Forma scritta a pena di nullità per il patto sul compenso tra avvocato e cliente

Così Cass. 08.09.2021 n. 24.213, rel. Tedesco, sull’argomento in oggetto,. la cui norma pertinente è l’art. 2233/3 cc, secondo cui:

(Sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra
gli avvocati ed  i  praticanti  abilitati  con  i  loro  clienti  che
stabiliscono i compensi professionali)). >>)

La precisazione è praticamente importante, alla luce dei dubbi generati dall’art. 13/2 della legge professionale forense.

Ebbene, secondo la disposizione predetta, il  patto di determinazione del compenso <<deve essere redatto in forma scritta, sotto pena di nullità. Si osserva che la norma non può ritenersi implicitamente abrogata dalla L. n. 247 del 2012, art. 13, comma 2: tale norma stabilisce che il compenso spettante al professionista sia pattuito di regola per iscritto. Infatti, secondo l’interpretazione preferibile, la novità legislativa ha lasciato impregiudicata la prescrizione contenuta nell’art. 2233 c.c., comma 3. In base a questa interpretazione, la norma sopravvenuta non si riferisce alla forma del patto, ma al momento in cui stipularlo: essa, cioè, stabilisce che il patto deve essere stipulato all’atto del conferimento dell’incarico (cfr. Cass. n. 11597 del 2015). Si osserva che se il legislatore avesse realmente voluto far venir meno il requisito della forma scritta per simili pattuizioni, è ragionevole ritenere che avrebbe provveduto ad abrogare esplicitamente la previsione contenuta nell’art. 2233 c.c., comma 3, il quale commina espressamente la sanzione della nullità per quei patti che siano privi del requisito formale ivi prescritto. Chiarito che il requisito formale è prescritto a pena di nullità, valgono le regole generali: a) la scrittura non può essere sostituita da mezzi probatori diversi (Cass. n. 1452 del 2019), neanche dalla confessione (Cass. n. 4431 del 2017), né è applicabile il principio di non contestazione (Cass. n. 25999 del 2018); b) ai sensi dell’art. 2725 c.c., la prova testimoniale è ammissibile nella sola ipotesi dell’art. 2724 c.c., n. 3, di perdita incolpevole del documento (Cass. n. 13459 del 2006; Cass. n. 13857 del 2016); c) l’inammissibilità della prova, diversamente da quanto avviene quando il contratto deve essere provato per iscritto (Cass., S.U., n. 16723 del 2000), è rilevabile d’ufficio e può essere eccepita per la prima volta anche in cassazione (Cass. n. 1352 del 1969; Cass. n. 281 del 1970)>>.

Il Tribunale non si è attenuto ai principi predetti, dice la SC,  visto che <<l’esistenza dell’accordo è stata ritenuta provata grazie alla prova per testimoni e sulla base di una corrispondenza intercorsa fra le parti. La considerazione congiunta di tali elementi ha indotto il giudice a ritenere verosimile che le parti avessero raggiunto un accordo di analogo contenuto a quello riguardante le cause che il professionista curava per la diversa società Bio Orto soc. coop. a r.l.

Il tribunale, in ultima analisi, ha ritenuto raggiunta la prova dell’accordo per la determinazione del compenso sulla base di una presunzione, non tenendo conto che l’esistenza del requisito di forma non può essere sostituito da mezzi probatori diversi.>>

Discriminazione nelle ricerche di alloggi via Facebook: manca la prova

Una domanda di accertamento di violazione del Fair Housing Act e altre leggi analoghe statali (carenza di esiti – o ingiustificata differenza di esiti rispetto ad altro soggetto di diversa etnia- dalle ricerche presuntivamente perchè eseguite da account di etnia c.d. Latina) è rigettata per carenza di prova.

Da noi si v. spt. il d. lgs. 9 luglio 2003 n. 216 e  il d . lgs. di pari data n° 215 (autore di riferimento sul tema è il prof. Daniele Maffeis in moltri scritti tra cui questo).

Nel mondo anglosassone , soprattutto statunitense, c’è un’enormità di scritti sul tema: si v. ad es. Rebecca Kelly Slaughter-Janice Kopec & Mohamad Batal, Algorithms and Economic Justice: A Taxonomy of Harms and a Path Forward for the Federal Trade Commission, Yale Journal of Law & Technology

Il giudice così scrive:

<In sum, what the plaintiffs have alleged is that they each used Facebook to search for housing based on identified criteria and that no results were returned that met their criteria. They assume (but plead no facts to support) that no results were returned because unidentified advertisers theoretically used Facebook’s Targeting Ad tools to exclude them based on their protected class statuses from seeing paid Ads for housing that they assume (again ,with no facts alleged in support) were available and would have otherwise met their criteria. Plaintiffs’ claim  that Facebook denied them access to unidentified Ads is the sort of generalized grievance that is insufficient to support standing. See, e.g., Carroll v. Nakatani, 342 F.3d 934, 940 (9th Cir. 2003) (“The Supreme Court has repeatedly refused to recognize a generalized grievance against allegedly illegal government conduct as sufficient to confer standing” and when “a government  actor discriminates on the basis of race, the resulting injury ‘accords a basis for standing only to those persons who are personally denied equal treatment.’” (quoting Allen v. Wright, 468 U.S. 737, 755 (1984)).9 Having failed to plead facts supporting a plausible injury in fact sufficient to confer standing on any plaintiff, the TAC is DISMISSED with prejudice>.

Così il Northern District of California 20 agosto 2021, Case 3:19-cv-05081-WHO , Vargas c. Facebook .

