Il nesso di causalità (“più probabile che non”) nella morte del lavoratore, provocata da tumore polmonare da esposizione prolungata all’amianto

Cass. sez. III, ord. 05/11/2024 n. 28.458, rel. Rubino:

<<Il ragionamento che fa la Corte d’Appello muove dall’accertamento delle circostanze di fatto indicate, tutte rilevanti, ma esclude, sulla base del parere dell’ultimo esperto consultato, che la patologia contratta dalla vittima fosse qualificabile come mesotelioma pleurico, e sulla base di ciò nega che sia stata fornita la prova, seppur sulla base di un ragionamento probabilistico, del nesso di causalità, concludendo nel senso che l’evento lesivo sia dovuto a causa incerta.

L’equazione che risolve la Corte d’Appello è errata, in quanto l’accertamento della non riconducibilità della patologia per cui è morto il Vi.St. alla tipologia del mesotelioma pleurico, la più frequente e caratteristica patologia derivante dall’esposizione all’amianto, qualificata pertanto come malattia professionale, non esclude che la morte per tumore ai polmoni del Vi.St. sia stata causata da una malattia contratta in ambito lavorativo, e non la esimeva dal dover verificare se, in presenza di quelle circostanze di fatto attestanti l’esposizione al rischio in ambito lavorativo, ed in assenza di altri fattori esterni di esposizione accentuata al rischio di patologia tumorale polmonare, si dovesse ritenere più probabile che non che la morte del Vi.St. fosse da porre in rapporto causale con l’attività lavorativa svolta e con l’esposizione al contatto e all’ingerimento della polvere di amianto.

Alle medesime conclusioni è già giunta, peraltro, la Sezione Lavoro della Corte, che ha esaminato il ricorso degli eredi del Vi.St. avente ad oggetto le domande proposte iure hereditatis dagli attuali ricorrenti in relazione alla morte del padre: la Sezione lavoro della Corte, con ordinanza n. 18050/2024 (in R.G. 18847/2022), pubblicata il 1.7.2024, in accoglimento del ricorso di Gh.Pa. e Stefano Vi.St., ha cassato la sentenza n. 684/2021 della Corte d’Appello di Venezia, Sezione lavoro, rinviando alla medesima corte in diversa composizione “per l’accertamento del nesso causale in relazione al motivo accolto”, oltre che per le spese del giudizio.

La Corte d’Appello, infatti, ha erroneamente seguito il ragionamento dell’ausiliario nominato dal Tribunale, secondo cui l’unica diagnosi puntuale sarebbe stata quella fondata sull’esame istologico, nel caso concreto non eseguito. Orbene tale criterio valutativo è errato, perché incentrato sulla certezza causale, laddove il criterio da utilizzare è quello del “più probabile che non”, sicché il fattore causale è rilevante anche in termini di concausalità, in forza del principio di equivalenza delle cause posto dall’art. 41 c.p.

In particolare, questa Corte ha già affermato che, ai sensi dell’art. 41 c.p., il rapporto causale tra l’evento e il danno è governato dal principio di equivalenza delle condizioni, secondo il quale va riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, potendo escludersi l’esistenza nel nesso eziologico richiesto dalla legge solo se possa essere ravvisato con certezza l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, di per sé sufficiente a produrre l’infermità e tale da far degradare altre evenienze a semplici occasioni (Cass. n. 27952/2018; Cass. n. 6105/2015). In applicazione di questo principio questa Corte ha coerentemente affermato che in tema di risarcimento del danno, il nesso causale tra l’esposizione ad amianto e il decesso intervenuto per tumore polmonare può ritenersi provato quando, sulla scorta delle risultanze scientifiche e delle evidenze già note al momento dei fatti e secondo il criterio del “più probabile che non”, possa desumersi che la non occasionale esposizione all’agente patogeno – in relazione alle modalità di esecuzione delle incombenze lavorative, alle mansioni svolte e all’assenza di strumenti di protezione individuale – abbia prodotto un effetto patogenico sull’insorgenza o sulla latenza della malattia (Cass. ord. n. 13512/2022). Quindi per affermare il nesso causale non occorre necessariamente identificare la patologia tumorale in termini di “mesotelioma”, come invece ha ritenuto la Corte d’Appello. Il nesso causale può sussistere anche rispetto ad un tumore polmonare di tipo diverso, purché ricorrano tutti gli altri elementi di valutazione causale sopra detti, in primo luogo la non occasionale esposizione all’agente patogeno, poi le modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, l’assenza di strumenti di protezione individuale, l’assenza di fattori estranei all’attività lavorativa, di per sé sufficienti a produrre l’infermità e tale da far degradare gli altri fattori a semplici occasioni. Questi accertamenti e le correlate valutazioni sono stati completamente omessi dalla Corte territoriale, la cui decisione, dunque, si traduce in violazione dell’art. 41 c.p. e pertanto va cassata con rinvio per un nuovo apprezzamento dell’esposizione a polveri di amianto e della sua rilevanza causale o concausale nell’eziologia della patologia del de cuius e poi del suo decesso>>.

