Interpretazione ampia del divieto del patto di quota-lite

Cass. sez. II, ord. 04/09/2024  n. 23.738, rel. Giannaccari:

<<In particolare, l’art.13, comma 3 della L. 31.12.2012, n.247, ammette “la pattuizione a tempo, in misura forfettaria, per convenzione avente ad oggetto uno o più affari, in base all’assolvimento e ai tempi di erogazione della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l’intera attività, a percentuale sul

valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione”.

Il coordinamento tra il terzo e quarto comma impone all’interprete la distinzione tra i patti commisurati, anche in percentuale sul valore dell’affare, che sono ammessi ed il patto di quota lite, che è vietato. Dal combinato disposto dalle due norme si ricava che se la percentuale può essere certamente rapportata al valore dei beni o degli interessi litigiosi, non lo può essere quanto al risultato, in piena coerenza con la ratio del divieto volto ad enfatizzare il distacco del legale dagli esiti della lite; in tal modo, si evita la commistione di interessi tra il cliente e l’avvocato, che si avrebbe qualora il compenso fosse collegato, in tutto o in parte, all’esito della lite, con il rischio così della trasformazione del rapporto professionale da rapporto di scambio a rapporto associativo.

Come sostenuto dalla giurisprudenza di questa Corte (in particolare Cassazione civile sez. II, 06/07/2022, n.21420, non massimata ed i precedenti in essa richiamati), il divieto del cosiddetto “patto di quota lite” tra l’avvocato ed il cliente, trova il suo fondamento nell’esigenza di assoggettare a disciplina il contenuto patrimoniale di un peculiare rapporto di opera intellettuale, al fine di tutelare l’interesse del cliente e la dignità della professione forense, che risulterebbe pregiudicata tutte le volte in cui, nella convenzione concernente il compenso, sia ravvisabile la partecipazione del professionista agli interessi economici finali ed esterni alla prestazione richiestagli.

Ne consegue che il patto di quota lite va ravvisato non soltanto nell’ipotesi in cui il compenso del legale sia commisurato ad una parte dei beni o crediti litigiosi, ma anche qualora tale compenso sia stato convenzionalmente correlato al risultato pratico dell’attività svolta, realizzandosi, così, quella non consentita partecipazione del professionista agli interessi pratici esterni della prestazione (Cass. 11485/1997; Cass. 4777/1980).

Coerentemente con la ratio del divieto, infatti, accentuando il distacco dell’avvocato dagli esiti della lite, diminuisce la portata dell’eventuale commistione di interessi tra il cliente e l’avvocato (Cass. Sez. Unite, N.25012/2014).

La nullità del patto di quota lite è assoluta e colpisce qualsiasi negozio avente ad oggetto diritti affidati al patrocinio legale, anche di carattere non contenzioso, sempre che esso rappresenti il modo con cui il cliente si obbliga a retribuire il difensore, o, comunque, possa incidere sul suo trattamento economico.

Nel caso di specie, il compenso dell’avvocato era stato parametrato ad una percentuale dell’importo che la ricorrente avrebbe percepito dal Comune a titolo di retribuzioni intermedie dalla data dell’illegittimo licenziamento fino alla data di reintegra. Il compenso non era parametrato al valore presunto della controversia, determinabile in via approssimativa già al momento del conferimento dell’incarico, ma al risultato raggiunto all’esito del giudizio, avente ad oggetto non solo la reintegra nel posto di lavoro, ma anche la condanna del datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni non versate.

L’argomento sostenuto dalla controricorrente, secondo cui la causa verteva sull’illegittimità del licenziamento, non è condivisibile in quanto a tale accertamento conseguiva la condanna al pagamento delle retribuzioni e, sulla loro percentuale, ovvero sulla res litigiosa, era stato determinato il compenso dell’avvocato>>.

Cass. sez. III ord. 06/09/2024 n. 24.007, rel. Rubino:

<<In tema di responsabilità professionale dell’avvocato, qualora essa si sia tradotta nella impossibilità per il cliente di intraprendere l’iniziativa giudiziaria concordata (per omessa proposizione di una impugnazione nei termini, oppure, come nella specie, per omesso rilascio della firma del cliente sul ricorso, dichiarato per questo inammissibile) ai fini della configurabilità del diritto del cliente al risarcimento del danno è necessario all’attore non soltanto provare il comportamento imperito, negligente o imprudente del professionista e il suo rapporto causale con la preclusione della iniziativa giudiziaria, ma anche che, se fosse stata intrapresa, l’iniziativa giudiziaria avrebbe avuto, sulla base di una valutazione ex ante ed applicando la regola probatoria del più probabile che non, ragionevoli probabilità di accoglimento.