Il quale poi dice che anche rigattando quanto sorpa, F. srebbe protetta dal safe harbour ex § 230 CDA e ciò nonostante il noto precedente Roommates del 2008, dal quale il caso sub iudice si differenzia:

<<Roommates is materially distinguishable from this case based on plaintiffs’ allegations in the TAC that the nowdefunct Ad Targeting process was made available by Facebook for optional use by advertisers placing a host of different types of paidadvertisements.10 Unlike in Roommates where use of the discriminatory criteria was mandated, here use of the tools was neither mandated nor inherently discriminatory given the design of the tools for use by a wide variety of advertisers.

In Dyroff, the Ninth Circuit concluded that tools created by the website creator there, “recommendations and notifications” the website sent to users based on the users inquiries that ultimately connected a drug dealer and a drug purchaser did not turn the defendant who ontrolled the website into a content creator unshielded by CDA immunity. The panel confirmed that the tools were “meant to facilitate the communication and content of others. They are not content in and of themselves.” Dyroff, 934 F.3d 1093, 1098 (9th Cir. 2019), cert. denied, 140 S. Ct. 2761 (2020); see also Carafano v. Metrosplash.com, Inc., 339 F.3d 1119, 1124 (9th Cir. 2003) (where website “questionnaire facilitated the expression of information by individual users” including proposing sexually suggestive phrases that could facilitate the development of libelous profiles, but left “selection of the content [] exclusively to the user,” and defendant was not “responsible, even in part, for associating certain multiple choice responses with a set of physical characteristics, a group of essay answers, and a photograph,” website operator was not information content provider falling outside Section 230’s immunity); Goddard v. Google, Inc., 640 F. Supp. 2d 1193, 1197 (N.D. Cal. 2009) (no liability based on Google’s use of “Keyword Tool,” that  employs “an algorithm to suggest specific keywords to advertisers”).  

Here, the Ad Tools are neutral. It is the users “that ultimately determine what content to  post, such that the tool merely provides ‘a framework that could be utilized for proper or improper  purposes, . . . .’” Roommates, 521 F.3d at 1172 (analyzing Carafano). Therefore, even if the plaintiffs could allege facts supporting a plausible injury, their claims are barred by Section 230.>>

(notizia e link alla sentenza dal blog di Eric Goldman)

E’ valido il preliminare stipulato in regime quinquennale di inalienabilità (anche se con immissione immediata in possesso)

Secondo Cass. n. 21.605 del 28.07.2021, rel. Picaroni, Franco c. Petrone, è valido l’obbligo alla vedita definitica stupulata in regile di inalienabilità quyinquennale  a seguito di normativa ex L. 865/1971 e convnezione col Comuneex art. 27. della stessala

Infatti  la convenzione stipulata con atto pubblico tra l’Ente territoriale ed il concessionario <<impegnava questi a costruire entro due anni dal rilascio della concessione, e prevedeva che le opere realizzate non potessero essere alienate per cinque anni dalla data della convenzione, trascorsi i quali rimaneva necessaria la verifica da parte del Comune, previa segnalazione del concessionario, del possesso in capo al soggetto subentrante dei requisiti richiesti.  In questo modo, conformemente alla previsione di legge richiamata, era preservata la destinazione dell’area e quindi assicurata la realizzazione dell’interesse pubblico sotteso alla formazione del Piano per gli insediamenti produttivi.  3.2. Nessuno dei vincoli discendenti dalla convenzione risulta incompatibile con la conclusione del preliminare in oggetto posto che, come evidenziato dalla Corte d’appello, la stipula del rogito era fissata alla scadenza del periodo di inalienabilità delle opere, e, ai sensi dell’art. 11 della convenzione, il Franco avrebbe dovuto darne preventiva segnalazione al Comune, per consentire la verifica della sussistenza, in capo al Petrone, dei requisiti necessari per subentrare nella gestione dell’attività produttiva da svolgersi  nell’area in oggetto.>>

Esito alquanto scontato, almeno a livello teorico: se il divieto riguarda l’effetto traslativo, la facoltà di stipulare un  mero obbligo (come il preliminare) non viene incisa. A fini pratici, però, è utile il chiarimetno, poichè il rischio di tesi, per  cui il divieto vada esteso analogicamnte, è sempre dietro l’angolo.

Nè vi osta ll’immissione immediatga inpossesso (preliminare con effetti anticipati): <<La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito da tempo che nella promessa di vendita, quando viene convenuta la consegna del bene prima della stipula del contratto definitivo, non si verifica un’anticipazione degli effetti traslativi, in quanto la disponibilità conseguita dal promissario acquirente si fonda sull’esistenza di un contratto di comodato funzionalmente collegato al contratto preliminare, produttivo di effetti meramente obbligatori (Cass. Sez. U 27/03/2009, n. 7930; Cass. 26/04/2010, n. 9896; Cass. 16/03/2016, n. 5211). In assenza di anticipazione di effetti traslativi, l’immissione nel possesso del promissario acquirente in quanto evenienza fattuale non poteva incidere sugli obblighi discendenti dalla convenzione a carico del promittente venditore, essendo piuttosto funzionale al progetto dei contraenti, trasfuso nel preliminare, di realizzare insieme l’opera prevista dalla convenzione (pag. 6 della sentenza impugnata)>>.

La nullità contrattuale per motivo illecito (art. 1345 cc) non comprende il contratto

In un’operazione di promessa di vendita di immobili pagati solo in parte con denaro e in parte con compensazione di crediti (sotto condizione sospensiva di omologa di concordato preventivo), nasce lite da parte del promissario acquirente, che chiede l’esecuzione in forma specifica della promessa.

Il convenuto cerca di sottrarsi , deducendo la nullità dell’impgno perchè basato su motivo illecito comune (art. 1345 cc): precisamente, in frode agli altri creditori, essendosi procurato il creditore contraente/attore in causa un vantaggio preferenziale assertiametne illecito.

