Inadimplenti non est adimplendum: sull’art. 1460 cc

Cass. sez. III, ord. 18/02/2025 n. 4.134, rel. Tassone:

<<In tal modo la corte territoriale non applica correttamente l’art. 1460 cod. civ., non tenendo conto degli insegnamenti di questa Suprema Corte, per cui nei contratti a prestazioni corrispettive l’esercizio della eccezione di inadempimento ex art. 1460 cod. civ.: a) presuppone che vi sia l’inadempimento della controparte (anche solo in termini di inesatto adempimento: v. Cass., 8/7/2024 n. 18587; Cass., 29/1/2021 n. 2154), dato che integra un fatto impeditivo dell’altrui pretesa di pagamento in costanza di inadempimento dello stesso creditore (Cass., 17/7/2023, n. 20719; Cass., 22/11/2016 n. 23759); b) deve essere sollevata in buona fede oggettiva, in relazione alla quale il giudice di merito dovrà verificare se la condotta della parte inadempiente abbia influito sull’equilibrio sinallagmatico contrattuale, avuto riguardo all’interesse della controparte, e quindi valutare la proporzionalità tra i rispettivi inadempimenti, non in rapporto alla rappresentazione soggettiva delle parti, bensì in rapporto alla situazione oggettiva (cfr. Cass., 28/12/2023, n. 36295, Cass., 29/1/2021, n. 2154 e Cass., 3/7/2000, n. 8880)>>.

Applicato al caso de quo, ove si rileva l’errore della Corte di appello:

<<Orbene, a fronte di questi principi di diritto, nel caso di specie la corte territoriale non ha individuato, né tantomeno accertato un concreto inadempimento di LOGISTICA ITALIA, ma si è limitata a far riferimento a una “forte preoccupazione” che sarebbe stata espressa da rappresentanze sindacali ed al mero “rischio” per DHL di subire “una eventuale azione diretta ai sensi dell’art. 7-ter D.Lgs. 21.11.2005, n. 286” (v. p. 6 della sentenza). Per di più, la corte addebita a LOGISTICA ITALIA un ritardo del pagamento dello stipendio di luglio 2014 ai dipendenti dei sub-vettori, ma, al contempo, per un verso espressamente individua la scadenza stipendiale “entro il 7 agosto” successivo, per altro verso dà atto che gli accordi di DHL con i novantasette soci lavoratori dei subvettori sono avvenuti mediante novantasette scritture private in data 31 luglio 2014, cioè cronologicamente e giuridicamente prima del preteso inadempimento stipendiale dell’attuale ricorrente.

La Corte d’Appello, inoltre, anche se si dovesse reputare -ipotesi appunto insostenibile per i dati cronologici da essa stessa rimarcati – che abbia accertato un inadempimento effettivo (per cui tuttavia non si comprende perché sia ricorsa alle nozioni di “preoccupazione” e di “rischio”, veicolanti solo la sussistenza di possibilità pregiudizievoli), per applicare l’art. 1460 cod. civ. avrebbe dovuto – e lo ha del tutto omesso – di procedere al giudizio di comparazione tra tale inadempimento di LOGISTICA ITALIA e l’inadempimento di DHL al pagamento delle fatture per nolo nn. 8, 10, 11, 12, e 13 del 2014 azionate da LOGISTICA ITALIA in sede monitoria.

L’impugnata sentenza giunge quindi a estendere erroneamente la portata applicativa dell’art. 1460 cod. civ., da un lato trasformandola in strumento non di reazione, bensì di tutela preventiva, valevole per ipotesi di mero “rischio di inadempimento”, e dunque per inadempimento non effettivo ma solo potenziale (e – non si può non notare per inciso – potenziale è ogni inadempimento quando la prestazione non è ancora dovuta), e d’altro lato omettendo di verificare se la parte che rivolge l’eccezione sia in buona fede, cioè rifiuti il proprio adempimento a fronte di un concreto e più rilevante inadempimento della controparte del contratto a prestazioni corrispettive>>.

Onere della prova nell’appalto (soprattutto nella garanzia per vizi e difetti a carico dell’appaltatore)

Importanti insegnamenti in Cass. sez. II, ord. 23/01/2025 n. 1.701, rel. Trapuzzano, sullo scivoloso tema in oggetto. Il notevole grado di dettaglio del ragionamento svolto rende la sentenza decisamente saliente per l’operatore.

Vale la pena di riportare tutto il lungo passo pertinente, nel frequentissimno caso di azione dell’impresa per il recupero del corrispettivo, osteggiata dall’eccezione (o domanda) riconvenzionale che fa valere la garanzia per vizi o difformitlò (/art. 1667-1668 cc):

<<Senonché non può prescindersi, nello scrutinare la doglianza, dalla verifica dei termini in cui è stato trattato il tema della ripartizione dell’onere della prova in ordine alla ricorrenza dei difetti denunciati (ovvero alla prova della loro inesistenza).

Si rammenta che l’assunto da cui muove la Corte territoriale si incentra sul seguente rilievo: a fronte della “domanda” di riduzione del prezzo spiegata dall’opponente subappaltante, in ragione dei vizi debitamente allegati (infiltrazioni provenienti dal coperto oggetto degli interventi della subappaltatrice e da un velux non correttamente posto in opera), la sostanziale equiparazione di tale domanda ad una “eccezione” riconvenzionale di inadempimento ex art. 1460 c.c. implicava che fosse l’opposta subappaltatrice a dovere fornire la dimostrazione dell’esecuzione dell’opera in conformità alle prescrizioni negoziali e alle regole dell’arte, prova nella specie difettata, con la conseguente inibizione (nell’intero) del diritto a pretendere il pagamento del corrispettivo (con la revoca del provvedimento monitorio opposto).

In dottrina costituisce affermazione granitica l’assunto secondo cui la prova dell’imperfezione dell’opera grava sul committente, anche qualora le difformità e i vizi siano dedotti con l’exceptio non rite adimpleti contractus. In questa prospettiva, la presunzione di colpa non influisce sulla distribuzione dell’onere probatorio in ordine alla ricorrenza delle imperfezioni, ma più limitatamente consente di ritenere che esse siano addebitabili all’appaltatore, una volta che l’appaltante le abbia dimostrate, ricadendo sul primo la prova contraria: ossia dell’avere agito con diligenza o, secondo altri, dell’interferenza di circostanze esimenti tipiche.

Più articolata è la posizione, anch’essa al quanto consolidata, assunta sul punto dalla giurisprudenza di legittimità.

In sintonia con i principi generali sanciti con riferimento alla prova dell’adempimento contrattuale (Cass. Sez. U, Sentenza n. 13533 del 30/10/2001), questa Corte ha sostenuto che, in tema di inadempimento del contratto di appalto, le disposizioni speciali dettate dal legislatore attengono essenzialmente alla particolare disciplina della garanzia per le difformità ed i vizi dell’opera, assoggettata ai ristretti termini decadenziali di cui all’art. 1667 c.c., ma non derogano al principio generale che governa l’adempimento del contratto con prestazioni corrispettive, il quale comporta che – allorché il committente eccepisca l’inadempimento dell’esecutore – l’appaltatore abbia l’onere di provare di aver esattamente adempiuto la propria obbligazione e, quindi, di aver eseguito l’opera conformemente al contratto e alle regole dell’arte (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 25410 del 23/09/2024; Sez. 2, Ordinanza n. 16312 del 12/06/2024; Sez. 2, Sentenza n. 1634 del 24/01/2020; Sez. 6-2, Ordinanza n. 98 del 04/01/2019; Sez. 2, Sentenza n. 936 del 20/01/2010; Sez. 2, Sentenza n. 3472 del 13/02/2008).

Sicché siffatta distribuzione dell’onere probatorio non riguarda specificamente la garanzia speciale per i vizi dell’opera appaltata, ma risponde all’esigenza di assicurare, in tema di condanna all’adempimento nei contratti a prestazioni corrispettive, che la parte la quale chieda in giudizio l’esecuzione della prestazione dovuta (come il pagamento del compenso asseritamente maturato) non sia, a sua volta, inadempiente, avendo, piuttosto, l’onere di offrire l’esecuzione della propria prestazione, se le prestazioni debbano essere eseguite contestualmente, ovvero l’onere di dimostrare di aver adempiuto la propria obbligazione, se essa – come avviene per l’appaltatore – preceda l’adempimento in ordine al pagamento del corrispettivo cui la controparte è tenuta (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 15287 del 31/05/2024; Sez. 1, Ordinanza n. 7763 del 22/03/2024).

Ebbene, l’applicazione di tale regola al contratto di appalto, cui pacificamente si estende la disciplina generale dell’inadempimento del contratto, implica che l’appaltatore che agisca in giudizio per il pagamento del corrispettivo convenuto abbia l’onere di provare di avere adempiuto la propria obbligazione, ossia di aver eseguito l’opera, integrando tale adempimento il fatto costitutivo del diritto di credito, oggetto della sua pretesa.

Nondimeno, diverso è l’assetto relativo al riparto degli oneri probatori allorché sia fatta valere la garanzia speciale per le difformità e vizi dell’opera.

In questa prospettiva, da ultimo, con specifico riguardo al contratto di compravendita – ma il principio è stato espressamente esteso dalla stessa pronuncia, per identità di ratio, anche all’appalto -, si è affermato che, in materia di garanzia per i vizi della cosa venduta di cui all’art. 1490 c.c., il compratore che esercita le azioni di risoluzione del contratto o di riduzione del prezzo di cui all’art. 1492 c.c. è gravato dell’onere di offrire la prova dell’esistenza dei vizi. E ciò perché la garanzia per i vizi pone il venditore in una condizione non di “obbligazione” (dovere di prestazione) ma di “soggezione” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 11748 del 03/05/2019; così anche Cass. Sez. U, Sentenza n. 19702 del 13/11/2012), cosicché lo schema concettuale a cui ricondurre l’ipotesi che la cosa venduta risulti viziata non può essere quello dell’inadempimento di una obbligazione.

In particolare, la consegna di una cosa viziata integra un inadempimento contrattuale, ossia una violazione della lex contractus; ma, come è stato osservato in dottrina, non tutte le violazioni della lex contractus realizzano ipotesi di inadempimento di obbligazioni [si noti: inadempimento del contratto, non di una obbligazione, dato che non ricorreva quest’ultima ma semmai una garanzia].

Pertanto, traslando i riferiti argomenti all’odierno modello negoziale, l’imperfetta attuazione nell’appalto del risultato auspicato – ossia del compimento dell’opera o della prestazione del servizio in conformità alle pattuizioni negoziali e alle regole tecniche, in ragione della presenza delle difformità e dei vizi – integra una responsabilità che prescinde da ogni giudizio di colpevolezza dell’assuntore e si fonda soltanto sul dato obiettivo dell’esistenza dei difetti.[certo, ma ovvio]

Siffatta garanzia non può, quindi, essere ricondotta alla fattispecie dell’inesatto adempimento. Piuttosto, il diritto alla eliminazione o alla modificazione (quanto al prezzo) del contratto di appalto ovvero alla risoluzione, che vuol far valere l’appaltante che esperisca le azioni di cui all’art. 1668 c.c., per essere garantito dall’appaltatore in ordine ai difetti della cosa commissionata – vale a dire, per l’imperfetta attuazione del risultato al quale era funzionale l’obbligazione di facere, anche in assenza di colpa dell’assuntore -, si fonda sul fatto dell’esistenza dei difetti medesimi.

