Destinazione dell’appartamento vietata dal regolamento condominiale contrattuale e legittimazione ad agire dell’amministratore

Cass. civ., Sez. II, Ord., (data ud. 30/01/2025) 04/02/2025, n. 2770, rel. Scarpa:

<<4.3. – L’azione del condominio diretta a curare l’osservanza del regolamento ed a far riconoscere in giudizio l’esistenza della servitù che limiti la facoltà del proprietario della singola unità di adibire il suo immobile a determinate destinazioni, si configura, invero, come confessoria servitutis, e perciò vede quale legittimato dal lato passivo in primo luogo colui che, oltre a contestare l’esistenza della servitù, abbia un rapporto attuale con il fondo servente (proprietario, comproprietario, titolare di un diritto reale sul fondo o possessore suo nomine), potendo solo nei confronti di tali soggetti esser fatto valere il giudicato di accertamento, contenente, anche implicitamente, l’ordine di astenersi da qualsiasi turbativa nei confronti del titolare della servitù o di rimessione in pristino, mentre gli autori materiali della lesione del diritto di servitù possono essere eventualmente chiamati in giudizio quali destinatari dell’azione ex art. 1079 c.c., ove la loro condotta si sia posta a titolo di concorso con quella di uno dei predetti soggetti o abbia comunque implicato la contestazione della servitù (Cass. n. 2403 del 2024; n. 15222 del 2023).

Le norme del regolamento di condominio che impongono divieti di destinazione ed altre limitazioni similari all’uso delle unità immobiliari di proprietà esclusiva concorrono ad integrare la disciplina delle cose comuni dell’edificio [ nds: delle cose comuni? direi di no!] , in quanto dirette ad impedire un uso abnorme delle stesse in conseguenza di situazioni e comportamenti che non si esauriscano nello stretto ambito delle proprietà esclusive: di tal che, in caso di violazione di tali prescrizioni, l’amministratore del condominio, indipendentemente dal conferimento di uno specifico incarico con deliberazione della assemblea, ha, a norma dell’art. 1130 c.c., il potere di farne cessare il relativo abuso e, quindi, la relativa legittimazione processuale (Cass. n. 1131 del 1985). La presenza di un diritto di servitù in favore indistintamente delle proprietà esclusive presenti in un edificio condominiale, in sostanza, assoggetta il diritto stesso, sia nelle modalità di esercizio che con riguardo alle spese di gestione del bene, alla disciplina propria del condominio, la quale si estende sia alla gestione dei beni comuni che ai diritti reali su beni di uso comune connessi alla migliore utilizzazione delle proprietà (Cass. n. 12259 del 2023). La legittimazione processuale dell’amministratore si giustifica, quindi, essendo in gioco la salvaguardia dei diritti concernenti l’edificio condominiale unitariamente considerato e l’interesse comune dei partecipanti alla comunione, cioè un interesse che costoro possono vantare solo in quanto tali, in antitesi con l’interesse individuale di un singolo condomino (Cass. n. 30302 del 2022).

Peraltro, il giudicato che va a formarsi sull’azione confessoria intentata dal condominio nei confronti del singolo condomino attiene solo al riconoscimento dell’esistenza della servitù a carico della proprietà esclusiva del convenuto e all’accertamento dell’opponibilità della clausola regolamentare, sicché non sussiste la necessità del litisconsorzio di tutti i partecipanti al condominio “per comunanza dei plurimi rapporti bilaterali” correlati alla reciprocità dell’onere (cfr. Cass. Sez. Unite n. 1900 del 2025; Cass. n. 23224 del 2013).

4.4. – Il condominio, quindi, sempre che sia provata l’operatività della clausola limitativa, ovvero la sua opponibilità al condomino locatore, può chiedere, comunque, anche nei diretti confronti del conduttore di una porzione del fabbricato condominiale, la cessazione della destinazione abusiva e l’osservanza in forma specifica delle istituite limitazioni, giacché il conduttore non può venire a trovarsi, rispetto al condominio, in posizione diversa da quella del condomino suo locatore, il quale, a sua volta, è tenuto ad imporre contrattualmente al conduttore il rispetto degli obblighi e dei divieti previsti dal regolamento, a prevenirne le violazioni e a sanzionarle anche mediante la cessazione del rapporto di locazione (cfr. Cass. n. 24188 del 2021; n. 11383 del 2006; n. 4920 del 2006; n. 16240 del 2003; n. 23 del 2004; n. 15756 del 2001; n. 4963 del 2001; n. 8239 del 1997; n. 825 del 1997; n. 5241 del 1978).

4.5.- Il condominio, che faccia valere nei confronti del conduttore la violazione del divieto contenuto nel regolamento condominiale di destinare i singoli locali di proprietà esclusiva a determinati usi e richieda la cessazione della destinazione abusiva al conduttore, deduce, d’altro canto, l’esistenza di servitù gravanti sulla cosa locata, le quali menomano il diritto del conduttore, e ciò implica l’applicabilità dell’art. 1586 c.c. con riguardo al rapporto locativo. Il conduttore convenuto dal condominio, ove si opponga alla pretesa di quest’ultimo, dimostra comunque di avere interesse a rimanere nella lite, agli effetti del secondo comma del citato art. 1586 c.c.>>

L’impedimento delle condizioni statiche dell’edificio nel diritto di sopraelevazione ex art. 1127 c.c.