La SC già nel 2011 nella stessa lite aveva detto: <<la Corte territoriale avesse disatteso l’orientamento «secondo cui il motivo illecito che, se comune ad entrambe le parti e determinante per la stipulazione, comporta la nullità del contratto, si identifica con una finalità vietata dall’ordinamento, poiché contraria a norma imperativa o ai principi dell’ordine pubblico o del buon costume, ovvero poiché diretta ad eludere, mediante detta stipulazione, una norma imperativa; onde l’intento delle parti di recare pregiudizio ad altri, ove non sia riconducibile ad una di tali fattispecie, non è illecito, non rinvenendosi nell’ordinamento una norma che sancisca in via generale, come per il contratto in frode alla legge, l’invalidità del contratto in frode dei terzi, ai quali, invece, l’ordinamento accorda rimedi specifici, correlati alle varie ipotesi di pregiudizio che essi possano risentire dall’altrui attività negoziale (Cass. Sez. Un. 10603/1993). Nel caso di pregiudizio ai terzi creditori per violazione della par condicio nell’ambito di procedure concorsuali, la sanzione specifica prevista, nei congrui casi, dall’ordinamento è semmai l’inefficacia relativa o l’inopponibilità dell’atto ai creditori concorsuali, non certo la nullità (cfr., Cass. 20576/2010)» (Cass,. 8541 del 14.4.2011, cittata nella setnenza).

Punto riaffermato da Cass. n. 4701 del 22.02.2021, rel. Vella.: <<Nel lungo corso del presente giudizio, questa Corte ha già escluso, con la sentenza n. 8541 del 2011, che l’eventuale intento delle parti di recare pregiudizio ai terzi creditori, mediante accordi che violino la par condicio nell’ambito di procedure concorsuali , non integra la nullità del contratto, poiché, a differenza dal contratto in frode alla legge, per il contratto in frode a terzi l’ordinamento allestisce altri rimedi, tra i quali l’inefficacia relativa o l’inopponibilità dell’atto ai creditori concorsuali (cfr. Cass. Sez. U, 10603/1993; Cass. 20576/2010).

5.2. Non può quindi essere nuovamente messa in discussione in questa sede la (non) rilevanza, ai fini auspicati dalla ricorrente, del vantaggio economico conseguito dal Vinella rispetto agli altri creditori – quanto alla percentuale di soddisfacimento dei rispettivi crediti (100% a fronte del 63%) – peraltro frutto di più articolate pattuizione in forza delle quali il Vinella si è reso cessionario di crediti concordatari (con conseguente “alleggerimento” della massa passiva) che ha poi utilizzato, insieme al proprio, per pagare, mediante compensazione, parte del prezzo dovuto al Pedone per la vendita promessa di alcuni immobili. Peraltro, tale complesso di accordi non ha inficiato la procedura di concordato, che si è conclusa con il passaggio in giudicato della sentenza di omologazione.>>

Vizi della merce venduta e rimedi possibili (eccezione di inadempimento e risarcimento del danno ex art .1494 cc)

Una partita di grano viziato venduto ad un oleificio ha generato ola lite poi dcisa da Cass. n. 14.986 del 28.5.2021, rel. Scarpa.

Sul lodo irrituale: <<l‘arbitrato irrituale costituisce uno strumento di risoluzione contrattuale delle contestazioni insorte o che possono insorgere tra le parti in ordine a determinati rapporti giuridici, imperniato sull’affidamento a terzi del compito di ricercare una composizione amichevole, conciliante o transattiva. Poiché le parti si impegnano a considerare la decisione degli arbitri come espressione della loro volontà, il lodo irrituale ha natura negoziale ed è impugnabile ai sensi dell’art. 808 ter c.p.c. Allorché, come nel presente giudizio, viene in discussione quale fosse l’oggetto della controversia deferita agli arbitri, il vizio denunciato si traduce in una questione d’interpretazione della volontà dei mandanti e si risolve, analogamente a quanto accade in ogni altra ipotesi di interpretazione della volontà negoziale, in un apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità, se condotto nel rispetto dei criteri di ermeneutica contrattuale e correttamente motivato (cfr. Cass. Sez. 1, 24/03/2014, n. 6830)>>

Sulla eccezione di inadempimento: <<Deve allora considerarsi come l’eccezione di inadempimento funziona quale fatto impeditivo della altrui pretesa di pagamento avanzata, nell’ambito dei contratti a prestazioni corrispettive, in costanza di inadempimento dello stesso creditore. La parte evocata in giudizio per il pagamento di una prestazione rientrante in un contratto sinallagmatico può, pertanto, non solo formulare le domande ad essa consentite dall’ordinamento in relazione al particolare negozio stipulato, ma anche limitarsi ad eccepire – nel legittimo esercizio del potere di autotutela che l’art. 1460 c.c. espressamente attribuisce al fine di paralizzare la pretesa avversaria chiedendone il rigetto – l’inadempimento o l’imperfetto adempimento dell’obbligazione assunta da controparte, in qualunque delle configurazioni che questo può assumere, in esse compreso, quindi, il fatto che il bene consegnato in esecuzione del contratto risulti affetto da vizi o mancante di qualità essenziali (Cass. Sez. 2, 22/11/2016, n. 23759; Cass. Sez. 2, 04/11/2009, n. 23345; Cass. Sez. 2, 01/07/2002, n. 9517) >>

Il compratore può, del resto, sollevare l’eccezione di inadempimento, ai sensi dell’art. 1460 c.c., <<non solo quando venga completamente a mancare la prestazione della controparte, ma anche nel caso in cui dall’inesatto adempimento del venditore derivi una inidoneità della cosa venduta all’uso cui è destinata, purché il rifiuto di pagamento del prezzo risulti giustificato dall’oggettiva proporzione dei rispettivi inadempimenti, riguardato con riferimento al complessivo equilibrio sinallagmatico del contratto e all’obbligo di comportarsi secondo buona fede>>.