La prova di tale esistenza grava, dunque, in linea di principio, sul committente. E ciò anche in applicazione del principio di vicinanza della prova e del tradizionale canone riassunto nel brocardo latino negativa non sunt probanda.[piana applicaizone dell 2697 cc; che sia azine o mera eccezione nulla cambia]

Aderisce sostanzialmente a tale impostazione l’orientamento secondo cui l’onere della prova dei vizi è a carico della parte che abbia la disponibilità della cosa, in lineare applicazione del principio di vicinanza della prova, cosicché, in tema di garanzia per difformità e vizi, l’accettazione dell’opera segna il discrimine ai fini della distribuzione dell’onere della prova, nel senso che, fino a quando l’opera non sia stata espressamente o tacitamente accettata, al committente è sufficiente la mera allegazione dell’esistenza delle difformità e dei vizi, gravando sull’appaltatore l’onere di provare di aver eseguito l’opera conformemente al contratto e alle regole dell’arte, mentre, una volta che l’opera sia stata positivamente verificata, anche per facta concludentia, spetta al committente, che l’ha accettata e che ne ha la disponibilità fisica e giuridica, dimostrare l’esistenza dei difetti e delle conseguenze dannose lamentate, giacché l’art. 1667 c.c. indica nel medesimo committente la parte gravata dall’onere della prova di tempestiva denuncia delle difformità e dei vizi ed essendo questo risultato ermeneutico in sintonia col principio della vicinanza al fatto oggetto di prova (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 6161 del 07/03/2024; Sez. 2, Ordinanza n. 21230 del 19/07/2023; Sez. 2, Ordinanza n. 12723 del 10/05/2023; Sez. 2, Sentenza n. 7267 del 13/03/2023; Sez. 2, Ordinanza n. 2223 del 25/01/2022; Sez. 2, Sentenza n. 39599 del 13/12/2021; Sez. 2, Ordinanza n. 10149 del 16/04/2021; Sez. 2, Sentenza n. 19146 del 09/08/2013; Sez. 2, Sentenza n. 23923 del 27/12/2012).

Ne discende che prima dell’accettazione la prova dell’assenza delle imperfezioni denunciate compete all’artefice; dopo l’accettazione, anche tacita, la dimostrazione dell’esistenza spetta all’ordinante.[NB: punto assai importante nella pratica]

In particolare, laddove il committente denunci la presenza di difformità, basta che questi provi la mancata osservanza di determinate pattuizioni, senza che sia necessario fornire la dimostrazione che l’opera ha un valore o rendimento minore: potendo tale scostamento essere fatto valere anche nelle ipotesi in cui l’opera risulti avere un maggior valore. Qualora, per converso, la causa petendi dell’azione di eliminazione, riduzione o risoluzione sia rappresentata dalla denunciata ricorrenza di vizi, l’appaltante è onerato della prova della violazione di determinate regole di buona tecnica, la quale implica che, sebbene l’opera sia idonea alla sua destinazione, abbia subito, a causa dei difetti dedotti, una diminuzione di valore o di rendimento rispetto al valore desumibile dalle prescrizioni negoziali; a fortiori, la dimostrazione del decremento di valore o di rendimento è sintomatica (recte meramente indicativa) della violazione delle regole dell’arte.

1.4.- Da queste argomentazioni deriva che solo allorché il committente si limiti ad eccepire l’inadempimento dell’appaltatore (deducendo la sussistenza di difformità o vizi, ma senza ampliare il thema decidendum) – nel caso quest’ultimo abbia agito in giudizio per il pagamento del corrispettivo convenuto – l’assuntore ha l’onere di provare di aver esattamente adempiuto la propria obbligazione e di aver eseguito l’opera conformemente al contratto e alle regole dell’arte.

E tanto in conformità al principio generale a mente del quale, in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il debitore convenuto per l’adempimento, ove sollevi l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., sarà onerato di allegare l’altrui inadempimento, gravando sul creditore agente l’onere di dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione (Cass. Sez. 6-3, Ordinanza n. 3587 del 11/02/2021; Sez. 3, Sentenza n. 3373 del 12/02/2010; Sez. 1, Sentenza n. 13674 del 13/06/2006; Sez. 3, Sentenza n. 8615 del 12/04/2006).

Quindi, qualora il committente contesti fondatamente l’adempimento, per non avere l’artefice dimostrato la perfetta esecuzione dell’opera, la domanda di condanna al pagamento non può essere accolta, non rilevando che l’inadempimento dell’appaltatore abbia scarsa importanza, in quanto a tale nozione l’art. 1455 c.c. fa riferimento a proposito della domanda di risoluzione del contratto e non di quella volta ad ottenere il suo adempimento, stante l’esigenza di prevedere l’operatività del rimedio della risoluzione solo nel caso in cui il comportamento di una parte produca un effettivo pregiudizio all’interesse della parte non inadempiente, alterando il sinallagma funzionale.

In tale evenienza è richiesta dunque la dimostrazione (positiva) dell’esatto adempimento, sul piano quantitativo e qualitativo, della prestazione, nel suo insieme, in collegamento sinallagmatico rispetto al pagamento del compenso (che appunto dà causa e giustifica il diritto alla sua percezione): sia sul completamento dell’opera o del servizio, sia sulla corrispondenza dell’opera o del servizio alle prescrizioni negoziali e alla buona tecnica.

Il che ontologicamente costituisce onere diverso dalla dimostrazione (negativa) dell’inesistenza di specifiche difformità o vizi.

Qualora, per converso, il committente eserciti le azioni di cui alla garanzia speciale per le difformità e i vizi – in via principale o in via riconvenzionale -, l’onere probatorio ricade sull’appaltante che abbia la disponibilità dell’opera.

In specie, l’azione di proporzionale riduzione costituisce rimedio satisfattivo speciale, che amplia il thema decidendum ed è funzionalmente diverso dal rimedio risarcitorio, il quale può essere esperito in aggiunta all’actio quanti minoris, ovviamente per il perseguimento di beni della vita eterogenei, anche se complementari, benché anch’essa tenda a riparare le conseguenze di un inadempimento contrattuale (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11604 del 02/08/2002; Sez. 2, Sentenza n. 1770 del 07/02/2001; Sez. 2, Sentenza n. 977 del 04/02/1999; Sez. 2, Sentenza n. 4839 del 04/08/1988).

L’incidenza del difetto sul prezzo postula, infatti, che sia indicata l’entità e la qualità delle difformità e dei vizi, i quali debbono essere singolarmente dedotti e valutati, ai fini dell’emarginazione della causa petendi della domanda, sebbene costituiscano altrettanti fatti semplici che concorrono a formare l’unico fatto giuridico (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1023 del 19/02/1986; Sez. 3, Sentenza n. 1617 del 17/06/1963; Sez. 1, Sentenza n. 1317 del 30/05/1962; Sez. 1, Sentenza n. 882 del 20/04/1961).

Quanto al petitum, la finalità della riduzione del prezzo è quella di porre il committente nella stessa condizione economica in cui si sarebbe trovato se avesse stipulato l’appalto per un’opera corrispondente a quella effettivamente realizzata, comprensiva dei difetti, ad un prezzo inferiore, cosicché l’esperimento dell’azione è volto a ristabilire il nesso di corrispettività tra le prestazioni. In questa prospettiva la riduzione incide sul prezzo inteso come valore contrattuale della cosa e non sul suo valore di mercato, ossia sul valore corrente obiettivo della cosa.

Ne discende che la pretesa dell’ordinante di condanna dell’artefice al pagamento della somma necessaria ad eliminare i vizi dell’opera non costituisce una mera modalità esecutiva della richiesta di eliminazione dei vizi a spese dell’assuntore (la quale postula che quest’ultimo proceda direttamente ai lavori di correzione o riparazione, in forza della condanna giudiziale disposta), bensì si inquadra nell’ambito dell’obbligo di riduzione del corrispettivo, assumendo il riferimento ai vizi funzione parametrica della somma all’uopo richiesta (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4161 del 02/03/2015; Sez. 2, Sentenza n. 5250 del 15/03/2004; Sez. 2, Sentenza n. 2974 del 22/06/1989; Sez. 2, Sentenza n. 1016 del 07/02/1983).

Delineati gli elementi costitutivi dell’azione di proporzionale riduzione del prezzo, propone domanda riconvenzionale il committente che, convenuto in giudizio dall’appaltatore per il pagamento del prezzo convenuto, chieda la riduzione di quel corrispettivo ai sensi dell’art. 1668, primo comma, c.c., denunciando difformità o vizi dell’opera (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2236 del 15/06/1976; nello stesso senso, con riferimento alla vendita, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1289 del 26/04/1968; Sez. 3, Sentenza n. 1352 del 06/06/1962).

Il discrimen è, per l’effetto, segnato dalla posizione processuale assunta dall’appaltante con riferimento alla domanda dell’artefice di pagamento del compenso: ove questi si limiti ad eccepire l’inadempimento, è onere dell’assuntore dimostrare la corretta esecuzione dell’opera ai fini di ottenere il pagamento del corrispettivo; ove, invece, il committente faccia valere la garanzia speciale per le difformità e i vizi, azionando le domande di eliminazione a spese dell’appaltatore oppure di diminuzione proporzionale del prezzo o di risoluzione dell’appalto, farà carico allo stesso committente, che sia rientrato nella piena disponibilità dell’opera, come fisiologicamente accade al termine dei lavori, l’onere di dimostrare l’integrazione di tali difformità e vizi>>.

L’accordo tra ex conviventi, determinativo del dovere di mantenimento del figlio, costituisce contratto sinallgmatico e come tale suscettibile di risoluzione per inadempimento?

Cass. civ., Sez. I, Ord., (data ud. 10/10/2024) 20/01/2025, n. 1.324, rel. Ioffrida, su una clausola di un accordo transattivo-deterinativo con questo contenuto: <<clausola n. 5 di una scrittura privata sottoscritta da tali parti in data 21.11.2018, “a transazione”, per definire gli aspetti relativi all’esercizio della responsabilità sul figlio minore (nato, nel 2007, dalla relazione sentimentale con convivenza more uxorio tra i due, terminata nel 2011) e quelli patrimoniali, clausola con la quale la A.A. si era impegnata “in qualità di proprietaria esclusiva dell’abitazione sita in M alla via (Omissis),… a vendere il predetto immobile ed a riconoscere al sig. B.B. sul prezzo della vendita un ricavato pari alla somma complessiva di Euro 380.000,00 (euro trecentottantamila/00)”, riconoscimento di debito, sul prezzo di vendita di immobile di proprietà della A.A., “finalizzato all’equiparazione delle elargizioni e dei beni conferiti dal sig. B.B. alla prima famiglia ed al primo figlio… con quelle riconosciute e da riconoscersi alla seconda famiglia ed al secondo figlio” >>.