Non è sufficiente infatti a fondare il diritto risarcitorio la sola prova della negligenza, anche se preclusiva dell’azione giudiziaria, lasciando ricadere sul professionista convenuto l’onere di provare che l’iniziativa, anche se regolarmente intrapresa, non avrebbe avuto realistiche probabilità di successo, traducendosi ciò in un indebito ribaltamento degli oneri probatori, perché l’onere del convenuto di fornire la prova liberatoria della propria responsabilità scatta soltanto se è accertato il nesso causale tra la condotta colposa e il danno.

Il contenuto dell’onere probatorio in capo all’attore, in caso si alleghi la responsabilità professionale dell’avvocato, non si esaurisce dunque nel provare la negligenza dell’avvocato ma consiste nel fornire gli elementi di prova dell’evento di danno e cioè nel fornire elementi ai fini dell’esito positivo del giudizio probabilistico, al fine di condurre all’accertamento che fosse più probabile che non che, se l’avvocato si fosse correttamente attivato evitando di porre in essere comportamenti che vanificavano l’efficacia della sua attività professionale, con buona probabilità avrebbe ottenuto l’esito sperato in favore del cliente (v. in questo senso Cass. n. 2638 del 2013: “La responsabilità dell’avvocato – nella specie per omessa proposizione di impugnazione – non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell’attività professionale, occorrendo verificare se l’evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone”).

Il giudizio di risarcimento del danno per responsabilità professionale comprende quindi, come detto, un giudizio prognostico ex ante sulla accoglibilità della domanda che si andava a proporre nel giudizio che non si è celebrato per la negligenza dell’avvocato. All’interno di esso si deve peraltro tener conto, anche ai fini di verificare l’intervenuta, corretta distribuzione degli oneri probatori, delle peculiarità del giudizio che non si è potuto celebrare. Nel caso di specie, occorre considerare, per la particolarità della normativa e per il contenuto della posizione giuridica soggettiva attiva che si andava a far valere, il tipo di diritto che si andava ad azionare, ed il tipo di giudizio che si andava ad aprire.

Il Mo.Ma., cioè, andava ad introdurre non un giudizio volto al risarcimento del danno aquiliano, ma un giudizio volto ad ottenere il riconoscimento del diritto all’indennizzo per ingiusta detenzione, ex artt. 314 e 315 c.p.p.

È questo un giudizio sottratto ai canoni dell’art. 2043 c.c., di competenza del giudice penale, regolato almeno in parte dall’impulso di ufficio, in cui anche l’imputato assolto dalla incolpazione per la quale è stato sottoposto a carcerazione preventiva potrebbe essere ritenuto non meritevole dell’indennizzo ove ritenuto in colpa dal giudicante (v. Cass. pen. n. 29950 del 2019: “In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, le frequentazioni ambigue con soggetti condannati nel medesimo procedimento possono integrare un comportamento gravemente colposo, ostativo al riconoscimento del diritto all’indennizzo, anche nel caso in cui intervengano con persone legate da rapporto di parentela, purché siano accompagnate dalla consapevolezza che trattasi di soggetti coinvolti in traffici illeciti e non siano assolutamente necessitate”).

Tutto ciò premesso, appare corretta l’applicazione delle regole da parte della Corte d’Appello, la quale ha ritenuto, a fronte della intervenuta assoluzione nel merito del Mo.Ma. dalle incolpazioni per le quali era stato sottoposto a carcerazione, che il giudizio volto al riconoscimento dell’indennizzo per ingiusta riparazione avrebbe avuto esito probabilmente positivo, e che a fronte di ciò sarebbe stato onere del convenuto dover allegare, quale fatto estintivo, l’esistenza di una situazione riconducibile alla colpa o al dolo dell’imputato che avrebbe potuto portare ad un giudizio di non meritevolezza dell’indennizzo, pur a fronte di una assoluzione nel merito, ovvero all’esistenza di una condizione ostativa all’accoglimento>>.