Syull’azine di danno ex art. 1494: <<l’azione di risarcimento dei danni proposta dall’acquirente, ai sensi dell’art. 1494 c.c., sul presupposto dell’inadempimento dovuto alla colpa del venditore, consistente nell’omissione della diligenza necessaria a scongiurare l’eventuale presenza di vizi nella cosa, ben può estendersi a tutti i danni subiti dall’acquirente, non solo quindi a quelli relativi alle spese necessarie per l’eliminazione dei vizi accertati, ma anche a quelli inerenti alla mancata o parziale utilizzazione della cosa o al lucro cessante per la mancata rivendita del bene. Da ciò consegue, fra l’altro, che tale azione si rende ammissibile in alternativa ovvero cumulativamente con le azioni di adempimento in via specifica del contratto, di riduzione del prezzo o di risoluzione del contratto medesimo (Cass. Sez. 2, 29/11/2013, n. 26852; Cass. Sez. 2, 07/03/2007, n. 5202; Cass. Sez. 2, 07/06/2000, n. 7718). Il risarcimento per l’inadempimento del venditore correlato ai vizi della cosa esige certamente un rapporto causale immediato e diretto fra tale inadempimento e danno. Questa limitazione – imposta dall’art. 1223 c.c. – è fondata sulla necessità di limitare l’estensione temporale e spaziale degli effetti degli eventi illeciti ed è orientata, perciò, ad escludere dalla connessione giuridicamente rilevante ogni conseguenza dell’inadempimento che non sia propriamente diretta ed immediata, ovvero che comunque rientri nella serie delle conseguenze normali del fatto, in base ad un giudizio di probabile verificazione rapportato all’apprezzamento dell’uomo di ordinaria diligenza. È tuttavia compito del giudice di merito accertare la materiale esistenza del rapporto che abbia i suddetti caratteri normativamente richiesti, così come verificare che il compratore non abbia colpevolmente concorso nel cagionare il danno ed, anzi, abbia mantenuto una condotta diretta a limitare le conseguenze negative dell’inadempimento del venditore: tale valutazione del giudice del merito, risolvendosi in un apprezzamento di fatto, è insindacabile in sede di legittimità se non nei limiti di cui all’art. 360 comma 1, n. 5, c.p.c.>>

Responsabilità per concessione abisiva di credito: dovere del banchiere di prudente valutazione e legittimazione del curatore (Cass. 18.601 / 2021)

Cass. 16.810 del 30.06.2021, rel. Nazzicone, riepiloga lo stato dell’arte sul tema in oggetto.

Nella prima parte la SC discute in dettaglio il dovere del finanziatore (bancario spt.) di valutare con prudenza l’affidabilità di chi ha chiesto credito, § 3.1 ss.

Per cui difficile è la scelta del banchiere: <<Vero è che, di fronte alla richiesta di una proroga o reiterazione di finanziamento, la scelta del “buon banchiere” si presenta particolarmente complessa: astretto com’è tra il rischio di mancato recupero dell’importo in precedenza finanziato e la compromissione definitiva della situazione economica del debitore, da un lato, e la responsabilità da incauta concessione di credito, dall’altro lato.

Onde ogni accertamento, ad opera del giudice del merito, dovrà essere rigoroso e tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, secondo il suo prudente apprezzamento, soprattutto ai fini di valutare se il finanziatore abbia (a parte il caso del dolo) agìto con imprudenza, negligenza, violazione di leggi, regolamenti, ordini o discipline, ai sensi dell’art. 43 c.p., o abbia viceversa, pur nella concessione del credito, attuato ogni dovuta cautela, al fine di prevenire l’evento.

Tale seconda situazione potrà, ad esempio, verificarsi ove la banca – pur al di fuori di una formale procedura di risoluzione della crisi dell’impresa – abbia operato nell’intento del risanamento aziendale, erogando credito ad impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di razionale permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite, da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito allo scopo del risanamento aziendale, secondo un progetto oggettivo, ragionevole e fattibile.>>, § 3.5.3.

Nella seconda parte la SC applica l’interpretazione al caso concreto. Qui però deve affrotnare la questione, tipicametne concorsuale, del se tale azione competa alla curatela (legittimazione di questa). E sceglie la via della risposta positiva: il curatore ha legittimazione.

Infatti <<Tale azione – in effetti – spetta senz’altro al curatore, come successore nei rapporti del fallito, ai sensi dell’art. 43 L. Fall., che sancisce, per i rapporti patrimoniali compresi nel fallimento, la legittimazione esclusiva del predetto, trattandosi di lesione del patrimonio dell’impresa fallita e di un diritto rinvenuto dal curatore nel patrimonio di questa.

Nel contempo, tuttavia, occorre altresì considerare come, aperto sul patrimonio del fallito il concorso dei creditori, come prevedono gli artt. 51 e 52 L. Fall. questi non possono più agire individualmente in via esecutiva o cautelare sui beni compresi in quel patrimonio, ma solo partecipare al concorso.

Al curatore, invero, spetta la legittimazione per le c.d. azioni di massa, volte alla ricostituzione della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c., di cui tutti creditori beneficeranno; così, al curatore spettano le azioni revocatorie di cui all’art. 2901 c.c. e art. 66 L. Fall., nonchè le azioni di responsabilità contro gli organi sociali, ivi compresa quella dei creditori per “l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale” (art. 2394-bis c.c. e art. 146 L. Fall.).

In definitiva, è pur vero che il curatore non è legittimato all’azione di risarcimento del danno diretto patito dal singolo creditore per l’abusiva concessione del credito quale strumento di reintegrazione del suo patrimonio singolo, ove quest’ultimo dovrà dimostrare lo specifico pregiudizio a seconda della relazione contrattuale intrattenuta con il debitore fallito, e ciò con specifico riguardo al diritto leso a potersi determinare ad agire in autotutela, oppure ad entrare in contatto con contraenti affidabili – posto che la concessione del credito bancario lo abbia indotto, ove creditore anteriore, a non esercitare i rimedi predisposti dall’ordinamento a tutela del credito, e, ove creditore successivo a quella concessione, a contrattare con soggetto col quale altrimenti non avrebbe contrattato – in quanto si tratta di diritto soggettivo afferente la sfera giuridica di ciascun creditore.