Cass. sez. II, sent.  04/12/2024 n. 31.032, rel. Giannaccari, conrpecisazione esatta ed importante, ma tutto sommato ovvia:

<<Ai fini dell’art. 1127 c.c., la sopraelevazione di edificio condominiale è costituita dalla realizzazione di nuove opere (nuovi piani o nuove fabbriche) nell’area sovrastante il fabbricato, per cui l’originaria altezza dell’edificio è superata con la copertura dei nuovi piani o con la superficie superiore terminale delimitante le nuove fabbriche (Cass. 07/09/2009 n. 19281; Cass. 24/10/1998 n. 10568; Cass. 10/06/1997 n. 5164; Cass. 24/01/1983 n. 680). Nella definizione enunciata da Cass., Sez. Un., 30/07/2007, n. 16794, la nozione di sopraelevazione ex art. 1127 c.c. comprende, peraltro, non solo il caso della realizzazione di nuovi piani o nuove fabbriche, ma anche quello della trasformazione dei locali preesistenti mediante l’incremento delle superfici e delle volumetrie, seppur indipendentemente dall’aumento dell’altezza del fabbricato.

Il limite segnato dalle condizioni statiche si intende dalla giurisprudenza di questa Corte come espressivo di un divieto assoluto, cui è possibile ovviare soltanto se, con il consenso unanime dei condomini, il proprietario sia autorizzato all’esecuzione delle opere di rafforzamento e di consolidamento necessarie a rendere idoneo il fabbricato a sopportare il peso della nuova costruzione; le condizioni statiche dell’edificio rappresentano, pertanto, un limite all’esistenza stessa del diritto di sopraelevazione, atteso il potenziale pericolo per la stabilità del fabbricato derivante dalla sopraelevazione e l’accertamento dell’idoneità statica della sopraelevazione costituisce apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato (Cass. 30/11/2012 n. 21491).

Il divieto di sopraelevazione per inidoneità delle condizioni statiche dell’edificio, previsto dall’art. 1127, comma 2 c.p.c., va interpretato, quindi, non nel senso che la sopraelevazione è vietata soltanto se le strutture dell’edificio non consentono di sopportarne il peso, ma nel senso che il divieto sussiste anche nel caso in cui le strutture sono tali che, una volta elevata la nuova fabbrica, non consentano di sopportare l’urto di forze in movimento quali le sollecitazioni di origine sismica. Pertanto, qualora le leggi antisismiche prescrivano particolari cautele tecniche da adottarsi, in ragione delle caratteristiche del territorio, nella sopraelevazione degli edifici, esse sono da considerarsi integrative dell’art. 1127, comma 2 c.c. e la loro inosservanza determina una presunzione di pericolosità della sopraelevazione che può essere vinta esclusivamente mediante la prova, incombente sull’autore della nuova fabbrica, che non solo la sopraelevazione, ma anche la struttura sottostante sia idonea a fronteggiare il rischio sismico (Cass. 29/01/2020 n. 2000)>>.

Differenza di disciplina tra comunione legale e comunione ordinaria (cui si perviene una volta sciolta la prima)

Cass. sez. I, ord. 3 febbraio 2025 n. 2.546 est. Tricomi:

<<La comunione legale tra coniugi, in quanto finalizzata alla tutela della famiglia piuttosto che della proprietà individuale, si differenzia da quella ordinaria in quanto costituisce una comunione senza quote, nella quale essi sono entrambi solidalmente titolari di un diritto avente ad oggetto tutti i beni che la compongono e rispetto alla quale non e ammessa la partecipazione di estranei, sicché, fintantoché è in essere, permane il diritto del coniuge a non entrare in rapporti di comunione con soggetti ad essa estranei, mentre una volta sciolta per una delle cause di cui all’art. 191 c.c., venendo meno le necessità funzionali originarie, ciascuno degli ex coniugi può cedere ad ogni titolo la propria quota, ossia la corrispondente misura dei suoi diritti verso l’altro, senza che si ponga un problema di radicale invalidità dell’atto di trasferimento.
Una volta sciolta la comunione legale con la separazione consensuale, rientra nella piena autonomia negoziale delle parti disciplinare gli aspetti economico-patrimoniali – estranei agli obblighi ex lege riguardanti la prole, in relazione ai quali l’autonomia delle parti contraenti incontra limiti – con l’accordo di separazione omologato; in tale sede le parti possono liberamente disporre del beni in comunione al fine di regolare i rapporti economici della coppia e possono prevedere una ripartizione del bene immobile in comunione legale per quote non egalitarie nell’ambito delle reciproche attribuzioni patrimoniali, in vista della successiva divisione, senza che ricorra alcuna ipotesi di nullità>>.