Il principio di diritto: “Accertata la presenza di uno di fattori di rischio (nel caso di specie l’esposizione all’amianto), che scientificamente si pongono come idonei antecedenti causali della malattia, prima, e del decesso, poi, va affermata la sussistenza del nesso di causalità tra quel fattore di rischio e la malattia e quindi il decesso, anche eventualmente in termini di concausalità, in presenza di non occasionale esposizione all’agente patogeno, determinate modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, assenza di strumenti di protezione individuale, salvo che sussista altro fattore, estraneo all’attività lavorativa e/o all’ambiente lavorativo, da solo idoneo a determinare la malattia e/o, poi, il decesso” .

Il mobbing è di per sè danno ingiusto (meglio: è di per sè fonte di danno contrattuale)

Cass. sez. lav., sent. 07/06/2024 n. 15.957, rel. Buconi:

<<5. Per consolidato orientamento di questa Corte la nozione di mobbing (come quella di straining) è una nozione di tipo medico – legale, che non ha autonoma rilevanza ai fini giuridici e serve soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 cod. civ. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291; Cass. n. 32257/2019).

Secondo gli orientamenti maturati presso questa Corte, è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684), a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime, il tutto secondo un assetto giuridico pianamente inquadrabile nell’ambito civilistico, ove si consideri che la determinazione intenzionale di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di lavoro o di chi per lui è in re ipsa ragione di violazione dell’art. 2087 cod. civ. e quindi di responsabilità contrattuale, anche con i maggiori effetti di cui all’art. 1225 cod. civ. per il caso di dolo; è configurabile lo straining, quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164).

In materia di tutela della salute nell’ambiente di lavoro, questa Corte ha inoltre chiarito che un “ambiente lavorativo stressogeno” è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 cod. civ. (vedi, tra le altre: Cass. 7 febbraio 2023 n. 3692 e nello stesso senso: Cass. nn. 33639/2022, 33428/2022, 31514/2022).

Si è inoltre affermato che per l’applicazione dell’art. 2087 cod. civ. si deve fare riferimento alla normativa internazionale (soprattutto Convenzioni ONU, OIL e CEDU) e UE e, quindi, alle pronunce delle due Corti europee centrali (CGUE e Corte EDU) e che tale applicazione è caratterizzata dalla necessità di operare un bilanciamento tra il diritto al lavoro e alla salute del dipendente (art. 4 e 32 Cost.) e la libertà di iniziativa economica del datore di lavoro privato (art. 41 Cost.) ovvero per il dato di lavoro pubblico le esigenze organizzative e i limiti di spesa. L’elemento di base di questa operazione è rappresentato dalla adozione come definizione di salute non è quella di “semplice assenza dello stato di malattia o di infermità”, ma quella di “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” originariamente contenuta nel Preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità OMS (oppure World Health Organization, WHO, entrata in vigore il 7 aprile 1948), cui si riferiscono tutte le Carte internazionali in materia – a partire dalla importante Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità – e che è stata espressamente riprodotta nell’art. 2, comma 1, lettera o) del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81>>.

Regole male applicate dal secondo giudice:

<<6. La sentenza impugnata non è conforme a tali principi, in quanto ha ritenuto le difficoltà relazionali siano imputabili anche alla Lo., senza considerare che l’ “ambiente lavorativo stressogeno” è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie pur se non necessariamente viene accertato l’intento persecutorio che unifica tutte le condotte denunciate (come richiesto solo per il mobbing) ancorché apparentemente lecite o solo episodiche; inoltre, senza operare una precisa e completa ricostruzione del fatto, ha dato atto dell’annullamento del trasferimento della Lo. per incompatibilità ambientale (che, ad avviso della Corte d’appello, risulterebbe dalla sentenza n. 132/2008 del Tribunale di Forlì, richiamata senza alcun chiarimento della relativa della ricostruzione in fatto e delle argomentazioni ivi svolte e senza alcun esame critico delle stesse in base ai motivi di gravame) e dell’annullamento di due sanzioni disciplinari irrogate alla medesima, senza esaminare tali condotte nel contesto complessivo della condotta datoriale>>.