E, tuttavia, la situazione muta, ove si prospetti un’azione a vantaggio di tutti i creditori indistintamente, perchè recuperatoria in favore dell’intero ceto creditorio di quanto sia andato perduto, a causa dell’indebito finanziamento, del patrimonio sociale, atteso che il fallimento persegue, appunto, l’obiettivo del miglior soddisfacimento dei creditori nel rispetto della par condicio.

Si tratta di un danno al patrimonio dell’impresa, con la conseguente diminuita garanzia patrimoniale della stessa, ai sensi dell’art. 2740 c.c., scaturita dalla concessione abusiva del credito, che abbia permesso alla stessa di rimanere immeritatamente sul mercato, continuando la propria attività ed aumentando il dissesto, donde il danno riflesso ai tutti i creditori.

Ecco dunque che il curatore che agisce per il ristoro del danno alla società tutela nel contempo la massa creditoria dalla diminuzione patrimoniale medesima.

Un simile danno riguarda tutti i creditori: quelli che avevano già contrattato con la società prima della concessione abusiva del credito de qua, perchè essi vedono, a cagione di questa, aggravarsi le perdite e ridursi la garanzia ex art. 2740 c.c.; quelli che abbiano contrattato con la società dopo la concessione di credito medesima, perchè (se è vero che a ciò possa aggiungersi pure la causa petendi di essere stati indotti in errore, ed allora individualmente, dall’apparente stato non critico della società, è pur vero che) del pari avranno visto progressivamente aggravarsi l’insufficienza patrimoniale della società, con pregiudizio alla soddisfazione dei loro crediti.>> § 3.6.2.

Azione contrattuale contro Youtube per discriminazione etnico/razziale respinta da una corte californiana

La corte del distretto nord della california, s. Josè division, 25.06.2021, KIMBERLY CARLESTE NEWMAN, e altri c. Google e altri, case No.20CV04011LHK, rigetta varie domande contrattuali di utenti contro Youtube, basate su pretese discrminazioni razziali.

Gli attori, gerenti canali su Youtube , ritengono di essere stati discriminati in vari modi: filtraggi ingiustificati, solo per la loro provenienza razziale, nella Restricted Mode; riduzione o impedimento delle chance di monetizzazine, non venendo agganciati ad advertisment; shadow banning e altre pratiche, ad es. qualificando i video come soggetti a Restricted Mode ( dettagli a p. 2-4).

La domanda di violazione ex sec- 1981 del 42 US CODE (Equal rights under the law: normativa antidiscriminatoria) è rigettata per assenza di prova dellelemenot intenzionaleò, p. 9 ss.

Ma qui interessa spt. il punto del Primo Ementamento, p. 15 ss: la condotta di Y,. non è state action nè tale diventa per la protezione di legge offerta dal safe harbour ex § 230 CDA (tesi alquanto astrusa, invero).

(notizia e link alla sentenza tratta dal blog di Eric Goldman)

Canoni locatizi non richiesti per sette anni e poi richiesti ex abrupto: perdita del relativo diritto per abuso (o Verwirkung) del diritto?

Cass. 14.06.2021 n. 16.743, Bellini e Chiari srl c. Bellini, rel. Fiecconi, decide sulla qualificazione di una condotta omissiva del locatore (una s.r.l.) che per sette anni non aveva chiesto i canoni al conduttore e poi glieli chiede tutto all’improvviso .

Si trattava di srl a base famigliare ,che aveva inviato l’intimazione di pagamento, prima mai inviata, solo dopo la rottura dei rapporti tra soci/parenti (genitore/figlio)

La sentenza inquadra la richiesta nell’abusto del diritto , ricondubicile alla buona fede contrattuale : il silenzio per anni ha creato un affidamento di non dovutezza dei canoni, per cui l’improvvisa richiesta è abusiva.

La SC discute anche la introducibilità nel ns. ordinamento dell’istituto della Verwirkung (perdita) del diritto a seguito di silenzio o altra condotta concludente del creditore, ritenendola problematica.

La sentenza  è ricca di passaggi interessanti (talora forse eccesivi rispetto alla necessità del decidere) e sarà oggetto di ampi commenti.

Ad es.: <<Va rilevato che, in virtù di tale accezione dell’ obbligo solidaristico in sede contrattuale, negli ordinamenti di area continentale europea tende vieppiù ad affermarsi il principio, basato appunto sulla clausola di buona fede, di matrice romanistica, secondo cui, anche prima del decorso del termine prescrizionale, il mancato esercizio del diritto, protrattosi per un conveniente lasso di tempo, imputabile al suo titolare e che abbia fatto sorgere nella ontroparte un ragionevole ed apprezzabile affidamento sul definitivo non esercizio del diritto medesimo, porta a far considerare che un successivo atto di esercizio del diritto in questione possa integrare un abuso del diritto, nella forma del ritardo sleale nell’esercizio del diritto, con conseguente negazione della tutela. Al di là delle definizioni teoriche, pertanto, la Verwirkung nel senso appunto di abuso del diritto nel senso di subitaneo e ingiustificato revirement rispetto a una sua protratta opposta modalità di esercizio (a ben guardare, anche la remissione è una forma di esercizio del diritto, potendo concederla solo chi ne è titolare) costituisce un istituto idoneo a venire in gioco, anche nel nostro ordinamento, allorché appunto si prospetti un abusivo esercizio del diritto dopo una prolungata inerzia del creditore o del titolare di una situazione potestativa che per lungo tempo è stata trascurata e ha ingenerato un legittimo affidamento nella controparte. In tal caso, a seconda delle circostanze, può ravvedersi, nel tempo, un affidamento dell’altra parte nell’abbandono della relativa pretesa, idoneo come tale a determinare la perdita della situazione soggettiva nella misura in cui il suo esercizio si riveli un abuso.>, § 16,