Sentenza restrittiva circa la liceità del patto di quota-lite tra avvocato e cliente

Cass.  Sez. II, sent.  n. 23.738 del 4 settembre 2024, rel. Giannaccari, nella seguente fattispecie concreta: <<Il giudizio si era concluso con la soccombenza in primo grado e le parti, successivamente, in data 13.10.2015, avevano stabilito che, per la difesa nel giudizio d’appello, in caso di soccombenza, il compenso sarebbe stato contenuto in Euro 8000,00 mentre, in caso di vittoria sarebbe stato determinate in una percentuale pari al 15% delle somme ricevute dalla A.A. dal Comune di A. Nella scrittura privata, si specificava che “resta inteso che eventuali somma pagate dal Comune di T. di A. a titoli di rifusione spese legali si somma alla percentuale sopra pattuita e restano acquisite al professionista”>>.

Ebbene:

<<Come sostenuto dalla giurisprudenza di questa Corte (in particolare Cassazione civile sez. II, 06/07/2022, n.21420, non massimata ed i precedenti in essa richiamati), il divieto del cosiddetto “patto di quota lite” tra l’avvocato ed il cliente, trova il suo fondamento nell’esigenza di assoggettare a disciplina il contenuto patrimoniale di un peculiare rapporto di opera intellettuale, al fine di tutelare l’interesse del cliente e la dignità della professione forense, che risulterebbe pregiudicata tutte le volte in cui, nella convenzione concernente il compenso, sia ravvisabile la partecipazione del professionista agli interessi economici finali ed esterni alla prestazione richiestagli.

Ne consegue che il patto di quota lite va ravvisato non soltanto nell’ipotesi in cui il compenso del legale sia commisurato ad una parte dei beni o crediti litigiosi, ma anche qualora tale compenso sia stato convenzionalmente correlato al risultato pratico dell’attività svolta, realizzandosi, così, quella non consentita partecipazione del professionista agli interessi pratici esterni della prestazione (Cass. 11485/1997; Cass. 4777/1980).

Coerentemente con la ratio del divieto, infatti, accentuando il distacco dell’avvocato dagli esiti della lite, diminuisce la portata dell’eventuale commistione di interessi tra il cliente e l’avvocato (Cass. Sez. Unite, N.25012/2014).

La nullità del patto di quota lite è assoluta e colpisce qualsiasi negozio avente ad oggetto diritti affidati al patrocinio legale, anche di carattere non contenzioso, sempre che esso rappresenti il modo con cui il cliente si obbliga a retribuire il difensore, o, comunque, possa incidere sul suo trattamento economico.

Nel caso di specie, il compenso dell’avvocato era stato parametrato ad una percentuale dell’importo che la ricorrente avrebbe percepito dal Comune a titolo di retribuzioni intermedie dalla data dell’illegittimo licenziamento fino alla data di reintegra. Il compenso non era parametrato al valore presunto della controversia, determinabile in via approssimativa già al momento del conferimento dell’incarico, ma al risultato raggiunto all’esito del giudizio, avente ad oggetto non solo la reintegra nel posto di lavoro, ma anche la condanna del datore di lavoro al pagamento delle retribuzioni non versate.

L’argomento sostenuto dalla controricorrente, secondo cui la causa verteva sull’illegittimità del licenziamento, non è condivisibile in quanto a tale accertamento conseguiva la condanna al pagamento delle retribuzioni e, sulla loro percentuale, ovvero sulla res litigiosa, era stato determinato il compenso dell’avvocato.

Viene dunque in rilievo non una questione di interpretazione dell’accordo, ma una questione di falsa applicazione dell’art. 13 terzo comma, essendo stata quest’ultima estesa ad un caso non consentito, ovvero alle ipotesi in cui il compenso sia correlato al risultato pratico dell’attività svolta.

Non è condivisibile la tesi difensiva secondo cui la corresponsione di una somma parametrata al risultato raggiunto costituiva “palmario”. Nel sostenere tale tesi, la controricorrente ha enfatizzato la previsione dell’accordo in forza del quale, oltre alla percentuale de 15%, all’Avv. B.B., in caso di vittoria della lite, erano dovute le somme pagate dal Comune di A. a titolo di rifusione delle spese legali. Il palmario, secondo la giurisprudenza di questa Corte, costituisce una componente aggiuntiva del compenso riconosciuta dal cliente all’avvocato in caso di esito favorevole della lite, a titolo di premio o di compenso straordinario per l’importanza e la difficoltà della prestazione professionale (Cassazione civile sez. un., 08/06/2023, n.16252; Cassazione civile sez. II, 26/04/2012, n.6519).