(massima di Valeria Cianciolo in Ondif)

Usucapione della quota di bene in comunione ereditaria

Corte d’Appello di Roma, Sez. VII, Sent., 6 maggio 2024

<<Il coerede che, dopo la morte del “de cuius”, sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso; a tal fine, però, egli, che già possiede “animo proprio” ed a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, godendo del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare un’inequivoca volontà di possedere “uti dominus” e non più “uti condominus”, risultando a tal fine insufficiente l’astensione degli altri partecipanti dall’uso della cosa comune>>.

(massima di Francesca Ferrandi in Ondif)

Ius sepulchri in un ‘azione di indebito arricchimento

Cass. sez. III, ord. 07/01/2025   n. 190, Tassone:

<<Giova premettere che questa Suprema Corte ha già avuto modo di affermare che “Nel sepolcro ereditario lo “ius sepulchri” si trasmette nei modi ordinari, per atto “inter vivos” o “mortis causa”, come qualsiasi altro diritto, dall’originario titolare anche a persone non facenti parte della famiglia, mentre nel sepolcro gentilizio o familiare – tale dovendosi presumere il sepolcro, in caso di dubbio – lo “ius sepulchri” è attribuito, in base alla volontà del testatore, in stretto riferimento alla cerchia dei familiari destinatari del sepolcro stesso, acquistandosi dal singolo “iure proprio” sin dalla nascita, per il solo fatto di trovarsi col fondatore nel rapporto previsto dall’atto di fondazione o dalle regole consuetudinarie, “iure sanguinis” e non “iure successionis”, e determinando una particolare forma di comunione fra contitolari, caratterizzata da intrasmissibilità del diritto, per atto tra vivi o “mortis causa”, imprescrittibilità e irrinunciabilità. Tale diritto di sepolcro si trasforma da familiare in ereditario con la morte dell’ultimo superstite della cerchia dei familiari designati dal fondatore, rimanendo soggetto, per l’ulteriore trasferimento, alle ordinarie regole della successione “mortis causa”. (v. Cass., n. 12957/2000; Cass., n. 700/2012).

Orbene, la corte di merito ha del tutto trascurato i suindicati principi e, per l’effetto, ha omesso di considerare che la scrittura privata di cessione era stata dichiarata nulla in prime cure sul rilievo della intrasmissibilità inter vivos dei diritti sul sepolcro gentilizio o familiare, per cui l’azione esperita da Ge.Gi. ex art. 2041 cod. civ., lungi dal risultare sussidiaria e recessiva rispetto “alle regole sulla comunione (art. 1100 e ss. cod. civ.)”, genericamente ed erroneamente richiamate nell’impugnata sentenza, risultava invece essere l’unica azione esperibile nel caso di specie, giusto il principio secondo cui “la nullità del contratto elimina il titolo su cui la relativa azione può essere fondata, rendendola non esercitabile” (Cass., 22/3/2012 n. 4620, che richiama, fra le altre, Cass., 24/2/2010 n. 4492).

Due Cassazioni su i) presunzione di comproprietà del lastrico solare e formazione del condominio; ii) prova del danno da infiltrazioni per mancato godimento dell’immobile

Cass. sez. II, ord. 29/11/2024 n. 30.713, rel. Oliva:

<<Occorre premettere che, secondo l’insegnamento di questa Corte, “In tema di condominio negli edifici, l’individuazione delle parti comuni, come le terrazze di copertura, risultante dall’art. 1117 c.c. –il quale non si limita a formulare una mera presunzione di comune appartenenza a tutti i condomini, vincibile con qualsiasi prova contraria– può essere superata soltanto dalle opposte risultanze di un determinato titolo e non opera con riguardo a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, risultino destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 7449 del 07/07/1993, Rv. 483033; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 24189 del 08/09/2021, Rv. 662169).

L’art. 1117 c.c., dunque, non introduce una presunzione di appartenenza comune di determinati beni a tutti i condomini, ma fissa un criterio di attribuzione della proprietà del bene, che è suscettibile di essere superato mediante la produzione di un titolo che dimostri la proprietà esclusiva di quel bene in capo ad un condomino, o a terzi, ovvero attraverso la dimostrazione che, per le sue caratteristiche strutturali, la res sia materialmente asservita a beneficio esclusivo di una o più unità immobiliari.