Il canone generale della buona fede che regola infatti anche la dinamica contrattuale, cioè l’intrecciarsi degli opposti diritti/interessi nella esecuzione di quanto si è cristallizzato nel patto negoziale, <<impedisce che i diritti siano esercitati in modalità astratte, imponendo invece il rispetto dell’affidamento che questa ha acquisito proprio in conseguenza della modalità esecutiva fino ad allora praticata, l’affidamento costituendo una species di interesse insorto da una specifica percezione della dinamica contrattuale in atto. Dinamica che peraltro l’insorgenza di tale affidamento conduce ad una stabilizzazione favorevole, che può essere infranta dalla controparte soltanto, appunto, con un abuso, che concretizza, nel fondo della sua sostanza, la violazione del canone di solidarietà che, pur essendo contrapposti gli interessi delle parti contrattuali, costituisce il background della confluenza di detti interessi nel negozio stipulato, e permane quindi, come regola fondante, nella sua esecuzione, id est nel suo reciproco adempimento>>, § 17.

Molto interessante poi è la precisazione per cui l’eccezione di abuso è rilevabile d’ufficio, non essendo invocabile la disposizione sulla prescrizione, art. 2938 cc, § 18.

Problema centrale è la prorzionalità dei mezzi usat (§ 24) e cioè se ricorra un interessa apprezzabile del creditore, § 25

Ma nel caso, se non c’è rinuncia tacita, § 26, l’esercizio <<repentino del diritto installatosi in una circostanziata situazione di maturato affidamento della sua intervenuta abdicazione, correlata a un assetto di interessi pregresso, ha integrato un abuso del diritto per quanto detto sopra e ha comportato, altresì, la negazione di tutela dell’interesse di controparte in considerazione di sopravvenute circostanze nelle quali il giudice di merito – illustrando ciò con adeguata motivazione – ha riscontrato un conflitto tra le parti determinatosi per altre questioni, pacificamente non collegate al contratto> § 28

In altre parole, questa è <<l’esatta identificazione dell’istituto da applicarsi: i diritti disponibili in quanto tali possono essere oggetto di rinuncia anche se sono stati inseriti in un sinallagma contrattuale, e la rinuncia può essere effettuata a mezzo di fatti concludenti, vale a dire come forma specifica di esecuzione del contratto dalla parte del creditore. Dove il comportamento inerte di quest’ultimo non è ascrivibile a rinuncia, come nel caso concreto è risultato, ma a un – ben protratto – prodromo di un esercizio abusivo del diritto, il decorso di un tale spiccato periodo di tempo di oggettiva apparenza remittente non può non assumere valore ai fini dell’estinzione/consumazione del diritto per il periodo de quo, trattandosi di diritto a esecuzione continuata e periodica. Pertanto, indipendentemente dall’indagine sulla volontà di rinunciare al diritto o dal decorso del termine di prescrizione del medesimo, il repentino esercizio del diritto, dopo una situazione di durevole inerzia non altrimenti giustificata, può costituire esso stesso una violazione del principio di affidamento circa la oggettiva abdicazione. (…)  In siffatto contesto, collegato alla causa del contratto di locazione e alla protratta inerzia del locatore nel richiedere il pagamento del corrispettivo di locazione per oltre sette anni, la repentina richiesta di adempimento per la parte del credito eventualmente non caduta in prescrizione è da valutarsi alla stregua dell’esercizio abusivo del diritto, e dunque in violazione di obblighi solidaristici collegati alla salvaguardia dell’interesse del conduttore a non perdere una acquisita situazione di vantaggio determinatasi a suo esclusivo favore, laddove non si dimostri di avere sino a quel tempo comportato un apprezzabile sacrificio per il locatore, rimasto inerte sin dall’origine, a fronte del grave onere imposto repentinamente sulla controparte >>, §§ 29 e 31.

Importante poi la precisazione dell’interferenza (sotto il profilo causale, direi) del rapporto locatizio con quello societario/familiare: <<L’accertamento fattuale della eventuale violazione della fondamentale obbligazione solidaristica in un caso come quello di cui si tratta, laddove si consideri che il rapporto negoziale si era formalmente instaurato tra una società commerciale con accentuato carattere personalistico e una naturale flessibilità dell’organizzazione sociale – come è oggi intesa la società a responsabilità limitata – , proprietaria del bene locato, e un socio, non può d’altronde – si nota peraltro ad abundantiam – non tener conto della mutazione di comportamento della società creditrice non appena il socio è, nei fatti, forzosamente uscito dalla compagine sociale e i rapporti con il socio di riferimento, il padre, si sono incrinati per vicende estranee alla conduzione della società e del contratto di locazione; pertanto, la iniziativa della società di attivarsi, tra l’altro in un contesto di accesa conflittualità tra soci, appartenenti a un medesimo contesto familiare, dopo che la società per anni era rimasta inerte senza fornire adeguata giustificazione, è da ritenersi un comportamento certamente innaturale in un contesto societario ove le questioni interne tra i soci non sono normalmente in grado di mutare l’assetto degli interessi sottesi al contratto sociale, se non cristallizzati in altrettanti reciprochi impegni tra la società e i soci (Sez. 1, Sentenza n. 12956 del 22/06/2016; Sez. 1, Sentenza n. 14629 del 21/11/2001)>>, § 32.

