. esige, trarne la nullità del contratto>>.

Il diritto degli eredi del beneficiario di assicurazione sulla vita

Cass. sez. III del 27.04.2023 n. 11.101 , rel. Sestini, interviene sul tema  riportando i passi di Cass. sez. un. 11421/2021 (su cui v. mio post) :

<< “la designazione generica degli “eredi” come beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita, in una delle forme previste dal comma 2 dell’art. 1920 c.c., comporta l’acquisto di un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione da parte di coloro che, al momento della morte del contraente, rivestano tale qualità in forza del titolo della astratta delazione indicata all’assicuratore per individuare i creditori della prestazione;

la designazione generica degli “eredi” come beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita, in difetto di una inequivoca volontà del contraente in senso diverso, non comporta la ripartizione dell’indennizzo tra gli aventi diritto secondo le proporzioni della successione ereditaria, spettando a ciascuno dei creditori, in forza della eadem causa obligandi, una quota uguale dell’indennizzo assicurativo;

allorché uno dei beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita premuore al contraente, la prestazione, se il beneficio non sia stato revocato o il contraente non abbia disposto diversamente, deve essere eseguita a favore degli eredi del premorto in proporzione della quota che sarebbe spettata a quest’ultimo”;

le Sezioni Unite sono intervenute con riferimento ad un’ipotesi in cui l’assicuratore aveva ripartito l’indennizzo, in parti eguali, fra i cinque eredi dell’assicurato, ossia il fratello e i quattro nipoti (figli di una sorella già deceduta all’epoca in cui era stata stipulata la polizza assicurativa); nel caso, i giudici di merito avevano ritenuto che al fratello dell’assicurato spettasse la metà della somma assicurata e avevano pertanto condannato l’assicuratore a versare all’attore la differenza fra quanto già erogato e la metà dovutagli; la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dell’assicuratore affermando -come detto- che, nel caso in cui uno dei beneficiari di un contratto di assicurazione sulla vita premuoia al contraente, la prestazione da eseguire a favore degli eredi del premorto va commisurata alla quota che sarebbe spettata a quest’ultimo;>>.

Per poi così osservare:

<<più precisamente, le Sezioni Unite hanno osservato che “l’attribuzione del diritto iure proprio al beneficiario per effetto della designazione giustifica (…) l’applicabilità all’assicurazione sulla vita per il caso morte del comma 2 dell’art. 1412 c.c.”; “in tal caso, l’acquisto del diritto alla prestazione assicurativa in favore degli eredi del beneficiario premorto rispetto allo stipulante opera, peraltro, iure hereditatis, e non iure proprio, e quindi in proporzione delle rispettive quote ereditarie, trattandosi di successione nel diritto contrattuale all’indennizzo entrato a far parte del patrimonio del designato prima della sua morte, nella medesima misura che sarebbe spettata al beneficiario premorto, secondo la logica degli acquisti a titolo derivativo”; “dunque, con la regola che implica l’identificazione degli “eredi” designati con coloro che abbiano tale qualità al momento della morte del contraente coopera la regola della trasmissibilità del diritto ai vantaggi dell’assicurazione in favore degli eredi del beneficiario premorto, quale conseguenza dell’acquisto già avvenuto in capo a quest’ultimo”; “la premorienza di uno degli eredi del contraente, già designato tra i beneficiari dei vantaggi dell’assicurazione, comporta, quindi, non un effetto di accrescimento in favore dei restanti beneficiari, ma, stando l’assenza di una precisa disposizione sul punto ed in forza dell’assimilabilità dell’assicurazione a favore di terzo per il caso di morte alla categoria del contratto a favore di terzi, un subentro per “rappresentazione” in forza dell’art. 1412, comma 2, c.c.”; tanto premesso e rilevato che, nel caso specifico, la sorella dell’assicurato era deceduta prima della stipula della polizza (e, quindi, prima che potesse essere designata fra i beneficiari della stessa), la Corte ha affermato che “non vi era spazio per applicare il comma 2 dell’art. 1412 c.c., ovvero per ravvisare una trasmissione per “rappresentazione” agli eredi (della sorella) dei vantaggi dell’assicurazione nella medesima quota che sarebbe spettata a quella”;>>

La clausola di designazione era così formulata: “beneficiari gli eredi testamentari e, in mancanza, gli eredi legittimi”.