Nel caso del lastrico di copertura, si è ritenuto che esso, in difetto di titolo contrario, rientri ope legis nell’ambito delle parti comuni dell’edificio, stante la sua funzione naturale di copertura dello stesso (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1501 del 21/05/1974, Rv. 369620) e che analogo regime giuridico debba essere attribuito anche alla cd. terrazza a livello, ove essa abbia anche una funzione di copertura e protezione dagli agenti atmosferici dei vani sottostanti (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 863 del 25/03/1971, Rv. 350737 e Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 20287 del 23/08/2017, Rv. 645233). Pertanto, “… l’individuazione delle parti comuni, come i lastrici solari, emergente dall’art. 1117 c.c. ed operante con riguardo a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, non siano destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari, può essere superata soltanto dalle contrarie risultanze dell’atto costitutivo del condominio –ossia dal primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto, con conseguente frazionamento dell’edificio in più proprietà individuali–, ove questo contenga in modo chiaro e inequivoco elementi tali da escludere l’alienazione del diritto di condominio, non rilevando a tal fine quanto stabilito nel regolamento condominiale, ove non si tratti di regolamento allegato come parte integrante al primo atto d’acquisto trascritto, ovvero di regolamento espressione di autonomia negoziale, approvato o accettato col consenso individuale dei singoli condomini e volto perciò a costituire, modificare o trasferire i diritti attribuiti ai singoli condomini dagli atti di acquisto o dalle convenzioni” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21440 del 06/07/2022, Rv. 665175)>>.

E poi:

<<la Corte di Appello avrebbe dovuto applicare la norma di cui all’art. 1117 c.c. e dunque ribadire il principio secondo cui la cd. presunzione di condominialità “… stabilita per i beni elencati nell’art. 1117 c.c., la cui elencazione non è tassativa, deriva sia dall’attitudine oggettiva del bene al godimento comune sia dalla concreta destinazione di esso al servizio comune, con la conseguenza che, per vincere tale presunzione, il soggetto che ne rivendichi la proprietà esclusiva ha l’onere di fornire la prova di tale diritto; a tal fine, è necessario un titolo d’acquisto dal quale si desumano elementi tali da escludere in maniera inequivocabile la comunione del bene, mentre non sono determinanti le risultanze del regolamento di condominio, né l’inclusione del bene nelle tabelle millesimali come proprietà esclusiva di un singolo condomino” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5633 del 18/04/2002, Rv. 553833; cfr. anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8152 del 15/06/2001, Rv. 547520, che esclude la natura decisiva dei dati catastali, dotati di mera valenza indiziaria)>>.

Infine:

<< Sul punto, va ribadito che il momento costitutivo del condominio (o, nel caso di specie, del supercondominio, il cui regime giuridico è modellato sulla base di quello del condominio) coincide con il primo atto di frazionamento della proprietà immobiliare, ab origine concentrata nelle mani di un solo soggetto, con il quale la parte acquirente “… salvo che il titolo non disponga diversamente, entra a far parte del condominio ipso jure et facto relativamente alle parti comuni ex art. 1117 c.c. esistenti al momento dell’alienazione e per addizione, man mano che si realizzano, di quelle ulteriori parti necessarie o destinate, per caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune, nonché di quelle che i contraenti, nell’esercizio dell’autonomia privata, dispongano comunque espressamente di assoggettare al regime di condominialità” (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 32857 del 27/11/2023, Rv. 669622; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21440 del 06/07/2022, Rv. 665175 e Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 1615 del 16/01/2024, Rv. 669934)>>.

Si veda poi Cass. sez. II, sent. 02/12/2024  n. 30.791, rel. Giannaccari:

<<2.3. Secondo l’insegnamento di questa Corte, in tema di condominio negli edifici, l’individuazione delle parti comuni, come le terrazze di copertura, risultante dall’art. 1117 c.c. può essere superata soltanto dalle opposte risultanze di un determinato titolo e non opera con riguardo a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, risultino destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari (Cass., Sez. Un., 7 luglio 1993 n. 7449; Cass. 8 settembre 2021 n. 24189).

L’art. 1117 c.c. non introduce una presunzione di appartenenza comune di determinati beni a tutti i condomini, ma fissa un criterio di attribuzione della proprietà del bene (“Sono oggetto di proprietà comune….”), che è suscettibile di essere superato mediante la produzione di un titolo che dimostri la proprietà esclusiva di quel bene in capo ad un condomino, o a terzi, ovvero attraverso la dimostrazione che, per le sue caratteristiche strutturali, la res sia materialmente asservita a beneficio esclusivo di una o più unità immobiliari.

2.4. Con riguardo ai lastrici, in particolare, si è ritenuto che, qualora non intervenga una volontà derogatoria degli interessati sul regime di appartenenza, i beni e i servizi elencati dall’art. 1117 c.c., in virtù della relazione di accessorietà o di collegamento strumentale con le singole unità immobiliari, sono attribuiti ex lege in proprietà comune per effetto dell’acquisto della proprietà dei piani o porzioni di piano; pertanto, il lastrico solare è oggetto di proprietà comune se il contrario non risulta dal titolo, per tale intendendosi gli atti di acquisto delle altre unità immobiliari nonché il regolamento di Condominio accettato dai singoli condomini (Cass. 8 ottobre 2021 n. 27363; Cass. 16 luglio 2004 n. 13279).