Ragionando secondo questi principi, quindi, <<è sostenibile che un credito nascente da un rapporto ad esecuzione continuata, mai preteso sin dall’origine del rapporto negoziale, anche se formalmente menzionato nelle scritture contabili di una società a responsabilità limitata per più esercizi, in assenza di altri indici di segno contrario, possa ugualmente costituire un fattore di generazione di un affidamento di oggettiva rinuncia del credito sino ad allora maturato nei confronti del socio. Pertanto, la repentina richiesta di adempimento dell’obbligazione di pagamento, indipendentemente dalla presenza di indici idonei a denotare una volontà di rinuncia del medesimo, se corrispondente a una situazione di palese conflittualità tra socio (allora ex socio) e gli altri soci, non giustificata da altri fattori, costituisce un abuso del diritto ove riveli l’intento di arrecare un ingiustificato nocumento>>, § 34.

Ed allora ecco il principio di diritto: <«il principio di buona fede nell’esecuzione del contratto di cui agli artt. 1175 e 1375 cod.civ. legittima in punto di diritto l’insorgenza in ciascuna parte dell’affidamento che, anche nell’esecuzione di un contratto a prestazioni corrispettive ed esecuzione continuata, ciascuna parte si comporti nella esecuzione in buona fede, e dunque rispettando il correlato generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, anche a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere generale del “nerninem laedere”; ne consegue che in un contratto di locazione di immobile ad uso abitativo l’assoluta inerzia del locatore nell’escutere il conduttore per ottenerne il pagamento del corrispettivo sino ad allora maturato, protrattasi per un periodo di tempo assai considerevole in rapporto alla durata del contratto, e suffragata da elementi circostanziali oggettivamente idonei a ingenerare nel conduttore un affidamento nella remissione del diritto di credito da parte del locatore per facta concludentia, la improvvisa richiesta di integrale pagamento costituisce esercizio abusivo del diritto>>, § 36.

Raccogliere dati “pubblici” da Facebook viola le sue condizioni contrattuali? Sul data scraping e sulla tortious interference

Sulla liceità della raccolta di dati pubblicitari dai profili Facebook (senza il consenso di questi), c.d. data scraping,  pende da tempo una lite tra Facebook (Fb)  e BrandTotal (BT), azienda nel settore dell’advertising.

Si v. la voce <web scraping> in Wikipedia .

Si registra ora una nuova pronuncia: US District Court – Northern District of California, 09 giugno 2021, Case 3:20-cv-07182-JCS .

In pratica BT invita i clienti (utenti Fb) a scaricare il programma UpVoice dal Google store, con cui monitora la loro navigazione e l’offerta pubblicitaria che conseguentemente ricevono.

Ciò violerebbe la condizione generale di Fb , per cui è vietato <<collect[ing] data from our Products using automated means (without [Facebook’s] prior permission)>>

Fb accortasene, chiude l’account di BT

Attore è Fb ma in riconvenzionale Bt chiede: <<(1)declaratory judgment that BrandTotal has not violated and will not violate the CFAA; (2)declaratory judgment that BrandTotal has not violated and will not violate section 502 of the California Penal Code; (3)declaratory judgment that BrandTotal has not interfered and will not interfere with Facebook’s contractual relations, id.; (4)intentionalinterference with contract, id; (5)intentional interference with prospective economic advantage,; (6)violation of California’s Unfair Competition Law>>

Le istanze sono in parte accolte e in parte rigettate.

I contratti di BT, su cui Fb avebbe interferito, sono: 1) contracts between BrandTotal and its corporate customers, 2) contracts between BrandTotal and its individual “Panelists, 3) contracts between BrandTotal and its investors, id.138, and 4)  contract between BrandTotal and Google, p. 16, che sono poi analizzati uno per uno.

“Accomodamenti ragionevoli” nel rapporto di lavoro con persona disabile, ragionevolezza e buona fede nell’esecuzione del contratto

La Corte di CAssazione interpreta il concetto di <accomodamenti ragionevoli> nel d. lgs. 216/2003 (Cass. 6497 del 09.03.2021 rel. Amendola). .

il D.L. 28 giugno 2013, n. 76 (art. 9, comma 4-ter), conv. con modif. dalla L. 9 agosto 2013, n. 99, ha inserito nel testo del D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 3 un comma 3 bis del seguente tenore: <<Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della L. 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie, e strumentali disponibili a legislazione vigente>>.

Ebbene così dice la SC: <<Il legislatore … ha deliberatamente scelto di trasporre nell’ordinamento interno la formula delle fonti sovranazionali, in dichiarata attuazione della direttiva n. 78/2000/CE, affidandosi ad una nozione a contenuto variabile – categoria dogmatica estesa, nell’ambito della quale possono variamente collocarsi clausole generali, norme elastiche, concetti giuridici indeterminati, finanche i principi – che ha come caratteristica strutturale proprio l’indeterminatezza: consapevole dell’impossibilità di una tipizzazione delle condotte prescrivibili, il legislatore ha conferito all’interprete il compito di individuare lo specifico contenuto dell’obbligo, guidato dalle circostanze del caso concreto.>>, § 5.1

<<Si tratta dunque di adeguamenti, lato sensu, organizzativi che il datore di lavoro deve porre in essere al fine di “garantire il principio della parità di trattamento dei disabili” e che si caratterizzano per la loro “appropriatezza”, ovvero per la loro idoneità a consentire alla persona svantaggiata di svolgere l’attività lavorativa>>, § 5.2.

Il limite del <onere sproprozinato o eccessivo> è stato già <<sottolineato da questa Corte  che ha legittimato il rifiuto dell’imprenditore all’assegnazione del lavoratore, divenuto fisicamente inidoneo all’attuale attività, a mansioni diverse, ove comporti “oneri organizzativi eccessì)i”, pronuncia a sua volta ispirata dalla giurisprudenza costituzionale dell’epocà sulla “autodeterminazione” della organizzazione interna dell’impresa “in modo che ne vengano preservati gli equilibri finanziari” (cfr. Corte Cost. n. 78 del 1958; Corte Cost. n. 316 del 1990; Corte Cost. n. 356 del 1993)>>.