Prima parte largamente accettata:

<<Questa Corte ha affermato che le clausole dell’accordo di separazione consensuale o di divorzio a domanda congiunta, che riconoscano ad uno o ad entrambi i coniugi la proprietà esclusiva di beni – mobili o immobili – o la titolarità di altri diritti reali, ovvero ne operino il trasferimento a favore di uno di essi o dei figli, al fine di assicurarne il mantenimento, sono valide in quanto il predetto accordo, inserito nel verbale di udienza redatto da un ausiliario del giudice e destinato a far fede di ciò che in esso È stato attestato, assume forma di atto pubblico ex art. 2699 c.c. e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce, dopo il decreto di omologazione della separazione o la sentenza di divorzio, valido titolo per la trascrizione ex art. 2657 c.c. (Cass. S.U. 21761/2021). Ed, inoltre, si è chiarito che l’accordo transattivo relativo alle attribuzioni patrimoniali, concluso tra le parti ai margini di un giudizio di separazione o di divorzio, ha natura negoziale e produce effetti senza necessità di essere sottoposto neppure al giudice per l’omologazione (Cass. 24621/2015) e questa Corte ha stabilito che la soluzione dei contrasti interpretativi, tra una pattuizione “a latere” ed il contenuto di una separazione omologata o sentenza di divorzio, spetta al Giudice di merito ordinario, il quale dovrà fare ricorso ai criteri dettati dagli artt. 1362 s.s. c.c. in tema di interpretazione dei contratti.

Cio’ in relazione alla natura di contratti estranei all’oggetto del giudizio di divorzio (status, assegno di mantenimento per il coniuge o per i figli, casa coniugale) – seppure aventi causa nella crisi coniugale -, il che ne evidenzia la natura di contratti, impugnabili secondo le regole ordinarie>>.

Nella specie, si verte in ipotesi di accordo stipulato tra ex conviventi di fatto, al momento della cessazione della convivenza, al fine di disciplinare sia profili relativi al mantenimento della prole sia questioni patrimoniali insorte nella coppia.

Al riguardo, è stato affermato che “In tema di mantenimento dei figli nati da genitori non coniugati, alla luce del disposto di cu all’art.337 ter comma 4 c.c., anche un accordo negoziale intervenuto tra i genitori non coniugati e non conviventi, al fine di disciplinare le modalità di contribuzione degli stessi ai bisogni e necessità dei figli, è riconosciuto valido come espressione dell’autonomia privata e pienamente lecito nella materia, non essendovi necessità di un’omologazione o controllo giudiziale preventivo; tuttavia, avendo tale accordo ad oggetto l’adempimento di un obbligo “ex lege”, l’autonomia contrattuale delle parti assolve allo scopo solo di regolare le concrete modalità di adempimento di una prestazione comunque dovuta ed incontra un limite, sotto il profilo della perdurante e definitiva vincolatività fra le parti del negozio concluso, nell’effettiva corrispondenza delle pattuizioni in esso contenute all’interesse morale e materiale della prole” (Cass. 663/2022).

Orbene, riconosciuto dalla stessa Corte d’Appello che rientrasse nella piena autonomia negoziale delle parti disciplinare gli aspetti economico-patrimoniali, estranei agli obblighi ex lege riguardanti la prole, in relazione ai quali l’autonomia delle parti contraenti incontra limiti, occorreva vagliare con attenzione il contenuto complessivo delle pattuizioni e della clausola n. 5 in particolare dell’accordo inter partes del 2018, in base ai criteri di legge in ambito di interpretazione del contratto.

Risponde, peraltro, ad un orientamento altrettanto consolidato il principio per cui, in sede di interpretazione del contratto, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il primo e principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate (Cass. n. 7927 del 2017).

Si è, tuttavia, precisato al riguardo che il rilievo da assegnare alla formulazione letterale deve essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale. Il giudice, infatti, non può arrestarsi ad una considerazione atomistica delle singole clausole, neppure quando la loro interpretazione possa essere compiuta, senza incertezze, sulla base del “senso letterale delle parole”, giacché per senso letterale delle parole va intesa tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto (Cass. n. 7927 del 2017, in motivazione; Cass. 23701 del 2016, in motivazione). Il giudice, quindi, deve raffrontare e coordinare tra loro le varie espressioni che figurano nella dichiarazione negoziale, riconducendole ad armonica unità e concordanza (Cass. n. 2267 del 2018; Cass. n. 8876 del 2006)>>.

Si v. pure Cass. Sez. I, ord. 28 gennaio 2024 n. 1985 rel . Tricomi, che la richiama aggiungendo: “L’interpretazione del contratto è rimessa al giudice di merito; in sede di legittimità questa interpretazione è sindacabile solo nei limiti dell’applicazione delle norme di ermeneutica contrattuale e della logica della sua motivazione (Cass. n. 435/1997). Nell’interpretazione del contratto, funzione fondamentale assume l’elemento letterale. Nel contempo, il senso letterale della singola parola, anche nella sua chiarezza, è insufficiente (come l’art. 1362 primo comma cod. civ. presuppone) a delineare la comune intenzione delle parti (obiettivo dell’interpretazione), la quale emerge solo (come l’incondizionata, affermazione dell’art. 1363 cod. civ. esige) attraverso la connessione degli elementi letterali (“le une per mezzo delle altre”), la relativa integrazione (“il senso che risulta dal complesso dell’atto”), e la valutazione del complessivo comportamento delle parti (art. 1362 secondo comma cod. civ.) (Cass. n. 34687/2023; Cass. n. 6233/2004): passaggi necessari del procedimento interpretativo, di funzione non subordinata, bensì concorrente (Cass. n. 6389/1998).

Questa progressiva dilatazione degli elementi dell’interpretazione contrattuale si sviluppa man mano dalle singole parole alla clausola, alla connessione delle clausole, al complesso dell’atto, ed al comportamento complessivo delle parti (Cass. n. 5960/1999; Cass. n. 8574/1999), il quale non costituisce un canone sussidiario, bensì un parametro necessario ed indefettibile (“si deve valutare”: art. 1362 secondo comma cod. civ.). In tal modo, le disposizioni degli artt. 1362 primo comma, 1363 e 1362, secondo comma, cod. civ. sono fondate sulla stessa logica, che, esprimendo l’intrinseca insufficienza della singola parola (e del suo formale significato: come, in diverso campo ed in diversa misura, segnala l’art. 12 primo comma delle preleggi), prescrive la più ampia dilatazione degli elementi di interpretazione: le singole espressioni letterali devono essere inquadrate nella clausola, questa nelle altre clausole, queste nel complesso dell’atto, e l’atto nel complessivo comportamento delle parti.

Ciò comporta che la censura in sede di legittimità dell’interpretazione di una clausola contrattuale offerta dal giudice di merito imponga al ricorrente l’onere di fornire, con formale autosufficienza, gli elementi alla complessiva unitarietà del testo e del comportamento non adeguatamente considerati dal giudice di merito, nella loro materiale consistenza e nella loro processuale rilevanza (Cass. n. 34687/2023)“.

Seconda aprte più interessante, affrontanto una questione non banale: l’accordo determinativo dell’assegno (come di qualunque obbligo da quantificare) è forse privo di sinallagmaticità, con conseguente inapplicabilità della disciplina generale risolutoria?

<<La sentenza impugnata, invece, laddove ha ritenuto la clausola n. 5, in relazione al contenuto dell’accordo complessivo, nella parte relativa ad una obbligazione ex lege, quale il mantenimento della prole che ricade su ciascun genitore, non avesse natura contrattuale, con conseguente inapplicabilità dei rimedi dell’eccezione di inadempimento e della risoluzione per inadempimento, in mancanza di sinallagmaticità tra gli obblighi previsti delle parti, non ha provveduto a ricostruire la volontà delle parti, per come fatta palese dal ricorso ai criteri di interpretazione teleologica e sistematica, oltre che letterale del testo al suo esame, omettendo, in particolare, di vagliare il tenore letterale della clausola n. 5, nella sua parte finale, laddove afferma che “il riconoscimento dell’importo di Euro 380.000,00 al sig. B.B. è finalizzato alla equiparazione delle elargizioni e dei beni conferiti dal sig. B.B. alla prima famiglia ed al primo figlio, al quale è stato intestato l’appartamento di via (Omissis), con quelle riconosciute e da riconoscersi alla seconda famiglia ed al secondo figlio ed alla ulteriore ed eventuale prole che dovesse sopravvenire”.

Del pari si è trascurato di vagliare l’autonomia dell’impegno di cui al punto 5 della scrittura, rispetto agli altri assunti negli art. da 2 a 4, quale poteva emergere dalla stessa lettera della scrittura dalle parti sottoscritta che, al punto 6, impegnava le parti a depositare un ricorso congiunto ex art. 316 e 337 bis ss. c.c., “aventi le medesime condizioni della presente scrittura (ad eccezione dei punto 5 e 6) entro un mese dalla sottoscrizione della presente scrittura privata” (doc. 5, p. 8).

Orbene, la clausola 5 (relativa ai 380.000 Euro che la A.A. si impegnava a versare all’ex convivente) deve essere letta nel suo insieme e già dal significato letterale emerge la condizionalità con l’assolvimento degli obblighi di mantenimento, laddove inadempiuti. Invero, si dice espressamente che si equiparano i diritti della “prima famiglia” e della “seconda” dello B.B.

Si È così ritenuto che una delle parti, nell’ambito di un accordo con l’ex convivente sul mantenimento del figlio (questo lo scopo) e sulla sostanziale sistemazione dei profili patrimoniali (ma sempre in funzione del figlio), abbia riconosciuto un debito, del tutto disancorato dall’assunzione dell’obbligo ex lege, nonostante sia spiegata, nell’atto complessivo, la causa concreta del riconoscimento, la equiparazione dei diritti dei figli delle due famiglie dello B.B.

Si deve ribadire che l’accordo va letto nel suo insieme, non potendo il nesso condizionale tra la prima parte e la seconda essere scisso.

Risultano pertanto essere stati violati i canoni legali ermeneutici, in primis quello letterale della singola clausola (art.5) che va letta nell’insieme dell’accordo e con la prima parte dello stesso atto.

La conseguente conclusione circa la non possibilità di una risoluzione per inadempimento risulta dunque falsata ed erronea>>.

Questioni interessanti ma difficili.

E’ vero che l’accordo pareva essere non solo determinativo ma con un plus di contenuto (l’impegno a parificare i due figliavuti  da donne diverse). Ma questo basta a farlo ritenere sinallagmatico anche per la componente determinativa dell’obbligo di ex lege?

E comunque resta la questione a monte: la sola componente determinativa, cioè prescindendo dal resto, è di per sè risolubile per inadepimento ?