È stato, inoltre, precisato in giurisprudenza che l’individuazione delle parti comuni, come i lastrici solari, emergente dall’art. 1117 c.c., ed operante con riguardo a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, non siano destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari, può essere superata soltanto dalle contrarie risultanze dell’atto costitutivo del Condominio, ove questo contenga in modo chiaro e inequivoco elementi tali da escludere l’alienazione del diritto di Condominio (Cass. 6 luglio 2022 n. 21440; Cass. 7 aprile 1995 n. 4060).

2.5. La giurisprudenza di questa Corte richiede, per escludere la previsione di condominialità di cui all’art. 1117 c.c., una espressa riserva di proprietà nel titolo originario di costituzione del Condominio (cfr. ad esempio, in tema di cortili, Cass. n. 7885 del 2021; Cass. n. 16070 del 2019; Cass. n. 18796 del 2020; Cass. n. 5831 del 2017; la regola vale ovviamente anche per gli altri beni indicati nell’art. 1117 c.c.).

Il lastrico, in definitiva, assolve alla primaria funzione di copertura dell’edificio e rientra dunque nel novero delle parti comuni, salva la prova contraria che, però, deve essere fornita in modo chiaro ed univoco, attraverso una espressa riserva di proprietà. (…)      2.7. La prova della proprietà del lastrico doveva avvenire, invece, attraverso un titolo idoneo a dimostrare il superamento della presunzione di condominialità del lastrico solare di cui all’art. 1117 c.c.

Per titolo non si intende, evidentemente, il titolo che individua il soggetto destinatario dei costi della manutenzione, ordinaria e straordinaria, della terrazza, ma deve intendersi l’atto costitutivo dello stesso Condominio, ossia il primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto, con conseguente frazionamento dell’edificio in più proprietà individuali; tale atto deve contenere in modo chiaro e inequivoco elementi tali da includere l’alienazione del diritto di condominio, non rilevando a tal fine quanto stabilito nel regolamento condominiale, ove non si tratti di regolamento allegato come parte integrante al primo atto d’acquisto trascritto, ovvero di regolamento espressione di autonomia negoziale, approvato o accettato col consenso individuale dei singoli condomini e volto perciò a costituire, modificare o trasferire i diritti attribuiti ai singoli condomini dagli atti di acquisto o dalle convenzioni (così Cass. n. 21440 del 2022; analogamente, v. anche, Cass. n. 27363/2021 cit.; Cass. n. 13279/2004 cit.; Cass. n. 4060/1995 cit.) >>.

Interessante poi il passaggio di Cass. 30.791/2024 sulla presunzione di danno da mancato godimento del bene reso inutilizzabile:

<<3.4. Sul punto, deve essere richiamata la nota pronuncia delle Sezioni Unite del 15/11/2022, n.33645, che, in tema di prova del danno da perdita di godimento del bene, ha ammesso la prova presuntiva.

Le Sezioni Unite, con la citata sentenza, hanno optato per una mediazione fra la teoria normativa del danno, emersa nella giurisprudenza della II Sezione Civile, e quella della teoria causale, sostenuta dalla III Sezione Civile.

Le Sezioni Unite hanno confermato la linea evolutiva della giurisprudenza della II Sezione Civile, nel senso che la locuzione “danno in re ipsa” va sostituita con quella di “danno presunto” o “danno normale”, privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato.

La sentenza delle Sezioni Unite definisce, altresì, la nozione di danno risarcibile in presenza di violazione del contenuto del diritto di proprietà esso riguarda non la cosa ma il diritto di godere in modo pieno ed esclusivo della cosa stessa sicché il danno risarcibile è rappresentato dalla specifica possibilità di esercizio del diritto di godere che è andata persa quale conseguenza immediata e diretta della violazione.

Il nesso di causalità giuridica si stabilisce così fra la violazione del diritto di godere della cosa, integrante l’evento di danno condizionante il requisito dell’ingiustizia, e la concreta possibilità di godimento che è stata persa a causa della violazione del diritto medesimo, quale danno conseguenza da risarcire.

Nel caso in cui la prova sia fornita attraverso presunzioni, l’attore ha l’onere di allegare il pregiudizio subito, anche mediante le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza.

Il principio enunciato dalle Sezioni Unite, riferito alla perdita della disponibilità/godimento dell’immobile per la diversa ipotesi di occupazione senza titolo da parte di un terzo, trova applicazione anche nelle ipotesi in cui la perdita della disponibilità/godimento sia dovuta alla inagibilità dell’immobile in conseguenza dell’attività colposa di terzi.

La Corte di merito ha omesso di accertare se, a causa del protrarsi delle infiltrazioni, l’attrice avesse perso il godimento sia diretto, sia indiretto mediante locazione, del suo appartamento, in quanto non poteva né goderlo, né concederlo a terzi in caso di inabitabilità.

La Corte territoriale, pur asserendo di aderire all’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità, confermato dalla citata pronuncia delle Sezioni Unite, ha erroneamente rigettato la domanda dell’attrice per carenza di prova di concrete richieste di locazione o di vendita dell’immobile rimaste pregiudicate dalle sue condizioni degradate>>.