Nel caso di specie, manca, nell’accordo intercorso tra cliente e professionista il riferimento al pagamento di una somma ulteriore, aggiuntiva, cioè, al compenso, in caso di esito positivo della controversia o in caso di particolare gravosità dell’impegno. La nullità del patto di quota lite non pregiudica la validità dell’intero contratto di patrocinio (Cass. Civ., Sez. II, 30.7.2018, n.20069), e, conseguentemente l’avvocato conserva il diritto al compenso per le sue prestazioni sulla base delle tariffe professionali (Cassazione civile sez. II, 10/03/2023, n.7180 (non massimata)>>.

Onere della prova della negligenza professionale dell’avvocato

Cass. sez. III, Ord. 05/06/2024, n. 15719, rel. Tatangelo, in un caso di asserita negligenza in una difesa penale:

<<1.1 Si premette che la sentenza impugnata è, in diritto, conforme al consolidato indirizzo di questa Corte (che il ricorso non offre ragioni idonee ad indurre a rimeditare), secondo il quale “in tema di responsabilità professionale dell’avvocato per omesso svolgimento di un’attività da cui sarebbe potuto derivare un vantaggio personale o patrimoniale per il cliente, la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”, si applica non solo all’accertamento del nesso di causalità fra l’omissione e l’evento di danno, ma anche all’accertamento del nesso tra quest’ultimo, quale elemento costitutivo della fattispecie, e le conseguenze dannose risarcibili, atteso che, trattandosi di evento non verificatosi proprio a causa dell’omissione, lo stesso può essere indagato solo mediante un giudizio prognostico sull’esito che avrebbe potuto avere l’attività professionale omessa” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 25112 del 24/10/2017, Rv. 646451-01; Sez. 3, Ordinanza n. 8516 del 06/05/2020, Rv. 657777-01)>>.

Ragionamento applicato così al caso specifico:

<<1.2 Nella specie, l’attore e ricorrente A.A. imputa all’avvocato B.B., che lo ha difeso esclusivamente nel primo grado del giudizio penale, a titolo di negligenza professionale, di non avergli consigliato di comparire al processo per rendere le proprie dichiarazioni e fornire la propria versione dei fatti, nonché il mancato tempestivo deposito della lista dei testi e la mancata partecipazione personale all’udienza di discussione, in cui il difensore nominato si sarebbe fatto sostituire da una collega priva delle informazioni e degli strumenti necessari per poter approntare un’adeguata difesa: tali omissioni avrebbero determinato la sua condanna a sette anni di reclusione, sia a causa della mancata prospettazione di una versione dei fatti alternativa a quella indicata dalla vittima, ritenuta pienamente credibile, sia a causa della mancata escussione dei testi a difesa.

È, peraltro, pacifico che, a seguito del giudizio di appello, al quale l’imputato aveva avuto modo di partecipare (assistito da diverso difensore) ed all’esito del quale era stata confermata la condanna emessa in primo grado, la Corte di Cassazione penale ha annullato tale condanna e disposto la rinnovazione del dibattimento, che ha avuto quindi luogo, in sede di rinvio, anche con l’escussione dei testi della difesa. All’esito del giudizio di rinvio, l’attore è stato invero nuovamente condannato, sia pure ad una pena leggermente inferiore (sei anni e mezzo di reclusione, anziché sette).

1.3 Secondo la corte territoriale, la negligenza professionale del legale non può dirsi aver determinato il danno dedotto dall’attore, essendo mancata la prova che, se anche la prestazione professionale, nell’ambito del giudizio penale di primo grado, fosse stata regolarmente adempiuta dal convenuto, l’esito finale del relativo processo sarebbe stato più favorevole all’attore imputato, in base ad una valutazione prognostica fondata sul canone c.d. del “più probabile che non”.

In particolare, premesso che l’attore non aveva prodotto i verbali delle deposizioni dei testi escussi nel giudizio penale di rinvio, ha osservato – sulla base della sentenza emessa all’esito di tale ultimo giudizio – che erano state confermate le valutazioni, già operate dal giudice di primo grado, di piena credibilità della persona offesa dal reato, della sussistenza di molteplici elementi esterni di riscontro alle dichiarazioni di quest’ultima, nonché della mancata offerta di versioni alternative da parte dell’imputato, rimasto del tutto “silente” anche nel primo giudizio di appello penale, quando non era più difeso dal legale convenuto, ed erano state, di converso, ritenute inattendibili, benché non palesemente dolose, le testimonianze a difesa dell’imputato, in quanto “contrastanti tra loro” e prospettanti “un comportamento dell’imputato difficilmente plausibile”.