Una volto risolto stragiudizialmente il contratto, non si può rinunciare agli effetti della intervenuta risoluzione

Cass. sez. III, 18 Settembre 2024 n. 25.128, rel.  Gorgoni:

<<La parte che ha ottenuto la risoluzione legale o giudiziale del contratto non può rinunciare ai relativi effetti, restando altrimenti leso il legittimo affidamento del debitore nell’ormai intervenuta risoluzione. (Nella specie, la S.C. ha affermato che il concedente di un’autovettura in leasing, una volta dichiarato di volersi avvalere di una clausola risolutiva espressa connessa al furto del bene, non può, per iniziativa unilaterale, far rivivere il contratto in conseguenza del suo ritrovamento, essendosi gli effetti risolutivi già cristallizzati nel momento in cui la dichiarazione era giunta a conoscenza dell’utilizzatrice)>>. (massima ufficiale)

 

Sulla diferenza tra caparra confirmatoria e clausola penale

Cass. sez. II ord. 18/04/2024 n. 10.541, rel. Amato:

fatto processuale:

<<7.1. Nel caso di specie, la sentenza d’appello – confermando la sentenza di prime cure – ha ritenuto che la promittente alienante avesse inteso esercitare il recesso dal contratto preliminare in forza di una caparra confirmatoria versata solo in parte; essendo prevista in contratto preliminare cumulativamente alla caparra una penale a carico della parte inadempiente, la stessa Corte ha confermato la condanna dell’appellante – ritenuto inadempiente per non aver corrisposto né l’integrale ammontare della caparra convenuta, né l’intero prezzo di vendita – al pagamento della penale, sebbene ridotta dal 30 al 15% del prezzo di vendita dell’immobile>>.

Valutazione della SC:

<<7.1.1. Questa Corte ha già avuto modo di precisare che, ferma la possibilità di prevedere congiuntamente nel contratto una caparra confirmatoria e una clausola penale, i due istituti mantengono comunque funzioni diverse.

7.1.2. La caparra confirmatoria, oltre a dimostrare esteriormente la conclusione del contratto e ad integrare un’anticipata, parziale esecuzione della prestazione convenuta, ha la funzione di rappresentare un anticipato risarcimento del danno in caso di mancato adempimento. Sotto tale aspetto, essa si accosta alla clausola penale stipulata per il caso d’inadempimento, per il fine che essa rivela di indurre l’obbligato ad eseguire la prestazione.

Tuttavia, l’accostamento tra caparra confirmatoria e clausola penale stipulata per il caso d’inadempimento non può andare oltre il rilievo del comune intento che esse rivelano di indurre l’obbligato all’adempimento, in quanto esse hanno un diverso ambito di applicazione. Mentre la prima è applicabile al caso che il contratto non debba essere più adempiuto per l’avvenuto esercizio del diritto di recesso; la seconda è, invece, applicabile al caso in cui il diritto di recesso non sia stato esercitato: in tale ultima ipotesi, la clausola penale ha la funzione di limitare preventivamente il risarcimento del danno nel caso in cui la parte che non è inadempiente preferisca, anziché recedere dal contratto, domandarne l’esecuzione o la risoluzione (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10953 del 28/06/2012; Sez. 1, Sentenza n. 925 del 09/05/1962; Sez. 2, Sentenza n. 4274 del 20/11/1954). Siffatta discriminazione tra caparra confirmatoria e clausola penale resta ferma anche nell’ipotesi di specie, in cui – con riferimento alla caparra confirmatoria – è stato previsto il suo pagamento prima della stipula del contratto definitivo (Cass. n. 35068 del 2022, cit.).

7.1.3. Qualora la parte non inadempiente (La. Srl nel caso che ci occupa) avesse manifestato la volontà di optare per l’esercizio del rimedio ordinario della risoluzione del negozio, anziché il recesso ex art. 1385, comma 2, cod. civ., la prova incombente sulla parte adempiente avrebbe riguardato esclusivamente l’eventuale maggior danno subìto in conseguenza dell’inadempimento dell’altra parte: per il caso di previsione cumulativa di caparra e penale nello stesso contratto, tale ulteriore danno è automaticamente determinato nel quantum previsto a titolo di clausola penale che ha la funzione di limitare il risarcimento del danno nel caso in cui la parte che non è inadempiente preferisca, anziché recedere dal contratto, domandarne la risoluzione (Sez. 2, Sentenza n. 10953 del 28/06/2012, Rv. 623124-01)>>.

Applicando al caso de quo:

<<7.2. In applicazione dei suddetti principi, nel caso che ci occupa l’esercizio del recesso richiesto da La. Srl già in primo grado con domanda riconvenzionale, ritenuto legittimo da entrambi i giudici del merito con conseguente ritenzione della somma versata in parte dal promissario acquirente a titolo di caparra, esclude che La. Srl – quale parte non inadempiente – possa ottenere anche il versamento della penale, non potendo essa comunque dimostrare alcun maggior danno (determinato nel quantum previsto a titolo di clausola penale), nel rispetto della richiamata duplice funzione – propria della caparra confirmatoria – di anticipazione della prestazione dovuta come del risarcimento del danno in caso di mancato adempimento.

7.3. La sentenza impugnata non ha correttamente applicato i suddetti principi in tema di stipulazione congiunta di caparra confirmatoria e clausola penale, nell’ipotesi di esercizio del recesso. Pertanto, essa merita di essere cassata; decidendo nel merito, sulla base dei fatti accertati nelle fasi pregresse, la Corte esclude la condanna di Iu.Ma. al pagamento della penale di Euro 28.663,35>>.

Doveri del sindaco di società ed eccezione di inadempimento sollevata dalla società fallita di fronte alla sua richiesta di ammissione al passivo per il compenso

Cass. ord. Sez. 1 n. 3459 del 07.02.2024, rel. DONGIACOMO GIUSEPPE:

Il giudice a quo:

<<Il tribunale, infatti, ha ritenuto la fondatezza
dell’eccezione d’inadempimento sollevata dal Fallimento sul
duplice rilievo per cui, da un lato, gli addebiti posti a fondamento
della stessa, vale a dire l’“omessa vigilanza della rilevazione
della causa di scioglimento della società amministrata, a causa
della perdita del capitale sociale … occultata tramite la falsa
esposizione nei bilanci … di valori fittizi degli assets immobiliari
…”, “risultano compiutamente descritti e trovano riscontro nella
abbondante documentazione prodotta in atti” e, dall’altro lato,
che l’opponente, a fronte di tale eccezione, non aveva
adempiuto all’onere di provare “l’esatto e completo
adempimento delle prestazioni contrattualmente dedotte”>>.

La SC:
<<4.3. Il tribunale, così ragionando, si è attenuto ai principi
ripetutamente esposti da questa Corte, e cioè che il curatore del
fallimento della società committente, nel giudizio di
verificazione conseguente alla domanda di ammissione del
credito vantato dal professionista (come il sindaco della società
poi fallita) al compenso asseritamente maturato nei confronti
della stessa, è legittimato a sollevare l’eccezione
d’inadempimento (anche nel caso in cui si fosse prescritta la
corrispondente azione: art. 95, comma 1°, l.fall.) secondo i
canoni diretti a far valere la responsabilità contrattuale: vale a
dire con il (solo) onere di contestare, in relazione alle
circostanze del caso (come “la falsa esposizione nei bilanci … di
valori fittizi degli assets immobiliari …” e il conseguente
l’occultamento “della perdita del capitale sociale”, che ha
specificamente dedotto e altrettanto doverosamente
documentato in giudizio quali fatti storici che avrebbero imposto
al sindaco la condotta che, in relazione al mandato ricevuto,
avrebbe dovuto tenere e non ha, invece, tenuto, e cioè la
tempestiva “rilevazione della causa di scioglimento della società
amministrata”), la negligente o incompleta esecuzione, ad
opera del professionista istante, della prestazione di vigilanza
dovuta, restando, per contro, a carico di quest’ultimo l’onere di
dimostrare, a fronte delle circostanze dedotte e provate dal
curatore, di aver, invece, esattamente adempiuto per la
rispondenza della sua condotta al modello professionale e
deontologico richiesto in concreto dalla situazione su cui è
intervenuto con la propria opera (cfr. Cass. SU n. 42093 del
2021).
4.4. In tema di prova dell’inadempimento di
un’obbligazione, infatti, il creditore che agisca per
l’adempimento (oltre che per la risoluzione contrattuale ovvero
per il risarcimento del danno) deve soltanto provare la fonte del
suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla
mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della
controparte [incongfruenza: poche righe sopra aveva detto “dedotte e provate”], mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere
della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito
dall’avvenuto adempimento (Cass. SU n. 13533 del 2001).
4.5. Si tratta, peraltro, di un criterio di riparto dell’onere
della prova applicabile anche al caso in cui il debitore convenuto
si avvalga, com’è accaduto nel caso in esame, dell’eccezione
d’inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. poiché il debitore
eccipiente può limitarsi ad allegare l’altrui inadempimento o
l’inesatto adempimento alle obbligazioni assunte dal creditore
(di cui deve dedurre e dimostrare il fatto costitutivo), spettando,
per contro, a chi ha agito in giudizio l’onere di provare di aver
esattamente adempiuto alle stesse (Cass. SU n. 13533 del
2001; Cass. n. 3373 del 2010; Cass. n. 826 del 2015; Cass. n.
3527 del 2021).
4.6. Pertanto, ove il preteso creditore (come il sindaco
della società fallita) proponga opposizione allo stato passivo,
dolendosi dell’esclusione di un credito (al compenso maturato)
del quale aveva chiesto l’ammissione, il Fallimento, dinanzi alla
pretesa creditoria azionata nei suoi confronti, può sollevare, per
paralizzarne l’accoglimento in tutto o in parte, l’eccezione di
totale o parziale inadempimento o d’inesatto adempimento da
parte dello stesso ai propri obblighi contrattuali (e cioè, com’è
accaduto nel caso in esame, l’“omessa vigilanza della
rilevazione della causa di scioglimento della società
amministrata, a causa della perdita del capitale sociale …
occultata tramite la falsa esposizione nei bilanci … di valori fittizi
degli assets immobiliari …”), con, appunto, il solo onere di
allegare, in relazione alle circostanze di fatto del caso (che ha
l’onere di provare), l’inadempimento del sindaco istante (al suo
dovere di vigilanza sull’attività di gestione della società: art.
2403, comma 1°, c.c.); spetta poi a quest’ultimo il compito di
provare il fatto estintivo di tale dovere, costituito dall’avvenuto
esatto adempimento, e cioè di aver adeguatamente vigilato
sulla condotta degli amministratori, attivando, con la diligenza
professionale dallo stesso esigibile in relazione alla situazione
concreta, i poteri-doveri inerenti alla carica (art. 2407, comma
1°, c.c.)>>.