Danno (infarto) da superlavoro, violazione dell’art. 2087 cc da aprte del datotre del lavoro e onere della prova

Molo interessanti precisazioni da Cass. sez. lav. 28.02.2023 n. 6008, rel. Zuliani, sull’oggetto.

Fatto: <<P.P., dirigente medico di primo livello in ortopedia e traumatologia, dipendente della ASL (Omissis), convenne in giudizio l’azienda datrice di lavoro per chiederne la condanna al risarcimento del danno biologico conseguente all’infarto del miocardio subito a causa del sottodimensionamento dell’organico che l’aveva costretto per molti anni a intollerabili ritmi e turni di lavoro.>>

Buono l’inizio della sentenza di appello:

<<4.1. La sentenza impugnata parte dalla corretta premessa che la responsabilità ai sensi dell’art. 2087 c.c. ha natura contrattuale e che, di conseguenza, “incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro – una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze – l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo” (pag. 3 della sentenza impugnata, ove si riporta testualmente, per condividerla, la massima ricavata da Cass. n. 4840-2006).

Altrettanto corretta è l’affermazione – anch’essa tratta da un precedente di legittimità (Cass. n. 8855-2013) – secondo cui “la disposizione di cui all’art. 2087 c.c. si qualifica alla stregua di norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione, ed impone all’imprenditore l’obbligo di tutelare l’integrità fisio-psichica dei dipendenti con l’adozione – e il mantenimento perfettamente funzionale – di tutte le misure di tipo igienico-sanitario o antinfortunistico idonee, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione nell’ambiente o in circostanza di lavoro anche in relazione ad eventi che non sono coperti specificamente dalla normativa antinfortunistica, giustificandosi l’interpretazione estensiva della cennata norma sia in base al rilievo costituzionale del diritto alla salute (Cost., art. 32), sia per il principio di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) cui deve essere improntato e deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro” (ivi)>>.

Non però il prosieguo:

<<4.2. Sennonché, a tali corrette premesse il giudice a quo non ha dato seguito là dove, per respingere la domanda (e l’appello), ha affermato che “l’appellante non ha fornito sufficiente prova, il cui onere era su di lui ricadente, della sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione di quelle misure di sicurezza, suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno, che siano in concreto esigibili con riferimento agli standard di sicurezza suggeriti dalle conoscenze del tempo, e di normale adozione nel settore” e che “non risulta neanche dedotta dall’appellante la specifica violazione di ben determinate norme di sicurezza” (pag. 4 della sentenza impugnata).

In realtà, ciò che il ricorrente ha allegato – e che anche la corte d’appello risulta avere dato per pacifico – è di essere stato sottoposto per molti anni a un superlavoro, ovverosia a turni ed orari particolarmente intensi e prolungati, ben al di sopra della normalità>>

Ecco la valutazione della SC: <<“il lavoratore a cui sia stato richiesto un lavoro eccedente la tollerabilità, per eccessiva durata o per eccessiva onerosità dei ritmi, lamenta un inesatto adempimento altrui rispetto a tale obbligo di sicurezza, sicché egli è tenuto ad allegare rigorosamente tale inadempimento, evidenziando i relativi fattori di rischio (ad es. modalità qualitative improprie, per ritmi o quantità di produzione insostenibili etc., o secondo misure temporali eccedenti i limiti previsti dalla normativa o comunque in misura irragionevole), spettando invece al datore dimostrare che i carichi di lavoro erano normali, congrui e tollerabili o che ricorreva una diversa causa che rendeva l’accaduto a sé non imputabile”;

“oltre a non potersi imporre al lavoratore di individuare la violazione di una specifica norma prevenzionistica (Cass. 25 luglio 2022, n. 23187), ancor meno ciò può essere richiesto quando, adducendo la ricorrenza di prestazioni oltre la tollerabilità, è in sé dedotto un inesatto adempimento all’obbligo di sicurezza, indubbiamente onnicomprensivo e che non necessita di altre specificazioni, pur traducendosi poi esso anche in violazione di disposizioni antinfortunistiche” (Cass. n. 34968-2022).