Onere provatorio per escludere la condominialità di uin bene (art. 1117 cc: “se non risulta in contrario dal titolo”)

Cass. sez. II, ord. 21/11/2024 n. 30025, rel. Pirari, ribadisce insegnamenti consolidati:

<<7.1. Va, innanzitutto, premesso che, secondo quanto già reiteratamente statuito dalla giurisprudenza di questa Corte, per affermare la condominialità di un bene occorre gradatamente verificare dapprima che la res, per le sue caratteristiche strutturali, risulti destinata oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari (cfr. Cass. Sez. Unite, 7/07/1993, n. 7449 e, più recentemente, Cass., Sez. 2, 8/09/2021, n. 24189), e poi che [“non”: dimenticanza della SC…] sussista un titolo contrario alla “presunzione” di condominialità, facendo riferimento esclusivo al primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto.

L’art. 1117 cod. civ., infatti, nel contemplare un elenco, non tassativo, di beni caratterizzati dalla loro attitudine oggettiva al godimento comune e dalla concreta destinazione dei medesimi al servizio comune (Cass., Sez. 2, 18/4/2023, n. 10269; Cass., Sez. 2, 23/08/2007, n. 17928), opera ogniqualvolta, nel silenzio del titolo, il bene, per le sue caratteristiche, sia suscettibile di utilizzazione da parte di tutti i proprietari esclusivi (Cass., Sez. 2, 20/07/1999, n. 7764; Cass., Sez. 2, 30/03/2016, n. 6143), in quanto detta una presunzione di comune appartenenza a tutti i condomini che non può essere vinta con qualsiasi prova contraria, ma soltanto alla stregua delle “opposte risultanze di quel determinato titolo che ha dato luogo alla formazione del condominio per effetto del frazionamento dell’edificio in più proprietà individuali” (Cass., Sez. 2, 6/7/2022, n. 21440). La situazione di condominio, regolata dagli artt. 1117 e seguenti cod. civ., si attua, infatti, sin dal momento in cui si opera il frazionamento della proprietà di un edificio, a seguito del trasferimento della prima unità immobiliare suscettibile di separata utilizzazione dall’originario unico proprietario ad altro soggetto (Cass., Sez. 2, 6/7/2022, n. 21440, cit.), la cui trascrizione, comprensiva pro quota, senza bisogno di specifica indicazione, anche delle parti comuni, ne consente l’opponibilità ai terzi dalla data dell’eseguita formalità (Cass., Sez. 2, 17/2/2020, n. 3852; Cass., Sez. 2, 9/12/1974, n. 4119).

In presenza di tale presunzione legale, il condominio è, dunque, dispensato dalla prova del suo diritto, ed in particolare dalla cosiddetta probatio diabolica, spettando invece al condòmino che rivendichi la proprietà esclusiva di uno dei beni di cui al suddetto elenco dare la prova delle sue asserzioni, senza che a tal fine sia rilevante il titolo di acquisto proprio o del suo dante causa, ove non si tratti dell’atto costitutivo del condominio, ma di alienazione compiuta dall’iniziale unico proprietario che non si era riservato l’esclusiva titolarità del bene (Cass., Sez. 2, 17/2/2020, n. 3852; Cass., Sez. 2, 7/6/1988, n. 3862).

Ciò comporta che è al primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dall’originario unico proprietario e al conseguente frazionamento dell’edificio in più proprietà individuali che occorre fare riferimento al fine di verificare la possibilità di superare la previsione di cui all’art. 1117 cod. civ., con la conseguenza che non può considerarsi dirimente, a tali fini, il contenuto del contratto di compravendita di colui che abbia acquistato in epoca successiva al primo atto di acquisto dall’originario unico proprietario, a meno che questi non si sia riservato la proprietà di alcune porzioni immobiliari che sarebbe altrimenti cadute nella presunzione di condominialità. Quanto al regolamento condominiale c.d. contrattuale, ossia quello contestuale alla nascita del condominio e accettato col consenso individuale dei singoli condomini (cfr. Cass., Sez. 2, 6/7/2022, n. 21440, cit.; anche Cass., Sez. 2, 7/4/2023, n. 9951; Cass. Sez. 2, 03/05/1993, n. 5125; Cass. Sez. 2, 21/05/2012, n. 8012), deve osservarsi come esso possa contenere, oltre alle norme relative all’amministrazione e alla gestione delle parti comuni, anche l’indicazione stessa delle parti comuni e perfino la previsione dell’uso esclusivo di una parte dell’edificio definita comune a favore di una frazione di proprietà esclusiva, dando luogo ad un vincolo di natura pertinenziale, siccome posto in essere dall’originario unico proprietario dell’edificio, legittimato all’instaurazione e al successivo trasferimento del rapporto stesso ai sensi degli artt. 817, secondo comma, e 818 c.c. (Cass., Sez. 2, 4/9/2017, n. 20712; Cass. Sez. 2, 04/06/1992, n.6892; ma si veda anche Cass. Sez. 2, 24/11/1997, n. 11717).