Prosegue la SC:

<<4.7. I sindaci, in effetti, non esauriscono l’adempimento
dei proprio compiti con il mero e burocratico espletamento delle
attività specificamente indicate dalla legge avendo, piuttosto,
l’obbligo di adottare (ed, anzi, di ricercare lo strumento di volta
in volta più consono ed opportuno di reazione, vale a dire) ogni
altro atto (del quale il sindaco deve fornire la dimostrazione)
che, in relazione alle circostanze del caso (ed, in particolare,
degli atti o delle omissioni degli amministratori che, in ipotesi,
non siano stati rispettosi della legge, dello statuto o dei principi
di corretta amministrazione) fosse utile e necessario ai fini di
un’effettiva ed efficace (e non meramente formale) vigilanza
sull’amministrazione della società e le relative operazioni
gestorie (cfr., al riguardo, Cass. n. 18770 del 2019, in motiv.,
per cui “l’onere di allegazione e di prova nelle azioni di
responsabilità avverso l’organo sindacale si atteggia nel senso
che spetta all’attore allegare l’inerzia del sindaco e provare il
fatto illecito gestorio, accanto all’esistenza di segnali d’allarme
che avrebbero dovuto porre i sindaci sull’avviso; assolto tale
onere, l’inerzia del sindaco integra di per sé la responsabilità,
restando a carico del medesimo l’onere di provare di non aver
avuto nessuna possibilità di attivarsi utilmente, ponendo in
essere tutta la gamma di atti, sollecitazioni, richieste, richiami,
indagini, sino alle denunce alle autorità civile e penale”)>>

E subito dopo:

<<.Il decreto impugnato ha fatto corretta applicazione
degli esposti principi, dal momento che il Fallimento ha dedotto
un circostanziato inesatto adempimento (e cioè la mancata
“rilevazione della causa di scioglimento della società
amministrata, a causa della perdita del capitale sociale …
occultata tramite la falsa esposizione nei bilanci … di valori fittizi
degli assets immobiliari …”) ai compiti della carica, laddove, per
contro, il sindaco opponente (senza contestare l’insussistenza
di tali presupposti e i doveri giuridici che se conseguono), come
accertato in fatto dal tribunale, non ha, a sua volta, fornito la
prova di aver correttamente adempiuto.
4.9. Non può, in effetti, seriamente dubitarsi che i
sindaci (i quali, infatti, in caso d’inadempimento da parte degli
amministratori, sono legittimati ad agire in giudizio innanzi al
tribunale: artt. 2485, comma 2°, e 2487, comma 2°, c.c.)
abbiano (anche se si tratta di società quotate: cfr. l’art. 154,
comma 1, del d.lgs. n. 58/1998) il dovere di vigilare sul corretto
e tempestivo adempimento da parte degli amministratori
all’obbligo di rilevare tempestivamente la verificazione di una
causa di scioglimento della società, come la perdita del capitale
sociale (art. 2484, n. 4, c.c.), e di procedere alla relativa
iscrizione nel registro delle imprese (art. 2485, comma 1°, c.c.),
e che, in difetto, a prescindersi dalla dannosità o meno di tale
inosservanza, la società (o, in caso di fallimento, il suo curatore)
sia legittimata ad eccepire l’inadempimento a tale dovere per
escludere l’obbligo (e l’insinuazione al passivo del relativo
credito) al pagamento del compenso, in ipotesi, maturato.
4.10. Nelle società quotate, anzi, il dovere di vigilanza
sancito dall’art. 2403 c.c. non è circoscritto all’operato degli
amministratori ma si estende al regolare svolgimento dell’intera
gestione dell’ente in modo ancora più stringente, considerata
l’esigenza di garantire l’equilibrio del mercato (Cass. n. 1601 del
2021).
4.11. L’eccezione d’inadempimento, che può essere
dedotta anche in caso di adempimento solo inesatto, (salvo il
limite della buona fede: Cass. n. 1690 del 2006) non è, del
resto, subordinata alla presenza degli stessi presupposti
richiesti per la risoluzione del contratto e l’azione di risarcimento
dei danni conseguentemente arrecati, e cioè, rispettivamente la gravità e la dannosità dell’inadempimento dedotto (cfr. Cass.
n. 12719 del 2021).
4.12. Quanto al resto, non può che ribadirsi come la
violazione dell’art. 2697 c.c. si configura solo nell’ipotesi in cui
il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte
diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta
norma e non anche quando la censura abbia avuto ad oggetto,
com’è accaduto nel caso in esame, la valutazione che il giudice
abbia svolto delle prove proposte dalle parti lì dove ha ritenuto
(in ipotesi erroneamente) assolto (o non assolto) tale onere ad
opera della parte (e cioè, nel caso in esame, il creditore
opponente) che ne era gravata in forza della predetta norma,
che è sindacabile, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti
previsti dall’art. 360 n. 5 c.p.c. (cfr. Cass. n. 17313 del 2020;
Cass. n. 13395 del 2018)>>.

Sul rapporto tra risoluzione contrattuale per inadempimento e risarcimento del danno: anche senza chiedere la prima, il secondo comprende l’interesse contrattuale positivo

Interessante motivazione in Cass. sez. III del 29/12/2023  n. 36.497, rel. Gorgoni, la quale, in un’azione di danno promossa dal paziente/cliente verso l’odontoiatra per inadempimento professionale, coglie un palese errore della corte di appello.

Premessa generale:

<<va innanzitutto considerato che la giurisprudenza di questa Corte ha in occasioni affermato che la domanda di risarcimento dei danni per inadempimento contrattuale può essere proposta congiuntamente o separatamente da quella di risoluzione, giacché l’art. 1453 c.c., facendo salvo in ogni caso il risarcimento del danno, esclude che l’azione risarcitoria presupponga il necessario esperimento dell’azione di risoluzione del contratto (Cass. 23/07/2002, n. 10741; Cass. 10/06/1998, n. 5774; Cass. 14/01/1998, n. 272);

la causa di risarcimento danni per inadempimento contrattuale non e’, infatti, accessoria rispetto alla causa di risoluzione del medesimo contratto per inadempimento, perché la decisione dell’una non presuppone, per correlazione logico-giuridica, la decisione dell’altra, né vi è subordinazione, essendo invece autonome tra loro (Cass. 25/07/2023, n. 22277; Cass. 23/05/2023, n. 14172; Cass. 19/04/2023, n. 10429; Cass., 31/03/2021, n. 8993; Cass. 12/06/2020, n. 11348);

tantomeno può dirsi che la domanda di risoluzione sia implicitamente compresa in quella risarcitoria (Cass. 10/07/2018, n. 18086);

vero e’, però, che il presupposto di entrambe è l’accertamento dell’inadempimento, pur incidendo lo stesso diversamente, dovendo essere di non scarsa importanza per accogliere la domanda di risoluzione e fungendo soltanto da parametro di valutazione per la domanda risarcitoria (Cass. 14/12/2000, n. 15779);

i tre rimedi – la risoluzione per inadempimento, la domanda di adempimento, il risarcimento del danno – hanno in comune gli stessi fatti costitutivi – l’obbligazione e l’inadempimento – benché consentano a chi se ne avvalga di conseguire utilità diverse (Cass. 12/10/2000, n. 13598; Cass. 11/05/2005, n. 9926; Cass. 09/09/2008, n. 22883);>>.

Nello specifico:

<<6.1) è evidente, dunque, che la Corte d’appello ha enunciato una regola di giudizio sbagliata, allorché ha affermato che, avendo la consulenza tecnica d’ufficio accertato solo la sussistenza di un inadempimento contrattuale, ciò avrebbe consentito quale unica conseguenza “la risoluzione del contratto e la restituzione dei corrispettivi versati, purché ovviamente detta domanda fosse stata proposta in giudizio e fosse stata dimostrata la gravità dell’inadempimento. Poiché però parte attrice ha agito solo per l’accertamento della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale della convenuta nella causazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali, Dental Care Advance Varedo Odontoiatria S.r.L. non può essere condannata alla restituzione di quanto già versato per inefficacia delle terapie attuate”;

6.2) per stabilire quali utilità l’odierna ricorrente potesse trarre dall’azione esperita occorre tener conto di due dati: è vero che, secondo l’orientamento prevalente di dottrina e giurisprudenza, in caso di risoluzione del contratto, le prestazioni eseguite risultano prive di causa e quindi devono essere restituite, ai sensi dell’art. 2033 c.c. (Cass. 30/11/2022, n. 35280), ma lo è altrettanto che l’inadempimento come fatto illecito può provocare concrete perdite di utilità da riattribuire al contraente fedele tendenzialmente nella loro integralità (Cass. 04/08/2000, n. 10263; Cass. 15/11/2013, n. 25775);

l’art. 1223 c.c., individua il danno nella perdita subita e nel mancato guadagno e “riflette una prospettiva differenzialista”, alla stregua della quale, il danno è “l’effettiva diminuzione del patrimonio, diminuzione data dalla differenza tra il valore attuale del patrimonio del creditore-danneggiato ed il valore che presenterebbe” se l’obbligazione fosse stata tempestivamente ed esattamente adempiuta” (o il fatto illecito non fosse stato realizzato): Cass. 20/10/2021, n. 29251; Cass. 18/07/1989, n. 3352;

va da sé, poi, che il patrimonio che costituisce la grandezza che deve essere reintegrata con l’obbligazione risarcitoria è l’insieme di beni, di valori, di utilità tra loro collegati mediante un criterio funzionale (Cass. 05/07/2002, n. 9740); per cui anche la teoria differenziale dianzi evocata va applicata considerando la diminuzione di utilità subita dal danneggiato proiettata sull’id quod interest e non già (e non più) sull’aestimatio rei;

dato l’inadempimento della società Dental Care, la Corte territoriale avrebbe dovuto stabilire se e quale danno alla persona e quale eventuale diminuzione patrimoniale detto inadempimento avesse comportato a fronte di quella destinata concretizzarsi in assenza dell’inadempimento; accertamento che invece è mancato, perché, come anticipato, il giudice a quo ha escluso che l’inadempimento consentisse alla odierna ricorrente di avvalersi della tutela risarcitoria;

una volta accertato l’inadempimento, la Corte d’appello avrebbe dovuto domandarsi se ne fossero derivati danni (risarcibili); va infatti precisato che il giudice a quo non ha assunto una statuizione reiettiva della domanda risarcitoria in ragione del fatto che non fosse stato soddisfatto, da parte della odierna ricorrente, l’onere di provare il nesso causale tra l’inadempimento e il danno né dell’esito dell’accertamento negativo della sussistenza di un qualsivoglia danno cagionato dall’intervento (cfr., a tal proposito, Cass. 11/11/2019, n. 28991); peraltro, un intervento che in ipotesi non abbia cagionato un peggioramento della condizione patologica della paziente, ma che non abbia prodotto alcun risultato di tipo terapeutico non per questo non ha prodotto alcun danno; può non aver prodotto un danno alla salute, ma non significa che non abbia determinato alcun altro danno risarcibile: cfr. Cass. 19/05/2017,. 12597; Cass. 13/04/2007, n. 8826 che hanno ritenuto un intervento rivelatosi inutile determinativo di “conseguenze di carattere fisico e psicologico (spese, sofferenze patite, conseguenze psicologiche dovute alla persistenza della patologia e alla prospettiva di subire una nuova operazione, ecc.);