La corte territoriale ha precisato, altresì, che, benché fosse stato dato atto della difficoltà, da parte dei testimoni, di ricordare esattamente fatti avvenuti cinque anni prima, anche ad ammettere la versione sostenuta dallo stesso imputato e che i testi avrebbero dovuto confermare, secondo la quale egli la sera dei fatti si trovava in altro luogo, a casa di amici, ciò non avrebbe potuto costituire un alibi decisivo, perché la circostanza non era incompatibile con la possibilità che lo stesso avesse successivamente raggiunto il luogo dove si era consumato il delitto.

1.4 In definitiva, la corte d’appello, ha ritenuto non sussistere sufficiente prova che l’esito del processo penale sarebbe stato diverso, anche se il difensore dell’attore avesse svolto la sua prestazione in modo diligente (e fossero stati, quindi, sentiti in primo grado i testi in favore di quest’ultimo ed egli fosse comparso all’udienza, unitamente allo stesso difensore, che si era invece fatto sostituire).

Tale accertamento di fatto è sostenuto da adeguata motivazione, non meramente apparente, né insanabilmente contraddittoria sul piano logico, come tale non censurabile nella presente sede.

1.5 Tanto premesso, in primo luogo le censure di violazione degli artt. 1176 e 2236 c.c., con le quali si deduce “inadeguata valutazione della negligenza professionale e della colpa grave del difensore con riferimento al mandato ricevuto” sono palesemente inammissibili, in quanto la corte d’appello non ha affatto escluso la condotta inadempiente del convenuto sotto tale profilo: al contrario, ha ammesso l’inadempimento dell’avvocato B.B. alle obbligazioni derivanti dal rapporto professionale instaurato con l’attore, rigettando la domanda risarcitoria di quest’ultimo esclusivamente per l’insufficiente prova del nesso di causa tra l’inadempimento ed il danno dedotto come conseguenza dello stesso.

1.6 Le ulteriori censure, con le quali si contesta l’insufficienza della motivazione in ordine alla mancanza di adeguata prova del nesso causale tra la condotta colposa del professionista ed il danno dedotto, si risolvono, nella sostanza, in una inammissibile contestazione di un accertamento di fatto, fondato sulla prudente valutazione delle prove e sostenuto da adeguata motivazione, non meramente apparente, né insanabilmente contraddittoria sul piano logico, come già visto, nonché nella richiesta di una nuova e diversa valutazione delle stesse prove, il che non è consentito nel giudizio di legittimità.

1.7 Per completezza di esposizione, può aggiungersi che risultano del tutto inconferenti, anzi appaiono addirittura per certi versi contraddittorie, anche le argomentazioni contenute nel motivo di ricorso in esame, con riguardo alla strategia processuale adottata dal professionista convenuto e, in particolare, quelle relative alla mancata opzione per eventuali riti alternativi, che avrebbero potuto comportare una riduzione di pena: come del resto sottolineato dalla corte d’appello, oltre a trattarsi di una questione sollevata inammissibilmente dall’attore per la prima volta nel giudizio di secondo grado, le censure, sul punto, risultano del tutto incompatibili, sul piano logico, con la prospettazione difensiva dello stesso attore, fondata sulla dedotta possibilità di dimostrare la propria totale estraneità ai fatti che gli erano imputati, sulla base delle testimonianze a conferma del dedotto alibi, il che evidentemente non avrebbe potuto avvenire in caso di scelta di uno dei richiamati riti alternativi.

1.8 Altrettanto è a dirsi in relazione alle questioni sulla dedotta “perdita di chance”: sul punto è sufficiente osservare che, come rilevato dalla corte d’appello, l’imputato ha, comunque, avuto la possibilità, nel corso del giudizio penale, sia di essere sentito in dibattimento e di fornire la propria versione dei fatti, sia di far escutere i testi a discarico, a sostegno del proprio alibi.

È stato però escluso in radice – in base ad un accertamento di fatto non contestabile nella presente sede, come già visto – che, se anche ciò fosse avvenuto tempestivamente, nel corso del giudizio di primo grado, vi sarebbe stata una ragionevole probabilità di un diverso e più favorevole esito del processo penale (anche solo con riguardo alla commisurazione della pena finale)>>.

Incarico ad avvocato conferito da altro avvocato: chi è tenuto al pagamento del primo? Il secondo oppure il cliente beneficiario della prestazione?