Tuttavia, proprio perché l’esclusione, dal novero delle parti condominiali, di alcune porzioni dell’edificio che altrimenti vi ricadrebbero alla stregua della presunzione di cui all’art. 1117 cod. civ. incide sulla costituzione o modificazione di un diritto reale immobiliare (con la conseguenza che l’esclusione stessa deve risultare ad substantiam da atto scritto), è necessario, per aversi titolo contrario, che dal negozio, così come dal regolamento c.d. contrattuale, emergano elementi tali da essere in contrasto con l’esercizio del diritto di condominio, e tale indagine, in quanto afferente all’interpretazione della volontà negoziale dei condomini, presuppone un accertamento di fatto demandato all’apprezzamento dei giudici del merito, rimanendo incensurabile in sede di legittimità se non per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, così come previsti negli artt. 1362 e seguenti cod. civ., oppure nei limiti di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. (Cass., Sez. 2, 6/7/2022, n. 21440 cit.), senza che rilevi il dato empirico che l’area in esame, per la conformazione dei luoghi, sia stata di fatto goduta ed utilizzata più proficuamente e frequentemente dal condomino titolare della contigua unità immobiliare adibita ad attività commerciale, piuttosto che dagli altri condomini (Cass., Sez. 2, 4/9/2017, n. 20712; anche Cass., Sez. 2, 3/05/2002, n. 6359)>>.

Interclusione totale del fondo, interclusione parziale e rinuncia preventiva alla servitù legale di passaggio

Cass.  sez. II, Sent.  n. 29.311, rel. Oliva:

Sentenza impugnata:

<<La Corte di Appello ha accertato che, al momento della divisione del fondo in origine unitario, avvenuta con atto per notar H.H. del 21.11.1987, era stato previsto che “entrambi i lotti vengono sollevati da qualsiasi asservimento e di qualsiasi genere, ivi compresa la captazione e il sollevamento di acqua sorgiva ai quali potessero essere assoggettati sia l’uno che l’altro lotto” (cfr. pag. 3 della sentenza impugnata). Ha dunque ritenuto che “La rinuncia preventiva alla servitù coattiva non può conciliarsi con l’esercizio del diritto di proprietà, solo nel caso in cui tale diritto verrebbe “irrimediabilmente compromesso” da tale rinuncia. Nel caso de quo la rinuncia avvenne al momento della divisione dei fondi, di talché F.F. (dante causa degli odierni ricorrenti) ben sapeva, non essendo il fondo intercluso ma confinante con la pubblica via, che una rinuncia alla richiesta di vincoli o servitù sul fondo del fratello G.G. (dante causa degli odierni intimati) non avrebbe pregiudicato il suo utilizzo, ma semmai lo avrebbe reso meno agevole. Del resto, da sempre l’attore rivendica la costituzione del chiesto peso, per raggiungere con mezzi meccanici il proprio fondo, rappresentando una situazione, non di totale impossibilità al raggiungimento dello stesso, ma di maggior comodità” (cfr. pag. 5 della sentenza)>>.

Sua critica:

<< La motivazione, particolarmente stringata, valorizza gli effetti della rinuncia preventiva alla costituzione di una servitù di passaggio, in presenza di un fondo preteso dominante che non è intercluso, perché comunque confinante con la pubblica via. Tuttavia, il giudice di merito non affronta ex professo il tema dell’interclusione relativa del fondo predetto, poiché non considera il fatto, potenzialmente decisivo, che tra esso e la strada vi è un dislivello (come accertato dalla C.T.U., i cui passaggi salienti sono riportati a pag. 9 del ricorso ai fini della sua autosufficienza) e che la realizzazione di un accesso diretto alla via pubblica mal si concilia con i costi necessari, quasi corrispondenti all’intero valore del fondo di cui sopra, e con le esigenze legate alla sua conduzione agricola.

Ferma restando l’impossibilità di ipotizzare una rinuncia preventiva alla costituzione di servitù di passaggio a favore di un fondo che risulti assolutamente intercluso, in quanto essa finirebbe per svuotare di contenuto tipico del diritto del proprietario del fondo stesso, che non potrebbe accedervi in alcun modo, occorre evidenziare che, nel caso specifico, il giudice di merito non ha in alcun modo indagato il tema dell’interclusione relativa del fondo degli odierni ricorrenti. Questi ultimi evidenziano che la C.T.U. espletata nel corso del primo grado -della quale, ai fini della specificità del motivo, riportano i passaggi salienti alle pagg. 9 e 10 del ricorso- aveva accertato che il loro fondo, ancorché confinante con la via pubblica, non poteva avervi accesso diretto in funzione del dislivello esistente, variabile da 5 a 6 metri. La Corte di Appello non considera questo elemento, pur emergente dal compendio istruttorio, e si limita ad affermare che il fondo preteso dominante non sarebbe intercluso perché posto a confine con la via pubblica. In tal modo, il giudice di merito da un lato non approfondisce il tema, pur rilevante, dell’ammissibilità di una rinuncia preventiva ai diritti nascenti ope legis, giusta la disposizione di cui all’art. 1051
c.c., a favore del fondo assolutamente intercluso, limitandosi ad affermare, sul punto, che la rinuncia avrebbe avuto ad oggetto un passaggio più comodo: in tal modo, la Corte di Appello sembra presupporre che l’accertamento che il fondo preteso dominante confina con la via pubblica renda comunque possibile un accesso diretto, ancorché maggiormente disagevole rispetto a quello praticabile attraverso il fondo intercludente. Dall’altro lato, la Corte territoriale non esamina affatto la questione della natura disagevole del detto ipotetico accesso diretto dalla via pubblica, in tal modo non affrontando la tematica, pur sollevata dagli odierni ricorrenti, della possibilità di configurare, a vantaggio del loro fondo, un diritto di passaggio coattivo in presenza di interclusione parziale, ai sensi di quanto previsto dall’art. 1052 , primo e secondo comma, c.c.>>