Il testo troppo piccolo (illegibile, di fatto) non rende il contratto unfair

Interessante segnalazione del prof.  Eric Goldman sull’oggetto.

Secondo l’appello della California 21 aprile 2023, 2nd App. Dist.-Div. 8th,. Yanez Fuentes c. Empire Nissan, B314490  Los Angeles County  Super. Ct. No. 20STCV35350  :

<<Tiny font size and unreadability go to the process of contract formation, however, and not the substance of the outcome. Font size and readability thus are logically pertinent to procedural unconscionability and not to substantive unconscionability.
To make this logical point plain, imagine shrinking a contract fair in substance down to less than one–point font: a font so minute as to be completely unreadable without a strong magnifying glass. The fairness of the contract’s substance, however, remains unchanged. Font is irrelevant to fairness.
We go over this significant point in more detail.
Fuentes accurately summarizes the difference between procedural and substantive unconscionability. We quote page 17 of her brief. “Procedural unconscionability specifically ‘concerns the manner in which the contract was negotiated and the circumstances of the parties at that time.’ (Kinney v. United Health Care Services, Inc. (1999) 70 Cal.App.4th 1322, 1329.) Substantive unconscionability focuses on overly harsh or one-side[d] results.”
Font size is not the substance of a contract. Terms can be fair or unfair in substance, no matter the font size. When an employer puts a contract in an unreadably minute font, this practice definitely is problematic, but not for substantive reasons. Rather, during contract formation, an employer’s practice of using tiny print creates the same potential for surprise as can practices like using baffling legalese, or imposing coercive time pressures, or preventing employees from consulting counsel. All deceptive and coercive procedures by employers can make it more likely employees do not fully understand, or do not understand at all, the arrangement to which they supposedly are assenting. If it is impossible to read, it will be impossible to understand. But once the parties have completed the contracting procedures, whether the substantive result is unconscionable is a conceptually separate question>>.

Si veda alla fine l’Appendix A ove è riportato il documento illegibile (tale è!) e la sua trascrizione.

Questione talora postasi anche da noi.

La distinzione procedural e substantial fairness è da noi infondata: in caso di illegibilità di proposta e/o accettazione non si è formato l’accordo.

Si trattava di lite sulla azionabilità o meno di clausola arbitrale

Sull’esecuzione del contratto in buona fede (art. 1375 cc) vedasi Cass. 7358/2022

Cass. n. 7358 del 07.03.2022, sez. 2, rel. Abete, Italiana Investimenti c. Casa Oleraria italiana-I.B. INTERNATIONAL TRADING CO. LT, affronta un interessante caso di elusione di obbligazione contrattuale concretizzatasi nel far intervenire un  distinto  soggetto giuridico ma pur sempre controllato dal paciscente obbligato.

la SC conferma la violazine contrattuale, già accertata dalla corte di appello:. Si tratta di caso classico di tetnativo di elusione,  nemmeno oscurato e per questo interessante . Pacifico che il terzo intervenuto appoartenesse allo stesso gruppo dell’obbligato, è sufficiente la distinzione soggettiva ad evitare la violazione? Conferma il no la SC : e giustamente, direi.

La fattispecie concreta ricorda da vicino quella decisa dalla celeberrima Cassazione nel caso Fiuggi (n° 3774 del 20.04.1994).

La motivazione sul punto però è leggerina: la SC poteva impegnarsi di più su un tema così importante.

Viene ad es. offerto il testo integrale in un post di circa un anno fa in Diritto e Politica dei Trasporti .

Il punto è trattato nel terzo motivo di ricorso.

C’è una premessa sulla censurabilità in Cass. dell’interpretazione del contratto: interessante ma qui fuori tema.

Poi si entra in medias res, a sua volta due passaggi.

1° passo:

<< 33.  Per un verso, questa Corte spiega che, in tema di interpretazione del contratto, il dato letterale, pur di fondamentale rilievo, non e’, da solo, decisivo, atteso che il significato delle dichiarazioni negoziali può ritenersi acquisito esclusivamente al termine del processo interpretativo che deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore, anche quando le espressioni appaiano di per sé non bisognose di approfondimenti interpretativi, dal momento che un’espressione “prima facie” chiara può non apparire più tale se collegata alle altre contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti (cfr. Cass. sez. lav. 1.12.2016, n. 24560; Cass. 11.1.2006, n. 261; Cass. 11.6.1999, n. 5747). E spiega ancora che, in tema di interpretazione del contratto, l’elemento letterale, sebbene centrale nella ricerca della reale volontà delle parti, deve essere riguardato alla stregua degli ulteriori criteri ermeneutici e, segnatamente, del criterio dell’interpretazione funzionale, che attribuisce rilievo alla causa concreta del contratto ed allo scopo pratico perseguito dalle parti, oltre che del criterio dell’interpretazione secondo buona fede, che si specifica nel significato di lealtà e si concreta nel non suscitare falsi affidamenti e nel non contestare ragionevoli affidamenti ingenerati nella controparte (cfr. Cass. 19.3.2018, n. 6675; Cass. (ord.) 10.6.2020, n. 11092).