Cass. civ., Sez. II, Ord., (data ud. 21/02/2022) 25/03/2024, n. 7953, rel. Giannacari (testo da Onelegale:

<<Occorre, pertanto, distinguere tra rapporto endoprocessuale nascente dal rilascio della procura “ad litem” e rapporto che si instaura tra il professionista incaricato ed il soggetto che ha conferito l’incarico, il quale può essere anche diverso da colui che ha rilasciato la procura.    Più in generale, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, il rapporto di prestazione d’opera professionale, la cui esecuzione sia dedotta dal professionista come titolo del diritto al compenso, postula l’avvenuto conferimento del relativo incarico in qualsiasi forma idonea a manifestare inequivocabilmente la volontà di avvalersi della sua attività e della sua opera da parte del cliente convenuto per il pagamento di detto compenso. Ciò comporta che il cliente del professionista non è necessariamente colui nel cui interesse viene eseguita la prestazione d’opera intellettuale, ma colui che, stipulando il relativo contratto, ha conferito incarico al professionista ed è conseguentemente tenuto al pagamento del corrispettivo (Cass. Civ., Sez. VI, 12.3.2020, n.7037; Cass. Civ., Sez. III, 3.8.2016, n. 16261; Cass. Civ., Sez. II, 29.9.2004, n. 19596)

Il richiamato principio, ai fini dell’individuazione del soggetto obbligato a corrispondere il compenso al difensore per l’attività professionale richiesta, opera altresì quando, come nel caso in esame, sia stato conferito un incarico difensionale ad un avvocato da parte di un altro avvocato ed in favore di un terzo. Nonostante la presenza di una procura congiunta, ben può intendersi superata la presunzione di coincidenza del contratto di patrocinio con la procura alle liti, ove risulti provato, sia pur in via indiziaria, il distinto rapporto interno ed extraprocessuale di mandato esistente tra i due professionisti sicchè la procura rilasciata dal terzo in favore di entrambi costituisce solo lo strumento tecnico necessario all’espletamento della rappresentanza giudiziaria, indipendentemente dal ruolo di dominus svolto dall’uno rispetto all’altro nell’esecuzione concreta del mandato (Cassazione civile sez. VI, 12/03/2020, n. 7037; Cass. Civ., Sez. II, 20.11.2003, n. 26060; Cass. Civ., Sez. II, 27.12.2004, n. 24010)>>.

Applicato al caso di specie:

<<Nel caso di specie, la Corte d’appello ha accertato che con delibera di Giunta n. 161 del 5.7.2002 il Comune aveva conferito mandato all’Avv. B.B., con facoltà di avvalersi dell’Avv. A.A. o di altro avvocato del proprio studio, sicchè sussisteva la prova dell’assenza del contratto di patrocinio tra l’Avv. A.A. ed il Comune, indipendentemente dalla sottoscrizione della procura da parte del Sindaco.

Detta delibera è stata richiamata dallo stesso ricorrente nel ricorso per decreto ingiuntivo, con ciò confermando l’esistenza del contratto di patrocinio con l’Avv. B.B., al quale dovrà indirizzare la richiesta di compenso.

La giurisprudenza richiamata dal ricorrente, secondo cui, ai sensi dell’art. 83 c.p.c., il conferimento della procura ed il concreto esercizio della rappresentanza giudiziale, costituiscono prova del contratto di patrocinio con la pubblica Amministrazione, non esclude che l’ente possa provare che il conferimento della procura sia limitato all’esercizio della sola rappresentanza processuale e che il contratto di patrocinio sia stato concluso con altro professionista>>.

Obbligo informativo del cliente da parte dell’avvocato

Cass sez. III del 11/12/2023 n. 34.412, rel., Moscarini:

<<Con questa affermazione la Corte del gravame ha determinato una erronea inversione dell’onere della prova esonerando il legale, su cui invece la legge pone il relativo onere, dai suoi precipui obblighi informativi; la ordinanza viola sia la norma sul riparto probatorio e quindi l’art. 2697 c.c. e anche gli artt. 1176 e 2236 c.c. perché omette di considerare che in base alla L. n. 247 del 2012, art. 13, comma 5 è il professionista ad essere tenuto (e quindi a dover provare), nel rispetto del principio di trasparenza, ad informare il cliente del livello di complessità dell’incarico fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento della conclusione del conferimento alla conclusione dell’incarico; è altresì tenuto a comunicare in forma scritta a colui che conferisce l’incarico professionale la prevedibile misura del costo della prestazione distinguendo tra oneri, spese forfettarie e compenso professionale; questi obblighi costituiscono pertanto misura della sua diligenza professionale ai sensi dell’art. 1176 e 2236 c.c.>>

Sui 90 mln $ di compenso (comprensivo di enorme success fee) chiesto in extremis da Watchell Lipton a Twitter prima del closing dell’acquisizione, ora contestato da Musk

I 90 milioni di dollari chiesti a (e pagati da) Twitter dallo studio Watchell Lipton Rosen& Katz per completare la acquisizione dopo un precedente accordo su base oraria sono chiesti ora in restituzione  .