La corte d’appello ha dunque errato nel pretendere dall’attore (e appellante) l’indicazione di “ben determinate norme di sicurezza”, essendo idonea e sufficiente a dimostrare la nocività dell’ambiente di lavoro l’allegazione (e la prova) dello svolgimento prolungato di prestazioni eccedenti un normale e tollerabile orario lavorativo. >>

ci pare esatto che l’allegazione dei fatti fosse sufficiente per costituiere inadempmentio (v. rosso)

Errato è poi l’inserimento del tema della mancanza di autonomia della ASL nella decisione di assumere altro personale medico nell’ambito della motivazione sul mancato assolvimento degli oneri di allegazione e di prova gravanti sull’attore. Si tratta, infatti, di circostanza  << che potrebbe eventualmente rilevare quale “diversa causa che rendeva l’accaduto a sé non imputabile”, ovverosia di un aspetto che ricade nell’ambito dell’onere della prova liberatoria gravante sul datore di lavoro convenuto, una volta che il lavoratore abbia provato la nocività delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa e il nesso causale tra quest’ultima e l’evento dannoso.

In tale ottica, ovverosia nell’ambito dell’accertamento sull’allegazione del datore di lavoro di avere fatto “tutto il possibile per evitare il danno”, il giudice di merito avrebbe dovuto valutare i limiti all’autonomia dell’ASL nella decisione di assumere altro personale medico, unitamente a tutte le altre circostanze di fatto rilevanti, ivi compreso il ruolo dirigenziale del ricorrente all’interno dell’ASL; fermo restando che il prudente apprezzamento delle prove disponibili non è di per sé sindacabile in questa sede di legittimità>>.

Decorrenza della prescrizione nel rapporto di lavoro a tempo intedeterminato

Cass. 6 settembre 2022 n. 26.246, sez. lav., rel. Patti:

<<deve essere ribadito che la prescrizione decorra, in corso di rapporto, esclusivamente quando la reintegrazione, non soltanto sia, ma appaia la sanzione “contro ogni illegittima risoluzione” nel corso dello svolgimento in fatto del rapporto stesso: così come accade per i lavoratori pubblici e come era nel vigore del testo dell’art. 18, anteriore alla L. n. 92 del 2012, per quei lavoratori cui la norma si applicava. A questa oggettiva precognizione si collega l’assenza di metus del lavoratore per la sorte del rapporto di lavoro ove egli intenda far valere un proprio credito, nel corso di esso: caratterizzato dal regime di stabilità comportato da quella resistenza che assiste, appunto, il rapporto d’impiego pubblico.

Non costituisce, infatti, garanzia sufficiente, come invece ritenuto dalla Corte d’appello di Brescia (dal secondo capoverso di pg. 5 al terz’ultimo di pg. 6 della sentenza), il mantenimento della tutela reintegratoria, tanto con la L. n. 92 del 2012 (art. 18, comma 1), tanto con il D.Lgs. n. 23 del 2015 (art. 2, comma 1), per il licenziamento (non tanto discriminatorio, impropriamente richiamato in proposito, oltre che non correttamente equiparato al licenziamento intimato “per ritorsione, e dunque discriminatorio”: al sesto alinea del secondo capoverso di pg. 5 della sentenza; ma soprattutto) ritorsivo, sul presupposto di un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c. (non necessario per il licenziamento discriminatorio: Cass. 5 aprile 2016, n. 6575; Cass. 7 novembre 2018, n. 28453).>>

Non si tratta, infatti, di enucleare una condizione non meramente psicologica (siccome dipendente da una percezione soggettiva), ma obiettiva di <<metus del dipendente nei confronti del datore di lavoro, per effetto di un’immediata e diretta correlazione eziologica tra l’esercizio obiettivamente inibito) di una rivendicazione retributiva del lavoratore e la reazione datoriale di licenziamento in ragione esclusiva di essa: come sottende la Corte bresciana, laddove argomenta (al penultimo capoverso di pg. 5 della sentenza) con la possibilità per il lavoratore (in “riferimento alla facoltà… di impugnare… un licenziamento che abbia, in concreto e al di là delle ragioni apparenti addotte dal datore di lavoro, quale unica ragione quella di reagire alle rivendicazioni avanzate dal dipendente in pendenza del rapporto di lavoro”) di ottenere “una tutela ripristinatoria piena (certo essendo che se il licenziamento è invece fondato su giusta causa o giustificato motivo, oggettivi e insussistenti, e dunque su ragioni – veritiere – del tutto estranee alle rivendicazioni retributive avanzate dal dipendente, non si può configurare la situazione psicologica in questione).