Per altro verso, questa Corte spiega – lo si è anticipato – che i principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione e nell’interpretazione dei contratti, di cui agli artt. 1175,1366 e 1375 c.c., rilevano sia sul piano dell’individuazione degli obblighi contrattuali, sia su quello del bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti; e che, sotto il secondo profilo, consentono al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sul contenuto del contratto, qualora ciò sia necessario per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto (cfr. Cass. 18.9.2009, n. 20106)>>.

2° passo:

<< 34. Ebbene, nel quadro della riferita elaborazione giurisprudenziale, inevitabile è la formulazione dei rilievi che seguono.

Non possono in alcun modo essere condivisi gli assunti secondo cui “era doveroso utilizzare il criterio interpretativo basato sul senso letterale delle espressioni impiegate (…) (e) soprattutto non si poteva (…) ricorrere agli ulteriori criteri ermeneutici e segnatamente al criterio della buona fede in senso oggettivo” (così ricorso principale, pag. 26). E secondo cui la Corte di Lecce “ha finito per stravolgere l’autentico contenuto delle pattuizioni inter partes, sostituendo la propria volontà a quella negoziale espressa dai contraenti” (così ricorso principale, pag. 25. Cfr. analogamente memoria delle ricorrenti principali, pagg. 4 – 5).

Ne’ vale addurre che il diritto di esclusiva dell’iniziale attrice, quale pattuito nei contratti in data 15.6.1998 e 18.12.1998, non si estendeva alle cosiddette forniture “indirette”.

Se è vero – come è vero – che i principi di correttezza e buona fede ex artt. 1175,1366 e 1375 c.c., abilitano il giudice ad intervenire anche in senso modificativo o integrativo sul contenuto del contratto, non si è né al cospetto di un’indebita proiezione, in difetto del doveroso riscontro del legittimante substrato normativo, così come si paventa con il sesto motivo del ricorso principale, degli effetti obbligatori della lex contractus oltre la sfera soggettiva delle parti contraenti, né al cospetto – si aggiunge – dell’incauta sovversione dei formali criteri di imputazione, ancorati alla “spendita del nome”, dell’attività d’impresa, in spregio, per giunta, al principio cardine per cui le imprese societarie pur appartenenti al medesimo “gruppo” conservano distinta soggettività e piena autonomia giuridica.

Si tratta invece di definire puntualmente i confini degli impegni obbligatori che ciascuna delle parti contraenti le pattuizioni in data 15.6.1998 ed in data 18.12.1998 ebbe ad assumere.

Se è vero – come è vero – che la regola integrativa ed interpretativa della buona fede in senso oggettivo eleva il giudice, pur nel quadro del “naturale” antagonismo che segna la genesi e la dinamica della vicenda contrattuale, a presidio di prevenzione e di repressione dell’abuso del diritto, la dilatazione, nella specie, dell’obbligo di esclusiva gravante sulle preponenti “Oleifici Italiani” ed “Ital Bi Oil” oltre l’ambito correlato alla sua rigorosa formulazione letterale appieno si giustifica, appieno si legittima. [in che modo? su che base si giustifica? in pratica è immotivata!]

D’altronde, questa Corte ha già avuto cura di puntualizzare, seppur sullo specifico terreno del contratto di agenzia, che, ai sensi dell’art. 1748 c.c., comma 2, il diritto alla provvigione cosiddetta “indiretta” compete in ogni caso di ingerenza nella zona di esclusiva o di captazione di clienti riservati all’agente attraverso l’intervento diretto o indiretto del preponente, quali che siano le modalità della sottrazione così realizzata ed indipendentemente dalla tecnica negoziale prescelta o dal luogo in cui questa è posta in essere (cfr. Cass. 30.1.2017, n. 2288)>>.