Su probatestars.com   il link diretto alla citaizone.

I motivi di irragionevolezza:

<<72. First, Wachtell engaged in improper overreaching in soliciting and negotiating the success
fee. Wachtell and Twitter were parties to the June 21 Engagement Letter, which did not entitle Wachtell
to a success fee. Wachtell had not procured any other written agreement entitling it to a success fee or
any other fee tied to results achieved, as required by California law and Wachtell’s ethical duties. And
Wachtell had already performed all work on an hourly fee basis under the June 21 Engagement Letter,
for which Wachtell had already procured a material concession from Twitter in the form of Twitter’s
waiver of its normal request for a 15% discount. Moreover, Wachtell engaged in overreaching because,
as discussed below, it made misleading statements and omissions surrounding its fee.
73. Second, Wachtell failed to disclose all material facts to Twitter related to the success fee.
Wachtell did not disclose its ethical duties and obligations related to fee modifications or related to the
requirement for written agreements for any success fees or similar fees. And Wachtell did not disclose
facts sufficient to enable Twitter to evaluate the reasonableness of the success fee portion of Wachtell’s
requested $90 million total fee relative to Wachtell’s fees in other matters, instead sending the incomplete
and self-serving October 20, 2022 memo. As described above, Wachtell’s October 20, 2022 memo on
fees suggested that Wachtell “often” received premium fees of 67%–100% of investment banking fees,
while failing to disclose numerous factors that would be relevant and necessary to compare those fees (in
dissimilar transactional matters) to the size of the fee Wachtell was requesting from Twitter. In the end,
Wachtell was paid more than any of the investment banks. Similarly, as described above, Wachtell’s
October 20, 2022 memo self-servingly suggested that Wachtell “frequently” received fees of 2x to 2.5x
its run rate fees in litigation, without disclosing facts relevant to assessing whether those matters were
fairly representative and comparable to the fee Wachtell was requesting from Twitter. In other words,
Wachtell transmitted a memo to Twitter making it sound like the premium it requested in the form of the
success fee was typical and ordinary, when in reality the fee represented a windfall—even by Wachtell’s
standards—for a litigation matter in which Wachtell bore zero risk and had already completed all work
under the June 21 Engagement Letter on an hourly basis.
74. Third, the fee was grossly excessive in proportion to the value of the services performed.
Wachtell would have received a windfall relative to the value of the services performed had it just been
paid in full for hourly time billed given that (1) Wachtell’s hourly rates are already high relative to market
rates, (2) Wachtell billed unreasonable amounts of time to the litigation, and (3) several Wachtell
timekeepers failed to provide any description whatsoever of the time supposedly spent, let alone adequate
detail to assess the work performed. The addition of Wachtell’s requested success fee drove its alreadyexcessive
billings higher still, resulting in a $90 million total fee that was nearly six times the already
inflated hourly fees in the invoices Wachtell submitted. And unlike in traditional contingency fee
engagements where premiums over hourly rates establishing market norms are justified because the law
firm took on substantial risk, Wachtell took on no risk whatsoever in connection with the Closing Day
Letter Agreement. All services had already been performed, deal closing was imminent, and the Closing
Day Letter Agreement provided that Wachtell would continue to be paid both its full hourly rates in the
extremely unlikely event that the merger failed to close at the last minute plus a (presumably higher)
success fee to be determined later.
75. Fourth, Wachtell was more sophisticated and knowledgeable than Twitter when it comes
to the market rate for legal services in mergers and litigation surrounding mergers. In addition, Wachtell knew that it was dealing with lame duck fiduciaries who made no attempt to honor their duties to Twitter
as a continuing corporation. So, Wachtell exploited that information asymmetry, and the ill-will of
Twitter’s disgruntled executives, to pass off its success fee request as normal or typical when the size of
its $90 million total fee was anything but typical.
76. Fifth, Wachtell was one of six large law firms that represented Twitter in connection with
the merger litigation, a relatively straightforward breach of contract dispute in which Twitter sought to
hold the Musk Parties to the Merger Agreement and to close the transaction. While there were important
factual disputes, there were not novel or difficult questions of law involved, nor did the litigation require
any special skills beyond that which Twitter could have procured by paying hourly rates to many other
reputable law firms with experience litigating in the Delaware Chancery Court, including those hired to
work alongside Wachtell.