Un tale ragionamento reputa dotato di stabilità adeguata un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, in assenza di una tutela reintegratoria nelle ipotesi diverse (“del tutto estranee alle rivendicazioni retributive avanzate dal dipendente”: secondo l’espressione della Corte lombarda) di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in ragione di effettive ragioni organizzative e produttive dell’impresa, ovvero di licenziamento disciplinare, per grave inadempimento degli obblighi di diligenza e fedeltà del lavoratore, fino alla rottura irreversibile del rapporto di fiducia tra le parti. Ma il procedimento argomentativo si fonda sul presupposto (chiaramente esplicitato) che tali ragioni non mascherino in realtà ragioni ritorsive (eventualmente per rivendicazioni retributive in corso di rapporto), comportanti il ripristino della tutela reintegratoria, secondo l’insegnamento di questa Corte (Cass. 4 aprile 2019, n. 9468, in riferimento ad un’ipotesi di licenziamento intimato per giustificato motivo, in realtà per motivo illecito ai sensi dell’art. 1345 c.c.; Cass. 22 giugno 2016, n. 12898, in riferimento ad ipotesi di licenziamento intimato per giusta causa).>>

Esso rivela come <<l’individuazione del regime di stabilità sopravvenga ad una qualificazione definitiva del rapporto per attribuzione del giudice, all’esito di un accertamento in giudizio, e quindi necessariamente ex post: così affidandone l’identificazione, o meno, al criterio del “caso per caso”, rimesso di volta in volta al singolo accertamento giudiziale (stigmatizzato al superiore p.to 6, in fine, per essere fonte di massima incertezza e di destabilizzazione del sistema).

9. In via conclusiva, deve allora essere escluso, per la mancanza dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e soprattutto di una loro tutela adeguata, che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, sia assistito da un regime di stabilità.

Da ciò consegue, non già la sospensione, a norma dell’art. 2941 c.c. (per la tassatività delle ipotesi ivi previste e soprattutto per essere presupposto della sospensione la preesistenza di un termine di decorrenza della prescrizione che, esaurita la ragione di sospensione, possa riprendere a maturare), bensì la decorrenza originaria del termine di prescrizione, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012.>>.

Principio di diritto:

“Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.

Ancora la SC sui controlli difensivi ex art. 4 Statuto dei lavoratori

Avevo già dato conto di Cass. n° 25.732 del 22.09.2021 sull’oggetto con post 28.09.2021.

Ora la SC interviene sul tema confermando l’orientamento (Cass. sez. lav. 12.11.2021 n. 34.092). I  controlli difensivi son sopravvissuti alla modifica portata all’art. 4 Stat .lav., dovendosi però distinguere  così: <<In tale ottica, tenuto conto della elaborazione giurisprudenziale maturata nel vigore della disciplina previgente, si è avvertita la necessità di distinguere tra i controlli difensivi in senso lato, vale a dire quelli a difesa del patrimonio aziendale che riguardano tutti i dipendenti (o gruppi di dipendenti) nello svolgimento della loro prestazione di lavoro che li pone a contatto con tale patrimonio, controlli che dovranno necessariamente essere realizzati nel rispetto delle previsioni dell’art. 4  novellato in tutti i suoi aspetti e controlli difensivi in senso stretto, diretti ad accertare specificamente condotte illecite ascrivibili – in base a concreti indizi – a singoli dipendenti, anche se questo si verifica durante la prestazione di lavoro; si è ritenuto che tali ultimi controlli, anche se effettuati con strumenti tecnologici, non avendo ad oggetto la normale attività del lavoratore, si situino, anche oggi, all’esterno del  perimetro applicativo dell’art. 4. Ciò in quanto la istituzionalizzazione della procedura richiesta dall’art. 4, per l’installazione dell’impianto di controllo appare coerente con la necessità di consentire un controllo sindacale, e, nel caso avrebbe l’applicazione della stessa procedura anche nel caso di eventi straordinari ed eccezionali costituiti dalla necessità di accertare e sanzionare gravi illeciti di un singolo lavoratore>> § 21.7.