il giudice a quo si è limitato, invece, a sostenere che la prospettazione di lesioni, integranti il danno alla persona, causate dalla convenuta, non attenesse in alcun modo all’inadempimento contrattuale (p. 8) e che “le considerazioni svolte dal consulente tecnico di ufficio circa l’inadempienza contrattuale per inefficacia delle cure effettuate non attengono conseguentemente all’oggetto del giudizio de quo, alla luce delle domande proposte da parte attrice” (p. 9);

l’iter logico-giuridico seguito dalla Corte d’appello non è intellegibile, posto che dopo aver affermato erroneamente che l’inadempimento contrattuale può giustificare, a certe condizioni, solo la domanda risolutoria che l’appellata non aveva formulato, ha aggiunto che il Ctu aveva accertato un inadempimento contrattuale, esorbitante dall’oggetto del contratto, ha sostenuto che non è stato accertato alcun danno alla salute della paziente inteso quale peggioramento dello stato anteriore (p. 9), ma non è chiaro né come sia giunta a tale conclusione, né come essa si concili con l’aver ritenuto che la prospettazione di lesioni integranti il danno alla persona non atteneva all’inadempimento contrattuale; resta, dunque, anche il dubbio che non abbia preso in considerazione la domanda risarcitoria avente ad oggetto il danno alla persona per la stessa ragione per cui ha ritenuto che nessun obbligo risarcitorio potesse essere posto a carico della parte inadempiente, cioè sol perché non era stata domandata la risoluzione del contratto e non per effetto dell’applicazione dei principi che regolano il risarcimento del danno alla salute per inadempimento di una prestazione professionale (cfr. Cass. n. 28991/2019, cit. e successiva giurisprudenza conforme);

in sostanza, la decisione reiettiva non si è basata sull’assenza di un danno provocato dall’inadempimento, ma sul convincimento che l’azione risarcitoria presupponesse la domanda di risoluzione del contratto per inadempimento; il che evidentemente è sbagliato ed ha prodotto come conseguenza che il professionista debitore della prestazione è stato posto in una situazione di indifferenza tra adempiere e non adempiere [giusto, conseguenza assurda !!],  quale conseguenza della svalutazione della valenza giuridica dell’obbligazione nata con il contratto, la quale “reca in pari data un comando primario rivolto al suo adempimento ma anche il rimedio, ove il comando non venga osservato”;

6.3) che non debba confondersi il venir meno della causa delle prestazioni eseguite, quale effetto della caducazione del titolo, con il contenuto dell’obbligazione risarcitoria è vero; nondimeno, se il contraente fedele, senza chiedere la risoluzione del contratto, quindi ferma l’efficacia dello stesso, agisca per ottenere il risarcimento del danno, sarà necessario intendersi su ciò che costituisce l’oggetto del suo credito risarcitorio;

quest’ultimo dovrà intendersi esteso a tutto il suo interesse contrattuale positivo, cioè il contraente non inadempiente dovrà essere messo non nella situazione in cui si sarebbe trovato ove non avesse concluso il contratto (interesse contrattuale negativo), bensì nella stessa condizione in cui si sarebbe trovato ove avesse ricevuto la prestazione dovutagli (interesse contrattuale positivo), pur dovendosi sottolineare che: a) “interesse positivo” e “interesse negativo” non sono espressioni cui corrisponde un diverso significato tecnico-concettuale, ma solo formule descrittive del contenuto economico della pretesa risarcitoria; n) “in tema di inadempimento di obbligazioni di diligenza professionale sanitaria, il danno evento consta della lesione non dell’interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l’obbligazione (perseguimento delle “leges artis” nella cura dell’interesse del creditore) ma del diritto alla salute (interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato)”: Cass. n. 28991/2019, cit.;

6.4) autorevole dottrina ritiene che “strettamente parente” di detto interesse, “che può definirsi di affidamento, è l’interesse ad ottenere la reintegrazione dello stato quo ante (prima del contratto), ove questo stato abbia subito mutazioni, a seguito ad es. della esecuzione della prestazione da parte del contraente non inadempiente”, giacché anche chi “esegue anticipatamente la propria prestazione confida nella regolare esecuzione del contratto, così come colui che va incontro a spese per esso”, fermo restando che “la tutela dell’interesse alla restitutio in integrum non si basa più propriamente sulla perdita subita ma sul beneficio conseguito dall’accipiens, onde i due rimedi rimangono concettualmente distinti”;

6.4.1) nei sistemi come il nostro che ammettono la convivenza del risarcimento con la risoluzione del contratto, è da tenere in conto che il contraente, domandando la risoluzione, intende liberarsi dalla propria obbligazione, ma non intende invece rinunciare alla perdita subita a seguito del mancato conseguimento della prestazione corrispettiva, perciò esigerà di essere compensato di tale perdita, calcolando naturalmente il risparmio ottenuto per non aver dovuto sacrificare la propria prestazione; il danno che si accompagna alla richiesta di risoluzione si distingue dunque dal danno da affidamento, perché si rapporta più direttamente, come si è detto, all’interesse al contratto: interesse che la richiesta di risoluzione evidentemente non cancella o cancella solo parzialmente, secondo che si agisca chiedendo la risoluzione totale o parziale del contratto;

il che consente di affermare che la risoluzione per inadempimento è omogenea alla tutela risarcitoria, in quanto anch’essa costituisce reazione alla inattuazione dello scambio, pur essendo il danno risarcibile, in un caso, quello positivo, cioè quello derivante dalla lesione dell’interesse alla esecuzione del contratto, nell’altro, quello da lesione dell’interesse negativo (che si somma, eventualmente, alla obbligazione restitutoria);

6.5) allora, ferma la distinzione tra azione restitutoria e azione risarcitoria (anche sul piano processuale, nel senso che devono essere oggetto di domande separate), in considerazione del fatto che giocano su terreni non coincidenti (la caducazione del titolo, in un caso, la permanenza del vincolo, nell’altro) e che la restituzione è l’effetto del venir meno del titolo contrattuale e quindi della causa che aveva giustificato lo spostamento patrimoniale (peraltro, la restituzione coinvolge anche la parte fedele, tenuta, a sua volta, a restituire quanto eventualmente ricevuto, benché nessuna inadempienza possa esserle ascritta), non è escluso che la parte che domandi il risarcimento del danno, senza chiedere la risoluzione del contratto, possa in concreto ottenere risultati contenutisticamente analoghi a quelli che otterrebbe con la domanda restitutoria (cfr. infra);

alla base della tesi opposta vi è il convincimento, non condivisibile, che la risoluzione in qualche modo purghi l’inadempimento, non considerando, invece, che la liberazione dal vincolo e dall’obbligo di eseguire le prestazioni ancora non eseguite non ha effetto sanante; allora è vero che quando la parte con il suo inadempimento causa la risoluzione essa rende inutili (rectius: sine causa) le spese sostenute in esecuzione del contratto risolto, ma allo stesso risultato si giunge anche se le spese fatte per ottenere la prestazione che non si è ricevuta o che non è esatta sono oggetto di una richiesta di risarcimento dell’interesse contrattuale positivo; nel senso che “il riferimento alle spese sostenute invano costituisce un indice con il quale stimare l’interesse del creditore ad ottenere la prestazione attesa, idoneo a consentire al giudice una quantificazione del risarcimento, quando altri strumenti non siano utilizzabili”; nel senso che il valore della prestazione non eseguita o non esattamente eseguita è determinabile facendo riferimento al costo della stessa;

7) per concludere:

– deve essere confermata la differenza tra azione restitutoria ed azione risarcitoria;

– deve essere dato seguito al principio, più volte enunciato da questa Corte, secondo cui, qualora il committente non abbia chiesto la risoluzione per inadempimento, ma solo il risarcimento dei danni, il professionista mantiene il diritto al corrispettivo della prestazione eseguita, in quanto la domanda risarcitoria non presuppone lo scioglimento del contratto e le ragioni del committente trovano in essa adeguata tutela (Cass. 24/03/2014, n. 6886; Cass. 06/12/2017, n. 29218; Cass. 25/07/2023, n. 22254; Cass. 07/11/2023, n. 31026);

detto principio poggia sull’assunto che la parte non inadempiente non abbia chiesto la risoluzione del contratto, perché aveva interesse alla manutenzione dello stesso; il che, di conseguenza, non mette in discussione il credito del professionista per il compenso relativo all’attività espletata, della quale la parte adempiente intende comunque avvalersi, sia pure sollecitando il ristoro del pregiudizio subito per l’inesatto adempimento;

– “l’inadempimento” – insegna autorevole dottrina – “può presentarsi con mille volti diversi” e “nella situazione aperta dall’inadempimento, possono atteggiarsi in modi quanto mai differenziati le posizioni e gli interessi delle parti, e specialmente della parte che subisce l’inadempimento”;

deve ritenersi che, quando però il creditore non abbia più interesse alla prestazione e/o la prestazione non sia più possibile, subentra l’obbligo risarcitorio, cioè l’adempimento è sostituito dall’obbligazione risarcitoria, la cui caratteristica precipua risiede nel carattere succedaneo della prestazione mancata o inesattamente attuata; adempimento e risarcimento condividono la comune finalità di attuazione del contratto, sia pure in forme diverse; in altri termini l’art. 1453 c.c., quando individua i rimedi spettanti al contraente fedele – adempimento invito debitore e/o risoluzione – indicando l’adempimento implica che in esso si comprenda il risarcimento e che, spettando alla parte che ha subito l’inadempimento, l’integrale risarcimento del danno per aver fatto affidamento sulla corretta esecuzione della prestazione (secondo il principio dell’id quod interest), detto danno, dovendo reintegrare il patrimonio del leso mediante l’attribuzione di un equivalente pecuniario, deve comprendere anche le eventuali spese per procurarsi aliunde la prestazione ineseguita e che il compenso pagato inutilmente al professionista al fine di ottenerla possa costituire un parametro di valutazione di cui il giudice debba tener conto al fine di liquidare il danno nella sua integralità;

8) sulla scorta di tanto, devono accogliersi i motivi dal secondo al quinto, va dichiarato assorbito il primo motivo, la sentenza va cassata in relazione ai motivi accolti;

8.1) il giudice del rinvio, la Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, dovrà accertare se e quali conseguenze immediate e dirette abbia cagionato l’inadempimento della prestazione del professionista, sia sotto il profilo del danno alla persona, sia sotto il profilo del danno patrimoniale, sulla scorta del rilievo dell’id quod interest, cioè considerando che il contraente non inadempiente, attraverso il riconoscimento del danno, dovrà essere posto nella stessa condizione nella quale si sarebbe trovato ove la prestazione dovutagli fosse stata esattamente eseguita>>.