Lo scioglimento della comunione non può essere disposto su un immobile -anche parzialmente- abusivo

Cass.  Sez. II, Sent.  07/11/2024, n. 28.666, rel. Manna:

<<Com’è noto, con sentenza n. 25021/19 le S.U. hanno stabilito, mutando la pregressa giurisprudenza della Corte, che quando sia proposta domanda non endoesecutiva di scioglimento di una comunione (ordinaria o ereditaria che sia), il giudice non può disporre la divisione che abbia ad oggetto un fabbricato abusivo o parti di esso, in assenza della dichiarazione circa gli estremi della concessione edilizia e degli atti ad essa equipollenti, come richiesti dall’art. 46 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e dall’art. 40 , comma 2, della legge 28 febbraio 1985, n. 47 , costituendo la regolarità edilizia del fabbricato condizione dell’azione ex art. 713 c.c., sotto il profilo della “possibilità giuridica”, e non potendo la pronuncia del giudice realizzare un effetto maggiore e diverso rispetto a quello che è consentito alle parti nell’ambito della loro autonomia negoziale.

(…)

Né rilievo alcuno può essere attribuito alla circostanza che la parziale abusività dell’immobile possa – in via di pura ipotesi, ciò non ricavandosi dalla sentenza impugnata – integrare difformità parziali non ostative alla commerciabilità del bene, e regolate solo dall’art. 34 del D.P.R. n. 380/01.

In disparte che tale ultima disposizione esaurisce i suoi effetti nel rapporto di evidenza pubblica tra il comune e i responsabili dell’abuso, e dunque nulla può predicare sulla validità degli atti di diritto privato; ciò a parte, è dirimente quanto segue. In forza del noto arresto di S.U. n. 8230/19, la nullità comminata dall’art. 46 del D.P.R. n. 380 del 2001 e dagli artt. 17 e 40 della L. n. 47 del 1985 va ricondotta nell’ambito del comma 3 dell’art 1418 c.c., di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell’immobile. Pertanto, in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato.

Tale affermazione di diritto comporta che pure ai fini della divisione non endoesecutiva, che in virtù della sentenza delle S.U. n. 25021/19 sopra citata segue il regime di incommerciabilità del bene, non v’è spazio alcuno per reintrodurre la pregressa distinzione tra difformità totale (impediente) e difformità parziale (non impediente)>>.

L’atto di vendita del proprietaio non interrompe il possesso dell’usucapiente

Cass.  sez. II, ord. 25/09/2024  n. 25.643, rel. Mondini, ricorda una  regola interessante, perchè fonte di dubbi nella pratica: però a ben vedere scontata, poichè il negozio di vendita in nulla incide sul (o limita il) potere di fatto dell’usucapiente.

<<Il motivo è invece fondato nella parte in cui viene dedotta l’erroneità della affermazione della Corte di Appello secondo cui “l’immobile risulta essere stato venduto con atto del 1983, data alla quale non era ancora maturata l’usucapione e l’atto di disposizione dei proprietari è incompatibile con il preteso possesso uti dominus del Di.Di. cosicché non può ritenersi maturato il diritto preteso dall’appellante”.

Come questa Corte ha avuto modo di precisare “Nel giudizio promosso dal possessore nei confronti del proprietario per far accertare l’intervenuto acquisto della proprietà per usucapione, l’atto di disposizione del diritto dominicale da parte del proprietario in favore di terzi, anche se conosciuto dal possessore, non esercita alcuna incidenza sulla situazione di fatto utile ai fini dell’usucapione, rappresentando, rispetto al possessore, “res inter alios acta”, ininfluente sulla prosecuzione dell’esercizio della signoria di fatto sul bene, non impedito materialmente, né contestato in modo idoneo” (Cass. n.2752 del 05/02/2018). La Corte di Appello avrebbe dovuto verificare se, dopo l’atto di vendita, il possesso del ricorrente fosse o non fosse stato ancora esercitato per il tempo mancante al perfezionarsi del termine ventennale di usucapione;>>