 Al limite espresso della “sproporzione” del costo <<si affianca quello dell’aggettivo che qualifica l’accomodamento come “ragionevole”.

Limite ulteriore perchè dotato di autonoma valenza letterale, atteso che se l’unica ragione per esonerare il datore di lavoro dal porre in essere l’adattamento, fosse l’onere “sproporzionato”, allora non sarebbe stato necessario aggiungere il “ragionevole”.

Infatti, se può sostenersi che ogni costo sproporzionato, inteso nella sua accezione più ampia di “eccessivo” rispetto alle dimensioni ed alle risorse finanziarie dell’impresa, renda l’accomodamento di per sè irragionevole, non è necessariamente vero il contrario, perchè non può escludersi che, anche in presenza di un costo sostenibile, circostanze di fatto rendano la modifica organizzativa priva di ragionevolezza, avuto riguardo, ad esempio, all’interesse di altri lavoratori eventualmente coinvolti.>>, § 5.3-§ 5.4.

Il criterio della ragionevolezza, tradizionalmente utilizzato nei giudizi di legittimità costituzionale come controllo di razionalità della legge, <<penetra anche i rapporti contrattuali, quale forma di osservanza del “canone di correttezza e buona fede che presidia ogni rapporto obbligatorio contrattuale ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c.” (cfr, Cass. SS.UU. n. 5457 del 2009) e che risulta “immanente all’intero sistema giuridico, in quanto riconducibile al dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost.” (cfr. Cass. SS.UU. n. 15764 del 2011; v. pure Cass. SS.UU. n. 23726 del 2007; cfr. Cass. SS. UU. n. 18128 del 2005), esplicando “la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra” (Cass. SS.UU. n. 28056 del 2008)>> , § 5.4

<Se può tuttavia dubitarsi, nonostante talune suggestioni dottrinali, che, sulla base del diritto vivente (v. Cass. SS.UU. nn. 6030, 6031, 6032, 6033, 6034 del 1993), possa configurarsi nei rapporti di lavoro un obbligo giuridico a valenza generale,di “ragionevolezza” nell’esercizio dell’attività di impresa, tale da consentire un esteso sindacato giudiziale diretto ed ex post di congruità causale degli atti del datore di lavoro, non è invece discutibile che, laddove il legislatore esplicitamente stabilisca, come nella specie – che la condotta datoriale debba essere improntata al canone della ragionevolezza, il controllo sia dovuto anche su questo specifico profilo.>, ivi.

Dalla connotazione della ragionevolezza come espressione dei piu’ ampi doveri di buona fede e correttezza nei rapporti contrattuali si possono <<trarre indicazioni metodologiche utili per orientare prima il destinatario della norma ad individuare il comportamento dovuto e poi, eventualmente, il giudice, al fine di misurare l’esattezza dell’adempimento dell’obbligo di accomodamento nella concretezza del caso singolo.

Detta collocazione sistematica consente di fare capo a quella ricca giurisprudenza che identifica la buona fede oggettiva o correttezza come criterio di determinazione della prestazione contrattuale, costituendo fonte di integrazione del comportamento dovuto che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo limite unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto, sulla scorta di una nota dottrina, al compimento di tutti gli atti giuridici e materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico (tra le tante: Cass. n. 1460,5 del 2004; Cass. n. 20399 del 2004; Cass. n. 13345 del 2006; Cass. n. 15669,del 007; Cass. n. 10182 del 2009; Cass. n. 17642 del 2012; da ultimo, con riferimenti, v. Cass. n. 8494 del 2020)>>., ivi.

La funzione diretta alla protezione della controparte ed il dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell’interesse “altrui” <<pongono metodologicamente al centro dell’operazione interpretativa l’esigenza di una valutazione comparata di tutti gli interessi in gioco, al fine di un bilanciato contemperamento>>, ivi.

Così pure nel caso degli accomodamenti <<occorrerà soppesare gli interessi giuridicamente rilevanti delle parti coinvolte: l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente con il suo stato fisico e psichico, in una situazione di oggettiva ed incolpevole difficoltà; poi l’interesse del datore a garantirsi comunque una prestazione lavorativa utile per l’impresa, tenuto conto che l’art. 23 Cost. vieta prestazioni assistenziali, anche a carico del datore di lavoro, se non previste per legge (Cass. SS.UU. n. 7755/1998 cit.) e che la stessa direttiva 2000/78/CE, al Suo considerando 17, “non prescrive… il mantenimento dell’occupazione… di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione”; non può, infine, aprioristicamente escludersi che la modifica organizzativa coinvolga, in maniera diretta o indiretta, altri, lavoratori, sicchè in tal caso, fermo il limite non valicabile del pregiudizio a situazioni soggettive che assumano la consistenza di diritti soggettivi altrui, occorrerà valutare comparativamente anche l’interesse di costoro>>, ivi.

All’esito di questo complessivo apprezzamento, potrà dirsi ragionevole <<ogni soluzione organizzativa praticabile che miri a salvaguardare il posto di lavoro del disabile in un’attività che sia utile per l’azienda e che imponga all’imprenditore, oltre che al personale eventualmente coinvolto, un sacrificio che non ecceda i limiti di una tollerabilità considerata accettabile secondo “la comune valutazione sociale” (su tale formula v. Cass. SS.UU. n. 5688 del 1979, che, proprio a proposito dell’integrazione del comportamento dovuto dal datore di lavoro ex art. 1175 c.c., ha ritenuto che quest’ultimo deve “ritenersi vincolato non solo a non frapporre ostacoli alla realizzazione dell’interesse dell’altra parte, ma anche a fare tutto ed esattamente quanto la comune valutazione sociale consideri necessario”)>>.