I controlli devono però essere <mirati> e <ex post>, § 21.9.

Che significa ciò? la SC lo spiega: <<Occorre però chiarire cosa si intenda per tale controllo. Esso infatti non dovrebbe riferirsi all’esame ed all’analisi di informazioni acquisite in violazione delle prescrizioni di cui all’art. 4 St.lav., poichè, in tal modo opinando, l’area del controllo difensivo si estenderebbe a dismisura, con conseguente annientamento della valenza delle predette prescrizioni. Il datore di lavoro, infatti, potrebbe, in difetto di autorizzazione e/o di adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli, nonchè senza il rispetto della normativa sulla privacy, acquisire per lungo tempo ed ininterrottamente ogni tipologia di dato, provvedendo alla relativa conservazione, e, poi, invocare la natura mirata (ex post) del controllo incentrato sull’esame ed analisi di quei dati. In tal caso, il controllo non sembra potersi ritenere effettuato ex post, poichè esso ha inizio con la raccolta delle informazioni; quella che viene effettuata ex post è solo una attività successiva di lettura ed analisi che non ha, a tal fine, una sua autonoma rilevanza. Può, quindi, in buona sostanza, parlarsi di controllo ex post solo ove, a seguito del fondato sospetto del datore circa la commissione di illeciti ad opera del lavoratore, il datore stesso provveda, da quel momento, alla raccolta delle informazioni. Facendo il classico esempio dei dati di traffico contenuti nel browser del pc in uso al dipendente, potrà parlarsi di controllo ex post solo in relazione a quelli raccolti dopo l’insorgenza del sospetto di avvenuta commissione di illeciti ad opera del dipendente, non in relazione a quelli già registrati” (Cass. Sentenze nn. 25731 e 25732 del 2021)>>

Uso di dati personali del dipendente presenti nel PC per la tutela del patrimoniio aziendale

Cass. sez. lav. 12.11.2021 n. 33.809,. rel. Patti A.P., decide un ricorso sull’oggetto.

La lite era stata iniziata dall’impresa contro un dipendente , con richesta di danni per addebiti vari. Il Tribunale l’aveva accolta seppur in misura ridotta , ma l’aveva poi rigettata la corte di appello. La SC accoglie il ricorso dell’impresa.

Il punto interessante è il recupero da parte del’azienda del PC aziendale e dei dati ivi già presenti, ma poi cancellati dal dipedente prima di andarsene.

La cancellazione anche se non defintiva costituisce danneggiamento ex art. 635 bis c.p.

Ebbene per la SC il trattamento è legittimo se “necessario” alla difesa per cui <<la legittimità della produzione va valutata in base al bilanciamento tra il contenuto del dato utilizzato, cui va correlato il grado di riservatezza, con le esigenze di difesa >>, § 5.

Le prove precostituite, quali i documenti, poi, <<entrano nel giudizio attraverso la produzione e nella decisione in virtù di un’operazione di semplice logica giuridica, essendo tali attività contestabili solo se svolte in contrasto con le regole rispettivamente processuali o di giudizio, che vi presiedono, senza che abbia rilievo una valutazione in termini di utilizzabilità, categoria propria del rito penale ed ignota al processo civile (Cass. 25 marzo 2013, n. 7466).>>

l’errore della la Corte territoriale è consistito nell’aver <<omesso di bilanciare i diritti di difesa e di tutela della riservatezza, posto che, in materia di trattamento dei dati personali, il diritto di difesa in giudizio prevale su quello di inviolabilità della corrispondenza, consentendo la L. n. 196 del 2003, art. 24, lett. f), di prescindere dal consenso della parte interessata per il trattamento di dati personali, quando esso sia necessario per la tutela dell’esercizio di un diritto in sede giudiziaria, a condizione che i dati siano trattati esclusivamente per tale finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento (Cass. 20 settembre 2013, n. 21612)>>.

Niente di nuovo: anzi macna approfondimento su cosa significhi <necessario>.

Il punto più interssante è laddovcw si osserva che <<Quanto alla sua estensione, questa Corte ha esplicitamente affermato che “il diritto di difesa non è limitato alla pura e semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso…” (Cass. 29 dicembre 2014, n. 27424, che ha escluso la natura di illecito disciplinare di una condotta scriminata dal legittimo esercizio di un diritto, ai sensi dell’art. 51 c.p., per la sua portata generale nell’ordinamento, non limitata all’ambito penale).>>