Ripasso sulla differenza tra termine essenziale e clausola risolutiva espressa

Ripasso in Cass. sez. II  del 21/11/2023 n. 32.277, rel. Oliva:

<<sul punto, va data continuità al principio secondo cui “Le fattispecie previste rispettivamente dall’art. 1456 c.c. (clausola risolutiva espressa) e art. 1457 (termine essenziale per una delle parti), ancorché riguardanti entrambe la risoluzione del contratto con prestazioni corrispettive, hanno propri e differenti presupposti di fatto, tra cui il diverso atteggiarsi della volontà della parte interessata al momento dell’inadempimento dell’altra verificandosi l’effetto risolutivo nella prima, con la dichiarazione dell’intenzione di avvalersi della facoltà potestativa attribuita dalla legge e nella seconda, con lo spirare di tre giorni a partire dalla scadenza dei termini senza che essa abbia dichiarato all’altra di volere l’esecuzione” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10102 del 26/11/1994, Rv. 488847; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8881 del 03/07/2000, Rv. 538187).

Le due fattispecie, dunque, pur producendo il medesimo effetto finale, rappresentato dal venir meno del vincolo contrattuale, operano su piani distinti e con meccanismi di funzionamento diversi. Il termine essenziale, infatti, comporta la cessazione del contratto e delle obbligazioni da esso derivanti per il solo fatto del suo superamento, salvo che la parte che voglia comunque darvi esecuzione, non lo dichiari all’altra parte entro tre giorni previsto dall’art. 1457 c.c., comma 1. La clausola risolutiva espressa, invece, comporta la caducazione del vincolo negoziale, ai sensi dell’art. 1456 c.c., comma 2, soltanto qualora la parte interessata, al verificarsi dell’evento, dichiari all’altra parte di volersi avvalere della clausola. Nel primo caso, dunque, l’effetto caducatorio dell’impegno contrattuale è automatico, salvo che la parte nel cui interesse il termine è stato fissato non dichiari, entro tre giorni, di voler comunque esigere la prestazione, ancorché fuori termine; nel secondo caso, invece, l’effetto non è automatico, ma rimesso ad una manifestazione di volontà del soggetto nel cui interesse è stata prevista la clausola risolutiva.

Il comportamento delle parti è dunque diverso, nei due istituti in esame, e la loro volontà opera in modo diametralmente opposto, poiché la sua manifestazione al momento dell’inadempimento consente, nel caso del termine essenziale, la prosecuzione dell’efficacia del vincolo negoziale, mentre conduce, nel caso della clausola risolutiva espressa, al contrario risultato del venir meno della validità del detto vincolo. Di conseguenza, una volta invocata in giudizio l’applicabilità di un termine essenziale relativamente alla mancata stipulazione di un contratto definitivo entro una determinata data, non può essere dedotta per la prima volta in sede di legittimità la configurabilità, nella medesima pattuizione, di una clausola risolutiva espressa (sul punto, cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5640 del 23/09/1983, Rv. 430588 e Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2762 del 11/07/1975, Rv. 376768).

Poiché nel caso di specie l’odierna parte ricorrente aveva dedotto, con il proprio appello incidentale, proprio la configurabilità della clausola negoziale in esame, alternativamente [nds: importante precisazione processuale],  come termine essenziale ovvero sub specie di clausola risolutiva espressa, riproponendo per intero la questione prospettata in prime cure, la Corte di Appello avrebbe dovuto esaminare ambedue i profili, non sussistendo in concreto alcun ostacolo, né di natura sostanziale, né di ordine processuale, all’esame della questione complessivamente proposta dalla difesa delle F..

Ne’, per altro verso, si configura alcun profilo di incompatibilità tra i due diversi istituti, dovendosi ribadire, al riguardo, che “La previsione di un termine essenziale in un contratto ad effetti obbligatori non è incompatibile con l’inserimento nel medesimo contratto di una clausola risolutiva espressa, né la scadenza del termine essenziale paralizza per contraddizione gli effetti della clausola, con la conseguenza che il creditore può tanto avvalersi di detta clausola, ai fini della dichiarazione della risoluzione di diritto del contratto, quanto rinunciare all’effetto risolutivo ed esigere l’adempimento” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5766 del 22/11/1985, Rv. 442951). Una volta escluso, quindi, che una determinata pattuizione contenga l’indicazione di un termine essenziale, nulla osta acché la stessa sia configurabile sub specie di clausola risolutiva espressa. [nds: utile pro memoria, pur se ovvia]

Ne’ rileva il fatto che l’evento dedotto nella clausola si risolva in una semplice scadenza temporale, poiché in tal caso il giudice di merito è chiamato a valutare se il dato cronologico assuma rilievo decisivo in sé, e dunque rivesta natura essenziale per la conclusione dell’accordo, ovvero se esso rilevi, piuttosto, in relazione ad una finalità pratica sottesa all’affare, ed adeguatamente esplicitata dai paciscenti.

Da tutto quanto precede discende che, in presenza della deduzione, da parte di uno dei contraenti, della configurabilità di una determinata clausola negoziale sub specie di termine essenziale o di clausola risolutiva espressa, l’indagine del giudice di merito non può limitarsi alla semplice esclusione del requisito dell’essenzialità del termine, ma deve estendersi anche alla seconda ipotesi interpretativa. Il riconoscimento della natura non essenziale del termine, infatti, non consente di escludere a priori la possibilità che esso possa valere quale evento dedotto in una clausola risolutiva espressa. Anzi, proprio l’assenza del requisito dell’essenzialità del dato cronologico indicato dalle parti “apre”, per così dire, la possibilità che esso possa valere non come determinazione del tempo necessario dell’adempimento, ma come momento entro il quale si debba verificare un evento condizionante l’efficacia del contratto, come ad esempio, nel caso del contratto preliminare, l’adempimento dell’obbligo di stipulare il rogito definitivo.

Ulteriore riprova della peculiarità della clausola risolutiva espressa va individuata nel fatto che essa “… attribuisce al contraente il diritto potestativo di ottenere la risoluzione del contratto per l’inadempimento di controparte senza doverne provare l’importanza e la risoluzione del contratto per il verificarsi del fatto considerato, come in genere la risoluzione per inadempimento, non può dunque essere pronunciata d’ufficio, ma solo se la parte nel cui interesse la clausola è stata inserita nel contratto dichiari di volersene avvalere. Differentemente, la risoluzione consensuale, o la sopravvenuta impossibilità della prestazione, che determinano automaticamente il venir meno del contratto, rappresentando fatti oggettivamente estintivi dei diritti nascenti da esso, possono essere accertati d’ufficio dal giudice” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10935 del 11/07/2003, Rv. 564990; nello stesso senso, cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 16993 del 01/08/2007, Rv. 600281; nonché Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10201 del 20/06/2012, Rv. 623126, secondo la quale “La risoluzione consensuale del contratto non costituisce oggetto di eccezione in senso proprio, essendo lo scioglimento per mutuo consenso un fatto oggettivamente estintivo dei diritti nascenti dal negozio bilaterale, desumibile dalla volontà in tal senso manifestata, anche tacitamente, dalle parti, che può essere accertato d’ufficio dal giudice pure in sede di legittimità, ove non vi sia necessità di effettuare indagini di fatto”; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6125 del 17/03/2014, Rv. 630517 e Cass. Sez. L, Sentenza n. 23586 del 28/09/2018, Rv. 650542). In altri termini, mentre la verificazione di un qualsiasi evento idoneo ad incidere sul sinallagma fissato dalle parti (come la scadenza del termine essenziale, ove previsto, o la risoluzione per mutuo dissenso, o l’impossibilità sopravvenuta della prestazione dedotta in contratto), può costituire oggetto di esame anche ufficioso da parte del giudice, ed implica una disamina complessiva del comportamento dei paciscenti, al fine di ricostruire la loro effettiva volontà negoziale e di apprezzare l’incidenza dell’evento di cui sopra sul complessivo regolamento di interessi previsto nel contratto, la clausola risolutiva espressa, al contrario, attribuisce sic et simpliciter ad una delle parti, al verificarsi dell’evento in essa dedotto, il diritto potestativo di procurare la cessazione degli effetti del rapporto negoziale, a prescindere da qualsiasi indagine in relazione all’importanza dell’inadempimento o dell’incidenza del fatto storico verificatosi, o non verificatosi, sull’equilibrio sinallagmatico, sempre che sussista inadempimento alla stregua del criterio della buona fede nell’esecuzione del contratto (su detto principio, cfr. Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 8282 del 23/03/2023, Rv. 667427 e Cass. Sez. 1, Sentenza n. 23868 del 23/11/2015, Rv. 637690). Proprio in ragione di tale suo peculiare meccanismo di funzionamento, l’art. 1456 c.c., comma 2, prevede la necessità della manifestazione della volontà di avvalersene della parte nel cui interesse essa è posta.

Poiché nel caso di specie l’indagine sulla possibilità di configurare, nella pattuizione in esame, una clausola risolutiva espressa è mancata del tutto, non riscontrandosene traccia nella decisione impugnata, le censure sollevate con il secondo e terzo motivo di ricorso meritano di essere accolte.

Il giudice del rinvio dovrà procedere ad un nuovo apprezzamento della fattispecie concreta, al fine di verificare se, una volta escluso che la clausola negoziale in esame contenga la fissazione di un termine essenziale, sia possibile, o meno, ipotizzare la coesistenza, nell’ambito del medesimo regolamento negoziale, tra la previsione di un termine, evidentemente di natura non essenziale, e di una clausola risolutiva espressa, con riferimento ad un unico dato cronologico>>.

Quid iuris in caso di contrapposti inadempimenti (ad un contratto di licenza di marchio)? Va accertato il tacito venir meno della volontà negoziale , dice Trib. Venezia

Trib. Venezia sent. 1308/2023 del 17.07.2023, RG 4971/2021, rel. Tosi:

<<Venendo al bilanciamento concreto fra gli opposti inadempimenti, va osservato innanzitutto che la vicenda si è dipanata in tempi assai lunghi, e che agli inadempimenti rispettivi non sono seguite iniziative coerenti e tempestive: parte attrice, a fronte della registrazione in malafede del 2014, ha continuato ad usare il marchio licenziato, ha corrisposto royalties fino a giugno 2017, agendo poi solo nel 2017 per la nullità del marchio avversario, ma continuando anche oltre ad usare il suo marchio (in abbinamento al “proprio” grifone); nel contempo ha rallentato lo sviluppo dei prodotti, quale concordato in contratto, e ha cessato di corrispondere royalties con il giugno 2017. Il convenuto, per parte sua, pur avendo lamentato il rallentamento dello sviluppo dei prodotti, e pur avendo ritenuto risolto il contratto a tenore della sua lettera del 6/4/2017, ancora in missive del 2019 lamentava l’inadempimento di controparte per il fatto che essa non trasmetteva rapporti di vendita né corrispondeva royalties; e solo nel 2021 agiva per il pagamento delle royalties fino a settembre 2017, non affatto a titolo di risarcimento (come fa ora) ma a titolo di compenso. L’attrice poi, dopo l’esito favorevole della sentenza sul marchio nel 2019, ha atteso il 2021 per agire con l’intento di inficiare il contratto. Si è avuto dunque un trascinamento del rapporto “a  basso regime” dopo la violazione, con tolleranze reciproche, sì che non può dirsi che alcuno degli inadempimenti opposti sia stato prevalente e determinante.
Ciò detto, la conseguenza che il Collegio ne trae non è comunque quello del semplice rigetto delle opposte domande risolutorie per inadempimento – secondo una giurisprudenza pur attestata in Cass. 18320/2015 – ma, in omaggio ad una linea giurisprudenziale più recente (Cass. 6675/2018, 19706/2020) quello della presa d’atto della non volontà delle parti – ambedue – di proseguire il rapporto. Si tratta di un approdo – costruito da Cass. 6675/2018 come accertamento della risoluzione per impossibilità sopravvenuta, altrove come accertamento del mutuo dissenso – che rispondente alla realtà del sopravvenuto disinteresse delle parti all’adempimento, e per la quale non ha senso né è foriero di utilità alcuna persistere a ritenere astrette le parti ad un insieme di patti che possono essere adempiuti solo nella collaborazione, ma nel quale nessuna delle due crede e dal quale nessuna delle due ritiene di ricavare utilità.   La risoluzione ha solitamente effetto dal maturare del fatto che impedisce la prosecuzione del rapporto (impossibilità sopravvenuta o dissenso, o inadempimento). Poiché però la domanda risolutoria della attrice è stata proposta in via subordinata ad una principale che includeva la tesi della nullità parziale e per il resto la prosecuzione del rapporto, la risoluzione deve operare dalla data della pronuncia, perché solo da questa l’attrice apprende del rigetto della sua domanda principale, e può condursi di conseguenza.>>

Giudizio di buon senso.   REsta da capire come si concili col principio  dispositivo (Iudex iuxta alligata et probata iudicare debet) se nessuna parte aveva avanzato simile domanda (come di solito capita).

Interessante la precisazione successiva:

<<Va ora ricordato che rimane pur sempre operativo fra le parti l’art. 12 del contratto, che regolava l’esaurimento degli effetti dello stesso “in caso di risoluzione… per qualunque motivo” e segnatamente quella parte di esso (A) che autorizzava l’adempimento degli ordini e la produzione a ciò finalizzata, e la vendita delle scorte. Tale articolo si applica avuto riguardo alla data della risoluzione, e dunque dalla pronuncia.
Esaurito magazzino e ordini, dovranno cessare produzione e commercializzazione. Si dà dunque ordine inibitorio (con effetto dall’esaurimento di scorte e ordini) quanto alla produzione e commercializzazione dei prodotti a marchio, con congrua penale, che si stima in euro 100 al giorno, in caso di inottemperanza.
La esistenza di tale patto preclude invece la pronuncia di ritiro di quanto è già stato immesso in commercio, giacché ciò è avvenuto legittimamente.
Alla realizzazione da parte del licenziatario, per la durata del rapporto, di fatturato con uso del marchio licenziato (e così per quel fatturato che sarà realizzato anche ex art. 12 lett. A) del contratto, come prevede il comma 2 dell’articolo) consegue il diritto del licenziante al pagamento delle royalties a termini di contratto.

Stante il pari inadempimento, non spetta al convenuto ristoro per il mancato sviluppo del programma di promozione convenuto.
Parte attrice invece chiede il pagamento della indennità ex art. 13 del contratto.
L’articolo prevede che “in ogni caso di cessazione del presente contratto…” il licenziante indennizzi il licenziatario per il lavoro svolto per aumentare il valore dei marchi, subordinatamente al raggiungimento di un fatturato cumulativo di euro 1.000.000. tale indennità è prevista in misura pari al 50% del valore del
marchio “da determinarsi da parte di un esperto indipendente incaricato dalle parti. Nel caso in cui non si trovasse un accordo in merito alla scelta dell’esperto entro 30 giorni, si procederà secondo la logica dell’arbitrato. Tale indennità verrà erogata in forma di pagamento” .
La clausola è valida, essendo contenuta in contratto che per quanto risulta fu redatto espressamente per il caso, ed ha contenuto determinato, riconoscendo l’indennità in ragione dell’oggettivo apporto della licenziataria al valore del marchio, una volta raggiunta una certa soglia di fatturato; e non si vede squilibrio contrattuale in tale previsione (fermo che un generico “squilibrio” non può inficiare una clausola pattuita) dato che l’indennità si ancora all’effettivo valore raggiunto dal marchio, e dunque all’effettivo apporto dato dalla licenziataria ad un marchio che il licenziante può ulteriormente mettere a reddito. Solo, stante la previsione secondo cui le parti convengono di rimettersi, quanto al valore del marchio, alla decisione di un terzo, qualificabile come arbitratore ex art. 1349 c.c., e dunque ad una determinazione contrattuale, il fatto che nella specie tale determinazione non sia intervenuta né risulta le parti abbiano chiesta (in verità non risulta neanche che si siano confrontate sulla scelta dell’esperto) impedisce che il giudice possa riconoscere la indennità; non impedisce però che il giudice possa verificare la sussistenza del presupposto per il riconoscimento dell’indennità, ossia il raggiungimento del limite di fatturato>>.

Content moderation, hate speech e risoluzione del contratto di social network per inadempimento dell’utente

Trib. Roma.,  sez. dir. della persona e immig. civile, n° 17909/2022 del 5 dicembre 2022, RG 10810/2020, giud. monocr. Albano Silvia, decide nel merito la nota lite tra Casapoound e Facebook (ora Meta Platforms ireland ltd.: poi “FB), già oggetto di decisione cautelare alla fine del 2019.

Non ci sono ragionamenti particolarmente interessanti in diritto, ma un fattualmente importante accertamento di <organizzazione di odio> a carico di Casapound, secondo gli Standard di condotta di FB.

Purtroppo la lunga e fitta sentenza non è divisa in brevi paragrafi, per cui le lettura è poco agevole.

Il § 2 dà conto del quadro normativo e di applicazioni giurisprudenziali, anche estere.

Riporto il § 2.5 Conclusioni :

<<Dal complesso quadro di fonti normative sopra delineato, alcune delle quali aventi valore di fonti sovraordinate (come le norme costituzionali, o quelle sovranazionali in base all’art 117 della Costituzione), emerge con chiarezza che tra i limiti alla libertà di manifestazione del pensiero, nel bilanciamento con altri diritti fondamentali della persona, assume un particolare rilievo il rispetto della dignità umana ed il divieto di ogni discriminazione, a garanzia dei diritti inviolabili spettanti ad ogni persona.
La libertà di manifestazione del pensiero non include, pertanto, discorsi ostili e discriminatori (vietati a vari livelli dall’ordinamento interno e sovranazionale).
Gli obblighi imposti dal diritto sovranazionale impongono di esercitare un controllo; obbligo imposto agli stati ed anche, entro certi limiti (come si è visto), ai social network come Facebook, che ha sottoscritto l’apposito Codice di condotta.
Nel caso di specie, peraltro, non si tratta di una generalizzata compressione per via giudiziaria della libertà di espressione di singoli individui o gruppi, ma della possibilità di accedere ad uno specifico social network (che è anche un social media, strumento attraverso il quale i produttori di contenuti sono in grado di raggiungere il grande pubblico), gestito da privati, al fine di consentire la diffusione di informazioni concernenti l’attività di una determinata formazione politica.>>

Segue poi l’applicazione al caso de quo (cioè alle clausole contrattuali tra klutente e FB: sono riportate le clausole pertinenti).

Di interesse è che nessuna clausola prevede un obbligo di preavviso per disattivazione pagine o profilo, p. 25. In ogni caso nessun danno è stato provato dalla perdita per tale ragine dei documenti già ivi caricati (p. 40).

Pertanto, alla luce della normativa e della giurisprudenza nazionale e sovranazionale opra illustrata, <<può ritenersi che un’organizzazione che si richiama al fascismo, ne usa i simboli e gli slogan, può essere designata organizzazione d’odio in base alle regole contrattuali di Facebook sopra illustrate, in quanto oggettivamente favorisce la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico>>, § 4.

E poi: <<Nel caso di specie, al contrario, non si tratta di accertare la rilevanza penale della condotta, ma la legittimità della sua diffusione attraverso il social network, in quanto la pubblicazione di simbologia fascista è vietata dalle condizioni contrattuali di Facebook e autorizza, pertanto, la rimozione di post la riproducono.
Si è visto più sopra che le regole più stringenti in ordine alle legittimità dei contenuti divulgabili in rete sono determinati anche dall’effetto moltiplicatore di internet, idoneo ad attribuire un’attitudine lesiva a condotte che altrimenti potrebbero non averne, da qui le iniziative volte a responsabilizzare i gestori dei social network onde vietare la diffusione di simboli o discorsi d’odio in rete anche attraverso le condizioni contrattuali che ogni utente deve sottoscrivere al momento dell’iscrizione.

Facebook non solo poteva risolvere il contratto grazie alle clausole contrattuali accettate al momento della sua conclusione, ma aveva il dovere legale di rimuovere i contenuti, una volta venutone a conoscenza, rischiando altrimenti di incorrere in responsabilità (si veda la sentenza della CGUE sopra citata e la direttiva CE in materia), dovere imposto anche dal codice di condotta sottoscritto con la Commissione Europea>>, p. 31.

Viene esteso il giudizio alla pagina personale dell’ammninistratore di Casapound Italia.

Elenco di fatti, supportanti il giudizio di esattezza della qualificazione come  <organizzazione di odio> decisa da FB,  sta a a pp. 36/7.

Quindi FB legittimamente ha risolto il contratto.

Sono poi riprodotti i principali documenti provanti tale conclusione (con riproduzione grafica e a colori; i link invece non sono più attivi)

Conclusione finale al § 5 , p. 39: a<<l’art. 3.2 delle condizioni contrattuali prevede espressamente che nel caso in cui “l’utente abbia violato chiaramente, seriamente o reiteratamente le proprie condizioni o normative, fra cui in particolare gli Standard della community, Facebook potrebbe sospendere o disabilitare in modo permanente l’accesso dell’utente al suo account.”
E’ stato provato che le parti attrici hanno pubblicato contenuti in violazione delle clausole contrattuali che vietano il supporto ad organizzazioni d’odio (Davide Di Stefano attraverso il proprio profilo anche quale amministratore della pagina di CasaPound Italia), la pubblicazione di hate speech basati sulla razza o etnia (art 13 Standard della Comunità) e simboli che rappresentano/elogiano un’organizzazione che incita all’odio (come tutta la simbologia fascista o l’elogio ai combattenti della X Mas o della Repubblica di Salò- art 2 degli Standard) o che incitano alla violenza (art 1 degli Standard).
I contenuti, che inizialmente erano stati rimossi e poi a fronte della reiterata violazione hanno comportato la disattivazione degli account delle parti attrici sono illeciti da numerosi punti di vista.
Non solo violano le condizioni contrattuali, ma sono illeciti in base a tutto il complesso sistema normativo di cui si è detto all’inizio, con la vasta giurisprudenza nazionale e sovranazionale citata.>>