77. Sixth, entering into the Closing Day Letter Agreement did not preclude Wachtell from
taking on other matters (i.e., there were no opportunity costs) because the litigation had concluded and
Wachtell’s work was complete.
78. Seventh, at the time the Closing Day Letter Agreement was entered into, there were no
time limitations imposed by Twitter or other circumstances that would have required some outsized fee
to retain counsel to pursue the representation. Rather, the litigation had already been resolved.
79. Eighth, even assuming Wachtell attorneys’ experience, reputation, and ability may
command a slightly higher fee than other counsel, any justifiable premium was already incorporated into
Wachtell’s standard hourly rates. Wachtell had agreed to represent Twitter for its full hourly rates (after
rejecting the standard 15% discount requested by Twitter) under the June 21 Engagement Letter.
80. Ninth, while the success fee requested by Wachtell was conditioned on the merger closing,
the fee was not a typical contingency fee in that: (a) the Closing Day Letter Agreement was not entered into until the day the merger closed and after the litigation for which Wachtell was retained had already
been resolved; and (b) the Closing Day Letter Agreement provided that Wachtell would still receive
payment on all time billed at its full hourly rates even if the transaction fell apart later that day. Thus,
Wachtell bore no risk whatsoever (unlike a typical contingency fee arrangement).
81. Tenth, no additional time and labor was likely to be required at the time Wachtell
negotiated its success fee and entered into the Closing Day Letter Agreement. The litigation had already
been resolved, after which it became a foregone conclusion that the merger would close.
82. Eleventh, Twitter did not give informed consent to the success fee. Although Twitter’s
board of directors ultimately approved the $90 million total fee, the directors were not provided with all
material facts, largely due to Wachtell’s own lack of disclosure. Wachtell did not advise Twitter to seek
independent counsel with respect to the last-minute modification of the fee. Despite ample opportunity
to do so, Wachtell did not provide the details of its hourly billings after August 31, 2022, to make it clear
how much of a bonus it was requesting Twitter pay.
83. Further, Wachtell’s October 20, 2022 memo was self-servingly misleading (for the
reasons discussed above) and was never provided to the members of Twitter’s board aside from Taylor
and Pichette. And Twitter’s board was likewise not provided with other information—such as Wachtell’s
prior invoices or the terms of the June 21 Engagement Letter—that would enable the board to ascertain
the outlandishness of authorizing the requested success fee at the conclusion of Wachtell’s engagement.
84. Finally, the Closing Day Fee Letter was an eleventh-hour, blatantly impermissible
modification of a pre-existing written contract for which Wachtell offered no new consideration
whatsoever. Indeed, the Closing Day Letter Agreement expressly acknowledged that the closing of the
merger was imminent, and that the contemplated $90 million total fee payment, including the unspecified
success fee, was “in consideration” solely for Wachtell’s past “work on Twitter’s behalf since inception
of its engagement.” And, even if the transaction did not close later the same day that the Closing Day
Letter Agreement was executed, Wachtell would still be paid its hourly fees consistent with the June 21
Engagement Letter. In other words, it took zero risk on the representation that would have entitled it to
seek such an extraordinary success fee>>.

Nei §§ seguenti le  causes of action (causae petendi delle domande, suppergiù …).

La domanda consiste in un <equitable claim for restitution or unjust enrichment>, § 92.

<<94. It would be unjust for Wachtell to keep the excess fees it received at Twitter’s expense for all of the reasons alleged herein. Wachtell bore no risk in the engagement to warrant any premium over the fees contemplated in the June 21 Engagement Letter that Wachtell agreed to. Wachtell flagrantly engaged in unreasonable staffing and billing practices, and yet Wachtell—in part due to overreaching— procured a success fee for past services by soliciting lame duck Twitter directors and officers to effectively pilfer cash from the company right before the merger closed. The total fee that Wachtell received was several multiples of what a reasonable fee would have been under the hourly engagement that Wachtell agreed to in the June 21 Engagement Letter.
95. Due to its egregious violations of its professional duties and applicable ethical rules, Wachtell should be required to forfeit its entire $90 million total fee under the Closing Day Letter Agreement and make restitution in the amount of $90 million.
96. To the extent that Wachtell is not required to forfeit its entire fee, it should be ordered to make restitution for the difference between the $90 million total fee it received and the reasonable fees it would have received had it adhered to the billing guidelines it agreed upon in the June 21 Engagement Letter>>.